capitolo v

Hic Sunt Leones:
la scuola e la famiglia

Hic sunt leones, qui ci sono i leoni, scrivevano sulle mappe antiche per definire zone sconosciute. Col tempo, la locuzione latina è diventata simbolo di qualcosa di misterioso e pericoloso, difficile da affrontare.


Il nostro hic sunt leones riguarda il rapporto tra la scuola e la famiglia, una vera e propria terra inesplorata, una “zona rossa” in cui è meglio non avventurarsi se non si vuole finire sbranati.


La relazione che lega l’ambiente scolastico con quello familiare è, infatti, complessa e di difficile analisi, in quanto sulle spalle di entrambe le istituzioni ricade il gravoso compito dell’educazione, della crescita e della formazione dei ragazzi.


Invece di formare un unico gruppo, genitori e insegnanti tendono ad avere una relazione conflittuale e di reciproca interferenza, proprio quando ci sarebbe bisogno di una collaborazione stretta, per non dire simbiotica, tra le due parti; una cooperazione che pone il fulcro sul supportarsi a vicenda e sul farsi da parte e non interferire nelle decisioni dell’altro elemento.


Siccome siamo consapevoli che non esistono documenti che accertano il reale utilizzo della locuzione da parte dei cartografi antichi (quindi è un falso storico), prendiamo per buono che anche il cattivo rapporto tra scuola e famiglia possa risultare fallace. Indossiamo una divisa da safari e, in barba alla paura dei leoni, andiamo a esplorarlo.

L’affetto come modificatore di prestazioni

A tutti piace sentirsi dire di aver fatto un buon lavoro, di essere stati bravi. Non prendiamoci in giro: le soddisfazioni più grandi le abbiamo quando le persone che stimiamo e il cui parere per noi conta, ci danno una bella pacca sulla spalla e affermano: “Sono orgoglioso/a di te”, “Sei stato/a bravo/a” e altri complimenti che tessono le lodi delle nostre capacità. Siamo piccoli animali ansiosi e narcisisti, alla ricerca continua di conferme sociali, che siano sul lavoro, nel privato o nell’ambito scolastico.


Per fare un esempio: la sottoscritta scrive, scrive tanto e alle volte a sproposito; per sapere se il lavoro è da riscrivere completamente esiste la figura dell’editor, tuttavia, prima di spedirli a lui, ho la necessità dell’approvazione di mia madre. Se a lei piacciono, allora mi azzardo a mandarli a chi di competenza; in caso contrario, pesto un po’ i piedi, metto il broncio come quando avevo sette anni e poi li riscrivo da capo.


Questo per dire che, qualunque sia l’attività che svolgiamo, proviamo delle emozioni: positive e negative. Esse sono strettamente legate alle motivazioni che ci spingono all’azione e l’apprendimento, da questo punto di vista, non fa eccezione1. A conferma di ciò, è stato verificato che l’umore influenza la comprensione logica di un testo, cosa che di solito viene attribuita esclusivamente alle capacità cognitive2.


Sin dalla nascita i bambini sono in grado di provare emozioni fondamentali, che imparano a gestire dapprima con l’aiuto dei genitori, poi in maniera più autonoma, ponendosi come obiettivo la padronanza di esse.


Nel momento in cui approdano a scuola, hanno già formata un’intelligenza emozionale, che comprende la consapevolezza di sé, l’automotivazione, l’autocontrollo, la forza d’animo, il controllo degli stati emotivi e l’empatia3. Tutte queste hanno a che fare con la vita scolastica e possono interferire con essa, nonché col rendimento.


Ora proviamo a rispondere a questa domanda: quando eravamo sui banchi, quali erano le emozioni che sperimentavamo con più intensità?


Tra le risposte più frequenti tratte dai vari studi troviamo: la noia, la delusione e l’immancabile ansia4. Se la prima può essere indice d’intelligenza e di rado influisce sulle prestazioni scolastiche5, le altre due rappresentano un panorama emotivo deprimente.

La delusione è il primo momento di demotivazione per l’alunno: si è impegnato, ci ha messo tutte le sue energie, ma non ha ottenuto il risultato sperato. A che serve, dunque, impegnarsi ancora? E se sbagliasse di nuovo? Finirebbe in punizione? Si sentirebbe umiliato davanti ai compagni? I suoi genitori si arrabbierebbero con lui?


Ecco che dalla paura dell’errore, da quella prima delusione, nasce lei: l’ansia, forse la nemica di ogni studente dalle elementari all’età adulta. La più insidiosa e difficile da sconfiggere perché nasce dal nostro non sentirci abbastanza e dalla paura di sbagliare. L’ansia causa un blocco a livello cognitivo, ostacola un apprendimento completo perché tutte le nostre energie vengono succhiate da essa che, da brava sanguisuga, ci lascia spossati e dissanguati della nostra conoscenza.


A dire il vero, un minimo d’ansia fa bene; la paura costituisce uno stimolo e un incentivo, ma solo se è in quantità minime. Quando abbonda, si finisce come me: a scappare davanti all’esaminatore o a procrastinare un esame all’infinito, anche se si è preparatissimi. E quella sensazione di sconforto, di malessere, quella difficoltà di respirazione con il panico che ti invade dalla testa ai piedi… quella, be’, non la auguro a nessuno, anche perché la prima vittima dell’ansia è l’autostima, la sicurezza di sé. E più si ha paura di sbagliare, più non ci si sente all’altezza, più si faranno errori, in un circolo vizioso che non ha termine.

La necessità scolastica di suscitare emozioni positive, come il coraggio, la speranza e l’orgoglio, è stata analizzata in larga misura da Pekrun e colleghi6; basandosi su un ampio campione di studenti universitari, hanno identificato nove emozioni distinte tra: positive, negative, attivanti e deattivanti.

  • positive e attivanti (emozioni positive in grado di stimolare l’apprendimento): divertimento, speranza, orgoglio;

  • positive e deattivanti (emozioni positive che non fungono da stimolo all’apprendimento): sollievo;

  • negative e attivanti (emozioni negative che possono stimolare l’apprendimento tramite lo sviluppo di una motivazione estrinseca, ma nuocendo a quella intrinseca): rabbia, ansia, vergogna;

  • negative e deattivanti (emozioni negative che non stimolano l’apprendimento): disperazione, noia.

Una buona scuola dovrebbe soprattutto stimolare le emozioni del primo tipo: positive e attivanti. Tuttavia la loro percezione è strettamente collegata non solo all’ambiente scolastico, ma anche agli amici e alla famiglia… in pratica, alle interazioni sociali dell’alunno.


Riflettiamo un secondo: un bambino (o un adolescente, o anche un adulto) si trova in un ambiente nuovo. Nuovi compagni, nuovi stimoli, nuove situazioni. La prima cosa che cercherà di fare sarà integrarsi e formare dei legami affettivi con chi lo circonda; se gli adulti di riferimento (genitori e insegnanti) faranno in modo da inserirlo attivamente nel gruppo classe (o gruppo sociale), creando un clima divertente e propenso all’apprendimento, il bambino probabilmente sarà stimolato allo studio e non vivrà la scuola come un peso.


Al contrario, se l’inserimento nel gruppo classe avverrà in senso negativo, ossia se il bambino vivrà la curiosità e lo stimolo a imparare come un peso perché bullizzato dai compagni, l’alunno si chiuderà all’apprendimento stesso. Percepirà il suo desiderio o la sua propensione allo studio come negativa e finirà con l’allontanarsene, per evitare l’ostracismo dal gruppo.

Questo avviene perché, da animali sociali quali siamo, tutte le nostre relazioni interpersonali incidono sull’adattamento all’ambiente e, in conseguenza, sulla motivazione e sull’autostima7.


Il gruppo classe ideale si fonda su un contesto cooperativo, in cui tutti gli alunni portano un arricchimento agli altri e si muovono per un fine comune, piuttosto che competitivo8; a differenza della competizione, infatti, la cooperazione aiuta a sviluppare legami affettivi sani e una maggiore autostima nel bambino che non si sente rifiutato dal gruppo, ma accolto.


È evidente come l’apprezzamento degli adulti e il rispetto di questi e dei compagni giochino un ruolo decisivo nel successo scolastico e nello spostare la motivazione da estrinseca a intrinseca o viceversa9: più uno studente viene stimolato da emozioni positive e attivanti, più la sua autostima e la sua motivazione intrinseca aumenteranno, più riuscirà ad approcciarsi all’apprendimento in maniera serena.

La soluzione al problema di un ragazzo demotivato sembra semplice: rispetto, emozioni positive… una splendida mistura alla Superchicche: “zucchero, cannella e ogni cosa bella”. Meravigliosa, ma difficile da realizzare a causa dei molteplici fattori in gioco. Attenzione, difficile, non impossibile. Sebbene non esista la formula magica per creare lo “studente perfetto”, basta tenere conto di un fattore determinante: il compito di un educatore (genitore o insegnante che sia) è quello di aiutare il ragazzo a esprimere se stesso, ovvero di accompagnarlo nel suo percorso di crescita, dandogli sostegno e affetto. Non per nulla, la parola educare deriva da ex-ducere: condurre fuori, allevare, far venir fuori ciò che è già dentro una persona e favorirne l’espressione.


Talora però, esasperati da risultati non proprio positivi, o semplicemente dallo stress del quotidiano, dimentichiamo il principio dell’amore incondizionato. Ed ecco che l’abbraccio si trasforma in morsa, la carezza in schiaffo e il “ti voglio bene” in un ricatto.

Quando il bene diventa ricatto

Fare il genitore non è facile. Quando ci penso, mi viene sempre in mente una vignetta di Mafalda, in cui la protagonista, di fronte ai genitori arrabbiati per i capricci del fratello, spiega: “Ma Nando, devi essere comprensivo, insomma! Pensa che questa brava gente prima di educare noi non ha mai educato nessuno. Siamo come le loro cavie familiari, cosa vuoi farci?”10.


Niente di più vero: genitori non si nasce, si diventa. Ed è un percorso difficile, complesso, da svolgere passo per passo assieme ai figli. In un certo senso, si cresce assieme, si sperimenta e si diventa grandi con loro. Per questo, è facile fare degli errori. La responsabilità di accudire, di educare un nuovo individuo diverso da noi, è enorme e tutto l’amore che si può provare per i propri figli alle volte cede sotto le difficoltà del quotidiano e la tentazione di concentrare “tutte le energie nel domare l’opposizione dei figli alle nostre richieste, costringendoli a fare quello che diciamo loro”11 è forte.


Certo tutti desiderano che i propri figli si realizzino, che diventino persone oneste, educate, rispettose, capaci… che siano felici. La difficoltà sta nel distinguere ciò che è realmente la felicità per il figlio (il quale resta un individuo autonomo, con desideri e bisogni propri che non necessariamente rispecchiano l’idea che i genitori si sono fatti del suo benessere) e ciò che invece si crede essere giusto per lui.


Il primo caso vede all’opera quello che Alfie Kohn definisce “amore incondizionato”, ovvero la capacità di amare il proprio figlio (non approvarlo, amarlo) a prescindere dalle cose che piacciono o non piacciono di lui, di riconoscerlo, in sintesi, come un individuo in sé e rispettarlo come tale; il secondo caso, invece, rientra nell’amore condizionato, ovvero il dono dell’affetto a seconda dei successi e dei risultati del bambino12.

Come abbiamo analizzato nel paragrafo precedente, ogni comportamento è determinato da forze esterne che influiscono sulle nostre emozioni. L’affetto rientra in una di queste “forze esterne” e la sua negazione può portare allo sviluppo di quelle emozioni negative di cui abbiamo già parlato: rabbia, disperazione, ansia…


Purtroppo, la negazione dell’affetto è uno dei modi più frequenti, da parte dei genitori, per esercitare il controllo sui figli, sollecitando in essi tensioni e paure di non essere all’altezza delle aspettative, di sbagliare e, in conseguenza, di vedersi togliere l’amore genitoriale.

Beninteso, non è che un genitore smetta di amarli, ma ciò che conta in quest’equazione non è tanto il cosa prova il genitore, bensì come il bambino percepisce l’affetto13. La sua negazione ha effetti anche sul rendimento scolastico e il modo di percepire il giudizio, quando questi vengono vissuti in famiglia come negativi e non positivi.


Stimolare i ragazzi a dare il massimo ed essere orgogliosi dei propri risultati è normale e può fungere anche da rinforzo positivo, ma nel momento in cui si adopera l’affetto come premio o come punizione per il voto, si genera una condizione di stress e d’insicurezza che può portare a buoni risultati per i motivi sbagliati, o a una condizione d’ansia tale da impedire il raggiungimento di obiettivi minimi.


Quando si parla di scuola, il genitore dovrebbe trasmettere ai ragazzi che l’acquisizione di conoscenze e abilità è utile per il loro futuro (valore strumentale dell’apprendimento), ma senza sottolineare le conseguenze negative in caso di mancato successo14: “Non troverai mai lavoro!”, “I tuoi compagni sono più bravi di te”, “Devi sapere fare… per…”. Frasi realistiche, ma che vanno a pungolare in modo erroneo il bambino o il ragazzo, alimentando l’idea che, se non studia, se non impara, se non si dimostra all’altezza, avrà solo problemi e punizioni, dai parenti o dalla vita.


Il modo di vivere la scuola, prima che sui banchi, nasce in famiglia e dipende strettamente da come “l’adulto vive il brutto voto del figlio15. Soprattutto, è responsabilità del tutore chiedersi il perché ci si arrabbia o ci si sente delusi per un cattivo risultato e assicurarsi che la motivazione non si trovi nel vivere il fallimento del figlio come proprio, bensì nella consapevolezza che può dare di più, nel credere nelle sue capacità.


Riconoscere che l’errore serve a capire dove si sbaglia, invece di trattarlo come segnale inequivocabile di incapacità, è un passo importante affinché lo studente viva serenamente la scuola, ma questo passaggio deve essere prima compreso dai genitori che, in conseguenza, lo trasmetteranno al figlio16.

Nel momento in cui l’adulto spiega le ragioni della propria rabbia o delusione e dice esplicitamente (no, niente scuse. Il “Ma io intendevo questo” non funziona se è preceduto da frasi come: “Non riesci mai a…”, “Non sei capace”, “Sei sempre il solito”. C’è bisogno di puntualizzare, di essere chiari, affinché non si creino fraintendimenti o interpretazioni sbagliate) che si ha fiducia nelle capacità dell’alunno, si evitano messaggi di svalutazione che generano emozioni negative, frustrazione e stress.

Mio figlio è perfetto: aspettative eccessive

Brava a scuola, educata, gentile, umile, modesta, generosa e disponibile nell’aiutare i compagni… sono etichette che mi sono state attaccate addosso per tutto il periodo delle elementari. Poco importava che venissero vergati nero su bianco nello spazio per il giudizio sulla mia pagella, o comunicati verbalmente dai genitori degli amici ai miei.


Per un certo periodo, sono stata la figlia che ogni genitore avrebbe desiderato, immagine tragicamente compromessa con l’arrivo delle superiori in cui tutta la mia arroganza, la presunzione e le fobie sociali sono esplose come una bomba a orologeria tarata sull’arrivo dell’adolescenza.


Come me, molti altri bambini “perfetti” si sono dimostrati, nella fase più delicata della crescita, persone con grandi incapacità sociali, o arroganti, o comunque impegnate a dare un’immagine di sé molto diversa da quella precedente. Un po’ come Miley Cyrus che è passata da Hannah Montana17 a Wrecking ball18: un taglio netto e non solo di capelli.

Nel paragrafo precedente abbiamo parlato di amore condizionato e amore incondizionato, evidenziando come il secondo sia una requisito necessario per aiutare i ragazzi a vivere spontaneamente se stessi. Purtroppo siamo tutti esseri umani ed essere genitori è difficile, complicato, soprattutto in un mondo e una società che chiede di essere sempre meglio, sempre perfetti.


È da questa richiesta di perfezione che nascono i “bambini perfetti” come ero io e come sono molti altri; bambini che da adolescenti cominciano a cercare di affermare la propria identità, il proprio essere, ma che quando non ci riescono finiscono soffocati dal terrore della non accettazione e dalla negazione dell’affetto. Questi individui, da adulti si evolvono in persone insicure, rigide, controllate, apparentemente “perfette”, ma con un marasma emotivo interiore da far invidia al caos del “brodo primordiale”.

Anche a livello sociale, l’inserimento in gruppi è solo apparente: la paura di essere rifiutati impedisce l’approccio sereno con altri individui e ogni sforzo relazionale diventa enorme, faticoso e fonte di stress psicologico19.


Ma dove ha origine questa spirale d’ansia da prestazione? Duclos20 identifica le difficoltà dei ragazzi nell’approccio alla scuola in alcuni fattori ben scanditi:

  • Iperprotettività: i genitori, nel tentativo di proteggere i figli, finiscono con lo stimolare in loro l’idea di non essere capaci a fare le cose.

  • Iperstimolazione: i genitori ritengono il bambino più adulto di quel che è e lo spingono precocemente verso atteggiamenti troppo maturi per la sua età.

  • Ansia da prestazione: i bambini considerano i voti e il successo scolastico come unico indicatore del proprio valore personale.

  • Eventi e difficoltà familiari: i bambini, in situazioni di crisi (lutti, divorzi, malattie) avvertono un distacco affettivo dai genitori e ciò genera un abbassamento della motivazione, oltre che della più importante serenità del bambino stesso.

  • Aspettative eccessive: i genitori investono eccessivamente sul figlio, vivono ogni suo successo o fallimento come proprio; il bambino, in questo caso, svilupperà l’idea che per avere l’amore dei genitori deve prendere buoni voti e reprimerà, finché gli è possibile, la propria identità, i propri sentimenti e i propri desideri.

Ognuno di questi punti, ovviamente, può sussistere in concomitanza o in maniera indipendente dagli altri. Non bisogna, inoltre, dimenticarsi che ogni relazione genitore-figlio è irripetibile e che quello che funziona con il primo figlio può non funzionare col secondo e così via. Ogni essere umano, grande o piccolo, è unico nei pensieri, nelle azioni, nel modo di comportarsi con gli altri e in quello di percepire il mondo attorno a sé.


Va oltretutto sottolineato che anche gli adulti sono esseri umani, anche loro sbagliano e vengono fraintesi. Non credo che esista un genitore che dice al figlio: “Devi impegnarti di più” con l’intenzione di farlo sentire stupido o inadeguato; è più probabile che il messaggio intrinseco sia: “So che hai le capacità e che puoi ottenere risultati migliori” ma, ricordo, non è tanto come viene veicolato il messaggio, quanto il cosa arriva al bambino.

Le comunicazioni genitori-figli molte volte assomigliano al gioco del telefono senza fili: si parte con “sedia” e si arriva all’ultimo della fila che ha capito: “carburatore”. Allo stesso modo, quello che un genitore può voler trasmettere al figlio non è detto che arrivi nel modo giusto, soprattutto se gli adulti adottano uno “stile genitoriale” (la modalità educativa con cui i genitori si rapportano ai figli) permissivo, autoritario o trascurante, invece che autorevole21.


Le regole ferme, un controllo, richieste adeguate alla sua età, il rispetto dei desideri dei bambini e il dialogo non sono processi sbagliati: essi vanno a sollecitare la reciprocità nella comunicazione, manifestano affetto, calore… insegnano ad assumersi le responsabilità delle proprie azioni e spiegano ai ragazzi anche i divieti per cui essi potrebbero provare frustrazione o rabbia22.


È semplice dedurre come i diversi stili genitoriali possano avere influenza sulla motivazione scolastica. I risultati dello studio di Gronlick e Ryan23 mettono in evidenza come questa correlazione, se basata su tre fattori chiave

  • supporto all’autonomia, coinvolgimento, regole e valori

  • possa favorire nei bambini l’autoregolazione, la competenza sociale, il profilo scolastico e l’adattamento. Per contro, uno stile genitoriale coercitivo rende il soggetto meno autonomo, poco intraprendente e non aiuta a interiorizzare un sistema comportamentale positivo.


Altri fattori familiari che incidono sulla motivazione e sul profitto scolastico sono stati successivamente individuati da Ginsburg e Bronstein24: dai loro studi si evidenzia come a uno stile familiare molto autoritario e dal controllo serrato (vigilanza sui compiti, reazioni negative ai voti, estraneità, ricompense estrinseche…) corrisponda una prestazione scolastica più scarsa; al contrario, v’è la conferma che gli stili motivazionali a supporto dell’autonomia e dell’autoregolazione del ragazzo contribuiscano ad aumentare la motivazione intrinseca.

Non esiste una formula magica precisa per evitare tutte le conseguenze negative dei sistemi educativi, come non ci sono pozioni per trasformare ogni genitore in un genitore modello.


D’altronde, la perfezione a cui tanto aspiriamo come esseri umani non esiste né per i bambini, né per gli adolescenti, né tantomeno per gli adulti; se così fosse, il mondo sarebbe un posto noioso, pieno di gente insoddisfatta e annoiata perché priva di spinte a migliorarsi.

Insegnante per vocazione

Una delle frasi che mi trovo a ripetere più spesso è che ci sono tre lavori al mondo per cui è necessaria la vocazione: il prete, il medico e l’insegnante.

Sì, l’insegnante. Certo, non c’è nessun corso o esperto che può conferire una laurea come “genitore”, ma anche scegliere di essere un docente non è esattamente una passeggiata; richiede spirito di sacrificio, un aggiornamento costante delle proprie competenze e molta empatia. A dispetto di quello che si pensa, è un lavoro a tempo pieno, che tra lezioni frontali, consigli di classe, ricevimenti e preparazione delle lezioni per il giorno successivo non lascia molto spazio ad altre attività.


Oltretutto, l’insegnante si trova a dover avere a che fare non solo con i colleghi e gli alunni, ma anche con i genitori, con cui condivide la responsabilità dell’educazione dello studente.

Le due istituzioni, la scuola e la famiglia, rappresentano il luogo della crescita dell’individuo: è grazie a esse che gli studenti ricevono gli stimoli necessari alla formazione del carattere e della propria identità; tuttavia, se un tempo il ruolo sociale dell’insegnante era ricco di autorevolezza e rispettabilità, oggi i docenti sembrano trovare difficoltà nel rapportarsi agli stessi alunni e porsi nei loro confronti come dispensatori di conoscenza, soprattutto a causa dell’apparente difficoltà dei genitori di scorgere nel professore un amico invece che una persona pronta a sottrarre loro il controllo sui figli25.


Certo, le opinioni sugli insegnanti sono differenti nel nucleo familiare: mi ricordo quando, tornando a casa, mi lamentavo di questo o di quel professore e mia madre (ahimè… insegnante pure lei!) invece di lasciarmi sfogare e crogiolare nella convinzione di aver subìto un’ingiustizia, mi chiedeva: “Ma tu hai studiato bene? Hai tralasciato qualcosa? Sei stata educata con l’insegnante?”. Il punto è: non sempre quello che è un bravo insegnante secondo i genitori è tale per i figli: i primi valutano l’abilità del docente secondo il principio di realtà e responsabilità, i secondi secondo il principio del piacere26. Un insegnante competente, ma che non riesce ad affascinare gli alunni e a coinvolgerli nella lezione, non ha speranze di essere considerato autorevole dai suoi studenti; per lo stesso motivo, un insegnante poco preparato, ma capace di catturare l’attenzione, sarà più apprezzato.


Attenzione, apprezzato, non stimato. E questo ci porta alla domanda: quando un insegnante è efficace? Quando un docente può essere ritenuto competente?


È importante, prima di rispondere a tali quesiti, soffermarsi su un fattore chiave: gli alunni sanno riconoscere “a pelle” quando un educatore merita la loro stima e quando no; sono grandi osservatori, più di quanto crediamo. Nel libro La motivazione a scuola le autrici individuano tre requisiti su cui gli alunni valutano l’autorevolezza dell’insegnante: imparzialità, sincerità e responsabilità verso di loro. La prima garantisce l’assenza di simpatie o antipatie e di dispotismo da parte del docente; la seconda permette di riconoscere i propri errori (come per i genitori l’ammissione dello sbaglio da parte dell’adulto fa comprendere allo studente che anche a lui è concesso errare); la terza è l’arte di prendersi cura degli alunni, non solo relativamente all’apprendimento, ma anche sul piano del benessere personale.


La coerenza tra parole e azioni è un altro requisito indispensabile27 per assicurarsi la fiducia dei propri studenti. Gridare, minacciare un brutto voto (che brutto!) e mantenere un atteggiamento aggressivo per mantenere il controllo sulla classe può far sì che i ragazzi stiano zitti e avere una parvenza d’ordine, ma non permette di arrivare allo scopo dell’insegnamento: educare, guidare il ragazzo e alimentare in lui quella motivazione che gli permetterà di diventare un adulto competente e sereno. Tutt’altro. A scuola come in famiglia, l’atteggiamento dispotico contribuisce solo a creare situazioni di stress e alimentare insicurezze che possono nuocere in modo irreparabile la psiche dei ragazzi.

Questo non vuol dire essere “amiconi”, bensì saper mantenere il giusto equilibrio tra accoglienza e professionalità; l’alunno deve sapere che l’insegnante è una persona a cui può affidarsi, una guida, ma che ci sono dei limiti che non devono essere superati. Se però è proprio il docente a porsi sul piano degli studenti con atteggiamenti eccessivamente confidenziali o disinteressati, questi si comporteranno di conseguenza e perderanno il rispetto e la stima per l’adulto, con conseguenze rilevanti sulla motivazione all’apprendimento di quella specifica materia.

Abbiamo tutti avuto insegnanti con cui ci siamo trovati più o meno bene. Se ripensiamo al nostro periodo da studenti, è facile associare buoni risultati alle discipline dei professori che ai nostri occhi risultavano più “simpatici” e dimostravano interesse nei nostri confronti28, mentre i risultati negativi sono maggiormente riscontrabili con quei docenti che ritenevamo ingiusti o da cui ci sentivamo presi di mira29. Lo stesso vale per i ragazzi d’oggi: non bisogna mai sottovalutare l’influenza che un buon rapporto con l’adulto, anche e soprattutto correlato da una relazione di responsabilità e/o affettiva, ha sulla motivazione e sulla spinta all’apprendimento.


Brophy, nelle sue ricerche, mostra chiaramente come nelle classi caratterizzate dalla presenza di un insegnante capace di coinvolgere gli alunni e creare un clima cooperativo, quest’ultimi risultino più motivati e stimolati, oltre che più sereni, rispetto agli studenti che vivono la scuola in un clima competitivo e coercitivo, dove il docente si focalizza sull’attribuzione dei voti, sul terminare il programma e sul mero apprendimento di informazioni mnemoniche30.


In risposta alla domanda che ci siamo posti precedentemente, possiamo rispondere così: un insegnante è efficace quando riconosce i propri studenti e riesce a stimolare la loro motivazione; quando li tratta come persone di valore e non come numeri su un registro; quando invece di porre l’accento sulle difficoltà di un compito, ne evidenzia l’utilità e lo fa vivere come la possibilità di applicare le proprie competenze, non come una punizione31.

Scuola e famiglia: questo matrimonio s’ha da fare

“Il ragazzo non s’impegna, ma potrebbe”: una bellissima frase, politicamente corretta, un piccolo capolavoro di indulgenza verso se stessi da parte dell’insegnante, che scarica sul poco impegno dell’alunno la responsabilità del mancato apprendimento, e una rassicurazione per i genitori sul fatto che non hanno messo al mondo un figlio idiota, ma solo svogliato.


Un po’ triste, vero? Lascia quel retrogusto amaro di fallimento misto a sollievo, con un pizzico di beneplacito per entrambi le parti in causa: la scuola e la famiglia, assolti dal crimine di non aver fatto abbastanza per il ragazzo.


Non sono loro a non essere stati di sostegno; non sono loro ad aver negato l’ascolto e rifiutato la comprensione di fronte a problemi inespressi; non sono loro ad aver sbagliato, ma l’alunno che non si impegna abbastanza, non fa abbastanza, non è abbastanza.


La dura e cruda realtà è che, se alcuni insegnanti e genitori riescono a dare ai ragazzi un sostegno incondizionato, la maggior parte si ritrova a combattere contro l’altra istituzione: scuola contro famiglia, genitori contro docenti e, a farne le spese, sono sempre loro: gli studenti.


Quando le due istituzioni cardine che, ricordiamo, hanno il compito di educare, non sono concordi sui metodi da usare e, invece di collaborare, entrano in conflitto o, peggio, cercano entrambe di far leva sulle paure e i timori del ragazzo invece che sui punti di forza e le sue abilità, il risultato è uno studente poco motivato, spaventato, ansioso che diventerà un adulto altrettanto poco stimolato, timoroso e stressato.


Eppure un idillio tra genitori e scuola è possibile e va a vantaggio del terzo elemento del gruppo: quando, invece di porsi come avversari che cercano di prevaricarsi a vicenda, indirizzano i propri sforzi per educare i ragazzi a diventare membri attivi della comunità. Beninteso: scuola e famiglia non devono modificare i propri sistemi educativi, né essere sostitutivi l’una dell’altra, ma collaborare e discutere assieme per il benessere dell’alunno sì, sostenendosi a vicenda e senza minare l’autorevolezza della controparte.

Alla fin fine, l’obiettivo tra educatori è comune: anche gli insegnanti desiderano che gli studenti siano responsabili, virtuosi, curiosi, sensibili e volenterosi d’apprendere, proprio come i genitori32!

Un dialogo tra questi ultimi e gli insegnanti, incentrato sui metodi più idonei da adottare per raggiungere l’obiettivo comune (che, ripeto, dovrebbe essere la felicità, la realizzazione e la motivazione del ragazzo), potrebbe essere un punto di partenza, ma soprattutto è necessario sempre coinvolgere lo studente, farlo sentire accettato e incluso nelle decisioni che riguardano la sua – la sua! non quella dei genitori, non quella degli insegnanti: la sua! – vita.


Evitare anche di manifestare palese disprezzo o disaccordo rispetto ai metodi educativi, della scuola da parte dei genitori e della famiglia da parte degli insegnanti, aiuta a creare nello studente l’idea che le due istituzioni non siano in conflitto e, soprattutto, a mantenere l’autorevolezza d’entrambe. Non bisogna dimenticare che vedere svilita l’una o l’altra parte porterà solo confusione e perdita di rispetto di quelle che dovrebbero essere figure di riferimento in un momento così delicato come la crescita.

Ma come è possibile stabilire una linea comune? Insegnanti e genitori possono avere le loro buone ragioni per comportarsi in un determinato modo, ma da entrambe le parti ci sono degli accorgimenti utili per sostenere la motivazione negli studenti:

  • Adottare uno stile autorevole, non autoritario;

  • Accettare i propri errori: se il bambino cresce e vive in un ambiente in cui l’adulto di riferimento ammette i propri sbagli e si scusa (anche e soprattutto nei suoi confronti), vivrà i propri come un’occasione per migliorarsi, invece che come una sconfitta;

  • Confrontarsi con loro su diversi argomenti, stimolando così la loro curiosità intellettuale e sostenerli nel loro percorso;

  • Evitare di dare giudizi di valore su quanto apprendono, o ferire il loro orgoglio;

  • Per i genitori: chiedere “Sei stato bene a scuola?” invece di: “Cosa hai fatto a scuola?”. Sembra banale, ma la prima frase dimostra di interessarsi al ragazzo e alle sue emozioni, mentre la seconda solo al suo comportamento e ai suoi risultati.

  • Incoraggiare sempre, e sottolineare i lati positivi di quanto ha appreso;

  • Per gli insegnanti: non mettere fretta se non sa rispondere a un quesito nell’immediato, ma dare il tempo di riflettere sulla domanda. Molte volte il tentennamento può essere causato dalla paura di sbagliare e di essere giudicato negativamente, piuttosto che dall’ignoranza. Far capire allo studente che ha tutto il tempo a disposizione per calmarsi e riflettere aiuta a ottenere prestazioni migliori;

  • Coinvolgerli nei vari aspetti di un problema, concordare con loro metodi di studio e obiettivi, responsabilizzarli senza pressare;

  • Concordare obiettivi comuni tra genitori e insegnanti per il sostegno dell’alunno nella crescita.

Nel libro The Explosive Child33, Ross W. Greene definisce il Collaborative Problem Solving, ovvero il modo di risolvere i problemi in maniera collaborativa. Cosa vuol dire? Significa mettersi a tavolino – insegnanti, famiglie e studenti – e cercare di analizzare il problema da tutte le prospettive, partendo da un eventuale disagio dimostrato dall’alunno, magari durante il colloquio genitori-insegnanti. In tale situazione, l’approccio al problema non dev’essere di tipo aggressivo, ma propositivo. Per esempio, la frase: “Ho notato che non ti impegni nella mia materia. Come mai?” è da bandire perché scatena nel ragazzo una reazione difensiva e, probabilmente, reazioni di rabbia o di preoccupazione nei genitori. Meglio un approccio più morbido: “Ho notato che in questo periodo segui meno volentieri la mia materia. Che succede?”.


Com’è naturale, non è detto che lo studente – soprattutto se ancora alunno della primaria – riuscirà subito a esporre con chiarezza il problema, ma avvertirà l’interessamento e si porrà in situazione d’ascolto, soprattutto perché in nessuna delle tipologie di domande proposte è presente un giudizio in merito al suo comportamento o alle sue capacità. Nell’esporre i problemi riguardanti una disciplina, è buona regola evidenziare con schiettezza le lacune, ma anche le capacità del ragazzo e stabilire un modo per risolvere la situazione assieme.


In Svezia viene utilizzato un metodo molto particolare: il colloquio genitori/insegnanti viene preparato in anticipo con un questionario34 di cui alcune domande riguardano il bambino e il suo modo di vivere la scuola (se gli piace, se lo diverte, ecc.); alcune sono inerenti all’atmosfera in classe e altre in relazione alle sue interazioni con i compagni, alla mensa… alla percezione della sua vita a scuola in generale. Quando arriva il momento del colloquio, esso non è tra docente e genitori, bensì tra insegnante e alunno, che discutono assieme le risposte al questionario e si soffermano sui punti critici per capire le difficoltà e la strategia migliore da adottare per porvi rimedio; alla fine, discutono gli obiettivi da raggiungere nei mesi successivi35.


La particolarità maggiore è l’individualità degli obiettivi: essi risultano essere personali per ogni alunno, non minandone l’autostima (non essendoci confronto o competitività con il resto della classe), né accusando i genitori di aver educato male il figlio se questi va male a scuola o del suo comportamento in aula, responsabilizzandolo rispetto ai suoi studi, progressi e comportamento.

Un bel progresso, no?

La valutazione scolastica
La valutazione scolastica
Giulia Manzi
L’influenza del giudizio sulla motivazione dei nostri figli.Un libro rivolto a genitori e insegnanti, per ripensare la scuola e approcciarsi al mondo degli studenti da un altro punto di vista. La valutazione scolastica affronta lo scomodo tema dei voti e quanto la mala comprensione di essi influenzi la crescita dello studente, non solo a scuola, ma nella vita.Partendo da esperienze personali, Giulia Manzi ripercorre l’analisi dei sistemi e dei criteri di giudizio scolastici, il rapporto tra famiglie e insegnanti e il bisogno di una scuola che ponga al primo posto l’alunno e le sue esigenze d’apprendimento e sviluppo personale.Un libro rivolto agli adulti, genitori o insegnanti che siano, per approcciarsi al mondo degli studenti da un altro punto di vista. Conosci l’autore Giulia Manzi, figlia di Alberto Manzi (il maestro della TV in “Non è mai troppo tardi”), approfondisce tematiche legate alla pedagogia scolastica a partire dagli studi universitari e tiene corsi di formazione per docenti.