capitolo iv

Super Sayan a scuola:
la logica del Power Up

C’è stato un periodo in cui ero una grande appassionata di Dragon Ball. Passavo l’ora di pranzo sul divano, a gustarmi gli epici 20 minuti di episodio in cui gridavano in continuazione, si picchiavano e non succedeva nulla per almeno altre trenta puntate, quando – finalmente! – il cattivo di turno veniva sconfitto.


Non c’era però liberazione da quel circolo vizioso: sconfitto il primo, cominciava un susseguirsi di mascalzoni sempre più forti a minacciare il pianeta Terra. Così, anche gli eroi si allenavano e diventavano più potenti, in una spirale senza fine che seguiva la logica super eroistica del power up (ovvero: l’innalzamento di livello, di potere, di abilità, presente anche nei videogiochi).


Anche l’istruzione segue il percorso del power up: gli studenti apprendono il combattimento (l’argomento), affrontano il nemico (la verifica) e poi si preparano per un nuovo scontro. E via, via così, per tutti gli anni di studio.

Al fianco dei nostri alunni protagonisti, come in ogni storia che si rispetti, troviamo gli aiutanti: genitori e insegnanti che, come abbiamo visto, hanno il dovere di preparare i ragazzi ad affrontare i “pericoli” che li attendono. Tuttavia, come nei cartoni animati, c’è una riflessione da fare: in Dragon Ball i protagonisti si allenano per diventare sempre più forti. Più forti: non più intelligenti, più abili, più capaci di cavarsela anche con le risorse che hanno a disposizione. Non usano l’astuzia, né applicano conoscenze e abilità acquisite “all’esterno” del proprio allenamento, bensì la pura forza fisica. Allenano, quindi, solo una parte di se stessi.


Similmente, accade nella scuola: il nozionismo sembra fare da padrone nei programmi scolastici, nonostante i tentativi di eliminazione da parte delle Indicazioni Nazionali1 di un apprendimento fine a se stesso e la concentrazione sullo sviluppo delle competenze, portando i ragazzi verso una conoscenza puramente mnemonica. Allena, in conseguenza, solo un lato del loro cervello: quello che deve rispondere a quiz, domande a scelta multipla, test a crocette che non permettono di dimostrare cosa realmente si sa fare, né quali sono le proprie qualità.


È in questo contesto che s’inserisce la polemica sui test INVALSI. Grande incognita per i genitori e motivo di stress e ansia per alunni e insegnanti, al momento la Prova Nazionale risulta essere il cattivo finale dell’intera serie. Sì, più delle interrogazioni, più degli esami di Stato, più di qualsiasi ostacolo gli studenti abbiano mai affrontato.


Il problema vero e proprio? Non l’affidabilità degli INVALSI, quanto il modo in cui essi vengono approcciati.


D’altronde, per ogni cattivo che si rispetti è necessario elaborare una strategia per affrontarlo e allenare non solo il corpo, ma anche la mente.

INVALSI? Cos’è? Si mangia?

Quando gli INVALSI apparvero per la prima volta nelle scuole, io avevo appena terminato il mio ciclo d’istruzione superiore ed ero un’allegra matricola che scorrazzava per l’università. Non ho quindi vissuto in prima persona le conseguenze che essi hanno avuto e hanno tuttora sul sistema scolastico. Il mio primo contatto con quest’entità semisconosciuta a chi non è inserito nel meccanismo scolastico avvenne tramite mia madre, durante una delle nostre telefonate giornaliere. Telefonata che si svolse più o meno così:

“Ciao mamma, come st…?”

“Sto cercando di correggere le prove INVALSI”.


Brutto tono. È nervosa. Cerca di non litigare, pensai subito.

“Che sono?”

“Eh, il Ministero ha messo questa cosa per misurare il livello d’istruzione dei ragazzi”.

“Non bastava la pagella?”


“No. E io ho le mie cose da fare in classe e invece mi tocca perdere tempo con…”


Qui smisi d’ascoltare. Non m’interessavano. Recepii solo che comprendevano un test a risposta multipla – mio grande tallone d’Achille – e ringraziai ogni entità celeste per essermi risparmiata tale agonia quando frequentavo la scuola dell’obbligo.


Ma cosa sono gli INVALSI? Letteralmente, i test INVALSI (o Prove Nazionali) sono una prova scritta col fine di valutare i livelli d’apprendimento in italiano, inglese e matematica degli studenti, in modo da formulare dei dati statistici sull’efficienza del sistema formativo italiano ed evidenziarne eventuali problemi.


In parole povere: una verifica del livello generale degli studenti e della scuola.

Fin qui, non ci sarebbe niente di male. Tutt’altro, gli obiettivi che l’Ente si propone sono più che condivisibili. Difatti, il sito INVALSI afferma che:

  • effettua verifiche periodiche e sistematiche sulle conoscenze e abilità degli studenti e sulla qualità complessiva dell’offerta formativa delle istituzioni di istruzione e di istruzione e formazione professionale, anche nel contesto dell’apprendimento permanente; in particolare gestisce il Sistema Nazionale di Valutazione (SNV);

  • studia le cause dell’insuccesso e della dispersione scolastica con riferimento al contesto sociale ed alle tipologie dell’offerta formativa;

  • effettua le rilevazioni necessarie per la valutazione del valore aggiunto realizzato dalle scuole;

  • predispone annualmente i testi della nuova prova scritta, a carattere nazionale, volta a verificare i livelli generali e specifici di apprendimento conseguiti dagli studenti nell’esame di Stato al terzo anno della scuola secondaria di primo grado;

  • predispone modelli da mettere a disposizione delle autonomie scolastiche ai fini dell’elaborazione della terza prova a conclusione dei percorsi dell’istruzione secondaria superiore;

  • provvede alla valutazione dei livelli di apprendimento degli studenti a conclusione dei percorsi dell’istruzione secondaria superiore, utilizzando le prove scritte degli esami di Stato secondo criteri e modalità coerenti con quelli applicati a livello internazionale per garantirne la comparabilità;

  • fornisce supporto e assistenza tecnica all’amministrazione scolastica, alle regioni, agli enti territoriali, e alle singole istituzioni scolastiche e formative per la realizzazione di autonome iniziative di monitoraggio, valutazione e autovalutazione;

  • svolge attività di formazione del personale docente e dirigente della scuola, connessa ai processi di valutazione e di autovalutazione delle istituzioni scolastiche;

  • svolge attività di ricerca, sia su propria iniziativa che su mandato di enti pubblici e privati;

  • assicura la partecipazione italiana a progetti di ricerca europea e internazionale in campo valutativo, rappresentando il Paese negli organismi competenti;

  • formula proposte per la piena attuazione del sistema di valutazione dei dirigenti scolastici, definisce le procedure da seguire per la loro valutazione, formula proposte per la formazione dei componenti del team di valutazione e realizza il monitoraggio sullo sviluppo e sugli esiti del sistema di valutazione. 2

In sintesi: l’INVALSI si propone come strumento statistico, un semplice contenitore di dati utili a formulare un andamento complessivo della scuola italiana e ad assicurarsi che i ragazzi si siano impadroniti di alcune competenze fondamentali, come la comprensione del testo, il pensiero logicomatematico e la proprietà comunicativa della Lingua straniera3.

In questa prospettiva, le tre prove, strutturate tramite domande a risposta chiusa, domande a risposta aperta ed esercizi di matematica e d’inglese, paiono una normale formalità. Niente di troppo diverso dalla famigerata Terza Prova dell’esame di maturità.


Cosa, quindi, crea tanta polemica sul test INVALSI? Perché esso viene visto in maniera così negativa da alcuni e così tanto osannato da altri?


E, soprattutto, perché rischia di diventare uno strumento ulteriore per aumentare l’ansia da prestazione nei ragazzi?

C’era una volta l’INVALSI, che disse agli studenti…

…raccontami una storia.

Ah no, quello è un vecchio racconto che parla di serve e re. No, no! Non ci siamo proprio. Ricominciamo.


C’era una volta, nella nostra cara Italia, la scuola. Nell’anno scolastico 2007/20084, il Ministero della Pubblica Istruzione incarica il Servizio nazionale di valutazione di:


effettuare verifiche periodiche e sistematiche sulle conoscenze e abilità degli studenti, di norma, alla classe seconda e quinta della scuola primaria, alla prima e terza classe della scuola secondaria di I grado e alla seconda e quinta classe del secondo ciclo, nonché altre rilevazioni necessarie per la valutazione del valore aggiunto realizzato dalle scuole.5 Entra così, nella vita degli studenti la Prova Nazionale, eseguita per la prima volta dagli studenti durante l’Esame di Stato dell’anno scolastico 2007/2008 e divenuta parte integrativa degli esami del primo ciclo d’istruzione (scuola media) dal 2009 al 2017.


Fino all’anno scolastico 2016/2017, un risultato negativo agli INVALSI influiva sul voto finale. Ne è testimone l’annata del 2009/2010, dove le prestazioni degli studenti hanno subìto un calo drastico6 rispetto all’anno precedente.

INVALSI sì, INVALSI no

Se si cerca qualcosa sugli INVALSI per fare un po’ di chiarezza su cosa sia, come si svolga e a cosa serva, i primi risultati sono una serie di polemiche e scontri tra i sostenitori della loro utilità e i loro detrattori.


Non c’è da nascondersi: è davvero una sorta di scontri tra Ultras, roba che il derby Roma-Lazio al confronto è una manifestazione pacifica.


Lungi dal voler dare un giudizio in merito, tengo a mostrare in questo testo le differenti posizioni, in modo da fornire un’idea più chiara sulle posizioni di entrambe le tifoserie.


La polemica INVALSI nasce per un motivo molto semplice: fino all’anno scolastico 2016/2017, il risultato alle Prove Nazionali influiva sul voto dell’esame della scuola secondaria di primo grado. La domanda di partenza è: “Come può un test su scala nazionale, che punta alla standardizzazione, valutare il percorso scolastico, le competenze e le capacità di un alunno?”

A questo proposito, una grande scossa alla polemica la dette il risultato del test del 2010, in cui:

Anche alunni molto bravi si sono fermati all’otto. Il test era lungo e alcuni, persino tra i migliori, non sono riusciti a completarlo. Paradossalmente gli studenti più brillanti che preparati se la sono cavata meglio. Comunque c’è stata una discrepanza tra l’andamento scolastico dei ragazzi e il risultato all’Invalsi7

non solo: la circolare del Ministero della Pubblica Istruzione del 22 giugno dello stesso anno, comportò l’eliminazione dei mezzi voti, quando ormai molte scuole avevano già svolto e valutato i risultati delle Prove Nazionali, causando un nodo burocratico poco scioglibile8.


È emblematica, da questo punto di vista, l’affermazione della dirigente Claudia Alfano, della scuola Lante della Rovere di Roma, che ha posto un netto rifiuto alla rettifica dei voti, con le seguenti motivazioni:

Primo perché significherebbe modificare giudizi già dati, correndo il rischio che ci siano ricorsi. Secondo perché il ministero chiede di non usare i mezzi voti non per ragioni pedagogico-didattiche, ma perché il sistema statistico non è in grado di leggerli. Noi a questo punto non parteciperemo alla rilevazione degli scrutini9.

L’attenzione pubblica, dopo l’accaduto, si è spostata drasticamente sui significati delle prove INVALSI; Luciano Canfora, uno dei più eminenti filologi italiani, è risultato uno dei più importanti esponenti del partito anti-INVALSI. Nella sua intervista a Cobas Scuola, contro le Prove Nazionali, afferma che:

Le prove Invalsi sono una mostruosità, una cosa senza alcun senso, che può servire se mai a premiare chi è dotato di un po’ di memoria più degli altri, non chi ha spirito critico. Poiché la scuola dovrebbe essenzialmente far nascere lo spirito critico, la miglior cosa sarebbe eliminare l’Invalsi e restituire i suoi test a chi li ha inventati.10

Il fulcro dell’osservazione di Canfora sta nel non riconoscere agli INVALSI la capacità di sviluppare lo spirito critico dei ragazzi, ovvero nel fatto che non sono in grado di stimolare la tensione cognitiva – né di “misu-rarla” – e l’analisi logico-deduttiva necessarie, non solo a un apprendimento “profondo” ma allo sviluppo delle competenze.


Al contrario, il filologo sostiene apertamente che la stessa struttura a “quiz” delle Prove Nazionali finisce col premiare in esclusiva uno studio mnemonico, nonché che esse facciano parte di un tentativo di spogliare lo studente all’abitudine alla critica, alla comprensione e al discernimento:


Il vero problema è il tentativo di trasformare i cittadini in sudditi, facendo ciò che è tipico di tutti i sistemi autoritari. Se io tolgo allo studente che si sta formando in anni decisivi della sua vita l’abito alla critica, alla capacità di comprendere e di studiare storicamente, di distinguere, lo trasformo in un pappagallo parlante dotato di memoria e nulla più. Appunto, un suddito, non un soggetto politico. L’Invalsi e tutta la quizzologia di cui siamo circondati è lo strumento per ottenere questo pessimo risultato.11


Concorde con Canfora è Cobas Scuola, che mette a disposizione sul sito un opuscolo: Perché respingere le prove INVALSI12, in cui riassume in tredici punti le motivazioni per cui essi rappresenterebbero: “uno strumento strutturale e decisivo nella direzione della privatizzazione della scuola italiana e stravolgono quella che storicamente è stata la funzione della nostra scuola pubblica13.

La questione si sposta sull’approccio didattico, sulla non inclusione della disabilità, sulla sostituzione delle normali lezioni a una “preparazione ai quiz”, sullo stress emotivo causato agli studenti e sulla incapacità effettiva di apportare delle modifiche positive alla scuola.

Riporto, qua sotto, i tredici punti:

  • L’approccio didattico, di stampo anglosassone, è diametralmente opposto a quello della scuola italiana, con particolare riferimento al segmento della scuola primaria: all’insegnamento il più possibile individualizzato, che tiene conto dell’universo sociale-culturale-affettivo dell’allievo, si sostituisce una prova oggettiva asettica, che annulla, di colpo, la soggettività non solo dell’alunno, ma anche dell’insegnante; la relazione intersoggettiva, basilare in ogni sano rapporto pedagogico, è sostituita da una performance e una valutazione oggettive.

  • La scuola pubblica italiana si distingue a livello internazionale per l’integrazione degli alunni diversamente abili e per aver abolito le scuole speciali e le classi differenziali (L.517/’77). Vengono così riconosciuti sia il diritto allo studio per tutti, sia la diversità come valore. La decisione di far partecipare gli alunni disabili alle prove è rimessa alla scuola. Nel caso che questa decida per la partecipazione, i risultati dovranno essere elaborati in maniera a sé stante così da non incidere sul risultato medio della scuola o della classe. Ciò significa che la disabilità non rientra nel sistema di valutazione INVALSI e che, quindi, gli alunni disabili divengono inesistenti, così come viene ignorato l’impegno delle scuole affinché essi raggiungano le piene competenze secondo le loro potenzialità. Inoltre, è previsto che gli alunni con diagnosi di DSA (dislessia) partecipino alle prove nelle stesse condizioni degli altri!

  • Solo il fascismo dal 1929 era riuscito ad imporre l’assurdo di identici percorsi didattici in tutta la nazione. L’apprendimento non si può valutare allo stesso modo nei diversi contesti, proprio per questo gli insegnanti si confrontano e producono molteplici offerte didattiche, cambiano idea, ascoltano gli allievi e le allieve, ci parlano. Questa è la vera didattica, flessibile, individualizzata, che tiene conto dei diversi contesti: la standardizzazione è nemica dell’insegnamento di qualità.

  • Le prove INVALSI hanno un potente effetto retroattivo: alle prove “ci si prepara” e ore di buona didattica, vengono sostituite da allenamenti ai quiz; questo accade perché i docenti ben sanno che saranno loro ad essere valutati e dunque, per non “fare brutta figura” modellano la loro programmazione in modo da addestrare il più possibile la loro classe alla modalità a quiz. Così ad esempio crescono le prove a crocette, stanno tornando in auge le nomenclature grammaticali imparate a memoria come fino agli anni Sessanta. Ciò non ha alcun senso, se non quello di scimmiottare prove di bassa qualità preparate da persone lontane dalla scuola reale e dalla sua evoluzione

  • Le prove non misurano la buona didattica né il buon insegnante: un buon insegnante è colui che, rispettando i tempi e le attitudini dei suoi allievi, riesce ad appassionarli alla sua materia, riesce a coinvolgerli e a motivarli nello studio; tutto questo non si misura;

  • Trasformano dall’interno lo statuto delle discipline: nel giro di qualche anno le materie interessate dall’INVALSI hanno cambiato natura; pensiamo ad esempio alla prova di italiano: il tema ha perso centralità a favore della comprensione del testo; ad una prova in grado di restituire, più di ogni altra, la complessità dello studente (competenze, saperi, soggettività), si preferisce ormai una prova completamente decontestualizzata: un brano che solo per pudore viene scelto tra i brani d’autore, senza che di quell’autore importi né la poetica né il momento storico in cui ha vissuto; anche la matematica, disciplina anch’essa complessa, si sta rapidamente riducendo ad un molto più applicativo problem solving, minando appunto lo statuto stesso della disciplina.

  • Scientificamente sono un fallimento. Un esempio: quelli fatti svolgere alle secondarie di primo grado lo scorso anno hanno dato risultati che differivano da quelli conosciuti in base alle ricerche Pisa. Come rimediare? Gli astuti tecnici dell’Invalsi hanno deciso di elaborare un coefficiente per cui moltiplicare i risultati inverosimili, in modo da trasformarli in verosimili! Incredibile ma vero!

  • Sono dannosi emotivamente per gli allievi. L’insegnamento della lettura si basa sul rispetto dei tempi dei bambini. Ognuno ha i suoi ritmi ed è doveroso rispettarli. Invece per la classe Seconda della scuola primaria (7 anni) l’invalsi propone la prova cronometrata di lettura, cronometro alla mano. Nell’insegnamento della scrittura i bambini usano la matita, affinché l’errore non sia irrimediabile e non diventi un dramma emotivo; invece l’Invalsi obbliga all’uso della penna biro non cancellabile. Ma in qualunque segmento di scuola, lo stress emotivo è fortissimo: le prove sono pensate per risposte in velocità, si tratta di prove a tempo (1/2 ora o un’ora) a malapena sufficiente a rispondere a tutti i quiz. Esattamente il contrario di ciò che un buon insegnante non smette mai di raccomandare: “Non bisogna avere fretta nelle risposte, bisogna riflettere bene e a lungo, ecc.”. Nelle scuole inglesi lo “stress da quiz” è ormai riconosciuto anche dagli psicopedagogisti.

  • Sono la premessa alla valutazione e gerarchizzazione retributiva dei docenti. Dai diversi documenti dell’Invalsi emerge chiaramente che questa schedatura di bambini, docenti e scuole è finalizzata in prospettiva a differenziare le retribuzioni dei docenti. Sia chiaro: nel progetto di sperimentazione presentato dalla Gelmini gli INVALSI, al momento, servono a misurare le scuole nel loro complesso, mentre per premiare il singolo docente è previsto un nucleo interno di valutazione che valuterà dati non meglio precisati. Ciò che accade negli altri Stati ci porta a pensare che anche in Italia l’obiettivo sia quello di piegare la libertà d’insegnamento alla logica delle competenze e dei quiz e di farlo utilizzando gli aumenti stipendiali. Ovviamente, come ben sa chi vive la scuola, non verrà premiato l’insegnante migliore, bensì quello che si adatterà più agilmente a questa didattica burocratica e di regime. Dobbiamo tener presente che il progetto di legge Aprea, collegato al merito nel pubblico impiego di Brunetta, prevede la diversificazione delle carriere (cioè degli stipendi dei docenti); uno dei parametri sarà “l’efficacia dell’azione didattica e formativa”; Quando il nostro stipendio dipenderà dai risultati delle prove INVALSI, allora la scuola italiana si trasformerà in una palestra di addestramento ai quiz.

  • Esasperano la competizione: spingono gli alunni a rivaleggiare tra di loro, gli insegnanti a mettersi in competizione anziché scambiarsi le buone pratiche, le scuole saranno sempre più in concorrenza tra loro, nel gioco al massacro dell’accaparramento di “clienti” attirati con progettualità tanto altisonanti quanto inconsistenti.

  • Non servono a migliorare la qualità della scuola: se qualcuno pensasse che, una volta arrivati i risultati delle scuole, il ministero se ne servisse per aumentare i finanziamenti per le scuole risultate più deboli, sarebbe del tutto fuori strada. Nella meritocrazia succede esattamente il contrario: avranno più soldi le scuole che otterranno risultati maggiori; e che faranno, ci chiediamo, quei bambini che, casualità vuole, sono finiti in una scuola di serie B o C? Se la terranno, alla faccia del diritto per tutti a una scuola di qualità. Certo è che il loro titolo di studio varrà di meno, come in ogni privatizzazione che si rispetti. Tutto questo, malgrado nel documento di Sintesi dell’INVALSI sulla valutazione degli apprendimenti dell’anno scolastico 2009/2010 l’ampia disuguaglianza dei risultati scolastici nelle regioni meridionali venga associata più all’alta disuguaglianza del reddito che alle caratteristiche strutturali dei singoli sistemi scolastici. Si può facilmente dedurre che ci sia la volontà di lasciare indietro chi è già è in situazione di disagio economico e socio-culturale, di non intervenire per diminuire la dispersione scolastica, ma di invertire il diritto costituzionalmente garantito di offrire a tutti le stesse opportunità formative a favore della premialità.

  • Le prove non sono anonime: le prove non sono affatto anonime e permetteranno una tracciabilità delle performance dai 7 anni in su: di fatto una schedatura delle competenze di massa e prolungata nel tempo. Sono anni che si affannano a dire che i quiz sono anonimi e che hanno una finalità puramente statistica; e allora a che serve un codice che collega ogni prova a un bambino ben preciso? Si tratta di una tracciabilità che non ha nessuna utilità a fini statistici: se voglio fare un’indagine davvero anonima, semplicemente entro nelle classi, distribuisco i quiz e poi li analizzo; non mi interessa che quel quiz lo abbia fatto un bambino o un altro; da un punto di vista statistico mi interessano l’età, la collocazione geografica della scuola, il numero di bambini per classe, ecc, MA NON IL NOME DEL BAMBINO: è un elemento non statistico. Ma, dicono, questi sono dati sensibili che restano custoditi dalle scuole; perché? Che se ne fanno le scuole? Se non se ne fanno niente, allora tanto vale non abbinare la prova al singolo. È ovvio invece che vorranno in qualche modo utilizzare questa tracciabilità, magari per misurare, come dicono loro, il valore aggiunto delle scuole e dei singoli docenti. La tracciabilità inoltre permetterà, appena lo decideranno, di costruire finalmente quel portfolio delle competenze lungo l’arco della vita iniziando dai sette anni.14

Da parte del Servizio nazionale di valutazione, responsabile delle Prove Nazionali, e dai sostenitori dei test INVALSI, il fronte appare ben diverso. Sono infatti numerosi gli articoli e le dichiarazioni atti a smentire i 13 punti della lista redatta da Cobas, incentrandosi soprattutto sul fatto che:


gran parte della confusione deriva dalla molteplicità di significati della parola “valutazione”: questo vocabolo viene utilizzato per un’ampia gamma di accezioni, molte delle quali fuori luogo quando si parla di test standardizzati di apprendimento. In quest’ultimo caso, per valutazione si intende misurazione. Misurazione degli apprendimenti degli studenti per una corretta diagnostica delle carenze del sistema di istruzione italiano.


Vi sono poi altre ragioni che contribuiscono a generare confusione: la generale estraneità alla cultura della valutazione del nostro Paese, permeato invece (soprattutto nel mondo dell’impiego pubblico) di una diffusa ideologia egualitaria. Ma anche le strumentalizzazioni in anni recenti di tale questione da parte del ministro Brunetta e del ministro Gelmini non hanno fatto che peggiorare il clima rispetto alla valutazione e mettere in allarme il mondo della scuola.15

In pratica, arrivano a sottolineare quella che è la natura reale degli INVALSI: uno strumento statistico che dovrebbe servire a evidenziare gli aspetti da migliorare nel sistema scolastico nazionale, non a giudicarlo, né a fornire un vero corrispettivo dei voti.


La trasparenza dell’istituzione si mostra anche sui criteri e la realizzazione stessa delle prove. Maria Cristina Peccianti, linguista esperta di glottodidattica, spiega per Giunti Scuola l’intero iter necessario alla creazione delle Prove Nazionali: le domande presenti, realizzate da docenti preparati attraverso appositi seminari, vengono sottoposte a un’analisi da parte di esperti disciplinari che, dopo una ferrea selezione, le inviano a un pre-test (effettuato su un campione di alunni) per verificarne la validità. Vi è poi una selezione successiva e la definitiva composizione dei fascicoli che verranno proposti alle scuole l’anno successivo. Sempre Peccianti, evidenzia i quattro criteri su cui si basa la creazione del test INVALSI:

  1. Standardizzazione, che costituisce un criterio di base per la costruzione delle prove;

  2. Corrispondenza con le Indicazioni Nazionali, al fine di rispettarne gli obiettivi e traguardi;

  3. Accessibilità, ovvero evitare compiti che richiedano conoscenze specifiche, in modo che siano accessibili a tutti. Le Prove prediligono, quindi, compiti cognitivi, che rispondano alle caratteristiche e al grado di sviluppo degli alunni di diverse età;

  4. Diversificazione del livello di difficoltà16.

Volendo quindi sintetizzare, le polemiche sugli INVALSI e i dubbi da esso generati sono dovuti per lo più sulle abilità che vengono effettivamente valutate, sull’effettiva utilità dello strumento di misurazione (misurano le conoscenze o le competenze?), sul non tenere conto della diversità delle situazioni in cui docenti e alunni si trovano a operare, sull’eccessiva competitività che possono scatenare e sull’effetto boomerang in relazione alle effettive prestazioni degli insegnanti. Posizioni a cui l’INVALSI risponde evidenziando la natura statistica delle Prove Nazionali e la loro utilità nel fornire un indicatore che possa consentire dei miglioramenti nella scuola.


Attualmente, si vede la prospettiva volgersi in un’altra direzione. Un enorme cambiamento, infatti, è avvenuto con l’anno scolastico 2017/2018, in cui gli INVALSI hanno smesso di interferire col voto d’esame degli studenti, riacquisendo il loro esclusivo valore di “termometro della scuola”.

Come è cambiato

Con l’apertura dell’anno 2018/2019, gli studenti sembrano essersi liberati dell’incubo delle Prove Nazionali, sia sul piano della loro influenza sul voto finale, sia, a dichiarazione del MIUR (Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca) in quanto sbarramento per l’ammissione agli esami17.


Ora, scrolliamoci di dosso questi dati e questi numeri e riflettiamo: gli studenti, già soggetti a uno stress da prestazione durante l’anno scolastico, si trovano ad affrontare, oltre alle normali incombenze scolastiche, una prova che valuta la loro preparazione generale. Prova che, oltretutto, serve a dare una buona immagine della scuola che frequentano e dimostrare la preparazione che essa è in grado di fornire.


Sulle loro spalle non grava più solo il loro valore personale, ma addirittura quello dell’Istituto. Una votazione scarsa agli INVALSI non implica solo che gli alunni non sono “bravi”, ma anche che i loro docenti non sono stati in grado di fornire gli strumenti necessari ad affrontare una Prova Nazionale.


Come influisce tutto ciò nell’ambito scolastico? In maniera molto semplice: gli insegnanti si sentono sotto pressione perché il loro lavoro verrà giudicato in base a risultati di terzi (gli studenti) e, per non rischiare, finiscono col concentrarsi in maggior misura sulla preparazione alla Prova Nazionale.


Dal 2017 il ridimensionamento del test INVALSI pare aver alleggerito tali aspettative, non solo per i docenti, ma anche per genitori e ragazzi che non devono più preoccuparsi di come i risultati vadano a interferire nella valutazione finale dell’Esame di Stato. Un primo grande cambiamento si ha nel 2015/2016 quando le Prove Nazionali cominciano a essere accompagnate da un questionario sulle famiglie; si raccolgono così le proteste dei docenti sull’irrilevanza della situazione personale degli alunni, cosa che invece influisce sull’esito scolastico18.


Con il decreto 62/2017, le prove cominciano ad acquisire ancora più valore. Difatti esse dal 2018 rilasceranno “una certificazione del livello raggiunto in italiano, matematica e inglese”19, decisione che “sottolinea una volta di più l’importanza dell’acquisizione delle competenze”20.


Per spiegare appieno questo mutamento ed evitare fraintendimenti con scuola e famiglie, gli INVALSI hanno divulgato un opuscolo, Le prove INVALSI secondo l’INVALSI, dove spiegano che: “Le prove INVALSI sono uno strumento prezioso per la valutazione del sistema scolastico, ma misurano solo alcune competenze fra quelle legate a tre discipline, alle quali si aggiungono quelle legate alle altre discipline e quelle che riguardano la formazione della persona e del cittadino. La certificazione dunque si affianca alla valutazione fatta dagli insegnanti, la completa, ma non la sostituisce in alcun modo”21.

In altre parole, gli INVALSI si propongono ancora una volta come “termometro” della scuola, un mezzo per evidenziarne i pregi e i difetti, così da alimentare i primi e intervenire tempestivamente sui secondi.


A questo proposito Paolo Mazzoli, attuale presidente di INVALSI, pone chiaro il punto di contatto tra questi e la scuola, nonché le diverse aree di sovrapposizione:

Un punto di contatto forte c’è: le Indicazioni nazionali vigenti, quelle del 2012, sono alla base sia della valutazione scolastica che di quella operata dall’Invalsi. La differenza profonda sta nel fatto che la prima serve essenzialmente a regolare l’azione didattica lungo il suo svolgersi e a documentare l’andamento del percorso individuale di ciascun bambino, mentre la seconda serve a verificare in che misura alcune competenze di cittadinanza fondamentali (la comprensione del testo, l’uso degli strumenti più potenti del pensiero matematico e il possesso di una sufficiente competenza comunicativa in inglese) siano effettivamente possedute dagli studenti. Credo che le scuole, e gli stessi alunni che le frequentano, abbiano bisogno di entrambe. È come se il mio insegnante mi dicesse quanto intensa e ricca è stata la mia esperienza scolastica, e quanto evidente è stato il mio impegno, e l’Invalsi mi desse invece un’indicazione del fatto che queste esperienze e questo impegno, mi abbiamo permesso di affrontare il mondo con un’attrezzatura culturale sufficiente per cavarmela in ogni circostanza.22


Una prospettiva auspicabile, in una scuola che ha bisogno sempre di migliorare se stessa. Per il momento, non resta che aspettare e vedere i prossimi sviluppi e come questi influenzeranno la vita e la crescita degli studenti.

La valutazione scolastica
La valutazione scolastica
Giulia Manzi
L’influenza del giudizio sulla motivazione dei nostri figli.Un libro rivolto a genitori e insegnanti, per ripensare la scuola e approcciarsi al mondo degli studenti da un altro punto di vista. La valutazione scolastica affronta lo scomodo tema dei voti e quanto la mala comprensione di essi influenzi la crescita dello studente, non solo a scuola, ma nella vita.Partendo da esperienze personali, Giulia Manzi ripercorre l’analisi dei sistemi e dei criteri di giudizio scolastici, il rapporto tra famiglie e insegnanti e il bisogno di una scuola che ponga al primo posto l’alunno e le sue esigenze d’apprendimento e sviluppo personale.Un libro rivolto agli adulti, genitori o insegnanti che siano, per approcciarsi al mondo degli studenti da un altro punto di vista. Conosci l’autore Giulia Manzi, figlia di Alberto Manzi (il maestro della TV in “Non è mai troppo tardi”), approfondisce tematiche legate alla pedagogia scolastica a partire dagli studi universitari e tiene corsi di formazione per docenti.