capitolo iii

“Il sapere è come il maiale:
non si butta via niente”

Al liceo ebbi un professore che oserei definire originale.

Insegnava Disegno Tecnico e Storia dell’Arte (rigorosamente in quest’ordine) ed era solito porci domande piuttosto strambe durante le interrogazioni, o fornirci alcune massime di vita, alle volte non strettamente congeniali alla sua materia.


Le raccogliemmo tutte in un libricino; tra queste: “Leonardo da Vinci era un grande!”, “I Romani hanno fregato il mattone agli Etruschi”, “Il panino con la porchetta non è buono se non è di Cinta Senese”, “Prima di sposare una donna portatela in piscina: se la trovate bella anche col costume intero e la cuffia è quella giusta” e la mia preferita: “Il sapere è come il maiale: non si butta via niente”.


Per quanto fosse un architetto e insegnasse una materia ben precisa, infatti, cercava di spronarci a interessarci a tutto e ci parlava di tutto, dalle inezie alle cose più importanti; era un maestro di quella che, in didattica, si chiama interdisciplinarietà, ovvero la correlazione tra più materie o argomenti.


Per lui infatti tutto meritava di essere appreso, ogni campo dello scibile esplorato, analizzato e correlato al resto. A detta sua, non potevi sapere quando una conoscenza si sarebbe dimostrata utile, quindi tanto valeva sapere e imparare il più possibile; anche la cosa in apparenza meno importante, un giorno, si sarebbe dimostrata utile.


Esattamente come il maiale, di cui si utilizzano tutte le parti, anche il sapere è diviso in tanti piccoli tranci o pezzi. Che poi se ne facciano salsicce, bistecche o costine poco importa: l’importante è saper riconoscere i vari tagli di carne, ovvero apprendere.

La finalità dell’apprendimento

Alla fine del liceo commisi l’errore più grande della mia vita (secondo terzi): mi iscrissi a Scienze Storiche.

“Ma vuoi insegnare?”, mi fu chiesto.

“No, in realtà vorrei fare la giornalista”.

“E con Storia che ci fai?”

“Ci scrivo”.

“Cosa?”

“…libri?”

“Sì, ma che altro? Come la puoi usare? Vuoi insegnare storia e filosofia?”

“No, se dovessi insegnare preferirei italiano”.

“E allora storia a che ti serve?”

“A nulla, mi va di fare una materia che mi piace”.


Pazza, folle, incosciente che non ero altro! Come osavo rompere il sacro vincolo del “ti laurei per lavorare” che incasella tutti dalla notte dei tempi? Come mi sono permessa, alla fine del liceo, di scegliere una facoltà solo perché volevo approfondire una materia, senza pensare al futuro?


Come me, tante altre persone che hanno intrapreso – vergogna! – studi umanistici si sono ritrovate a dover rispondere alla domanda: “A che ti serve?”.


Forse capita anche a chi fa studi scientifici, ma non ne sono sicura. Non ho mai sentito nessuno chiedere a mia cugina, quando si è iscritta ad Architettura, a cosa le servisse. Diciamo che questa domanda viene posta con maggior frequenza agli studenti di discipline umanistiche, tanto da costituire un elemento fondamentale dello Starter Pack dell’universitario medio. Gli altri elementi sono: occhiali, assenza di futuro, divisa del fast-food compresa con la laurea.


Il punto è: a cosa serve studiare qualcosa che non ha applicazione pratica nel mondo odierno? Perché investiamo tempo ed energie nell’apprendimento di materie che non ci servono per il lavoro futuro, a prescindere che si parli di filosofia, di matematica, ecc.?


La risposta può essere differente per ognuno, ma quella che preferisco in assoluto – e che ritengo la più veritiera – è: per arricchirci e soddisfare le proprie curiosità.


Questa risposta, tuttavia, è soggetta a qualcosa di più profondo, ovvero la motivazione che ci spinge. Come ho portato a esempio, per alcuni può essere desiderio di conoscenza, per altri un fine utile nell’applicazione pratica, e così via; non c’è limite a ciò che sprona l’essere umano all’apprendimento e, in conseguenza, non c’è limite alla sua funzionalità.

Numerosi sono gli studi che hanno preso in esame il concetto di motivazione. Tra questi, uno dei contributi più importanti risulta quello di Jere Brophy1 sulla motivazione ad apprendere.


Nel suo lavoro, Brophy pone che: “La differenza tra la motivazione intrinseca e quella ad apprendere è strettamente connessa alla differenza tra l’esperienza di coinvolgimento affettivo e quello cognitivo nel compito”2. Con questo, s’intende che la motivazione intrinseca consiste in una motivazione interiore, personale, rapportata alla capacità di una situazione o di una disciplina a stimolare il nostro interesse e la nostra curiosità; differentemente, la motivazione ad apprendere si identifica nella nostra risposta cognitiva allo svolgimento di un compito.

In pratica: troviamo la motivazione intrinseca quando qualcosa ci piace, mentre siamo motivati all’apprendimento quando, tramite uno sforzo mentale, riconosciamo il valore di ciò che stiamo imparando.


Faccio un esempio pratico: in quinta superiore avevo enormi difficoltà con Geografia Astronomica. La materia, per quanto interessante, aveva troppe formule che mi risultavano indigeste.


“A che mi serve saper calcolare la distanza in parsec tra la Terra e Plutone?”, mi chiedevo, scoraggiata di fronte al libro, in previsione di un compito in classe o di un’interrogazione che si prospettavano deleterie.


Dopo qualche settimana in cui perdevo ore a gingillarmi sulle pagine, senza ricavarci nulla se non un grande mal di testa, decisi che l’unico modo in cui avrei potuto imparare quelle cose era trovando uno scopo che non fosse solo il prendere un voto alto; cominciai, così, a buttare giù un racconto di fantascienza sui viaggi spaziali. Per capire come strutturare le varie popolazioni e civiltà, dovevo calcolare l’asse terrestre, la grandezza, la velocità di rotazione e la distanza tra quei pianeti inventati e la loro stella. Creai interi sistemi solari fittizi e relativi abitanti, ognuno con usi e costumi diversi.


Ora, che il mio metodo non fosse propriamente ortodosso (e forse avrei potuto trovare finalità diverse da un racconto che è rimasto incompiuto, ma ognuno funziona a proprio modo) conta poco: ciò che è importante è che riuscii a superare le barriere imposte dal mio cervello, “ingannandolo” con qualcosa che mi piaceva – la scrittura –, per costringerlo a imparare; lo motivai all’apprendimento e raggiunsi il mio obiettivo riguardante la disciplina.

Quando troviamo una motivazione ad apprendere, riconosciamo un valore alla nostra attività scolastica; ci sforziamo di attribuire un significato a ciò che studiamo e lo colleghiamo a ciò che già sappiamo, le nostre conoscenze pregresse, fino a padroneggiare le attività che l’apprendimento sviluppa3.

Credo che uno degli esempi più eclatanti in merito siano le discussioni sulle lingue morte: che senso ha studiare il greco e il latino? Ebbene, per quanto possano piacere o non piacere, tutti sono disposti a riconoscere che l’apprendimento di tali lingue aiuta lo sviluppo delle capacità logico-matematiche e logico-analitiche, stimola la capacità di ragionamento e d’interpretazione.


Poi, che personalmente le ritenga entrambe meravigliose è un altro conto: la motivazione intrinseca, l’amore per una disciplina, o si ha, anche perché magari un bravo insegnante è riuscito a farcela amare, o non la troveremo in un’accattivante offerta 3x2 formato famiglia al supermercato.

Origine e sviluppo della motivazione

Tra le due tipologie di motivazione, la più gettonata in ambiente scolastico è sicuramente quella intrinseca. D’altronde, vuoi mettere l’apprendimento con passione allo sforzo di trovare un motivo valido per studiare un tomo di 1.000 pagine sulla coltivazione della barbabietola da zucchero in Uganda? Eppure, essa non sembra nascere dal nulla: secondo Morgan e Sansone4 la motivazione intrinseca sboccia e si sviluppa in un percorso continuo nel tempo ed è soggetta all’influenza e alle decisioni del singolo.


Per sintetizzare, decidiamo quando e come imparare, se appassionarci a qualcosa e perché; secondo Gottfried5, nei bambini della scuola primaria la motivazione intrinseca è un costrutto molto chiaro, che rimane costante fino all’adolescenza; inoltre, essa è correlata al profitto e all’ansia scolastica: più alta è la motivazione intrinseca, maggiori sono il rendimento scolastico e l’autostima e minore è l’ansia.


Ma se da bambini siamo così “carichi” di positività, perché poi nasce l’ansia, la paura del fallimento e, in conseguenza, la realizzazione dello stesso? Come finisce la voglia di studiare e di imparare? E come cresce il terrore di non essere abbastanza, l’inedia, la svogliatezza?


A questo sembrano rispondere Vedder-Weiss e Fortus, che nel 2013 pubblicarono uno studio6 sul “Journal of Research in Science Teaching” sul perché, in adolescenza, la motivazione intrinseca subisca un calo.


Secondo la loro ricerca, si distinguono due tipi di obiettivo che gli studenti si possono porre rispetto al loro apprendimento: di prestazione (voglio mostrare la mia abilità) e di padronanza (voglio acquisire abilità). Il primo, rispetto al secondo, ha meno motivazione intrinseca in quanto finalizzato a ottenere premi esterni: riconoscimenti, valorizzazione, voti7.

Ciò è dovuto anche alla crescita: gli studenti tendono a diventare più capaci nel valutare la qualità delle proprie prestazioni, mentre diminuisce la fiducia in se stessi rispetto ai compiti di padronanza; in questo si inserisce anche la scuola che, nel corso degli anni, diventa sempre più esigente, formale, competitiva. In una fase delicata come l’adolescenza, ai ragazzi viene richiesto di soddisfare aspettative sempre più alte, ma con ritmi d’apprendimento, rispetto a quelli dell’infanzia, più lenti.


Pensiamo a un computer: quando lo compri è vuoto, ha giusto il sistema base installato; man mano che cominci a salvare documenti, file, programmi, però, la memoria si riempie e il sistema rallenta. Allo stesso modo, il cervello umano apprende ed elabora informazioni: quando si è piccoli è facile farci stare più cose, perché privi di conoscenze pregresse che “occupano spazio”; crescendo questo spazio diminuisce, i processi vanno più lenti, alle volte si inceppano perfino… ed ecco che molte cose, che prima avremmo imparato in fretta, ora richiedono impegno, costanza, fatica, sudore e, con essi, arrivano lo sconforto, la frustrazione e l’ansia di non essere capaci.


“Prima sapevo farlo, perché ora no?”

“Prima avrei imparato dieci formule matematiche in un’ora, perché ora ce ne metto quattro?”

“Quando ero piccolo sapevo suonare benissimo il pianoforte, ora riesco a fare a malapena “Fra Martino campanaro”.


Purtroppo, senza la giusta motivazione diventa difficile superare questo momento di sconforto, soprattutto in un’età a cui si accompagnano (per la logica proverbiale secondo cui le disgrazie non vengono mai da sole) grandi cambiamenti fisici e psicologici: non si è ancora adulti, ma non si è più bambini, bensì degli strani ibridi a cavallo tra le due cose che vengono ancora trattati come incapaci di prendere decisioni da soli, ma da cui si pretendono prese di responsabilità che, ammettiamolo, alle volte non sappiamo gestire neanche a cinquant’anni.

Susan Harter, parlando dello sviluppo della motivazione intrinseca e del suo declino8, esplica chiaramente che:


C’è un’enfasi crescente sul confronto sociale, su come gli studenti tendono a essere classificati in termini di prestazioni relative su test standardizzati e compiti, e su come le informazioni sui livelli di prestazioni individuali diventino maggiormente di dominio pubblico. Eccles e i suoi colleghi pensano che questi cambiamenti siano particolarmente drammatici nella transizione dalla scuola elementare alla scuola media superiore.


Questi mutamenti nell’ambiente scolastico hanno diverse implicazioni per quanto riguarda i cambiamenti motivazionali associati al livello di istruzione. Per esempio, come ha dimostrato Brush (1980), gli studenti hanno espresso atteggiamenti negativi su esercitazioni, test, valutazione basata sulla curva di Gauss, competizione ed enfasi dell’insegnante su giusto e sbagliato piuttosto che sul processo di apprendimento.

Questi stili di insegnamento, a loro volta, influenzano teoricamente la motivazione.


L’analisi di Nicholls (1979) di tali effetti si è concentrata sulle implicazioni per se stessi. Egli ha suggerito che quando l’attenzione di uno studente è focalizzata sulla valutazione della sua capacità piuttosto che sul compito di apprendimento stesso, l’interesse del bambino e la sua motivazione sono attenuati. Ha notato che gli ambienti scolastici che dipendono fortemente dal confronto sociale inducono gli studenti a focalizzare la loro attenzione sulla domanda “Quanto sono intelligente?” che, a sua volta, ha un impatto negativo sulla motivazione”.

Si sviluppa, in questo modo, un fronte demotivazionale che priva l’individuo della voglia di applicarsi allo studio, se non per fini puramente utilitaristici. Da notare che gli studenti demotivati non sempre hanno un pessimo rendimento; per demotivazione allo studio, infatti, si intende non la scarsa applicazione a questo, bensì che l’alunno non trova piacere o soddisfazione nello svolgere quel compito9. Compito, l’andare a scuola, che troppe volte viene imposto come un dovere, piuttosto che come qualcosa d’interessante.

Quante volte ci siamo sentiti dire, o abbiamo detto ai nostri figli: “Studiare è il tuo dovere”, “Neanche a me piace fare le pulizie, ma lo faccio lo stesso”, “Prima il dovere, poi il piacere”?


La stessa parola “dovere” implica un qualcosa che non si fa per interesse o piacere personale, ma solo perché si è obbligati (dalla famiglia, dalla società, da influenze esterne generali); di fronte al presupposto dello studio come “dovere”, come può quindi il ragazzo interpretarlo come una cosa positiva? Come possiamo pretendere che trovi interesse in ciò che fa, se noi stessi siamo i primi a imporlo e considerarlo come un’attività poco attraente?


Ecco che dal “dover fare”, e non dal “voler fare”, nasce la demotivazione, quel brutto tarlo che, di fronte al libro di testo, ci fa trovare interessante perfino la pagina Wikipedia sulla crescita dell’erba o sull’allevamento di un circo delle pulci.

La mancanza di voglia di studiare è sempre soggetta a fattori esterni, mai interni: siamo per natura esseri portati all’apprendimento, il nostro cervello si è evoluto per imparare il più possibile, così da cavarcela in ogni situazione anche senza denti affilati, artigli o folte pellicce10. Chiunque ha un interesse, anche la persona più svogliata: questo significa che non è la motivazione che manca, o le capacità, bensì che è il nostro impulso all’apprendimento di determinate conoscenze che viene sedato dalla ferrea logica del: lo devo fare per forza.


Questo è dovuto alla mancanza di quella che Alberto Manzi definiva tensione cognitiva11, la capacità di coinvolgere e di catturare l’attenzione dei ragazzi, di farli sentire parte dell’apprendimento e non fruitori passivi di questo.

Per fare ciò, è necessario porsi in una posizione di ascolto verso gli alunni e i figli, per capire cosa provoca la loro demotivazione scolastica e sviluppare con loro – e non per loro – delle strategie adeguate per motivarli, ma anche per aiutarli a comprendere meglio se stessi e affiancarli nella crescita.


Uno di questi passaggi fondamentali è favorire la comprensione del vero significato del voto e della valutazione scolastica; troppo spesso, infatti, quel numero sul registro viene visto come un “premio” o una “condanna”, piuttosto che per quello che è realmente: un puro, semplice, innocuo (e a volte anche utile) indicatore.

Il voto come premio

“Se prendi un brutto voto, ti tolgo il cellulare per un mese!”, “Se vieni bocciato passi l’estate senza videogiochi!”… mai sentite queste frasi? Le avete mai pronunciate?


Sono abbastanza sicura che, almeno una volta nella vita, ci siamo sentiti “ricattare” dai nostri genitori sul nostro rendimento scolastico. Se siete genitori voi stessi, ho quasi la certezza che vi sia capitato, il giorno in cui il vostro pargolo era un po’ più svogliato del solito, di affermare cose simili, senza pensare a quanto vi desse fastidio quando eravate seduti al suo posto, mentre mamma e papà protestavano per la vostra disattenzione.


Anche tra gli insegnanti diventano molto frequenti: “Se non ti impegni, verrai bocciato”, “Stai attento o ti metto una nota”…


Alle volte questi ricatti (sì, sono ricatti) sembrano l’unica strada per stimolare l’interesse scolastico del nostro svogliato pargolo che, sotto la minaccia di essere privato di attività più avvincenti dello studio, di oggetti o in previsione della sgridata dai genitori per l’imminente bocciatura, apre diligentemente il libro.


Diligentemente? Eppure la finestra sembra così allettante, guarda che cielo azzurro! E non avevo notato quanto interessanti potessero essere i biglietti dell’autobus…

Ecco che la testa del ragazzo divaga, si spegne. Le parole sul libro sono brutte, complicate e formano strani ghirigori… “hanno piedi di piombo”12… forse con la musica si può concentrare meglio; cuffie, l’ultimo successo a tutto volume nelle orecchie. La penna ticchetta sul foglio al ritmo della canzone. Una notifica, controlla facebook e…

E poi?

Poi fa tutto di fretta, per far vedere che ha finito, per terminare quella tortura. Si fanno orari assurdi, l’una, le due del mattino. A scuola è stanco, sonnecchia sul banco.


Però ha fatto il suo dovere e il voto, quel numeretto sul registro duramente conquistato, è il suo premio, assieme a qualche lode del genitore e dell’insegnante. È stato bravo, ha studiato, anche se a fatica. Ha dimostrato di prendere seriamente il suo lavoro, di essere responsabile.


Ma ha imparato? Ha acquisito delle abilità, delle prospettive, in merito alla disciplina? Ha interiorizzato il tutto ed è in grado di porre in correlazione logica le informazioni con quelle di altre materie?


In sintesi: ha formato delle competenze? Il suo voto (3, 4, 7, 8, 10…) indica davvero ciò che sa, o solo quello che ha memorizzato?


O peggio: si può assegnare a un ragazzo un voto in relazione al suo comportamento?

Il voto, nel corso dei decenni, è stato utilizzato come un unico indicatore di: selezione e controllo del comportamento, stimolo motivazionale, premio, punizione, addirittura come ricatto: “Se non fai il bravo ti metto 2!”13.


In questo modo, si favorisce la sostituzione di un obiettivo d’apprendimento (il fine dello studio è l’apprendimento in sé) con un obiettivo di prestazione, in cui l’alunno s’impegna esclusivamente per raggiungere un traguardo differente dalla conoscenza: acquisire una certa reputazione, farsi apprezzare dagli altri, proteggere la propria immagine…


“Quando sono guidati da tali obiettivi, gli studenti si preoccupano degli standard di risultato e cercano di fare il necessario per dimostrare le proprie capacità con lo scopo di apparire intelligenti, migliorare il proprio status e guadagnarsi lodi e riconoscimenti”14, ciò nonostante, Elliot e McGregor effettuano una distinzione anche tra gli obiettivi di prestazione in obiettivi di successo, ovvero il raggiungimento degli standard per dimostrare la propria intelligenza, e obiettivi di non fallimento, ossia evitare di mostrare la propria incompetenza15. Se, comunque, gli obiettivi di successo risultano più stimolanti e proficui, entrambi rischiano di confluire in un obiettivo di minimo sforzo: il tentativo di ottenere il massimo risultato investendo basse energie. Gli studenti che si approcciano all’apprendimento con tale spirito tendono a mostrare poco interesse, a sembrare svogliati e vagabondi; certe volte, questi comportamenti vengono stimolati proprio dai genitori con la promessa di premi in caso di un buon risultato scolastico, o semplicemente la sufficienza.

“Se prendi un bel voto ti compro…”, “Se recuperi il debito ti regalo…” e frasi simili sono l’annichilimento dello studio per il piacere di apprendere; lo studente si porrà un obiettivo minimo perché i primi a svalutare il suo impegno sono proprio i familiari e gli insegnanti che, tra promesse e minacce, non educano il ragazzo al fatto che lo studio è, sì fatica e impegno, ma soprattutto una scoperta di se stessi, un ampliamento delle proprie capacità e dei propri interessi…


Se sono gli adulti i primi a vivere la scuola come qualcosa di doveroso e noioso, come possiamo pretendere dai ragazzi un approccio positivo? Come possiamo stimolarli alla riflessione, all’apprendimento, al divertimento di imparare?


Un punto di partenza potrebbe essere di non sottovalutare le abilità cognitive dei giovani: troppo spesso si pensa a bambini e adolescenti come incapaci di comprendere certi argomenti, forse per paura o per poca voglia di affrontarli, o per semplice difficoltà nello spiegarli. Eppure, i giovani, in special modo i bambini, comprendono più di quanto noi adulti possiamo credere; dobbiamo solo trovare il modo di trasporre le spiegazioni in maniera più semplice ed efficace possibile, magari iniziando proprio da far capire loro la vera funzionalità di una verifica e, in conseguenza, del voto.

Il voto come indicatore

La verifica: incubo e delirio di ogni studente. C’è chi prega che sia a crocette, chi a domande aperte, chi ancora spera che il professore venga colpito da influenza intestinale il giorno del compito in classe o che, nel bel mezzo dell’interrogazione, si scateni un’apocalisse zombie… sì, perfino la lotta per la sopravvivenza sembra più allettante e l’avere il cervello mangiato da un cadavere ambulante è una seria giustificazione per non svolgere la verifica, no?

Eppure la verifica in sé non è tragica; come accennato nel primo capitolo, valutare in base all’esperienza è tipico dell’essere umano. Siamo creature in grado di comprendere la qualità di un prodotto, di un’azione, di un discorso… quando ciò avviene è perché sottoponiamo l’oggetto della nostra attenzione a una verifica inconscia, con parametri personali oppure oggettivi a seconda della nostra esperienza. La valutazione e di conseguenza la verifica è “un’attività costante e continua che prefigura come individui, gruppi e società si interpreteranno e si comprenderanno”16.

Alla fine di questo percorso di verifica, cosa c’è?

Che squillino le trombe dell’Apocalisse! Vergato su penna rossa su foglio protocollo, a volte accompagnato da frasi più lapidarie, o manifestato come ineluttabile sentenza verbale di fronte alla Corte della Classe o della Vita, giunge il verdetto: il voto! Il giudizio di cui abbiamo tanto parlato e straparlato è stato espresso.


La Corte si ritira, il Giudice batte il martelletto. L’imputato/alunno è colpevole o innocente, sconterà la pena o si godrà l’agognata libertà.


In ambo i casi, la domanda che il nostro studente si porrà è: “Perché questo voto?”, “Perché le verifiche?” senza avere risposta.


Inconsapevole, penserà che dipenda da lui, dalle sue capacità, dalle sue abilità, dall’essersi dimostrato all’altezza o meno della situazione… di aver risposto o meno alle aspettative che, dall’esterno o dall’interno, pendono sulla sua testa come una spada di Damocle.


Tutto questo… quando basterebbe spiegare allo studente che il voto è un mero indicatore, più utile agli insegnanti che a lui.


Non serve a dire: “Tu vali questo”, bensì “In questo momento ci sono delle cose che non ti sono chiare, come possiamo lavorarci sopra assieme per migliorare?”.


Ricordo cosa mi disse mia madre, insegnante di scuola primaria e poi della secondaria di primo grado, quando mi lamentavo delle innumerevoli verifiche, o delle stragi di insufficienze che avvenivano in classe: “La verifica serve all’insegnante, a capire se la classe ha compreso quanto spiegato fino a quel momento; se in una classe di 20 alunni, 18 dimostrano una preparazione insufficiente, vuol dire che la verifica era troppo difficile; se succede l’inverso, vuol dire che bisogna capire i motivi per cui quei ragazzi hanno preso l’insufficienza mentre gli altri no e lavorare sul singolo”.

Come affermato nel paragrafo precedente, i ragazzi capiscono più di quanto crediamo. Oggi il processo di valutazione sembra tenere maggior conto del fatto che il risultato in un test scolastico è influenzato, oltre che dallo studio effettivo, dalla situazione d’ansia e stress generata dalla pressione per la verifica, oltre che alle condizioni familiari e personali dell’alunno17, ma la strada da percorrere sembra ancora lunga e tortuosa.


Gli studi di De Landsheere confermano le perplessità sull’efficacia dei voti e le modalità di valutazione: nel suo “critica degli esami”18, arriva perfino a indicare il sistema di votazione come uno strumento di immobilismo sociale, in quanto non promuove una formazione uguale per tutti. Parole confermate da Alberto Manzi che, quando gli si chiedeva il perché non scrivesse libri di didattica e divulgasse il suo metodo educativo, rispondeva: “Perché allora facevo delle cose, se mi trovassi con altri studenti ne farei altre. Stabilire un metodo fissa dei parametri, li stabilizza e non va bene per tutti. Ogni alunno è a sé”.


In conclusione, l’importanza che diamo al voto dipende solo da come lo percepiamo. Questo lo rende soggetto a una serie di parametri che non è possibile misurare, come sostengono i fanatici di una didattica quantitativa; secondo Scurati, il paradigma culturale di intendere la valutazione come un’acquisizione, un accumulo di dati e standard per l’accertamento degli apprendimenti, è in netto contrasto con una tipologia di valutazione qualitativa, che pone lo studente, i suoi bisogni e la sua crescita come individuo al primo posto, sviluppando sistemi flessibili, poco strutturati e in continua evoluzione19, ma che soprattutto pone il voto come ciò che è: un mero, semplice e a volte (in)utile indicatore di ciò che il ragazzo sa e non sa fare in quel preciso momento della sua vita.

Niente di più, niente di meno.

Nozioni o competenze? La teoria della barbabietola da zucchero

Avevo undici anni quando formulai, per la prima volta, quella che ho chiamato: la teoria della barbabietola da zucchero. L’enunciato, grosso modo, fa così: “Quando ti fanno una domanda, l’unica risposta certa è la barbabietola da zucchero”.


Per spiegarla in maniera più chiara: c’è sempre un elemento in comune in ogni cosa che studi. Se non vuoi sbagliare, di’ quello e prenderai almeno la sufficienza.


Tale elemento in geografia è la barbabietola da zucchero, a quanto pare coltivata in ogni paese del globo (tranne in uno), in scienze o chimica è la forma spaziale delle molecole e in storia la parte di popolazione che ha i soldi e rovescia il sistema precedente.

In realtà, la teoria della barbabietola da zucchero implica molto più di questo: essa è un modo per definire come la scuola si sia concentrata per anni su un apprendimento nozionistico (date, nomi, elementi tecnici, ecc.), a scapito dello sviluppo delle competenze dell’alunno.


È stato ampiamente dimostrato già da pedagogisti come Piaget20 e Vygotskij21 come il bambino apprenda per lo più tramite la pratica e il gioco; l’elemento ludico, soprattutto, risulta importante sia per lo sviluppo della psicomotricità22, sia per l’acquisizione di competenze, ovvero, il “sapere quando applicare ciò che si sa”23.


Ogni studente comincia la scuola con delle conoscenze pregresse. Può averle imparate in famiglia, o negli anni precedenti, o ancora in maniera totalmente autonoma. Poco importa, fatto sta che tali conoscenze (quindi ciò che sa) influenzano in modo attivo l’apprendimento successivo, sia in senso positivo (quando la conoscenza pregressa fornisce elementi utili per comprendere un concetto) che negativo (quando la conoscenza pregressa fornisce dati che entrano in contrasto con la comprensione dell’argomento). Ciò avviene in quanto gli studenti utilizzano ciò che già sanno per interpretare le nuove informazioni24, tanto che la conoscenza pregressa pare facilitarne l’assimilazione25.

Tuttavia, dal conoscere, ovvero dall’avere un bagaglio di dati e conoscenze pregresse a cui attingere, al saper utilizzare tali informazioni passa un oceano che pare insormontabile, sebbene l’unica cosa che freni dall’attraversarlo è la paura che la propria barca affondi. Non c’è da preoccuparsi, in realtà: con un buon capitano (il docente), anche la nave più mal ridotta può attraversare il mare burrascoso.


Bisogna “solo” insegnare all’alunno a portare il timone, ovvero passare dal semplice conoscere al comprendere il perché delle cose, a trasformare le sue informazioni in competenze, a fare esperienza e stimolare la mente.

L’apprendimento passivo (o nozionistico) non passa per l’esperienza e la comprensione dei fenomeni, ma si limita a un’acquisizione tecnica dei dati senza fornire all’alunno un’esperienza didattica che lo porti a interrogarsi sui fenomeni stessi. Manca “L’intuizione delle relazioni”26, quel processo didattico definito da Alberto Manzi: “Pensare sulle cose, fare sulle cose”27:


È importante, dunque, che il bambino faccia, costruisca, smonti… ma è altresì importante “parlare” con il bambino, far parlare il bambino. Per spiegarci quel che sta facendo, il bambino è costretto a chiarire a se stesso e le azioni e il perché delle azioni, il che significa confrontare esperienze passate, metterle in relazione con le nuove, riesaminare tutto quel che si sapeva o si credeva di sapere su un certo argomento per costruire un nuovo concetto. Questo significa vivere un “problema”28.


Per “vivere un problema”, è necessario che il bambino si interroghi sul mondo circostante. Bisogna creare una tensione cognitiva, un interesse che porti l’alunno a incuriosirsi della materia, stimolando la sua mente tramite domande studiate ad hoc per suscitare in lui il ragionamento.


Questo perché oggi: La cultura è stata data come un oggetto da possedere, come un qualcosa che uno ha e allora sei diventato una persona capace di fare tutto. Ci siamo dimenticati che la scuola avrebbe dovuto sollecitare lo stimolo dello sviluppo intellettuale. Questa è la cosa importante. Oggi la scuola lascia la maggior parte della gente incapace di ragionare con la propria testa, bravissimi a ripetere le cose che hanno detto gli altri, incapace di ragionare e di avere il suo senso critico, di saper riflettere sulle cose, ragionare sulle cose.29


In conclusione: non basta sapere, bisogna saper fare. E insegnare a fare, condurre il ragazzo verso un apprendimento dinamico e costruttivo, è la chiave per eliminare la scomoda, fastidiosa e terribile domanda che ci siamo posti a inizio capitolo: “A che mi serve studiare?”.

La valutazione scolastica
La valutazione scolastica
Giulia Manzi
L’influenza del giudizio sulla motivazione dei nostri figli.Un libro rivolto a genitori e insegnanti, per ripensare la scuola e approcciarsi al mondo degli studenti da un altro punto di vista. La valutazione scolastica affronta lo scomodo tema dei voti e quanto la mala comprensione di essi influenzi la crescita dello studente, non solo a scuola, ma nella vita.Partendo da esperienze personali, Giulia Manzi ripercorre l’analisi dei sistemi e dei criteri di giudizio scolastici, il rapporto tra famiglie e insegnanti e il bisogno di una scuola che ponga al primo posto l’alunno e le sue esigenze d’apprendimento e sviluppo personale.Un libro rivolto agli adulti, genitori o insegnanti che siano, per approcciarsi al mondo degli studenti da un altro punto di vista. Conosci l’autore Giulia Manzi, figlia di Alberto Manzi (il maestro della TV in “Non è mai troppo tardi”), approfondisce tematiche legate alla pedagogia scolastica a partire dagli studi universitari e tiene corsi di formazione per docenti.