capitolo ii

"Sono fatto al 70% di ansia"

Un giorno mio cugino guardò mia madre e le disse: “Se le persone sono fatte al 70% d’acqua, io sono fatto al 70% d’ansia”.


Tale composizione, per quanto biologicamente contestabile, è quanto mai vera: viviamo in un mondo che ci sottopone a stress ripetuti e continui, dove il “fare bene e farlo in fretta” è la regola fondamentale per non restare indietro. Dobbiamo essere perennemente aggiornati, perennemente pronti, perennemente preparati su ogni novità… la comunicazione digitale ci ha immessi, e abituati, in una piazza virtuale dove il “tutto e subito” è obbligatorio: dalla fruibilità delle notizie, alle novità, al dialogo.


Ma l’essere umano non va di pari passo con il progresso tecnologico: tutt’altro, abbiamo sempre i nostri tempi per fare, produrre e, soprattutto, per apprendere. Quando i ritmi naturali della nostra crescita non vengono rispettati, ciò che nasce è una sensazione d’inadeguatezza e di panico che, in certi casi, possono diventare clinici e invalidanti per il normale sviluppo dell’individuo.

In apparenza, l’ansia non pare nulla di che: siamo tutti ansiosi, chi più chi meno; è capitato a chiunque, almeno una volta nella vita, di provare una sensazione di preoccupazione o paura immotivata in seguito a uno stimolo ricevuto. Essa nasce quando il nostro organismo non riesce ad adattarsi a una specifica situazione e genera in noi dello stress1.


Ma cos’è realmente l’ansia? Come riconoscere quando una persona è ansiosa in maniera patologica e quando invece può essere uno stimolo positivo a impegnarsi?

“Per favore, permettetemi di presentarmi: sono l’Ansia”

Ero in seconda superiore quando ebbi, per la prima volta nella mia vita, una crisi d’ansia vera e propria. Prima d’allora, ero riuscita in qualche modo a resistere a quel mostro oscuro che si agitava nella mia pancia; a dirla tutta, lo ignoravo e procedevo spedita e sicura delle mie capacità. Capacità che quel giorno sapevo non sarebbero bastate: mi attendeva, al varco, un’impietosa interrogazione di latino con una docente con cui avevo avuto numerosi scontri durante l’anno, fatti di frecciatine, battute e sfide lanciate più o meno apertamente in classe.


Era fine maggio, mancavano poco meno di due settimane al termine dell’anno scolastico, ma quello fu il mio ultimo giorno di scuola. Ricordo quella mattinata in maniera confusa: le mie mani artigliate al banco, le palpitazioni, la fatica a respirare… un senso di nausea persistente, la testa che mi scoppiava e il desiderio di svenire e risvegliarmi alla fine dell’ora. Era la resa dei conti, come un duello dei film western che piacciono tanto a mio nonno; doveva andar bene, in teoria: ero preparata, avevo studiato e latino era – ed è ancor oggi – una delle mie materie preferite, ma mi sentivo come se avessi dovuto battermi contro Billy the Kid utilizzando solo una pistola ad acqua, per di più scarica.


I duellanti con i piedi sul terriccio; si voltano. Tre passi, poi l’inizio. Bang. Bang.

Centro perfetto. Domande studiate e formulate col proposito di non avere risposta. Pistola inceppata; il cervello spento, perso nell’oblio di una foschia che sembrava circondarmi.


Un 4. Secco. Sintetico. Micidiale.

Dritto sulla media scolastica che si abbassava alla velocità di una Ferrari all’ultimo giro di corsa.


Tornai a casa ancora con la sensazione di panico addosso. L’idea di recarmi a scuola il giorno dopo, di rivedere l’artefice di quell’umiliazione, mi soffocava.


Mia madre non mi permise di tornarvi. Alcuni ansiolitici, una settimana in campagna dai miei nonni… nessun contatto con l’esterno, impossibilità di vedere l’uscita dei quadri scolastici che indicavano la presenza o meno di debiti.


Fu mia madre a informarmi telefonicamente che non avevo avuto debiti e che la mia pagella era priva di ripercussioni, o quasi: mi era stato abbassato il voto di italiano per alzare – di poco, pochissimo – quello di latino. Solo allora, pagella alla mano e l’umiliazione che ancora bruciava, mi fu permesso di tornare a casa.


In cuor mio, pregai di non riprovare mai più quella sensazione a cui non sapevo dare un nome. Un’emozione, uno stato mentale che mio malgrado avrei avuto modo, nel triennio e poi all’università, di conoscere bene: l’ansia.


Questo episodio, purtroppo, non fu l’ultimo. Nonostante i fattori scatenanti non si ripeterono, durante la magistrale divenni soggetta a vere e proprie crisi d’ansia, prive di motivazione apparente: a ogni esame, rivivevo quelle emozioni: stretta allo stomaco, palpitazioni, respirazione accelerata, sudorazione e la mente completamente appannata, incapace di produrre una qualsivoglia risposta che non fosse un balbettio.


La mia “miglior performance” fu durante uno degli ultimi esami: mi sedetti davanti al docente, mi chiese il nome e io mi alzai e uscii dalla stanza, completamente pallida e incapace di parlare. Non lo salutai neanche, né sostenni l’esame in questione.


L’ansia aveva vinto. Mi si era presentata ai miei quindici anni e doveva essersi affezionata, perché non mi ha più lasciato. Ancora oggi è con me, come una di quelle amiche di vecchia data che non sopporti più, ma con cui non riesci a chiudere i rapporti perché – ehi! – ne avete passate tante insieme, non la puoi scaricare, anche se vorresti solo che si allontanasse e si cercasse un’altra vittima.

Ma cos’è l’ansia? L’American Psychiatric Association la descrive come: “l’anticipazione apprensiva di un pericolo o di un evento negativo futuro, accompagnata da sentimenti di disforia o da sintomi fisici di tensione2 e ne classifica diverse tipologie:

  • Disturbo d’ansia di separazione (bambini: 4%; adolescenti: 1,6%);

  • Mutismo selettivo (tra 0,03-1%);

  • Fobia specifica (USA: 7-9%; Europa: intorno al 6%; paesi asiatici, africa-ni e latinoamericani: 2-4%);

  • Disturbo d’ansia sociale (fobia sociale) (USA: 7%; Europa: 2,3%);

  • Disturbo di Panico (USA e alcuni paesi europei: 2,3%; paesi asiatici, africani e latinoamericani: 0,1-0,8%);

  • Agorafobia (1,7%);

  • Disturbo d’ansia generalizzata (USA: 2,9%, altri paesi: 0,4-3,6%);

  • Disturbo d’ansia indotto da sostanze/farmaci (0,002%);

  • Disturbo d’ansia dovuto a un’altra condizione medica (n.s.);

  • Disturbo d’ansia con altra specificazione (n.s.);

  • Disturbo d’ansia senza specificazione (n.s.)3.

Senza addentrarci nell’analisi di ogni disturbo d’ansia, si può operare una distinzione tra un’ansia dovuta a episodi e situazioni concrete e un’ansia patologica e invalidante. Nel primo caso, l’ansia è la risposta del nostro organismo a una situazione che consciamente sappiamo essere svantaggiosa (per esempio: la mia interrogazione di latino, in cui la crisi era giustificata dalla consapevolezza che la professoressa era ostile nei miei confronti); in questi casi, l’ansia può anche risolversi in una paura positiva, in uno stimolo adrenalinico che ci aiuta a migliorare le nostre prestazioni.


Per contro, l’ansia clinicamente invalidante consiste in una dimensione eccessiva delle preoccupazioni; non è apparentemente motivata da alcuno stimolo esterno e, rispetto a una crisi di panico, i sintomi sono meno intensi, ma più persistenti nel tempo. In tal caso, l’ansia risulta quasi incomprensibile anche a se stessi: non ci sono fattori scatenanti, non ci sono giustificazioni. Sei tu e quella sensazione di malessere che ti senti perfino in colpa di provare.


Perché non hai giustificazioni, non hai motivo di viverla. E il mondo attorno a te non la comprende, pensa solo che sei un po’ agitato, che devi calmarti.


Ecco, non c’è niente di peggio che dire a una persona ansiosa che deve stare calma. La si colpevolizza per qualcosa fuori dal suo controllo, che neanche questa riesce a comprendere.


Ora, immaginiamo di essere a scuola, di non essere adulti formati, consapevoli del proprio disagio e in grado di gestirlo, da soli o tramite aiuto di esperti. Immaginiamo di essere solo dei ragazzi di fronte alla classe, alle persone che, soprattutto in adolescenza, rappresentano il fulcro del nostro universo sociale.

Ed ecco che arrivano tutti i sintomi: palpitazioni, sudorazione, nausea o brividi, respirazione compromessa e la mente annebbiata4. Spenta.


Per tutti i presenti, non stai male: sei stupido, svogliato… magari non hai studiato e “stai facendo scena”. Per i più sensibili e attenti, forse hai un po’ d’influenza.


Vai a posto e la volta successiva è anche peggio, perché l’ansia fa così: ti trascina in una spirale di paura e terrore. I voti calano, i genitori si arrabbiano o si preoccupano, ogni reazione attorno non fa altro che accrescere la consapevolezza di essere sbagliati, di non essere all’altezza delle aspettative.


E cadi. Cadi sempre più giù, senza mai toccare il fondo. Senza risalire.

Aiutiamoli: piccoli consigli per combattere l’ansia da prestazione scolastica

Ormai la paura e l’ansia di andare a scuola riguardano una fetta sempre più ampia di bambini e ragazzi. Come abbiamo precisato, la paura si differenzia dall’ansia e dalle fobie sulla base dell’obiettività: quando c’è un motivo per avere timore, si è nel dominio della paura, quando tale motivazione è assente, rientriamo nel campo delle fobie e dell’ansia5.


Nei bambini, tale distinzione è problematica perché il loro sviluppo cognitivo non consente una differenziazione semplice tra reale e immaginario. Per loro, realtà e immaginazione si mischiano e hanno entrambe una valenza molto forte, oltre al fatto che essi sono più facilmente soggetti a paure e timori rispetto agli adulti.


Quando un bambino manifesta episodi d’ansia molto intensi e frequenti rientriamo nel campo dell’ansia patologica; nel caso dell’ansia scolastica (a cui, soprattutto in età infantile, si associa l’ansia da separazione dalla madre), il disagio non si manifesta solo a livello psicologico, ma anche psicosomatico: mal di pancia, vomito, addirittura febbre. Tutto per sottrarsi al fattore scatenante (la scuola), tramite assenze dalle lezioni, dalle verifiche, ecc6.

Per risolvere questi problemi è importante prima di tutto riconoscere il disturbo d’ansia, che si manifesta in modo diverso da persona a persona, quindi eliminarne o attenuarne le cause, tenendo presente che il primo passo da compiere è sempre la creazione di un ambiente sereno e d’ascolto.


Tra gli indici del disagio di uno studente troviamo: un abbassamento del rendimento scolastico, la perdita d’interesse per materie che prima interessavano, stanchezza, agitazione, aggressività con i compagni e scarsa tolleranza allo stress e alla frustrazione.


Per aiutarli, diventa utile, se non necessario, trasmettere:

  • l’accettazione di se stessi: sottolineare la differenza tra “comportamento” e “carattere”, così da evitare attacchi all’autostima. Il fallimento non dev’essere inquadrato come valutazione negativa su se stessi, ma come un comportamento non funzionale. In questo modo, la causa del fallimento sarà dovuta alla strategia poco efficace, non a una caratteristica immutabile dell’alunno;

  • l’alta tolleranza alla frustrazione: spiegare che frustrazione e ostacoli sono elementi normali della vita quotidiana; accettare che non tutto va come si è previsto aiuta a comprendere di non essere “sbagliati”, ma che a tutti capita un momento negativo;

  • l’accettazione degli altri: separare il giudizio riguardante le azioni che gli altri compiono dal loro valore di per sé, in quanto persone;

  • dare un significato all’impegno richiesto;

  • stabilire obiettivi realistici, in base alle capacità e alle competenze dell’alunno, spronandolo sempre a migliorarsi. Delineare le difficoltà e sottolineare le sue doti aiuta a sviluppare l’autostima necessaria per affrontare le diverse tappe dell’apprendimento;

  • lasciamogli coltivare le sue passioni, soprattutto nelle attività extrascolastiche;

  • tempo libero: il ragazzo ha il diritto di impiegare del tempo come preferisce, rilassandosi, improvvisando e addirittura annoiandosi;

  • accettazione dell’insuccesso: molte volte sono i ragazzi stessi che si pongono obiettivi elevati. In tal caso occorre dialogare con loro, per fargli maturare l’idea che è normale che non si possa sempre dare il massimo a ogni prestazione;

  • dare il buon esempio: non accanirsi sugli insuccessi o incitarli a comportamenti non adeguati;

  • riconoscere quando sbaglia e non cercare colpevoli esterni per le sue mancanze, ma analizzare i suoi errori con obiettività e farli riconoscere anche a lui7.

Questi sono solo consigli “spiccioli”, che verranno approfonditi in seguito nel testo. L’importante è che in presenza di un disturbo d’ansia patologico e non episodico si sia in grado di riconoscerlo e rivolgersi, se si hanno dubbi su come aiutare il ragazzo a superarlo, a dei professionisti.

La valutazione scolastica
La valutazione scolastica
Giulia Manzi
L’influenza del giudizio sulla motivazione dei nostri figli.Un libro rivolto a genitori e insegnanti, per ripensare la scuola e approcciarsi al mondo degli studenti da un altro punto di vista. La valutazione scolastica affronta lo scomodo tema dei voti e quanto la mala comprensione di essi influenzi la crescita dello studente, non solo a scuola, ma nella vita.Partendo da esperienze personali, Giulia Manzi ripercorre l’analisi dei sistemi e dei criteri di giudizio scolastici, il rapporto tra famiglie e insegnanti e il bisogno di una scuola che ponga al primo posto l’alunno e le sue esigenze d’apprendimento e sviluppo personale.Un libro rivolto agli adulti, genitori o insegnanti che siano, per approcciarsi al mondo degli studenti da un altro punto di vista. Conosci l’autore Giulia Manzi, figlia di Alberto Manzi (il maestro della TV in “Non è mai troppo tardi”), approfondisce tematiche legate alla pedagogia scolastica a partire dagli studi universitari e tiene corsi di formazione per docenti.