“Per favore, permettetemi di presentarmi: sono l’Ansia”
Ero in seconda superiore quando ebbi, per la prima volta nella mia vita, una crisi d’ansia vera e propria. Prima d’allora, ero riuscita in qualche modo a resistere a quel mostro oscuro che si agitava nella mia pancia; a dirla tutta, lo ignoravo e procedevo spedita e sicura delle mie capacità. Capacità che quel giorno sapevo non sarebbero bastate: mi attendeva, al varco, un’impietosa interrogazione di latino con una docente con cui avevo avuto numerosi scontri durante l’anno, fatti di frecciatine, battute e sfide lanciate più o meno apertamente in classe.
Era fine maggio, mancavano poco meno di due settimane al termine dell’anno scolastico, ma quello fu il mio ultimo giorno di scuola. Ricordo quella mattinata in maniera confusa: le mie mani artigliate al banco, le palpitazioni, la fatica a respirare… un senso di nausea persistente, la testa che mi scoppiava e il desiderio di svenire e risvegliarmi alla fine dell’ora. Era la resa dei conti, come un duello dei film western che piacciono tanto a mio nonno; doveva andar bene, in teoria: ero preparata, avevo studiato e latino era – ed è ancor oggi – una delle mie materie preferite, ma mi sentivo come se avessi dovuto battermi contro Billy the Kid utilizzando solo una pistola ad acqua, per di più scarica.
I duellanti con i piedi sul terriccio; si voltano. Tre passi, poi l’inizio. Bang. Bang.
Centro perfetto. Domande studiate e formulate col proposito di non avere risposta. Pistola inceppata; il cervello spento, perso nell’oblio di una foschia che sembrava circondarmi.
Un 4. Secco. Sintetico. Micidiale.
Dritto sulla media scolastica che si abbassava alla velocità di una Ferrari all’ultimo giro di corsa.
Tornai a casa ancora con la sensazione di panico addosso. L’idea di recarmi a scuola il giorno dopo, di rivedere l’artefice di quell’umiliazione, mi soffocava.
Mia madre non mi permise di tornarvi. Alcuni ansiolitici, una settimana in campagna dai miei nonni… nessun contatto con l’esterno, impossibilità di vedere l’uscita dei quadri scolastici che indicavano la presenza o meno di debiti.
Fu mia madre a informarmi telefonicamente che non avevo avuto debiti e che la mia pagella era priva di ripercussioni, o quasi: mi era stato abbassato il voto di italiano per alzare – di poco, pochissimo – quello di latino. Solo allora, pagella alla mano e l’umiliazione che ancora bruciava, mi fu permesso di tornare a casa.
In cuor mio, pregai di non riprovare mai più quella sensazione a cui non sapevo dare un nome. Un’emozione, uno stato mentale che mio malgrado avrei avuto modo, nel triennio e poi all’università, di conoscere bene: l’ansia.
Questo episodio, purtroppo, non fu l’ultimo. Nonostante i fattori scatenanti non si ripeterono, durante la magistrale divenni soggetta a vere e proprie crisi d’ansia, prive di motivazione apparente: a ogni esame, rivivevo quelle emozioni: stretta allo stomaco, palpitazioni, respirazione accelerata, sudorazione e la mente completamente appannata, incapace di produrre una qualsivoglia risposta che non fosse un balbettio.
La mia “miglior performance” fu durante uno degli ultimi esami: mi sedetti davanti al docente, mi chiese il nome e io mi alzai e uscii dalla stanza, completamente pallida e incapace di parlare. Non lo salutai neanche, né sostenni l’esame in questione.
L’ansia aveva vinto. Mi si era presentata ai miei quindici anni e doveva essersi affezionata, perché non mi ha più lasciato. Ancora oggi è con me, come una di quelle amiche di vecchia data che non sopporti più, ma con cui non riesci a chiudere i rapporti perché – ehi! – ne avete passate tante insieme, non la puoi scaricare, anche se vorresti solo che si allontanasse e si cercasse un’altra vittima.