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La valutazione chi è costei?

Viviamo in un mondo dove a ogni azione si attribuisce un valore, un prezzo, se così vogliamo definirlo. Le varie prestazioni (lavorative, artigianali, ecc.) vengono attentamente valutate secondo criteri oggettivi o soggettivi; anche il semplice prendersi un gelato è soggetto a questo fenomeno: scegliamo in base ai gusti disponibili, a quelli che ci piacciono di più, se preferiamo quel gusto a una o all’altra gelateria…


L’insieme dei fattori che ci portano a ritenere qualcosa migliore di un’altra costituisce la valutazione, ovvero la determinazione di un valore attribuito a un elemento.


Questo stesso principio si applica al rendimento scolastico: la valutazione in tal caso prende in esame un insieme di elementi (esposizione orale, scritta, conoscenza dell’argomento, ecc.) a cui attribuisce un valore riguardante l’efficacia dell’intervento educativo sull’alunno e il suo profitto.


Fermiamoci un attimo: profitto? Valore? Rendimento? In questo momento non mi stupirei se molti di voi controllassero ripetutamente la sinossi, nel tentativo di capire se c’è un errore di stampa e il libro che avete in mano non sia un trattato di economia.


Vi rassicuro già, prima che decidiate di gettare la spugna di fronte a una brutta copia de La ricchezza delle nazioni di Adam Smith: questo è un libro di didattica, o di pseudodidattica, o di una ex-studentessa con il complesso della maestrina troppo sviluppato. Fatto sta che di economia non ci troverete nulla, tranne i termini.


Ed è qui, proprio nella terminologia, che comincia il problema del sistema dei giudizi scolastici: valutazione, profitto, rendimento… sono una serie di parole attribuibili – facilmente e giustamente – all’ambito economico, o a un sistema in cui è necessario dare un valore a un oggetto, o a un lavoro.


Ma come si può dare un valore – numerico o non numerico, cifra tonda: perfetto, compiuto, definito – alle competenze? Per quale ridicolo paradosso siamo passati dal buon vecchio Socrate e il suo “So di non sapere” a ritenere che: più sai, più vali?


Il solo definire il percorso scolastico, che ricordo essere differente da individuo a individuo, di una persona tramite dei valori numerici; il solo ridurlo a una definizione che mira al profitto e non alla crescita emotiva e culturale dell’alunno, fa pensare che, più conosci, più sei bravo a scuola, più il tuo rendimento nella società aumenta.


Peccato che al supermercato non accettino pagamento in pagelle. Mi sarebbe piaciuto presentarmi alla cassa, carrello pieno e porgere alla cassiera l’ultimo voto preso a un esame. Mi immagino la scena.

“Buongiorno, fanno 123 € e 25 centesimi”. “Ho portato il mio libretto universitario”. “Oh, benissimo… mi faccia controllare. Mm…, 25? Mi dispiace, non basta. Per coprire la sua spesa dovrebbe avere almeno un 28, potrei scontargliela col 27, ma…”
“Aspetti, forse mi è avanzato un 10 in Filosofia dal liceo. Dove l’ho messo… ecco qua! Può andare?”
“Non lo so, mi faccia fare due conti… guardi, purtroppo non ho il resto, ma posso scalarle l’8 in Storia preso nell’interrogazione di prima superiore se vuole”.

Sarebbe bellissimo, ma nella vita non funziona così, quindi il voto a cosa serve? Cos’è realmente la valutazione? Perché siamo tutti così legati a queste benedette cifre? E perché le viviamo con uno spirito a metà tra la competizione più sfrenata e un’ansia peggiore di quando i genitori cercano di esaminare la cronologia del computer?

La questione affonda le sue radici nell’etimologia della parola stessa: “valutare” nella nostra lingua deriva da valere, ovvero: “dare valore” (e qui ci riallacciamo in quanto affermato finora), ma anche – attenzione! – valorizzare1.


Qual è, quindi, il compito della scuola secondo questo concetto? Attribuire un valore al risultato dello studente oppure aiutarlo a far venir fuori le sue potenzialità e a migliorarsi? Come afferma Mel Levine:


La scuola dovrebbe incoraggiare e preparare a essere produttivi e quindi premiare per i risultati ottenuti. (…) I ragazzi devono sperimentare l’impegno e accumularne prove tangibili, che vanno considerate come non meno importanti dei voti. Il famoso pedagogista Grant Wiggins sostiene che gli studenti dovrebbero essere valutati in base a una sorta di “book” delle loro prestazioni che si arricchisce nel tempo e dimostra chiaramente il livello e la qualità del rendimento individuale. Indubbiamente una valutazione di questo tipo è più indicativa dei successi futuri nella vita di una persona rispetto a un test a risposta multipla.2

Levine pone la valutazione come una questione qualitativa, non quantitativa; secondo questo principio, l’attenzione si sposta dal rendimento e dalle conoscenze alle competenze dell’alunno, ovvero la capacità di porre in relazione le conoscenze acquisite per realizzare un prodotto alternativo, nuovo e originale. Andrò ad approfondire questo concetto in seguito; per il momento, Levine aiuta a introdurre l’idea che la valutazione permette all’individuo di formare una scala di valori personali su ciò che è giusto e sbagliato, su ciò che merita premi e ricompense… in pratica, che lo studente dovrebbe essere capace di fare esperienza della valutazione per valorizzarsi e non viverla come un giudizio insindacabile che lo definisce come persona.
Al quinto anno di scuola superiore mi trovai in una situazione per me paradossale, almeno fino a quel momento: alla prima interrogazione di filosofia, il professore scoprì che adoravo il cantante Giorgio Gaber, da lui molto apprezzato. Le interrogazioni successive furono incentrate sulla dimostrazione delle tesi dei filosofi studiati… utilizzando i testi di Gaber. Un caso simile accadde con la professoressa d’italiano: durante la lezione sul Carducci, mi resi conto che il suo Inno a Satana3 presentava somiglianze linguistiche e di strofe con La locomotiva4 di Guccini. Le esposi i miei dubbi sul fatto che potesse esserci un’influenza letteraria nel testo della canzone e lei mi propose di fare una ricerca in merito e di esporla alla classe.

In entrambe le materie raggiunsi il massimo della votazione; ebbi miglioramenti anche nelle altre discipline, grazie ai professori che ci permettevano di applicare i nostri interessi ai loro settori d’insegnamento. Il tutto senza ansia, paura o vergogna: all’esame di maturità, di fronte alla commissione esterna, arrivai preparata e libera da qualsiasi tensione.


Perché? Perché per un anno io non ero più stata un numero sul registro, non valevo “3”. Ero stata, invece, una persona che aveva potuto applicare le proprie conoscenze esterne al programma scolastico; mi era stato permesso di mostrare – e avevano valutato – le mie competenze, non i risultati di un test a crocette o la singola prestazione in fase di verifica.


In virtù di questo: cos’è la valutazione? Non è una verifica, con cui troppo spesso la confondiamo, non è una fase del percorso didattico, bensì un’attività continua e pervasiva dell’intero percorso scolastico, il cui fine è comprendere come e quanto le esperienze e le conoscenze dello studente entrano in relazione e si sviluppano in competenze, che contribuiscono a costruire l’immagine di sé dello studente e fungono da strumento per l’interpretazione della realtà.

Un giudizio di troppo

Alle scuole medie, a causa della mia grande inclinazione verso le materie teoriche, nonché a una certa pigrizia, sono sempre stata bollata come il classico elemento che va bene a scuola, ma è scarso in educazione fisica. Entrata alle superiori lo riferii alla mia nuova professoressa che, in risposta, mi rise quasi in faccia: “Hai un fisico da nuotatrice, non puoi non andare bene in ginnastica”.


Era la prima volta che qualcuno mi diceva che potevo andar bene sia nelle materie convenzionali sia nelle discipline motorie. La mia professoressa era stata in grado di andare oltre l’effetto alone, oltre il giudizio che altri prima di lei mi avevano appiccicato addosso e di cui mi ero convinta, e ha permesso alle mie potenzialità di emergere.


Come si può intuire, la volontà di soddisfare le aspettative della mia insegnante mi spronò a migliorare; come me, anche tanti altri studenti hanno avuto modo di sperimentare questo legame tra fiducia o sfiducia del docente nelle proprie capacità.

Uno studio di Masoni5 ha posto in evidenza come gli studenti ritengano “antipatici” i professori che prestano loro meno attenzione, che li ignorano, che non si preoccupano se hanno capito o meno la spiegazione, o che li maltrattano durante le interrogazioni, oppure ancora che assegnano voti più bassi rispetto a quelli che gli studenti ritengono di meritare. Al contrario, i professori percepiti come “simpatici” sono coloro che sorridono, che interpellano mentre spiegano, che aiutano e fanno domande con gentilezza e – dettaglio da non sottovalutare – si ricordano il nome dello studente… in pratica coloro rendono i propri allievi partecipi della vita in classe.

Si può serenamente affermare che il coinvolgimento risulta la chiave dell’attenzione in classe. Se l’insegnante è in grado di creare quella tensione cognitiva, cioè l’interesse che porta l’alunno a incuriosirsi della materia, stimolando la sua mente al ragionamento, il ragazzo ne uscirà motivato e pronto a dare il massimo di sé, a sfruttare, quindi, il suo potenziale.


Se, all’opposto, il docente non si aspetta dagli studenti il raggiungimento di alti obiettivi e si concentra sulla memorizzazione, sull’apprendimento di elementi isolati e sul sistema d’attribuzione dei voti – magari affermando in continuazione che il lavoro degli alunni sarà soggetto a valutazione o che devono prepararsi per una verifica – l’alunno sarà più portato a rispondere ad aspettative minime, nozionistiche, mnemoniche. Non si verificherà, in sintesi, l’elaborazione di un concetto, bensì si andrà solo ad alimentare il disinteresse verso la disciplina, quando non proprio il rifiuto verso la stessa.


Ciò avviene in quanto, sin dall’inizio della scuola dell’obbligo, lo studente si prepara a rispondere a delle aspettative, a delle richieste, siano esse dei genitori o degli insegnanti: il risultato finale rimane l’obiettivo da raggiungere.


Nel momento stesso in cui un insegnante stabilisce dei criteri, nell’istante in cui decide quali compiti sono oggetto di valutazione, invia un messaggio: questo è importante, questo no. Crea una scala di valori, di conoscenze primarie e secondarie a cui lo studente risponderà dando importanza alle prime a discapito delle altre.


Tuttavia la valutazione non è mai oggettiva: se così fosse, si occuperebbe solo di raccogliere dati, analizzarli e interpretarli. Essa risente dei preconcetti della cultura e della società di riferimento e, tramite questi, crea un sistema che condiziona ciò che viene misurato. Inoltre, stabilisce un “effetto alone”, la così detta “prima impressione” che l’alunno fa all’insegnante.

Hofer6 sosteneva che l’opinione iniziale di un insegnante rispetto agli allievi si forma in base al riscontro di quattro dimensioni globali:

  1. abilità mentali;

  2. motivazione allo studio;

  3. comportamento sociale;

  4. stabilità emozionale.

Con la catalogazione della prima conoscenza superficiale, gli insegnanti classificano gli studenti in “buoni”, “mediocri” e “cattivi”. Queste prime impressioni possono modificarsi nel corso dell’anno, ma sono comunque vittima dell’effetto Rosenthal, ovvero il concetto secondo cui un’affermazione si realizza in conseguenza al fatto di essere stata compiuta.


In altre parole, se ci assicurano che una cosa andrà male, il potere della nostra convinzione in merito ci porterà a sabotarci da soli. Questo principio si applica a ogni relazione umana e, di conseguenza, anche alla scuola e al rapporto alunno/insegnante; si manifesta sia nel clima socio-affettivo in aula, sia nell’ambito delle schede di valutazione in cui l’alunno viene “classificato” secondo determinati criteri che fungeranno da guida per i docenti degli anni successivi.


Tale influenza è evidente nel momento di passaggio da una scuola all’altra (per esempio dalla primaria alla secondaria): il professore riceve, al momento della formazione delle classi, le schede di valutazione degli studenti iscritti. Una sfilza di “sufficienti”, “buoni”, “distinti”, “ottimi”, o di numeri: uno, due, cinque, sette, dieci… si snoda davanti ai suoi occhi: lui non conosce quei ragazzi, non li ha mai visti in faccia. Non sa niente di loro, a parte quanto scritto su quelle schede compilate da chi li ha istruiti prima di lui; tuttavia in base a quei dati si farà già un’idea dell’alunno. Saprà che Marco Rossi è uscito con 6 e un giudizio negativo sulla sua socialità: “Ha difficoltà a inserirsi in classe, non partecipa attivamente alle lezioni”, mentre Francesca Bianchi, uscita con 8, è “una ragazza cooperativa e con forte spirito d’iniziativa”.


Non è detto che i giudizi su Marco e Francesca siano sbagliati, ma di certo sono relativi a quel periodo specifico della loro vita; magari Marco, se troverà un insegnante in grado di guardare oltre quel giudizio, diventerà immediatamente partecipe e curioso, mentre Francesca comincerà ad applicarsi meno. Il “questo non lo so fare” è il peggior nemico dei ragazzi, il tarlo oscuro che divora dall’interno l’autostima e, questo piccolo insetto famelico, viene messo nel nostro orecchio sin da piccoli, non appena ci sottopongono al primo giudizio, alla prima, tragica valutazione di noi stessi.


Crescendo, rimane lì, a sussurrarci parole di sconforto, a ricordarci che, un tempo, quella cosa non la sapevamo fare. Allora perché dovremmo riuscirci adesso?


Lo spettro del giudizio resta, aleggia sulle spalle dell’individuo come un fantasma non troppo simpatico, con cui si impara a convivere. E questo giudizio diventa parte di noi, ci permea, finché non ci convinciamo che è effettivamente vero. Perché, se lo dicono tutti, non può essere falso. Giusto?


Falso.

Di ventisei ragazzi che avevo in classe ce ne avevo quindici che avevano dei grossi problemi, però quattro ne avevano enormi. Quando nacque la storia delle schede io dovevo dire che cosa erano questi ragazzi e dissi al direttore: “Non te lo scrivo perché io faccio qualcosa relativo a questo momento, ma questo documento rimane! E chi lo legge tra un anno dirà che questo ragazzo è un mentecatto, o è questo, o è uno schizofrenico. Che gli facciamo? Perché lo devo bollare?”.7


Nell’ultima sua intervista Alberto Manzi pone l’accento sul danno arrecato agli alunni da un giudizio scolastico parziale, relativo solo a un aspetto e a un periodo temporale della loro vita. All’epoca (1975) la sua opinione apparve stramba, eccentrica… in qualche modo perfino “sovversiva”. Difatti, gli fu sospeso per quattro mesi lo stipendio.


La cosa buffa è che l’anno successivo le schede le dovevo fare, ma io non le ho fatte. Feci un timbro: “Fa quel che può quel che non può non fa”. Un giudizio estremamente preciso, scientificamente esatto.


Fui denunciato alla Procura della Repubblica. Il giudice si mise a ridere e mi fa: “Maestro, ma lei glielo scrive col timbro, li prende in giro”.


Allora il secondo anno lo scrissi a mano.


Io vorrei vedere come la gente possa fare una valutazione quando ha dei bambini che hanno dei grossi problemi dentro una classe. Questa è la realtà e oggi i bambini i problemi ce li hanno molto più grossi di quelli che erano una volta. O eravamo stupidi noi, che non li capivamo, o sono cambiate le cose e i problemi, o è la scuola che crea problemi ai bambini.8


Oggi numerosi studi si orientano verso un sistema educativo incentrato più sulla valutazione di compiti a lungo termine, che siano creativi e poco ripetitivi, in un clima propositivo e in assenza dello spettro del giudizio, così da stimolare, oltre alla creatività, anche la motivazione dello studente e la sua memoria a lungo termine9.

Di certo, se proprio non possiamo mettere a tacere il nostro Grillo Parlante personale che continua a cantilenare un canzonatorio: “Non lo sai fare” (di solito con la voce di quell’insegnante che ci ha detto che: no, non siamo proprio portati per la matematica), possiamo decidere di ignorarlo per un po’ e ripetere: faccio ciò che posso, ciò che non posso non faccio.

La valutazione scolastica
La valutazione scolastica
Giulia Manzi
L’influenza del giudizio sulla motivazione dei nostri figli.Un libro rivolto a genitori e insegnanti, per ripensare la scuola e approcciarsi al mondo degli studenti da un altro punto di vista. La valutazione scolastica affronta lo scomodo tema dei voti e quanto la mala comprensione di essi influenzi la crescita dello studente, non solo a scuola, ma nella vita.Partendo da esperienze personali, Giulia Manzi ripercorre l’analisi dei sistemi e dei criteri di giudizio scolastici, il rapporto tra famiglie e insegnanti e il bisogno di una scuola che ponga al primo posto l’alunno e le sue esigenze d’apprendimento e sviluppo personale.Un libro rivolto agli adulti, genitori o insegnanti che siano, per approcciarsi al mondo degli studenti da un altro punto di vista. Conosci l’autore Giulia Manzi, figlia di Alberto Manzi (il maestro della TV in “Non è mai troppo tardi”), approfondisce tematiche legate alla pedagogia scolastica a partire dagli studi universitari e tiene corsi di formazione per docenti.