Come passare dal riflesso alla riflessione?
Bisogna innanzi tutto prendere la decisione, che può essere personale e tacita. Ma ci sono dei benefici se lo si dichiara pubblicamente e con solennità. Un lettore de La sculacciata mi ha detto di aver riunito i suoi bambini, dopo aver letto il libro, e di aver detto loro: “Dunque, questo libro mi ha convinto che non bisogna sculacciare. Ho quindi deciso di non picchiarvi più”. “E ha funzionato”, mi ha detto. L’ho rivisto un anno dopo: “Allora, funziona sempre?” “Sì, sempre!” Altra testimonianza di una candidata della lista Genitori coscienti: “Il giorno in cui la famiglia ha vietato qualsiasi attacco all’altro (schiaffi, sculacciate, sberle), Elfie ha annunciato: “Va bene, non picchierò più il mio fratellino” e ha cambiato radicalmente comportamento. Hanno imparato a battersi per divertimento. A volte ci ricaschiamo, ma non è niente al confronto…”.
Una volta presa la decisione di non picchiare e, se possibile, di non punire, la difficoltà consiste nel decondizionarsi dal riflesso acquisito, in realtà estraneo a noi stessi, e di ritornare interiormente sui propri passi, allo stesso modo in cui si torna a un bivio quando si è sbagliato strada per ripartire nella giusta direzione. Bisogna giungere a trovare il tempo di opporre la riflessione al riflesso, il pensiero personale alla reazione spesso telecomandata dopo le prime botte ricevute durante la nostra infanzia. Ricordarsi che, come tutti i genitori, desideriamo che i nostri figli apprendano a controllarsi e a non picchiare i loro fratellini o sorelline, può aiutare anche noi a controllarci.
Qualche inspirazione profonda “con la pancia”, che ha come effetto di abbassare e distendere il diaframma, può aiutarci a rientrare in noi e a prendere un po’ la distanza dalla situazione, nel momento in cui rischiamo di trovarci “fuori di noi”. Anche la pratica dello yoga o di un’altra tecnica di rilassamento può aiutarci. Per prendere questa distanza interiore possiamo poi, molto semplicemente, prendere una distanza esteriore e allontanarci dal bambino: uscire dalla stanza, ad esempio. Lo psicologo canadese Daniel Lambert suggerisce di adottare un gesto di cui spiegheremo il senso ai nostri figli (ad esempio, la mano aperta come a dire “Stop!”) che significa che si sta rischiando di non controllarsi più e che è necessario un cambiamento immediato per non venire picchiati. Tale gesto può servire anche a evitare di pronunciare delle parole che, in un momento di tensione, rischiano di essere violente e accusatorie. Lo scopo è quello di trovare un comportamento che smonti nel bambino il riflesso che ha cominciato ad acquisire in risposta al nostro atteggiamento. L’indifferenza a certi comportamenti esasperanti ma senza una vera gravità, le urla per esempio, può essere un altro mezzo per dimostrare questo tipo di riflesso. Il bambino, che sia stato abituato a reagire ad ogni momento e non può fare a meno di provocare questa reazione, vi rinuncia spesso molto rapidamente quando vede che il suo comportamento non produce più alcun effetto. Questo richiede da principio un po’ di tempo e di sforzi, soprattutto se l’abitudine di picchiare è ormai consolidata, ma in seguito, mentre i riflessi si affievoliscono, le soluzioni arrivano più facilmente.
Per esempio: “Maxime ci mette troppo a mangiare, non mangia abbastanza!”. Riflesso condizionato: lo sgrido, urlo, e gli dò una sberla. Riflessione: “Ma davvero non mangia? In effetti sta bene, è pieno di vitalità, dunque mangia. È davvero troppo lento a mangiare? Sì, si trascina. Come posso fare per evitarlo? Forse servirsi ma non servirgli da mangiare. Non per punirlo, ma perché dopo tutto non è obbligato ad avere fame nello stesso mio momento. Aspettare che sia lui a chiedere. Al limite, se non lo chiede, lasciargli saltare il pasto. Se lo chiede, servirgli solo una piccola quantità, due o tre forchettate. Aspettare che chieda per servirlo nuovamente e dargli meno di quanto penso che mangerà. In altre parole, smontare il riflesso condizionato dell’ordine, della disobbedienza e della punizione, e ripartire dalla doppia base del bisogno di mangiare sentita dal bambino, e dal bisogno della madre o del padre di vedere il bambino mangiare senza farne un dramma.
“Benoît non riesce a fare a meno, quando mangia con sua sorella, di fare dei rumori irritanti, di gridare, cosa che mi fa uscire dai gangheri, in particolare quando siamo da amici o parenti!” Riflesso condizionato: gli dò una sberla o lo chiudo in camera. Riflessione: quale bisogno personale fa sì che io non sopporti questo comportamento? Quello di mangiare tranquilla e non in mezzo al baccano; quello che i miei bambini non disturbino le altre persone che andiamo a trovare. Da parte sua, quale bisogno spinge Benoît ad avere questo comportamento? Da una parte la sua normale e naturale esuberanza; dall’altro, senza dubbio, le mie reazioni che hanno sviluppato in lui un riflesso condizionato di provocazione. È probabile che ci siano parecchie soluzioni.
In questo caso, far mangiare i bambini prima degli adulti. Consumare i pasti in un momento in cui si racconta una storia a Benoît. Concedere un momento di gran caos prima dei pasti, magari partecipandovi, ma chiedere ai bambini di parlare tranquillamente al momento del pasto. Chiedere al coniuge, se è meno “reattivo”, di darvi il cambio per qualche momento durante il pasto e andare a fare qualcos’altro per compensare, giusto il tempo di smontare il riflesso.
Altro esempio: “Hervé non ascolta. Bisogna sempre ripetere!”. Riflesso condizionato: quando gli ho chiesto tre volte di mettersi le pantofole e non l’ha fatto, mi precipito nella sua stanza per dargli uno sculaccione. Riflessione su me stesso e sulla situazione: “Ma è vero che non ascolta? Ci sono delle cose che ascolta benissimo e che fa subito. Cos’è che non ascolta? Gli ordini che lo disturbano, che ai suoi occhi lo infastidiscono. Anch’io non amo che mi vengano dati degli ordini noiosi o che mi interrompano nelle attività che mi piacciono. È davvero necessario che porti le sue pantofole? Se siamo in estate, non gli farà male camminare a piedi nudi. Se fa freddo, e ha la tendenza a raffreddarsi, bisogna davvero che se le metta.” Il problema è meglio inquadrato. Non si esprime più un giudizio su Hervé, ma ci si chiede come fare affinché prenda l’abitudine di mettere le pantofole. Sta a me dare prova di immaginazione per trovare un’astuzia: delle pantofole divertenti a forma di topolino, una storia in cui gli racconto che i suoi piedi sono dei coniglietti che amano stare al caldo dentro alla loro tana, ecc.
Altro esempio: “Gaëlle è una musona, frigna per niente”. Riflesso condizionato: quando Gaelle piange, non riesco a trattenermi e le dò una sberla. Riflessione sulle mie intenzioni, su me stesso e su Gaëlle: “Davvero Gaëlle è musona? Non posso sapere se è la sua natura, forse è un momento passeggero. È vero che piange per niente? È vero che in questo momento piange molto. Ma esattamente in che occasione? Forse ha qualcosa che non va. Ma cosa? Cercherò di parlarne con lei in un momento in cui sta bene.
Forse è gelosa del suo fratellino… E d’altro canto, perché i suoi pianti mi disturbano così tanto? Forse sono disturbato io stesso per un motivo che non ha niente a che vedere con Gaelle?”. La moglie dell’autore di questo libro ha utilizzato, in un momento in cui aveva questo tipo di difficoltà con uno dei nostri figli, un processo di visualizzazione e riprogrammazione positiva. Consisteva nel concentrare il suo animo sul bambino così com’era in altri momenti: di buon umore, gaio e sorridente, e a mettersi lei stessa, anche se il bambino era imbronciato, nella disposizione che aveva allora. Il risultato, positivo, non ha tardato a manifestarsi.