capitolo iv

Come si può educare senza picchiare?

Quali sono i princìpi da seguire per guidare un bambino senza picchiarlo?

I princìpi sono estremamente semplici e alla portata di tutti. Le difficoltà cominciano solo con la messa in pratica. Il principio di un’educazione senza violenza si riassume in tre parole: rispettare il bambino. La messa in pratica di tale rispetto è anch’essa molto semplice da definire: trattare il bambino come vorremmo che lui trattasse noi. L’essenziale di ciò che il bambino apprende, lo impara come allo specchio, non per imitazione di quello che vogliamo che impari, ma di ciò che facciamo a lui. Vogliamo che sappia amare? Amiamolo. Che sappia esprimere la tenerezza? Siamo teneri con lui. Che rispetti gli altri? Rispettiamolo. Che sia paziente e tollerante? Siamo pazienti e tolleranti con lui. Che, una volta cresciuto, non sia violento? Non infliggiamogli alcuna violenza. Che abbia una personalità autonoma? Rispettiamo al massimo la sua autonomia. Per capire tutto questo non serve alcuno studio approfondito.

Ma allora dove sta la difficoltà?

La difficoltà dell’educazione sta, certamente, nel fatto che vivere con un bambino, soprattutto se di carattere vivace e attivo, e se si vive in condizioni difficili, può essere non solo faticoso, ma francamente spossante. A maggior ragione se i bambini sono più d’uno, e ancor più se la madre, più spesso che il padre, deve occuparsene da sola. La madre, o chi per essa, non appartiene più a se stessa e può provarne una grande frustrazione, anche se ama suo figlio. Inoltre le attuali condizioni di vita, senza alcun dubbio molto più confortevoli rispetto alla condizioni di vita dei cacciatori-raccoglitori della preistoria, costringono i genitori a ritmi di vita stressanti tanto per loro stessi quanto per i figli. Ma la difficoltà che si troverà nel non picchiare risiede non tanto in queste difficoltà obiettive, quanto piuttosto al passato dei genitori e al fatto che è raro che tutti i loro bisogni siano stati rispettati quand’erano piccoli. Allo stesso modo è raro che a loro volta siano in grado di rispettare tutti i bisogni dei loro figli. Come scrive Alice Miller,

dobbiamo accettare di vedere che un tempo siamo stati vittime per poter un giorno uscire dal gioco vittima-carnefice e abbandonare l’uno e l’altro ruolo.1

È necessario quindi riflettere sulle capacità e i bisogni fondamentali del bambino e chiederci se, durante la nostra infanzia, questi bisogni siano stati rispettati. Alcuni genitori non sanno cullare i neonati perché neanche loro sono stati cullati. Oppure trascurano il figlio perché anch’essi sono stati trascurati. Esserne coscienti è una cosa importante e, nel caso, farsi aiutare da uno psicologo a superare questa difficoltà così da non far subire a nostro figlio oggi le mancanze che noi stessi abbiamo subìto in passato.

Quali sono i bisogni fondamentali del bambino?

Per identificarli è sufficiente riflettere a ciò che il corpo della madre offriva al bambino prima della nascita. Un luogo tiepido e avviluppante? Gli sono necessari lo stesso calore, lo stesso abbraccio, la stessa tenerezza adattata alla propria tenerezza, cioè alla sua fragilità e sensibilità. Una protezione contro i traumi e gli urti? A lungo gli occorrerà la stessa protezione, che significa evidentemente sia non mancare alla funzione protettrice di genitori, sia non picchiarlo. Un luogo dove nutrirsi? Gli è necessario un sostituto del cordone ombelicale: il seno della mamma o, in mancanza, un biberon, e l’assicurazione che qualcuno provveda ai suoi bisogni per molti anni. Una “pulizia” naturale assicurata dalla circolazione sanguigna? Per anni avrà bisogno che i genitori assicurino la sua pulizia fintanto che non sarà capace di provvedervi da sé. Una relativa libertà di movimento? Gli serve la stessa libertà relativa il cui bisogno crescerà di pari passo con il suo sviluppo. Una stretta comunicazione ed empatia (“condividere le emozioni”) con sua madre? Avrà bisogno per tutta la vita di empatia con gli altri, e saprà condividere le emozioni altrui se coloro che lo circondano durante l’infanzia sapranno condividere le sue. Il fatto di essere biologicamente un individuo unico? Chiederà per tutta la vita di essere riconosciuto e accettato come un individuo unico. Tali sono i costituenti di “questo tempo del secondo uovo” di cui parla Marie Thirion nel suo libro Primi momenti, grandi scoperte2, assolutamente indispensabile al bambino durante i primi anni. È proprio nella misura in cui rispondiamo ai bisogni del bambino che questi può comprendere che allo stesso modo vanno rispettati anche i bisogni dei genitori.


Pierre Lassus esprime in altro modo lo stesso concetto quando definisce il ruolo dei genitori per mezzo di questa formula mnemonica: Proteggere, Provvedere, Permettere. Queste sono esattamente le funzioni che il corpo della madre assicura durante la gravidanza. Il “corpo” famigliare che circonda il bambino deve assicurare le stesse funzioni, alle quali bisogna aggiungere quella di “Proporre dei modelli di comportamento”, con la parola e soprattutto con l’esempio.

Il lassismo non ha conseguenze più gravi rispetto a un’educazione amorevole ma vigile, accompagnata da qualche sberla o sculacciata data al momento giusto?

In realtà, sculacciata e lassismo vanno spesso di pari passo. Capita di frequente che i genitori manchino di coerenza e diano schiaffi senza esigere veramente che il bambino si conformi alle regole dategli. D’altra parte, l’utilizzo di metodi violenti per far obbedire i bambini può dare risultati fino a una certa età, ma a partire dal momento in cui il bambino può uscire in strada, o scappare di casa, oppure quando la sua statura e la sua forza superano quelle dei genitori, questi si trovano senza risorse. Il bambino, che è stato abituato a comportarsi solo in funzione delle sanzioni che riceveva, si trova senza bussola interiore e abbandonato a qualsiasi influenza. I genitori sono ridotti al lassismo e all’impotenza proprio nel momento in cui gli adolescenti hanno più bisogno di affetto e di presenza.


L’alternativa dunque non è tra sculacciate o lassismo. Ciò di cui i bambini hanno bisogno è, secondo la formula di Steve e Shaaron Biddulph3, dell’accoppiata gemella di amore-tenerezza e di amore-fermezza. Amoretenerezza che non consiste nel lasciare fare tutto ai bambini. E amore-fermezza che mette al bando non solo le botte, ma anche la violenza verbale, i giudizi e le minacce. Più avanti ne vedremo degli esempi.

Ma il bambino non ha bisogno anche di divieti?

L’idea che il bambino abbia bisogno di divieti è sostenuta di frequente da qualcuno, in particolare dagli psicoanalisti, come se il divieto fosse un bene in sé. Per costoro, se non esistessero divieti giuridici e obiettivi nella legge, bisognerebbe praticamente inventarli. Essi pensano che il bambino, animato da pulsioni pericolose, debba vedersi imporre dei limiti ferrei.


È certo che bisogna informare il bambino dei divieti esistenti nella società in cui vive. Deve conoscere il pericolo che corre nell’infrangerli. Ma questo non significa che i genitori debbano sempre giustificarli. I genitori che vivono in una società piena di un’infinità di tabù devono informare i figli, ma non devono per forza imporne il rispetto e anzi sarebbe auspicabile che, se sono assurdi, gliene mostrassero l’assurdità. Al di fuori di ciò, i soli divieti che è opportuno infondere nel bambino sono quelli che riguardano il rispetto degli altri, in special modo dei più deboli. Ma essi vengono essenzialmente insegnati attraverso il modo in cui trattiamo il bambino. È raro che un bambino amato e che non ha mai imparato a proprie spese il gesto stesso di picchiare, picchi gli altri bambini, e non c’è bisogno di vietarglielo. O se alcune volte lo fa per imitazione degli altri, di solito è sufficiente una spiegazione perché smetta di picchiare. Per quel che riguarda il divieto dell’incesto tra fratelli e sorelle, che in effetti va sorvegliato, sembra che venga trasgredito soprattutto nelle famiglie in cui se ne parla poco, o in cui l’atmosfera sia erotizzata dai genitori stessi quando questi non sanno differenziare la tenerezza e gli scopi dell’amore a composizione erotica dalla tenerezza e dagli scopi dell’affetto, o ancora quando uno dei figli abbia subìto egli stesso abusi sessuali o maltrattamenti che lo spingano a stabilire dei rapporti di potere sui fratelli e sorelle. Ma in una famiglia in cui la diversificazione tra erotismo coniugale e affetto è corretta, risposte semplici nel momento in cui i figli pongono domande, e il solo fatto per i bambini di essere allevati assieme, sono già di per sé sufficienti a evitare il rischio dell’incesto, inibendo, come tra i primati, l’istinto sessuale riguardo ai fratelli e sorelle.

Non picchiando i bambini, non rischiamo di farne dei piccoli despoti?

È falso credere che picchiando un bambino gli si impedisca di diventare un reuccio o un piccolo despota per gli altri. Molti bambini reagiscono alle botte con la sfida e l’arroganza e diventano dei veri e propri tiranni, non per i genitori ma per i loro fratelli e sorelle e per il prossimo. D’altra parte, il metodo del bastone è spesso associato all’incoerenza e al lassismo. La cosa che permette ai bambini di diventare dei giovani e poi degli adulti rispettosi degli altri è il fatto di aver vissuto con degli adulti che li rispettassero e che si rispettassero. Il bambino acquisisce in tal modo naturalmente e senza che lo si debba punire, o a fargli continuamente la lezione, la capacità di sentirsi uguale agli altri e non superiore, né inferiore a loro.

Picchiando un bambino non lo si prepara alle difficoltà della vita?

Ciò che prepara un bambino ad affrontare le difficoltà della vita sono le buone fondamenta che gli permettiamo di stabilire, rispettandolo lungo tutto il corso della sua infanzia e rispondendo al suo bisogno di affetto. Sono questi gli strumenti che gli daranno basi solide, una affettività equilibrata, un’intelligenza lucida, un’immaginazione fertile grazie alle quali potrà superare le difficoltà, qualunque esse siano. Picchiarlo potrà solo condurlo a diventare lui stesso un elemento di “durezza della vita”.

Perché si rischia di venire indotti a picchiare?

Più avanti vedremo le difficoltà insite nel comportamento stesso del bambino, e le risposte che gli si può dare. Ma bisogna innanzi tutto essere coscienti che è cosa assai rara essere preparati al ruolo di padre o di madre. Spesso si ha come unica esperienza l’educazione ricevuta, cioè si è preparati a educare picchiando, più o meno forte, a seconda della violenza delle botte ricevute. Ci si porta dietro questa abitudine inscritta nel corpo e nell’animo. Educare il proprio o i propri figli senza picchiarli non va dunque da sé. Sarà più facile se non si è mai stati picchiati. Ma anche in questo caso, l’esempio di altri genitori che picchiano i figli, l’accettazione generale degli schiaffi e sculacciate nella società o particolari difficoltà nelle quali ci si trova con i propri figli possono portare i genitori che non sono mai stati picchiati (o che non se ne ricordano, ma i loro neuroni sì che lo ricordano!) a lasciarsi andare alla pratica corrente.

Perché bisogna vietare di picchiare?

Quello di genitore è un ruolo a rischio. In tale veste si dispone di un potere enorme sul bambino e chi dice “potere” dice “rischio di abuso di potere”. Quando guidiamo un’automobile, siamo a bordo di un proiettile pesante, veloce e potente, che può causare incidenti mortali se non viene condotto con prudenza o se non viene rispettato il codice della strada. In quanto genitori, siamo esseri pesanti, rapidi e potenti che possiamo provocare, fisicamente e moralmente, incidenti mortali in un bambino. Dobbiamo quindi farci, visto che la società non l’ha ancora realizzato, un codice della strada per genitori che permetta di vivere con i bambini, senza opprimerli né ferirli. Tutto questo non avviene da sé, se a nostra volta siamo stati oppressi e feriti.

Il metodo migliore non sarebbe di allevare i propri figli “come ci si sente”?

È ciò che vorremmo poter dire. Purtroppo, è raro che la nostra educazione ci abbia permesso di essere completamente noi stessi. Le nostre reazioni spontanee non sono sempre davvero personali, soprattutto nel campo educativo. Quando picchiamo un bambino, siamo davvero noi che picchiamo? O è nostra madre, o nostro padre, che picchia attraverso di noi?

Vietare di picchiare non vuol dire rinunciare alla propria spontaneità e non essere naturali col bambino?

Accettare le punizioni corporali, accettare che un bambino venga picchiato, anche se leggermente, significa in effetti, al contrario, rinnegare se stessi. Significa approvare le botte che abbiamo ricevuto da bambini, per delle ragioni che non possiamo nemmeno conoscere e che, per quanto buoni siano stati i nostri genitori, hanno tutta la probabilità di essere cattive. Significa letteralmente rinnegare il bambino che si trova ancora in noi. Significa distogliere lo sguardo dalla propria sofferenza che non è mai stata presa sul serio. Significa prendersi gioco della nostra sofferenza, dei nostri pianti di bambini. Vuol dire guardare quei pianti con lo sguardo superiore dell’adulto persuaso di avere perfettamente il diritto di picchiare un bambino. Vuol dire amputarsi di tutta una parte di sé, di ciò che si ha di più prezioso: le nostre prime emozioni.


In tal modo, quando decidiamo di non picchiare, non stiamo imponendo un divieto a noi stessi, ma al riflesso condizionato acquisito fin dall’infanzia al momento dei primi schiaffi ricevuti. Non punire, non picchiare, significa riallacciare un legame con ciò che, in noi, è davvero noi stessi. Da bambini non ci piaceva venire picchiati e puniti. Decidendo di rompere con questa pratica, ridiverremo noi stessi, ritroveremo il nostro bisogno profondo di essere con gli altri, in particolare con nostro figlio, in una relazione di confidenza totale, di simpatia, d’affetto, quella stessa che apprezziamo con coloro che amiamo maggiormente, e che perderemmo se si mettessero a picchiarci.

Educare il bambino non consiste nell’inculcargli delle regole, per amore o per forza?

In realtà, per un lungo periodo il bambino non ha bisogno di alcuna educazione. Ha solo bisogno che degli adulti si prendano cura dei suoi bisogni, che lo proteggano e che gli permettano di svilupparsi. Scrive Marie Thirion:

Il rispetto di un bambino comincia da quello dei suoi ritmi spontanei e dall’ascolto di ciò che è prima di tutto. Il suo risveglio, la sua educazione verranno da lui, dalla domanda a se stesso, poiché il bambino felice, libero, tranquillo ha sempre voglia di conoscere e di evolversi4.

Su questo tema è interessante il libro di Chantal de Truchis L’Éveil de votre enfant5 e quello di Christiane Bopp-Limoge L’Éveil à l’enfant, Enfants/Adultes, Grandir ensemble6, che si ispirano all’esperienza della nursery del dottor Emmi Pikler a Budapest. Il doppio vantaggio di questo metodo di risveglio è di non mettere mai il bambino in situazione di sconfitta, e di permettergli di impiegare la sue capacità e di scoprire da solo le sue possibilità. Per di più tale metodo evita che il bambino salti delle tappe nel suo sviluppo, come per esempio gattonare, che sembra essere importante per alcuni apprendimenti. Infatti, come scrive lo scrittore statunitense Norm Lee, il bambino nasce “con il dono di acquisire da sé la disciplina” necessaria alla vita, sempreché abbia buoni modelli. Allo stesso modo bisogna avere fiducia in lui e accordargli la massima libertà compatibile con la sua sicurezza. Se il bambino, prima di camminare, cioè prima di essere obbligati a porgli dei limiti, è stato rispettato nei suoi bisogni, sarà più facile allevarlo senza punirlo quando saranno necessari degli obblighi.

Quali sono i comportamenti dei genitori che rischiano di generare conflitti?

Sono generatrici di conflitti tutte le relazioni in cui ci si pone male in rapporto al bambino. Il posto giusto per i genitori è probabilmente a fianco del bambino, né al di sopra né al di sotto, né troppo vicino né troppo lontano. Mettersi al di sopra del bambino significa stabilire con lui una relazione di potere. Ad esempio presentandosi come infallibili; giudicando il bambino; umiliandolo; offendendolo; dandogli degli ordini invece di invitarlo a fare le cose con lo stesso rispetto che ci si attende da lui; non lasciando al bambino libertà e tranquillità; tempestandolo di richieste; prendendosi gioco di lui; punzecchiandolo; esigendo da lui il rispetto senza a sua volta rispettarlo; pretendendo di “conoscere” il bambino, cosa che rischia di rinchiuderlo in una definizione esterna a lui stesso. Mettersi al di sotto del bambino significa mettersi in una situazione permanente di impotenza. Supplicare il bambino di fare ciò che deve fare; lamentarsi se non lo fa; dargli delle regole senza sorvegliare che le rispetti; non tener conto dei nostri personali bisogni. Mettersi troppo vicino al bambino significa non lasciarli spazio; esigere da lui costanti manifestazioni di affetto; non lasciargli del tempo libero; cercare di avere con lui una relazione esclusiva che lo intralci nelle relazioni con gli altri; “levargli l’aria”. Mettersi troppo lontano da lui significa trascurarlo; non accordargli del tempo; non cullarlo; non giocare con lui; non parlargli a sufficienza; non guardarlo; manifestargli freddezza. Un atteggiamento incoerente, a volte autoritario, a volte lassista, non è altrettanto raccomandabile. Dire e non fare; dire e fare il contrario di ciò che gli abbiamo detto (“Ah no! Non diciamo mai di no!”, oppure “Ecco, prendi questo! Così impari a picchiare un bambino più piccolo di te!”); dire una cosa e il suo contrario.

Quali sono i comportamenti dei bambini che esasperano maggiormente i genitori e come rispondervi?

I pianti e specialmente i pianti notturni del lattante. Risposte possibili: cercare la causa del pianto e rimediarvi; consolare, parlare dolcemente; cullare, cambiare posizione; darsi il cambio per stare accanto al bambino; dirsi (anche se le notti insonni sono lunghe!) che si tratta di un periodo che passerà e che non durerà a lungo. Alcuni genitori ricorrono al cosleeping (far dormire il neonato con i genitori, sia su un materasso posto a fianco del letto, sia nel lettone insieme ai genitori) e ritrovano così molta calma e piacere. L’umanità ha trascorso in tal modo le sue notti per millenni. Non è quindi il caso di criticare aspramente come alcuni fanno. Si può tentare questo metodo se si riesce a sostenerlo. Quando il bambino è più grande, si può ragionare assieme a lui: chiedergli perché piange; rimediare se possibile alla causa; non dirgli di non piangere perché potrebbe averne bisogno; evitare di dirgli “Non è niente!” quando ha davvero male. Se il bambino continua a piangere, se “si infuria”, se veramente è stato fatto tutto il possibile e se si hanno i nervi a fior di pelle, si può installare un “piangitoio”, cioè un angolo qualsiasi della casa (non certo uno sgabuzzino buio!) in cui il bambino abbia il diritto di andare a piangere e in cui si sia stabilito che vi resti finché non si sarà calmato; la porta è socchiusa ma mai chiusa a chiave, il luogo è luminoso ed è il bambino stesso che ne esce quando si è calmato; mai mandarlo in tono di punizione, ma dirgli in modo molto affettuoso la verità: il suo pianto vi stanca un po’ e se ha bisogno di piangere, può andare a farlo per tutto il tempo che vuole nel “piangitoio”. Niente gli impedisce di usare il piangitoio anche da sé, in quanto vede bene che non è un luogo di punizione. L’uso del piangitoio è molto diverso dal cosiddetto mettere in castigo (time out), raccomandato in America come un’alternativa alle punizioni corporali, e che consiste nel chiudere il bambino per un tempo limitato in rapporto alla sua età (un minuto per anno di età): si entra in tal modo nel sistema di punizione che sarebbe meglio, se ci si riesce, evitare completamente.

Questa proposta del “piangitoio”, che ho fatto nella prima edizione di questo libro, è sempre e comunque un ripiego, e mi è stato fatto notare che rischierebbe di dare al bambino l’impressione di non essere attenti alla sua sofferenza. La proposta di Steve e Shaaron Biddulph, di una “riflessione in disparte”7 mi sembra più positiva nella misura in cui si impone solamente al bambino di restare in un angolo della stanza in cui si trova e di riflettere sul modo di risolvere il suo problema. Non va presentata al bambino come una punizione ma come un momento di riflessione e fa davvero appello alla sua immaginazione. Bisogna poi che faccia seguito una discussione con lui.


I gesti violenti o aggressivi, dovuti a volte alla semplice esuberanza. Succede che il bambino picchi i suoi genitori con mani o piedi, dia pizzicotti, morda, stringa naso o orecchie, metta le dita negli occhi, ecc. Risposte possibili: le prime volte, il bambino ignora completamente di fare del male; per lui è un gioco come un altro e a volte una manifestazione di affetto. Christiane Bopp-Limoge scrive che “il fatto di mordere è un segno d’amore (…) il bambino morde colui che ama così come succhiava il seno di colei che amava (…) il bambino morsicatore che riceve un rimprovero può provare una grande sofferenza”8. Bisogna dunque spiegargli che non deve mordere e riconoscere la qualità non-aggressiva del suo slancio. Bisogna evitare di ridere del suo comportamento perché ne farebbe un gioco. Parlargli, anche se è solo un lattante e in apparenza non può capire. Non dirgli mai: “Smettila, sei cattivo!” ma piuttosto: “Mi fai male” o ancora meglio: “Io sento male quando fai così” (l’“io” che esprime le sensazioni e i sentimenti è compreso meglio rispetto al “tu” accusatore) e, se ricomincia, metterlo per terra ed allontanarsi dopo avergli spiegato il perché. Se queste piccole aggressioni si ripetono, bisogna cercare quale possa essere la causa scatenante (gelosia, problemi relazionali con qualcuno?). Se necessario, parlarne a un medico o a uno psicologo.

Se il bambino attacca, pizzica, morde il fratello o la sorella o altri bambini, oppure tira i capelli, si può tentare di fargli capire che quando si comporta così, viene respinto dagli altri. Per fare questo, si può preparare una scena un po’ teatrale e caricaturale, recitata in un momento in cui il bambino sembra dell’umore giusto per comprendere, e nella quale lui non interpreta il ruolo dell’aggressore ma della vittima, mentre il ruolo dell’aggressore viene svolto da uno dei genitori o da un fratello più grande. Uno dei genitori quindi si frappone fra loro e mette l’aggressore in un posto previsto per la messa in disparte e da cui non avrà diritto di uscire se non dopo aver promesso di non aggredire più il bambino, solitamente aggressore, divenuto vittima. In modo che capisca che ciò che viene fatto per proteggere coloro che di solito vengono aggrediti da lui verrà fatto anche se dovesse succedere a lui di essere aggredito. In seguito, se dovesse ricominciare, praticare con lui questa messa in disparte presentata senza arrabbiarsi, non come una punizione ma come una conseguenza del suo comportamento, che fa sì che si sia obbligati a proteggere quelli che lui attacca, allontanandolo.


Le imprudenze del bambino, i suoi gesti avventati provocano di frequente la paura dei genitori e, per via delle conseguenze, molte volte scatta lo sculaccione. L’esempio più spesso richiamato è quello del bambino che si precipita in mezzo alla strada senza guardare e a cui il padre o la madre, per paura, dà una sculacciata. Se il bambino tende ad avere delle reazioni impulsive, non è certo punendolo che lo si condurrà a essere più riflessivo. Tutt’al più si tratterrà per paura quando i suoi genitori saranno con lui. Ma quando non temerà di venire sculacciato, non si controllerà più. Risposte possibili: spiegargli che si è avuta paura per lui; spiegargli in cosa consiste il pericolo; dargli la mano per la strada finché non è capace di auto-controllarsi; insegnargli ad attraversare al passaggio pedonale facendogli un gioco dei pupazzetti rosso e verde che indicano quando si può attraversare. Se il bambino esce di casa per andare dai vicini senza avvisare la madre, che si è preoccupata perché non sapeva più dov’era, spiegargli di avere avuto paura perché lo si ama e che deve sempre avvisare quando esce. Al limite, installare vicino alla porta un segnale sonoro qualsiasi (campanella o fischio) destinato a questo uso e che avvisa i genitori dell’uscita di casa del bambino.


I danni causati volontariamente o involontariamente dal bambino sono un’altra causa di arrabbiatura dei genitori. Il bambino scrive con il pennarello sulla tappezzeria o sul pavimento, strappa e rovina la tappezzeria, fa cadere il vaso cinese del prozio, ecc. Il bambino, in genere, non ha alcuna cattiva intenzione. Esplora il mondo, fa esperienze: scollare la carta da parati è un’esperienza affascinante e spettacolare alla quale ognuno di noi si è lasciato andare. Rimedio: il primo principio è evidentemente di sistemare l’ambiente di vita del bambino in modo da mettere fuori portata tutti gli oggetti fragili ai quali teniamo e che non deve toccare, di chiudere a chiave gli armadietti in cui si trovano tali oggetti e togliendo la chiave affinché non li apra. In cambio si può lasciargli il diritto di prendere negli armadietti a lui riservati dei contenitori di plastica e lasciare che ci giochi. In tal modo, anche se il lavoro e gli spostamenti in cucina non sono semplificati, la tranquillità merita un tale prezzo. Per fare esperienza di disegnatore o pittore, preparare dei fogli attaccati con lo scotch al muro. Può essere necessario e prudente mostrare ai piccoli come non trapassare il bordo del foglio.


Il rumore. Di certo il silenzio non è il principale pregio dei bambini. Anche i bambini più calmi sono capaci di urlare in modo terribile per le orecchie di noi adulti. Per rimediare a questa difficoltà, si può già agire sull’ambiente e attenuare il più possibile le urla tappezzando di moquette pavimenti e muri. Si può cercare di abituare il bambino a gridare il meno possibile evitando noi per primi di gridare, quando parliamo al bambino o al nostro coniuge (il modo migliore per riportare la calma in una classe un po’ agitata consiste proprio nel mettersi a parlare per primi a voce più bassa). Si possono accordare al bambino dei momenti di sfogo, in cambio dei quali gli si può chiedere di esprimersi senza gridare per il resto del tempo. Si può, avendone la possibilità (ma per averla bisogna a volte volerlo intensamente) costruirsi un posto insonorizzato in cui si possa ogni tanto rifugiarsi mentre il coniuge si incaricherà di sorvegliare i bambini. Potrebbe essere necessario, se si è raggiunta la soglia di tolleranza personale, trasferirsi in un appartamento più grande o in una villa. L’autore di questo libro e sua moglie hanno sempre preferito sacrificare la gran parte del loro magro e unico stipendio di insegnante novizio in un affitto che gli permettesse di abitare in una villa, cosa che ha evitato molte situazioni di nervosismo con i loro cinque figli. Possiamo infine dire che il tempo del baccano non è molto lungo, che gli anni dell’infanzia rumorosa passano presto.

Gli scoppi d’ira. Nel suo libro che non finirò mai di raccomandare a tutti i genitori, Le emozioni dei bambini9, Isabelle Filliozat spiega che la collera, per quanto possa essere davvero pesante per i genitori, è una normale affermazione di bisogni e desideri del bambino. Rappresenta una normale tappa di quella che chiama il “lavoro del lutto”, che segue le inevitabili frustrazioni della vita di un bambino. Si tratta inoltre di un mezzo per il bambino di esprimere un sentimento, cioè rappresenta, malgrado le apparenze, un legame che il bambino stabilisce con chi gli sta accanto: “Conservare il legame, restare presenti, attenti, rispettosi.” L’autrice ci invita a non confondere la collera con la violenza. Compito difficile, poiché i nostri attacchi d’ira di quando eravamo bambini non sono stati ascoltati spesso e noi temiamo ciò che ribolle ancora in noi e che riconosciamo in nostro figlio. Possiamo quindi dire che uno scoppio d’ira va ascoltato poiché segnala un bisogno. Ma se la collera del bambino provoca violenze, di solito nei confronti dei suoi fratelli e sorelle, il ruolo dei genitori è anche quello di contenere la violenza del bambino e di impedirgli di nuocere.

I “capricci” al supermercato. Nei supermercati tutto è realizzato per suscitare i desideri dei bambini. Il rifiuto dei genitori di soddisfare questi desideri di solito genera pianti e grida che attirano l’attenzione di tutti i clienti e mette i genitori a una dura prova. La prevenzione consiste nel porre delle regole chiare su cosa accettiamo e cosa no. La maggior parte dei bambini accolgono di buon grado queste regole. Ma accade spesso che quando un bambino esprime la sua collera, sotto la pressione degli sguardi di chi sta attorno o talvolta spinti dalla forza dell’abitudine, i genitori ricorrono ai ceffoni. Come fare senza ricorrere a questo metodo? Tutto dipende dal vostro grado di resistenza personale agli sguardi di disapprovazione degli altri clienti. Se è abbastanza elevato da consentirvi di fare i vostri acquisti senza lasciare il negozio, potete dire a vostro figlio che vi dispiace molto di non poter acquistare tutto, ma che non è davvero possibile. Potete però sognare assieme cosa fareste se lui o lei avesse la macchinina o la bambola desiderata. Come ci giocherà se ad esempio la chiederà per Natale o per il compleanno. Il semplice fatto di immaginare di giocarci potrà per il momento bastargli.


Il “No!” continuo. È una fase che attraversano quasi tutti i bambini che, ad un certo punto, rispondono “No!” a qualsiasi nostra richiesta. In effetti, paradossalmente, si tratta di un modo di affermare se stesso attraverso la negatività, oltre che a un modo di fare eco ai nostri stessi “No!” che possono essere stati un po’ troppo frequenti. Una prevenzione contro il “No” continuo può essere, come abbiamo visto, di organizzare lo spazio giochi del bambino in modo tale da non dovergli dire “No” troppo spesso. Detto questo, non è sempre possibile evitare questo periodo particolarmente faticoso per i poveri genitori, soprattutto quando bisogna che tutti si vestano per andare a scuola alla mattina. Quando il bambino è entrato in questa fase, un metodo possibile è senz’altro quello di aspettare che risponda “No!” a una domanda che sarà forzato ad accettare spinto dal suo stesso bisogno. Ad esempio, se gli si chiede di venire a tavola: “No? Ah, va bene” e gli si leva il piatto, senza collera né soddisfazione apparente, come se fosse del tutto naturale. E si tiene duro, secondo l’età, finché tutti non abbiano già cominciato a mangiare e il bambino abbia avuto il tempo di temere di non mangiare affatto, oppure fino al pasto seguente se è un po’ più grande. In altri casi, si può associare il No proponendo un’alternativa al quale il bambino non possa rispondere sì o no. Per esempio: “Preferisci fare il bagno prima o dopo cena?” Oppure: “Vuoi che ti spogli io o vuoi farlo da solo?” L’astuzia, come tutte le astuzie, non funziona sempre, ma può servire qualche volta, a condizione che non sia ripetuta troppo spesso. Ma l’epoca dei “No” dura solo per un periodo…


Le baruffe. Ciò che è stato detto per il rumore vale in parte anche per le baruffe tra bambini, più faticose ancora perché i genitori hanno l’impressione di essere attaccati nel loro ideale di armonia e di famiglia unita. La tentazione forte è quella di regolare i conflitti con un doppio sculaccione inferto ai belligeranti. Risposte possibili: non cercare di reprimere le collere e i piccoli litigi che sono spesso giochi ed esperienze di relazione con gli altri in cui i bambini possono imparare a controllare le loro forze; accettare un certo grado di baruffa ma indicando ai bambini che non devono mettersi in pericolo (sento ancora mio padre dire: “Picchiatevi pure, ma non fatevi male!”). Creare un “angolo delle baruffe” con tappeti e cuscini. Non prendere le parti di uno o dell’altro; invitare chi si lamenta a cercare di regolare le cose con suo fratello, sua sorella o il suo amico. Ricordare ai bambini che voi non li picchiate (solo se è vero!) e dunque che, tranne che per divertimento, non devono, tantomeno loro, picchiarsi per fare male. Intervenire se vedete che le cose stanno peggiorando, dicendo ad esempio: “Ora basta, vi siete picchiati a sufficienza” e/o distraendo e proponendo un’altra attività da fare assieme a loro.

La disobbedienza. La disobbedienza è normale. Nessuno ama venire sottomesso a ordini. Anche se talora il ruolo del genitore consiste nel costringere i figli a fare delle cose che non hanno voglia di fare, questi non deve insegnare loro ad obbedire, cioè a fare delle cose senza approvarle né comprenderle. Una cosa è ottenere dal bambino che faccia ciò che gli si chiede, un’altra insegnargli a obbedire agli ordini che riceve, che li comprenda e li approvi oppure no. Bisogna quindi spiegargli molto presto durante l’infanzia perché si fa una tal cosa in un momento oppure in un altro. Bisogna ridurre al minimo ciò che siamo obbligati ad imporgli e che lui non ama. Inutile moltiplicare le occasioni di conflitto. Si può prendere finché è possibile l’orologio come alleato: “Quando la lancetta grande sarà in alto o in basso, sarà giunta l’ora del bagno”10. Per alcuni compiti, ad esempio mettere a posto i giochi, sarà necessario farlo assieme al bambino, tentando di trasformare l’operazione in gioco: “Adesso metteremo tutti i giocattoli a fare la nanna dentro alla loro casetta in armadio”. In alcuni casi, quando il bambino non è davvero deciso, bisogna spiegargli che non c’è tempo, e prenderlo per la mano o per il braccio, senza fargli violenza, ma fermamente e con un tono di voce ben deciso, dato che il bambino sente molto bene l’esitazione nella voce dei genitori. Ad ogni modo niente impedisce ogni tanto di fare delle eccezioni, ma precisando che sono eccezioni perché si ha un po’ più di tempo. Il principio resta sempre quello di rispettare i bisogni del bambino, restando fedeli con sé stessi e rispettando anche i propri bisogni.

È difficile non picchiare?

L’autore di questo libro e sua moglie, i quali, seguendo i consigli del dott. Spock, evitavano di picchiare i figli, non li hanno mai picchiati finché ne avevano solo due, due femmine. Le cose cambiarono con la nascita dei due successivi, due maschi. Il numero ha reso la situazione più difficile e, visto che Spock diceva che uno sculaccione può rischiarare l’atmosfera, c’è stata qualche punizione, qualche schiaffo. Ma l’educazione del quinto, nato sette anni dopo il precedente, è stata di nuovo molto facile, ed egli non ha mai ricevuto nessuno schiaffo né punizione alcuna. Le cose sarebbero andate senz’altro meglio seguendo il metodo sviluppato da Norm Lee che spiega di aver instaurato, con i suoi due figli e dal momento in cui ebbero la capacità di parteciparvi, delle “assemblee generali”11 ogni fine settimana, presiedute a turno da ciascun membro della famiglia, durante le quali la famiglia faccia un bilancio della settimana e in cui ciascuno, bambino o genitore, abbia il diritto di esprimere le proprie critiche e rivendicazioni così come le sue ragioni di soddisfazione. Tutta la famiglia cerca così di risolvere i suoi problemi. Questo metodo permise a Norm Lee di non sgridare mai né punire, e ancor meno picchiare, i suoi due figli.

Come passare dal riflesso alla riflessione?

Bisogna innanzi tutto prendere la decisione, che può essere personale e tacita. Ma ci sono dei benefici se lo si dichiara pubblicamente e con solennità. Un lettore de La sculacciata mi ha detto di aver riunito i suoi bambini, dopo aver letto il libro, e di aver detto loro: “Dunque, questo libro mi ha convinto che non bisogna sculacciare. Ho quindi deciso di non picchiarvi più”. “E ha funzionato”, mi ha detto. L’ho rivisto un anno dopo: “Allora, funziona sempre?” “Sì, sempre!” Altra testimonianza di una candidata della lista Genitori coscienti: “Il giorno in cui la famiglia ha vietato qualsiasi attacco all’altro (schiaffi, sculacciate, sberle), Elfie ha annunciato: “Va bene, non picchierò più il mio fratellino” e ha cambiato radicalmente comportamento. Hanno imparato a battersi per divertimento. A volte ci ricaschiamo, ma non è niente al confronto…”.


Una volta presa la decisione di non picchiare e, se possibile, di non punire, la difficoltà consiste nel decondizionarsi dal riflesso acquisito, in realtà estraneo a noi stessi, e di ritornare interiormente sui propri passi, allo stesso modo in cui si torna a un bivio quando si è sbagliato strada per ripartire nella giusta direzione. Bisogna giungere a trovare il tempo di opporre la riflessione al riflesso, il pensiero personale alla reazione spesso telecomandata dopo le prime botte ricevute durante la nostra infanzia. Ricordarsi che, come tutti i genitori, desideriamo che i nostri figli apprendano a controllarsi e a non picchiare i loro fratellini o sorelline, può aiutare anche noi a controllarci.


Qualche inspirazione profonda “con la pancia”, che ha come effetto di abbassare e distendere il diaframma, può aiutarci a rientrare in noi e a prendere un po’ la distanza dalla situazione, nel momento in cui rischiamo di trovarci “fuori di noi”. Anche la pratica dello yoga o di un’altra tecnica di rilassamento può aiutarci. Per prendere questa distanza interiore possiamo poi, molto semplicemente, prendere una distanza esteriore e allontanarci dal bambino: uscire dalla stanza, ad esempio. Lo psicologo canadese Daniel Lambert suggerisce di adottare un gesto di cui spiegheremo il senso ai nostri figli (ad esempio, la mano aperta come a dire “Stop!”) che significa che si sta rischiando di non controllarsi più e che è necessario un cambiamento immediato per non venire picchiati. Tale gesto può servire anche a evitare di pronunciare delle parole che, in un momento di tensione, rischiano di essere violente e accusatorie. Lo scopo è quello di trovare un comportamento che smonti nel bambino il riflesso che ha cominciato ad acquisire in risposta al nostro atteggiamento. L’indifferenza a certi comportamenti esasperanti ma senza una vera gravità, le urla per esempio, può essere un altro mezzo per dimostrare questo tipo di riflesso. Il bambino, che sia stato abituato a reagire ad ogni momento e non può fare a meno di provocare questa reazione, vi rinuncia spesso molto rapidamente quando vede che il suo comportamento non produce più alcun effetto. Questo richiede da principio un po’ di tempo e di sforzi, soprattutto se l’abitudine di picchiare è ormai consolidata, ma in seguito, mentre i riflessi si affievoliscono, le soluzioni arrivano più facilmente.


Per esempio: “Maxime ci mette troppo a mangiare, non mangia abbastanza!”. Riflesso condizionato: lo sgrido, urlo, e gli dò una sberla. Riflessione: “Ma davvero non mangia? In effetti sta bene, è pieno di vitalità, dunque mangia. È davvero troppo lento a mangiare? Sì, si trascina. Come posso fare per evitarlo? Forse servirsi ma non servirgli da mangiare. Non per punirlo, ma perché dopo tutto non è obbligato ad avere fame nello stesso mio momento. Aspettare che sia lui a chiedere. Al limite, se non lo chiede, lasciargli saltare il pasto. Se lo chiede, servirgli solo una piccola quantità, due o tre forchettate. Aspettare che chieda per servirlo nuovamente e dargli meno di quanto penso che mangerà. In altre parole, smontare il riflesso condizionato dell’ordine, della disobbedienza e della punizione, e ripartire dalla doppia base del bisogno di mangiare sentita dal bambino, e dal bisogno della madre o del padre di vedere il bambino mangiare senza farne un dramma.


“Benoît non riesce a fare a meno, quando mangia con sua sorella, di fare dei rumori irritanti, di gridare, cosa che mi fa uscire dai gangheri, in particolare quando siamo da amici o parenti!” Riflesso condizionato: gli dò una sberla o lo chiudo in camera. Riflessione: quale bisogno personale fa sì che io non sopporti questo comportamento? Quello di mangiare tranquilla e non in mezzo al baccano; quello che i miei bambini non disturbino le altre persone che andiamo a trovare. Da parte sua, quale bisogno spinge Benoît ad avere questo comportamento? Da una parte la sua normale e naturale esuberanza; dall’altro, senza dubbio, le mie reazioni che hanno sviluppato in lui un riflesso condizionato di provocazione. È probabile che ci siano parecchie soluzioni.


In questo caso, far mangiare i bambini prima degli adulti. Consumare i pasti in un momento in cui si racconta una storia a Benoît. Concedere un momento di gran caos prima dei pasti, magari partecipandovi, ma chiedere ai bambini di parlare tranquillamente al momento del pasto. Chiedere al coniuge, se è meno “reattivo”, di darvi il cambio per qualche momento durante il pasto e andare a fare qualcos’altro per compensare, giusto il tempo di smontare il riflesso.


Altro esempio: “Hervé non ascolta. Bisogna sempre ripetere!”. Riflesso condizionato: quando gli ho chiesto tre volte di mettersi le pantofole e non l’ha fatto, mi precipito nella sua stanza per dargli uno sculaccione. Riflessione su me stesso e sulla situazione: “Ma è vero che non ascolta? Ci sono delle cose che ascolta benissimo e che fa subito. Cos’è che non ascolta? Gli ordini che lo disturbano, che ai suoi occhi lo infastidiscono. Anch’io non amo che mi vengano dati degli ordini noiosi o che mi interrompano nelle attività che mi piacciono. È davvero necessario che porti le sue pantofole? Se siamo in estate, non gli farà male camminare a piedi nudi. Se fa freddo, e ha la tendenza a raffreddarsi, bisogna davvero che se le metta.” Il problema è meglio inquadrato. Non si esprime più un giudizio su Hervé, ma ci si chiede come fare affinché prenda l’abitudine di mettere le pantofole. Sta a me dare prova di immaginazione per trovare un’astuzia: delle pantofole divertenti a forma di topolino, una storia in cui gli racconto che i suoi piedi sono dei coniglietti che amano stare al caldo dentro alla loro tana, ecc.


Altro esempio: “Gaëlle è una musona, frigna per niente”. Riflesso condizionato: quando Gaelle piange, non riesco a trattenermi e le dò una sberla. Riflessione sulle mie intenzioni, su me stesso e su Gaëlle: “Davvero Gaëlle è musona? Non posso sapere se è la sua natura, forse è un momento passeggero. È vero che piange per niente? È vero che in questo momento piange molto. Ma esattamente in che occasione? Forse ha qualcosa che non va. Ma cosa? Cercherò di parlarne con lei in un momento in cui sta bene.


Forse è gelosa del suo fratellino… E d’altro canto, perché i suoi pianti mi disturbano così tanto? Forse sono disturbato io stesso per un motivo che non ha niente a che vedere con Gaelle?”. La moglie dell’autore di questo libro ha utilizzato, in un momento in cui aveva questo tipo di difficoltà con uno dei nostri figli, un processo di visualizzazione e riprogrammazione positiva. Consisteva nel concentrare il suo animo sul bambino così com’era in altri momenti: di buon umore, gaio e sorridente, e a mettersi lei stessa, anche se il bambino era imbronciato, nella disposizione che aveva allora. Il risultato, positivo, non ha tardato a manifestarsi.

E quando non si ha tempo?

La mancanza di tempo non rende certo facile l’adozione di metodi educativi non violenti. Che fare ad esempio quando bisogna accompagnare la sorella maggiore a scuola entro le otto e mezza, e il fratellino si rifiuta di farsi vestire? Probabilmente le soluzioni vanno trovate nel senso della prevenzione, cioè di un risveglio un poco più mattiniero, di porre il vestirsi come condizione per poter fare colazione. O ancora a rinunciare a certe esigenze: ad esempio far dormire il fratellino in tuta da ginnastica per non doverlo cambiare.


Ma è evidente che le madri che si ritrovano sole con più bambini e che devono costantemente correre per arrivare a fare solo lo stretto necessario, e ancora! hanno bisogno di più pazienza e determinazione per non cedere alla facilità momentanea delle sberle e degli sculaccioni.

E quando siamo vicini al punto di rottura, cioè a dire o fare qualcosa di spiacevole?

Suggerimento di Blandine, dalla lista “Parents conscients”: “Quando sono abbastanza distaccata, uso gli improperi di capitan Haddock12… mi basta per far terminare tutto in una risata… ma ecco, bisogna che per lo meno non sia troppo arrabbiata, e che possa prendere la necessaria distanza…”.


Suggerimento di Fabienne della stessa lista: “Quando sento che mi sale l’arrabbiatura, grugnisco. È una specie di ringhio che ho messo a punto, molto cupo, che parte dalla pancia (e massaggia bene il diaframma e lo sterno). Il risultato è piuttosto comico. Mi “vedo” grugnire in tal modo, e mi viene voglia di ridere. A mia figlia naturalmente non piace. Mi dice: “Mamma, smettila di fare così”, il che mi permette di rispondere “grugnisco perché ne ho abbastanza di questo o di quello”. Di solito è sufficiente a fermare la situazione. Altro “metodo”, in “collaborazione” con la mia figlioletta: quando ci capita, ci mettiamo ad abbaiare, o a fare i lupi: “Ouah! Ouah! Ouah!” Ci fa sempre ridere. Altro modo di dire “Mi fate scoppiare la testa” raffreddando la situazione. Nello stesso ordine d’idee, se una situazione è sul punto di degenerare, la canto, possibilmente forte e in modo comico. Esempio: “ecco il bluuuuuuuueeeees delle figlie chiuse dentro in macchina! Da venti minuti papà è partito e già si son tirate 100 palle! Ma dov’èèèèèèè? Abbiamo tanta fameeeeee! Vogliamo tornare a casaaaaaaa”. Sono solo astuzie, “trucchi”, ma come scrive anche Fabiana: “Mi piace l’idea di avere a disposizione dei “trucchi” molto vari, cosa che mi permette di sfruttarli di volta in volta. A volte aiuta di più il rilassamento, altre volte il canto, altre ancora i trucchi comici come fare il cane, insomma, niente che duri per sempre, ma la mia retina riempita di farfalle quando sono proprio sfinita13. Il difficile è ricordarsene quando si ha un retino ben pieno. Nel bel mezzo della crisi, ci si dimentica tutto. È una vera disciplina quella di ricordarsi che è possibile uscirne. Questo accade lentamente… di nascosto ;-).”

I genitori devono esprimere i loro sentimenti e i loro bisogni?

Così come i genitori devono essere attenti ai bisogni dei loro figli, devono essere attenti anche ai loro stessi bisogni, esprimerli ed esprimere i sentimenti che ne derivano. In questa sede non è possibile esplicitare questo punto, ma è davvero molto importante, e i lettori che desiderano approfondirlo avranno tutto l’interesse a leggere due libri: quello di Isabelle Filliozat, Le emozioni dei bambini, già citato, e quello di Marshall B. Rosenberg, Le parole sono finestre14. Il primo è più adatto per quanto concerne l’educazione dei bambini, il secondo è un metodo generale di comunicazione non-violenta che contiene degli elementi molto utili nella relazione genitori-figli.

Che fare con un bambino particolarmente violento?

Testimonianza di un padre adottivo: “Ho un bambino di quattro anni. Ha un’abilità davvero eccezionale quanto a provocazione e contestazione. È un bambino che ha vissuto grandi maltrattamenti fisici. (…) Mi è stato affidato con parole di scusa per la sua “difficoltà”, e mi è stato detto “coraggio”, con aria desolata. In effetti ho trovato un bambino estremamente facile, ma capace, alla minima contrarietà (o senza ragione apparente), di picchiarmi, mordermi, insultarmi e rompere qualsiasi cosa attorno a lui. Ho per forza dovuto imporre dei limiti (non è una questione di lasciar fare!), ma sarebbe stato facile per me dire: “ti comporti male con me, quindi adesso ti dò uno sculaccione, così quando avrai ritrovato la calma potremo di nuovo capirci”. Questo avrebbe senz’altro funzionato, ma credo che oggi saremmo stati comunque allo stesso punto. Dato che non ho mai risposto in modo violento alla sua violenza, credo che questo gli permetta di interrogarsi progressivamente sul suo modo di esprimere i suoi desideri, le sue frustrazioni e le sue paure. È un bambino che verbalizza facilmente. Mi ricordo che un giorno, durante una crisi, mi ha gridato: “Ma papà, io voglio che tu mi dia le botte!” L’ho abbracciato e ha avuto una lunga crisi di pianto. Da quel giorno, i suoi attacchi fisici sono passati al modo simbolico (del tipo: “dato che è così, ti dò un calcione”, ma senza farlo…). Penso che il fatto di non aver risposto in modo fisico alla sua violenza gli abbia permesso di prendere coscienza della natura di ciò che stava succedendo e quindi di superarlo” (Forum Droits de l’enfant, messaggio di Philippe, 13 ottobre 1999).


Testimonianza su internet (30 gennaio 2002) di un educatore in Quebec, Stéphane Vincelette, che ha avuto a che fare con bambini particolarmente violenti: “Come reagire quando un ragazzino cade in una crisi di collera e picchia, urla a squarciagola? Semplicemente continuando le proprie occupazioni dicendogli che sarete pronti ad ascoltarlo quando sarà pronto a discutere. Ben inteso, la crisi può durare parecchi minuti e sicuramente potrà essere fastidiosa. Viceversa, se la situazione risulta pericolosa per il bambino o per qualunque altra persona, voi compresi, sarà ammissibile anche bloccarlo fisicamente.


Il bloccaggio fisico ha lo scopo di contenere il bambino e non di fargli male. Di solito, nella maggior parte dei casi, sarà sufficiente mettersi dietro di lui e tenergli le braccia perché si calmi entro qualche minuto. L’aspetto relazionale è sempre essenziale, parlategli sempre con calma, dicendogli che siete lì con lui. Ditegli che lo lascerete quando si sarà calmato, ma non prima. Se si calma, lo lascerete andare. Se ne approfitta per ricominciare, ripetete finché sarà necessario. Solo in questo modo capirà che la regola è solida.


Anch’io ho vissuto la crisi di un bambino di dieci anni che è durata più di tre ore (cinque se teniamo conto anche dell’avvio) passando attraverso tutti gli stadi: violenza, ricatto, intimidazione, pena, broncio… Probabilmente tutto questo funzionava nel suo ambiente familiare e non poteva immaginare che una persona potesse resistere così a lungo al suo “arsenale di guerra”. Ha cominciato a capire che la mia “recinzione” forse era più solida dei suoi “proiettili”, recinzione dello stesso materiale della casa del terzo porcellino, in cemento e pietra. È stato in quel momento che mi ha teso timidamente un “filo relazionale” che ho utilizzato con umorismo al fine di sdrammatizzare la situazione. Allo stesso tempo quella fu l’occasione di mostrargli che malgrado la crisi, potevo ancora scherzare con lui e soprattutto accettarlo malgrado la crisi. Ciò che non ho ancora raccontato di questa storia è che ho conservato l’impronta dei suoi denti ben impressa sul braccio per qualche settimana…


In effetti, la cosa importante e ciò che determinerà a medio e lungo termine dei “vincenti” di fronte a una crisi, grande o piccola, o semplicemente la trasgressione di una regola, è la vostra pazienza e la vostra capacità di intervenire anziché reagire al comportamento. Se reagite, dichiarate a colpo sicuro due perdenti senza alcun vincente: voi e vostro figlio. Al contrario, se intervenite adeguatamente, ci saranno due vincitori: voi, ma anche vostro figlio.”

Per i bambini più grandi e gli adolescenti, la brutta piega è spesso già stata presa: hanno integrato il meccanismo di violenza che hanno subìto e, poco o tanto, lo riproducono nel quotidiano. Come reagire di fronte alle loro reazioni violente?

Quando un tessuto ha preso una piega, è difficile eliminarla. Ma un adolescente o un uomo ancora giovane portano dentro di sé delle capacità umane che, anche se maltrattate e atrofizzate dalla violenza subita nell’infanzia, possono essere riattivate.


Il miglior atteggiamento è sempre il rispetto vero del bambino o del ragazzo, ma anche il rispetto di sé, l’espressione e l’ascolto delle emozioni: dire al bambino ciò che si prova e restare in ascolto di ciò che prova lui. La comunicazione non violenta messa a punto da Marshall Rosenberg, fondata sull’espressione e l’ascolto dei sentimenti e dei bisogni, tutte cose alle quali la maggior parte di noi non è stata abituata durante l’infanzia, può essere un utile strumento per aiutare adolescenti abituati al linguaggio delle botte e della violenza ad entrare in un dialogo verbale. Una puntata di “Inviato speciale” (15 novembre 2001) ha mostrato il lavoro straordinario effettuato da una psicologa in una prigione sudafricana su dei capi banda. Dopo qualche seduta di espressione e mutuo ascolto, questi violentatori, implacabili assassini seriali che, all’inizio dell’esperienza pensavano solo ad uccidere la psicologa perché temevano che minasse il loro potere dentro alla prigione, arrivavano ad esprimersi in modo sconvolgente. Non erano guariti, ma avevano chiaramente fatto un passo in tal senso. Se questo è possibile con assassini incalliti lo deve essere a maggior ragione con piccoli delinquenti o bambini violenti.

Ricapitolazione dei dodici princìpi utili per evitare la violenza educativa15.

  • Prendere la decisione di non picchiare.
  • Conoscere gli effetti delle punizioni corporali sui bambini.
  • Predisporre l’ambiente di vita del bambino in modo da non essere continuamente obbligati a imporgli dei divieti.
  • Praticare la regola d’oro: trattare il bambino come vorreste essere trattati nelle stesse circostanze.
  • Accogliere tutti i sentimenti del bambino, anche se appaiono negativi, come ad esempio la gelosia. Un bambino non ha il diritto di picchiare il suo fratellino, ma questi sono i suoi sentimenti ed egli ha il diritto di non volergli bene.
  • Nelle situazioni di conflitto, cercare il più possibile delle soluzioni “vincentevincente” (e non vincente-perdente) che soddisfino i bisogni (non per forza i desideri!) di ciascuno.
  • Prendere l’abitudine di identificare il motivo dei conflitti per tentare di prevenirli piuttosto che doverli ripianare.
  • Proporre dei diversivi: un disegno, una storia, un gioco in vasca da bagno, una passeggiata per uscire da situazioni diventate troppo difficili.
  • Chiedersi: “Potrò in seguito ridere di questa situazione?” Se sì, perché non riderne subito? L’umorismo può trasformare molte situazioni difficoltose: “Oh, no! Vi siete pitturati di verde proprio nel momento di partire per andare dai nonni… Aspettate che prendo la videocamera!”.
  • Conoscere i propri limiti e restare saldi sui punti nel momento in cui li raggiungete.
  • Sapersi dare il cambio col coniuge.
  • Chiedere aiuto anche solo per confidare il proprio sgomento: un’amica al telefono, la mamma, le partecipanti a una lista di discussione su internet dove sapete che troverete delle orecchie attente, ben disposte e che potranno forse proporre una soluzione.

La sculacciata
La sculacciata
Olivier Maurel
Perché farne a meno: domande e riflessioni.Le punizioni corporali sono dannose per il corpo e la psiche del bambino. Ma è possibile educare senza picchiare? Se sì, come? Le punizioni corporali sono pericolose per i bambini, in quanto le conseguenze della violenza rimangono permanenti sul corpo e nella psiche.Nel più lungo periodo, inoltre, molti studi dimostrano come questa pratica sia un fattore importante nello sviluppo di comportamenti violenti e sia associata ad altri problemi durante l’infanzia e nella vita. Come possiamo educare i bambini che mostrano un temperamento più aggressivi?Del resto, è stato forse dimostrato che schiaffi e sculacciate rendono più obbedienti i bambiniMigliorano forse l’apprendimento?La sculacciata di Olivier Maurel è una guida che ci permette di aprire gli occhi senza colpevolizzarci, rispondendo con chiarezza a queste e a molte altre domande. La prefazione è curata dalla celebre psicologa e psicanalista Alice Miller. Conosci l’autore Olivier Maurel è nato a Toulon nel 1937. Professore di Lettere al liceo Dumont d’Urville dal 1965 al 1997, è padre di cinque figli.Cresciuto in una famiglia numerosa, le letture dei libri di Alice Miller hanno accresciuto il suo interesse per il tema della violenza educativa, portandolo ad approfondirne le numerose ripercussioni sulla salute psico-fisica dei bambini e sul loro sviluppo. A partire dagli anni ’60, poi, si è fatto promotore di numerose battaglie sociali contro la violenza nel mondo e il traffico di armi.Ha fondato l’associazione Oveo (Osservatorio sulla violenza educativa ordinaria), con lo scopo di descrivere tutte le forme di violenza comunemente accettate in tutto il mondo, a scuola e in famiglia.