capitolo iii

Perché dobbiamo rinunciare alle
punizioni corporali?

Come facciamo a sapere che oggi dobbiamo rinunciare alle punizioni corporali a causa dei pericoli che comportano?

Ora ne abbiamo la certezza, grazie alle ricerche sulla formazione e il funzionamento del cervello.

Adesso sappiamo che alla nascita il cervello dei bambini e il loro sistema nervoso sono incompleti e si formano nel corso della loro infanzia. Alla nascita, infatti, il cervello del bambino pesa un quinto rispetto a quello di un adulto. Gli altri quattro quinti si sviluppano durante gli anni dell’infanzia e della giovinezza. Sono i circuiti dei neuroni, le cellule cerebrali, che, estendendosi e divenendo più complessi, aumentano il volume del cervello. Quest’ultimo raggiunge il 70% del suo peso solo all’inizio del terzo anno di età. Ecco perché le giunture delle ossa del nostro cranio si chiudono definitivamente soltanto durante l’età adulta. Se in questo periodo, o durante una sua parte, il bambino viene costretto con frequenza a subire degli stress, lo sviluppo del cervello ne può essere perturbato; ed è proprio durante questo periodo che gli vengono somministrate le punizioni corporali.


Le parti del cervello che abbiamo in comune con i rettili e gli altri animali comandano le funzioni che assicurano la sopravvivenza del corpo: circolazione del sangue, digestione, respirazione, assimilazione, ma anche le emozioni come la paura di fronte ad un pericolo. Le parti particolarmente sviluppate nella specie umana sono invece i lobi frontali che permettono la riflessione, la conoscenza, l’immaginazione e il controllo delle emozioni. Per un buon equilibrio della personalità bisogna che le emozioni abbiano potuto svilupparsi normalmente e che il cervello cognitivo abbia appreso a riconoscerle e a controllarle.

Orbene, quando il cervello durante il suo sviluppo viene sottoposto a stress troppo frequenti, e che non possono trovare sfogo nella fuga o nell’autodifesa, le capacità del cervello ne risultano diminuite, lo sviluppo dei neuroni procede male, e alcuni neuroni vengono addirittura colpiti da lesioni. Così, Daniel Goleman che nel suo libro L’intelligenza emotiva1, ha riassunto le ricerche sul cervello delle emozioni, scrive:

Il fatto di venire picchiati in modo ripetuto, a seconda dell’umore di un genitore, deforma la propensione naturale dei bambini all’empatia. (…) In tutta evidenza, i bambini maltrattati trattano gli altri come loro stessi sono stati trattati. E la loro durezza non è che una forma estrema di quella che manifestano i bambini che vengono criticati, minacciati e severamente puniti dai loro genitori. Hanno anche la tendenza a non occuparsi dei loro compagni quando questi si fanno male e si mettono a piangere. (…) Le abitudini acquisite dal cervello emozionale per periodi estremamente lunghi prendono il sopravvento, nel meglio o nel peggio. (…) Quando vediamo a quale punto il cervello stesso viene conformato dalla brutalità – o dall’amore – di cui il bambino è stato fatto oggetto, capiamo che i primi anni rappresentano un periodo unico per l’apprendimento dell’intelligenza emotiva.


Un altro specialista americano della neurologia, Joseph LeDoux, spiega nel suo libro Neurobiologie de la personnalité2 i danni causati dai maltrattamenti nel momento in cui si sperimentano le prime emozioni:

Se una parte importante di esperienze emotive precoci è dovuta più all’attivazione del sistema della paura anziché ai sistemi positivi, allora la personalità caratteristica, che comincerà a costruirsi a partire dai processi di apprendimento parallelo coordinati dallo stato emozionale, sarà caratterizzata dalla negatività e dalla disperazione piuttosto che dall’affetto e dall’ottimismo.

In altri termini, in stato di stress frequente il cervello stabilisce delle connessioni prioritarie al fine di riconoscere qualsiasi segnale di pericolo imminente. Così facendo, le vie disponibili per normali esperienze di apprendimento restano atrofizzate.


Da parte sua, il neuropsichiatra Bessel van der Kolk, specialista di casi di trauma, afferma:

Tutto lo sviluppo dell’essere umano è lo sviluppo dei lobi frontali. In quanto genitori, noi siamo i mediatori dello sviluppo del lobo frontale dei nostri bambini. Mentre leggiamo delle storie ai nostri figli, mentre li abbracciamo, mentre giochiamo con loro, noi assicuriamo il buono sviluppo del lobo frontale. Se un bambino è sempre spaventato, terrorizzato, se non viene cullato, se è abbandonato, trascurato, i suoi lobi frontali non si sviluppano correttamente e non arriveranno ad assumere la loro funzione che consiste nell’inibire il sistema limbico. In questo caso, il lobo frontale non è abbastanza sviluppato per aiutare la persona ad essere in contatto con il presente. Sarà incapace di registrare nuove informazioni e di imparare dall’esperienza.3

Infine, il neurologo americano di fama internazionale Antonio R. Damasio scrive nel suo libro Alla ricerca di Spinoza4 che i comportamenti degli adolescenti molto problematici possono essere dovuti

a un difetto di funzionamento microscopico dei circuiti neuronali”, che possono “dipendere da diverse cause, trasmissioni chimiche anormali per ragioni genetiche oppure per fattori sociali ed educativi.

Interrogato se ritenesse che le punizioni corporali alle quali i bambini sono stati sottoposti da millenni potessero spiegare i comportamenti aberranti e crudeli che sono la caratteristica degli uomini più che degli animali e che attribuiamo in generale alla “natura umana”, Damasio ha risposto affermativamente.


Oggi sappiamo che oltre al lobo frontale, anche l’ippocampo, parte del cervello responsabile della memoria emozionale, il corpo calloso (ponte tra i due emisferi) e la parte sinistra del cervello vengono segnati in modo duraturo, visibile attraverso le scansioni computerizzate, dai maltrattamenti e dalla trascuratezza.

È davvero possibile non picchiare i propri figli?

Abbiamo imparato quasi tutti a non picchiare gli adulti che non amiamo anche quando siamo arrabbiati con loro. Se siamo riusciti ad imparare questo, perché non potremmo arrivare a non picchiare i nostri figli che amiamo?

Le punizioni corporali sono davvero indispensabili?

Esistono altri metodi educativi oltre alle punizioni corporali. Anche se a caldo non troviamo o non cerchiamo altri modi di reagire, le punizioni corporali non sono mai l’unica soluzione, né comunque una vera soluzione. I fautori dell’interdizione delle punizioni corporali non chiedono di mettere in prigione una madre che dia una sculacciata a suo figlio. Vogliono solo che sappia che questo comportamento è pericoloso per il bambino. E vogliono anche che la società la aiuti ad allevare i bambini senza violenza.

Le punizioni corporali sono efficaci?

Nell’immediato, il bambino picchiato ubbidisce spesso all’ordine che ha ricevuto per paura delle botte. Ma per lui è anche la prima esperienza di viltà. Spesso ricomincia alla prima occasione, ma di nascosto: prima esperienza di ipocrisia. Infine, può provare piacere a sfidare i genitori: prima esperienza di provocazione. Viltà, ipocrisia, provocazione: è davvero questo che i genitori vogliono insegnare ai loro figli? Picchiare il bambino certo può alleviare la tensione del padre o della madre. Ma sarà meglio a questo scopo installare in un angolo della casa un punching-ball che potrà servire anche al figlio per poter sfogare la propria collera, o prendere a pugni i cuscini del divano5. Un bambino picchiato spesso è di rado più docile di un bambino che non lo è. L’efficacia apparente a brevissimo termine che possono avere le botte si affievolisce molto rapidamente con l’assuefazione, e vediamo molti genitori dare ogni momento degli schiaffi ai figli, senza la minima convinzione e senza che questi comunque obbediscano.

Le botte date abitualmente ai bambini possono provocare delle lesioni immediate?

Certo qui parliamo solo di punizioni corporali considerate leggere: sculacciate, schiaffi, botte per esempio sulle mani. I genitori francesi vengono avvertiti di un solo pericolo attraverso dei manifesti affissi nei reparti maternità: quello di scuotere il bambino, sia perché esasperati dai loro pianti, sia a volte credendo di farlo divertire. Un bambino scosso può perdere la vista, essere colpito da lesioni irreversibili al cervello e a volte addirittura morirne.


Ma bisogna sapere che anche un ceffone può perforare il timpano di un bambino piccolo o provocargli dei traumi oculari. Le braccia dei bambini possono venire lussate se li si tira senza riguardi. La sculacciata, considerata da alcuni come del tutto inoffensiva, dato che secondo loro questa parte del corpo è stata fatta per tale uso, in realtà è pericolosa.


Il nervo sciatico, il coccige, gli organi sessuali possono venire danneggiati da colpi violenti, soprattutto se vengono dati, come in molti Paesi del mondo, con un bastone o una pagaia. “Gli ospedali documentano frequentemente di coccigi lussati e di contusioni nella zona genitale in seguito a punizioni violente” (Jordan Riak, responsabile di una associazione americana contro la violenza a scuola).


Anche picchiare un bambino sulle mani può portare a gravi conseguenze: “Le mani dei bambini sono particolarmente vulnerabili perché i legamenti, i nervi, i tendini e i vasi sanguigni sono proprio sotto la pelle che non prevede alcun tessuto protettivo sottostante.

Picchiare le mani dei bambini molto piccoli è particolarmente pericoloso per le placche di crescita delle ossa che, se danneggiate, possono provocare anche fratture, lussature e, a posteriori, portare allo sviluppo precoce dell’osteoartrite” (Jordan Riak, id.).


Tenendo conto di questi rischi, potremo giudicare in particolare la sentenza del tribunale di Caen del 7 luglio 1982 che autorizza gli insegnanti a dare dei colpi di righello sulle dita.


Quanti bambini sono stati così puniti a vita dai loro stessi genitori?

Picchiare un bambino può provocargli delle malattie?

Nel corso di uno studio effettuato nel 1995 su 300 giovani vittime di incidenti stradali, la dottoressa Cornet6 ha potuto constatare, oltre a una frequenza maggiore di incidenti nei bambini picchiati, la frequenza di malattie più gravi rispetto agli altri bambini. Uno studio simile condotto a Hong-Kong ha portato agli stessi risultati. Alcuni studi hanno mostrato che l’ormone dello stress, il cortisolo, provoca un’inibizione del sistema immunitario perché l’organismo minacciato a causa dello stress possa mobilitarsi interamente contro di esso.

Lo stress sopprime la resistenza immunitaria, almeno temporaneamente, senza dubbio con lo scopo di economizzare l’energia così da affrontare in priorità la situazione d’urgenza immediata, necessità più pressante dal punto di vista della sopravvivenza. Ma se lo stress è intenso e costante, la soppressione può divenire durevole7.

Uno stress permanente, come quello provocato dalla paura delle botte durante l’infanzia, può guastare stabilmente il sistema immunitario e quindi indebolire l’organismo. In aggiunta, molti studi americani

hanno mostrato che gli ormoni dello stress possono lasciare indeboliti i neuroni dell’ippocampo e vulnerabili alle malattie. Così lo stress di lunga durata conduce, negli animali, ad un circolo vizioso di morte neuronale, ed anche, in certi casi, ad una perdita di memoria (…) un processo simile potrebbe intervenire nella depressione, nei problemi dello stress post-traumatico, ad esempio la schizofrenia.8.

La violenza educativa può causare problemi sessuali da adulti?

Uno studio condotto all’Università del New Hampshire-Durham dal prof. Muray Straus, pubblicato il 28 febbraio 20089, ha dimostrato che gli adulti che hanno subìto sculacciate nell’infanzia o altre punizioni corporali corrono più rischi di aver problemi sessuali da adulti. I problemi, portati alla luce dallo studio, sono di tre tipi:

  • una tendenza a ricorrere alla coercizione verbale o fisica per esigere una relazione sessuale;
  • una tendenza ad assumere comportamenti a rischio, come avere relazioni sessuali non protette;
  • infine, una tendenza a comportamenti masochistici.

Lo studio ha riguardato 14.000 studenti di 32 Paesi. Le punizioni corporali ricevute dai soggetti dello studio erano state graduate su una scala da uno a quattro. Ad ogni grado della scala corrispondeva un aumento in media del 10% nell’assunzione dei comportamenti sopra citati.


Questo studio ipotizza che la sculacciata data da genitori affettuosi porti il bambino a confondere violenza e amore, e aumenta la probabilità di violenze nei rapporti sessuali.

La sculacciata può aumentare i rischi di problemi mentali?

La rivista americana “Pediatrics” ha pubblicato in data 2 luglio 2012 uno studio condotto da un’équipe di ricercatori canadesi sugli effetti della sculacciata10. L’interesse di questo studio consiste nel fatto di aver esaminato unicamente la sculacciata e le punizioni corporali lievi, ossia il livello di violenza educativa che è tollerato nella maggior parte dei Paesi europei che non le hanno ancora vietate. I maltrattamenti pesanti che lasciano tracce e gli abusi sessuali sono stati esclusi. Questa ricerca è stata condotta su 34.653 adulti, e ha mostrato che le persone che hanno ricevuto sculacciate o punizioni corporali leggere hanno dal 2 al 7% di rischio aggiuntivo di presentare patologie mentali da adulti, cioè sia disordini del comportamento, sia problemi di alcool o droga.

La violenza educativa può accrescere i rischi di suicidio da adulti?

Già sapevamo, grazie alle ricerche in Quebec condotte sui topi dal prof. Michael Meaney, che le cure materne (in questo caso essere leccati dalla madre) potevano giocare un ruolo significativo sui geni che controllano la risposta allo stress. In altre parole, i geni non sono un destino. Possono essere condotti a esprimersi o a non esprimersi a seconda del modo favorevole o sfavorevole in cui si è trattati durante l’infanzia. I topi leccati dalla madre acquisiscono una capacità superiore di resistenza allo stress. Questa scoperta è stata confermata da un altro studio11, sempre proveniente dal Quebec, che ha dimostrato come i traumi infantili dovuti ai maltrattamenti lascino delle tracce nel cervello. I cervelli delle persone suicide che hanno subìto maltrattamenti nella loro infanzia portano dei segni epigenetici che non sono stati riscontrati nel cervello di persone suicide non maltrattate. Questi risultati sono stati pubblicati sul sito di “Nature Neuroscience” in data 22 febbraio 2009.

Le punizioni corporali possono avere un’incidenza sulla mortalità infantile?

Ferenczi, uno dei discepoli più vicini a Freud, scriveva già, tra le due guerre, che “i bambini accolti con rudezza e senza gentilezza muoiono spesso e volentieri.” Più di recente, il sociologo Emmanuel Todd ha stabilito un rapporto tra la frequenza dei decessi di bambini di meno di un anno in Germania tra il 1850 e il 1900 (molto superiore a quella che c’era in Francia) e l’estremismo autoritario delle tecniche educative tedesche del XIX secolo. Chi lo sa quale sia il ruolo delle punizioni corporali nella mortalità infantile, nei Paesi del mondo in cui la bastonata si pratica correntemente?

Le punizioni corporali possono causare depressione?

Molte inchieste americane hanno mostrato un rapporto certo tra la violenza delle botte ricevute nell’infanzia e la tendenza alla depressione e alle sue conseguenze: suicidi, alcolismo, tossicodipendenza. Questo rapporto è dovuto molto probabilmente al fatto che le botte, che si accompagnano spesso a ingiurie e parole dispregiative, non sono solamente dolorose, ma anche umilianti e distruggono l’immagine che il bambino ha di se stesso. Il bambino picchiato e trattato da buono a nulla pensa davvero di non valere niente.

Le botte possono predisporre agli incidenti?

Per quanto sembri incredibile, questo fatto è stato provato in modo molto rigoroso dallo studio della dottoressa Cornet. Questo studio effettuato nel 1995 su 300 giovani incidentati della strada in un centro di traumatologia ha dimostrato in modo sicuro che quelli che avevano subìto più incidenti e incidenti più gravi erano anche coloro che erano stati picchiati più forte, con più frequenza e più a lungo nel corso della loro infanzia e adolescenza. Altri elementi interessanti conseguono da questo studio: 1) vi è un aumento sensibile nella frequenza degli incidenti anche quando gli incidentati dichiarano di aver subìto soltanto delle botte “leggere e rare”; 2) la persistenza delle botte fino all’adolescenza è il fattore che aggrava di più la propensione agli incidenti; 3) fondamentali sono le botte; le aggressioni verbali, non accompagnate da violenza fisica, hanno meno effetti delle violenze corporali; 4) i giovani più picchiati si qualificano da sé come dei “provocatori” e non, contrariamente a quanto si creda di solito, quelli “a cui è stato lasciato fare di tutto”; 5) i giochi preferiti dai più picchiati e quindi dai più incidentati sono i giochi che prevedono l’uso di armi, cosa che conferma il rapporto tra violenze subite nell’infanzia e gusto della violenza nell’adolescenza e nell’età adulta. Già nel 1961 due studiosi americani di psicosomatica, Hans Baltrush e Flanders Dunbar, avevano notato che 

la propensione agli incidenti è una malattia psicosomatica risalente alla prima infanzia.12

Le punizioni corporali possono spingere un bambino alla violenza?

Il 75% dei Francesi pensa che la violenza a scuola sia dovuta, prima di ogni altra causa, alla mancanza di autorità dei genitori. Molti pensano che ciò derivi dal fatto che i genitori hanno rinunciato a picchiare. In realtà molti studi, tra cui quelli americani del dottor Welsh, di Bridgeport (Connecticut), e quelli degli psicologi Ronald Slaby e Wendy Roedell, così come in Francia quello di Maria Choquet del CNRS, mostrano che “quando un giovane manifesta una grande violenza, bisogna ricercare gli antecedenti di violenza subita (…) abbiamo constatato un forte legame tra tutte le forme di violenza (su di sé, sugli altri, e subita)” (relazione di Marie Choquet). Il delinquente più aggressivo è quello che è stato più picchiato. E secondo Philip Greven le punizioni inflitte dai genitori si sono trovate correlate con l’aggressività dei bambini in più di venticinque studi condotti sui bambini. Picchiare un bambino significa aprirgli, grande come un’autostrada, la via per la violenza e rendergli difficile la via del rispetto degli altri. Rispettare un bambino significa fargli apparire il rispetto degli altri come un comportamento normale e facile, e la violenza come un comportamento aberrante.

Le punizioni corporali possono rendere un bambino insensibile?

Lo psicologo Harold Bessell, citato da Isabelle Filliozat, spiega così l’effetto della negazione delle emozioni:

Quando lavoriamo con le mani, vediamo spuntare delle callosità. Esse proteggono le mani evitando che vengano coperte di vesciche. Quando siamo feriti nelle emozioni si forma qualche cosa che assomiglia a un callo, qualcosa che protegge i tessuti contro l’irritazione che verrà; ma evidentemente, come le callosità delle mani, questo qualcosa non è così sensibile né così flessibile come la pelle originale. Una persona che fosse completamente ricoperta di calli affettivi non percepirebbe il mondo in maniera piena, ricca, e neanche adeguata13.

Questo è un indurimento, una corazza alla quale sono costretti, per sopravvivere, i bambini picchiati. Non stupisce per nulla che alcuni di loro abbiano perduto gran parte della loro capacità naturale di compassione. Da parte sua il già citato Antonio Damasio, scrive:

Per certi aspetti, la capacità di esprimere e di sentire le emozioni è indispensabile all’attuazione di comportamenti relazionali14.


Picchiando i bambini si rischia di farne degli assassini?

Secondo un articolo dello psicologo infantile Robert R. Butterworth, in una rivista di ricerca psicologica e criminale (aprile 1999), i bambini autori di omicidi vengono in genere da famiglie i cui genitori sono o del tutto indifferenti e negligenti, oppure troppo coercitivi e sostenitori di punizioni fisiche violente. Questi bambini, quale che sia il loro ambiente, hanno un’immagine di sé molto degradata. Un’indagine ha mostrato che nei dieci Stati americani in cui le punizioni corporali vengono più spesso usate nelle scuole, cinque di questi si trovano anche tra i dieci Stati in cui il tasso di criminalità è più alto, e gli altri cinque si classificano tra i venti con il tasso più alto. Ugualmente, sette tra i dieci Stati che ricorrono più spesso alle punizioni corporali sono tra i dieci col tasso più alto di carcerazioni. Gli altri tre sono tra i venti con il tasso più alto.

Le punizioni corporali possono far diventare masochista un bambino?

Jean-Jacques Rousseau, 240 anni fa, aveva già risposto a questa domanda nelle sue Confessioni in cui racconta di come una sculacciata ricevuta all’età di otto anni da parte di una donna di trenta l’abbia reso masochista e sfortunato in amore per tutta la vita. Il vero e proprio tabù da lui mantenuto sulle punizioni corporali ha fatto sì che non si siano tratte delle conclusioni dal suo racconto. Ci si è accontentati di trattarlo, come al solito, con derisione. Dopo la prima pubblicazione di La sculacciata ho ricevuto molte testimonianze di lettori, uomini e donne, che mi hanno raccontato di essere diventati masochisti in seguito alle sculacciate ricevute nell’infanzia, vale a dire incapaci di provare un piacere sessuale se non legato a una sculacciata reale o immaginaria. Vista la difficoltà di una confessione di questo genere, è sicuro che le lettere che ho ricevuto sono solo la punta di un iceberg la cui parte nascosta è molto più vasta. Nessuna meraviglia, tenendo conto del numero di bambini sculacciati, che si trovino su internet così tanti siti erotici per amanti delle sculacciate. Uno di questi lettori mi ha anche confessato che vedere sua madre, maestra, sculacciare i suoi compagni di classe gli ha dato non solo delle tendenze masochiste, ma anche pedofile. La sculacciata è un abuso sessuale, denunciava una di queste vittime. Sarebbe ora e tempo che ne prendessero coscienza tutti coloro che tendono a dire che una buona sculacciata non ha mai fatto male a nessuno!

Le punizioni corporali predispongono a subire degli abusi sessuali?

È ciò che sostiene Jordan Riak, autore americano di uno studio sulle punizioni corporali:

I bambini che sono stati picchiati non considerano che il loro corpo gli appartiene. Le botte li abituano ad accettare l’idea che gli adulti abbiano un potere assoluto sul loro corpo, ivi compreso il diritto di fare loro del male. Le sculacciate d’altra parte li convincono che le loro zone sessuali siano sottomesse alla volontà degli adulti. È poco probabile che il bambino che si rassegna oggi a venire picchiato, dica ‘no’ domani a uno stupratore. Gli adulti che sono stati abusati o sfruttati sessualmente lo sanno. Cercano le loro vittime potenziali tra i bambini a cui è stato insegnato ‘se non obbedisci, vedrai cosa ti capita’, perché sono i bersagli più facili.

Jordan Riak non dà delle prove della sua ipotesi, la quale sembra comunque verosimile.

“Io sono stato picchiato, e non mi fa più male!” Cosa pensarne?

In generale si dice così per difendere le punizioni corporali o lasciar intendere che non siano affatto pericolose e che non sia il caso di vietarle. Ma considerare normale il fatto di picchiare un individuo molto più debole, o accettare che venga picchiato, prova davvero un buon equilibrio interiore? Gli uomini del passato che trovavano del tutto legittimo picchiare gli schiavi o coloro che oggi trovano normale picchiare la propria moglie sono davvero dei buoni modelli di umanità? Il loro senso del bene e del male non è almeno un po’ perturbato? Quanto alla loro logica: è coerente picchiare un bambino, come avviene frequentemente, per insegnargli a non picchiare?


Le punizioni corporali alterano nello spirito sia il senso del bene e del male sia la capacità di vedere l’ovvio. Praticamente nessuno se ne accorge, perché quasi tutti sono stati picchiati e lo trovano normale. In realtà, la nostra tolleranza alla violenza educativa è la prova stessa della sua nocività. Ecco ad esempio cosa scrive una studentessa su un forum di internet:


“Credo che non bisogna abusare poiché rinchiudere un bambino in un armadio o mettergli la testa sott’acqua può causargli dei gravi traumi. Ma dargli qualche sberla di tanto in tanto, qualche calcio o qualche colpo con la cintura o di scopa non può fargli alcun male se lo merita davvero. È così che sono stata allevata io, e ringrazio i miei genitori. Se si guarda il comportamento di questi bambini che non hanno mai ricevuto ceffoni, si può capire perché parlo così”.


La studentessa che scrive questo crede di essere del tutto ragionevole. Denuncia quello che considera eccessivo e considera come del tutto normale e benefico ciò che ha subìto. Ebbene, noi ragioniamo esattamente allo stesso modo quando raccomandiamo la sculacciata, la sberla “pedagogica” o lo schiaffo “sulla mano” o “sul pannolino”. Denunciamo ciò che non abbiamo subito, ovverossia quello che chiamiamo maltrattamento, e approviamo ciò che abbiamo subìto o quello che viene considerato normale nella nostra società.

Detto questo, è vero che molti per fortuna non sembrano riportare delle conseguenze dalle botte ricevute nell’infanzia. Ma come ha scritto Jan Hunt, militante “abolizionista”, non è perché qualche fumatore gode di una salute di ferro e vive fino a cent’anni che bisogna raccomandare di fumare. Poiché se è vero che
alcuni bambini, come alcuni fumatori, subiscono meno danni di altri per via di fattori mitiganti che li rendono più resistenti come la presenza di altri adulti che li trattano con affetto e considerazione”, “al limite si può dire che un bambino picchiato ‘sta bene’ malgrado e non grazie, le punizioni che ha subìto.15

Perché la maggior parte delle persone che sono state picchiate pensano che sia del tutto normale picchiare i bambini?

Potremo capirlo meglio se ricorderemo quello che successe a Stoccolma il 23 agosto 1973, così come lo riportano i dottori Eric Torres e Virginie Grenier-Boley.


“Alle 10,15 un evaso dalla prigione, Jen Erik Olsson, tenta di commettere un colpo alla Banca di Credito Svedese di Stoccolma. L’intervento delle forze dell’ordine lo obbliga a rifugiarsi dentro la banca dove prende in ostaggio quattro impiegati. Ottiene la liberazione del suo compagno di cella, Clark Olofsson, che lo raggiunge immediatamente. I poliziotti che assediano la banca sono un po’ sorpresi dalle dichiarazioni degli ostaggi: “Abbiamo piena fiducia nei due banditi”, “i ladri ci proteggono dalla polizia”. Sei giorni di negoziazione sfociano infine nella liberazione degli ostaggi. E qui, nuova sorpresa, gli ostaggi si interpongono tra i loro rapitori e le forze dell’ordine. In seguito, si rifiutano di testimoniare contro di loro al processo, contribuiscono alla loro difesa e andranno a fargli visita in prigione. Una delle vittime, innamorata di Jen Erik Olsson, finirà persino per sposarlo.Questo comportamento paradossale delle vittime prese in ostaggio, che si è ripetuto in seguito più volte, viene descritto per la prima volta nel 1978 da parte dello psichiatra americano F. Ochberg, che lo ha definito “sindrome di Stoccolma”. Egli ne stabilisce la diagnosi a partire da tre criteri: lo sviluppo di un sentimento di fiducia, addirittura di simpatia degli ostaggi nei confronti dei propri rapitori, lo sviluppo reciproco di un sentimento positivo dei rapitori verso gli ostaggi, e la comparsa di una avversione delle vittime nei confronti delle forze dell’ordine. La sindrome di Stoccolma (…) può modificare a lungo, persino definitivamente, la personalità, i valori e le convinzioni morali dell’individuo. L’ostaggio in seguito adotta spesso un giudizio permissivo di fronte alla delinquenza così come un atteggiamento spesso molto critico nei confronti della società. Anche il barone Empain, nonostante i suoi rapitori, per un motivo abietto, gli avessero amputato una falange, manifestava nei loro riguardi una certa “benevolenza” e sottolineava la “comprensione” che questi gli avevano manifestato.

Perché rievocare qui la sindrome di Stoccolma? Perché, sebbene i genitori non siano rapitori né i figli ostaggi, i bambini si trovano nei confronti dei propri genitori in una situazione di dipendenza ben più grande rispetto agli ostaggi verso i loro rapitori. Sentono e sanno, in piena consapevolezza, di non poter sopravvivere senza i genitori. Se delle persone adulte nel pieno della loro maturità possono veder modificata definitivamente la propria vita dopo essersi trovati per qualche giorno del tutto dipendenti dai loro rapitori e avendo sviluppato per questa ragione nei loro riguardi un irresistibile sentimento di simpatia, qualsiasi cosa sia stata fatta loro, possiamo immaginare la forza che rende difficile per dei bambini rimettere in discussione il comportamento dei loro genitori, anche se questo comportamento è stato violento. Per di più, non hanno alcun mezzo per dubitare dei giudizi che i genitori danno su di loro. Se viene detto loro che sono cattivi, pigri, stupidi, è perché davvero sono cattivi, pigri, stupidi. E l’adulto che diventeranno in seguito non può che presumere giuste le botte ricevute e che hanno fatto “molto bene” a quel bambino cattivo, pigro e stupido che essi giudicano una volta diventati adulti “ragionevoli”16.
Allo stesso modo in cui gli ostaggi manifestano una certa ostilità nei confronti delle forze dell’ordine che li hanno liberati, gli adulti che sono stati picchiati provano nella maggior parte dei casi molta reticenza nei riguardi di coloro che sostengono che le botte da loro ricevute non sono state per forza benefiche. Il meccanismo psicologico qui in questione è la cosiddetta identificazione con l’aggressore; consiste nell’identificarsi con la persona di cui si è vittima, nell’imitarla fisicamente o moralmente e nell’adottare alcuni simboli di potere che lo caratterizzano, in particolare il comportamento con il quale si è stati aggrediti e, nel caso, la violenza educativa.

È vero che chi è stato picchiato picchierà?

Come dice Alice Miller: “Non tutte le vittime diventano aguzzini. Ma tutti gli aguzzini sono stati vittime”. Se tanta gente accetta che i bambini vengano picchiati, è perché loro stessi sono stati picchiati. Ma gli effetti dei maltrattamenti possono essere riscattati, e per fortuna lo sono spesso, dalla presenza vicino al bambino, o dall’incontro, di persone che attraverso il loro affetto, la loro stima, rispetto e comprensione, restituiscono al bambino il rispetto di sé e gli permettono di guarire almeno in parte delle proprie ferite. È proprio questo che spiega come alcune persone che hanno subìto violente punizioni corporali abbiano potuto sviluppare, anche se conservano cicatrici fisiche e morali, le loro potenzialità intellettuali e affettive. Questa capacità di recupero è stata chiamata “resilienza”.

Non è esagerato voler vietare lo schiaffo e la sculacciata mettendoli sullo stesso piano della bastonata?

A prima vista non esiste paragone tra la nocività delle prime e quella della seconda. Tuttavia, almeno sette ragioni impediscono di tracciare un limite tra punizioni deboli e forti.

  1. Alcuni studi, in particolare quelli della dottoressa Cornet, mostrano che il rischio di incidenti cresce a partire dal livello più basso di punizioni.

  2. Cominciare a picchiare un bambino, anche in modo leggero, significa per la persona che picchia mettere in atto nel proprio cervello un automatismo che rischia di diventare la risposta privilegiata a qualsiasi conflitto con il bambino. La dinamica della violenza è una graduale intensificazione. E nessuno può sapere fino a dove si potrà venire trascinati dalla propria violenza. Uno studio realizzato in Ontario mostra che su 10.000 casi di maltrattamenti, quasi tutti sono cominciati attraverso delle correzioni “ragionevoli”.

  3. È impossibile fissare un limite giuridico al di qua del quale le botte sarebbero inoffensive. Termini vaghi come punizioni “moderate” o “ragionevoli”, laddove vengano impiegate per definire la violenza tollerabile, permettono di considerare che fintanto che la pelle del bambino non è lesa, la punizione è “ragionevole”.

  4. Accetteremmo che i poliziotti avessero il diritto di picchiarci, anche solo in modo leggero, quando commettiamo un’infrazione al codice della strada? Eppure i nostri errori alla guida sono molto più gravi rispetto alle sciocchezze dei bambini! Non è del tutto immorale e illogico far subire ai nostri figli ciò che noi stessi rifiutiamo, con ragione, di subire?

  5. Qualunque sia la forza della punizione fisica, la lezione che dà al bambino è la medesima: in caso di conflitto, la violenza è una risposta normale, anche nei riguardi di un individuo più piccolo.

  6. Non è lecito picchiare la propria moglie o gli anziani, neanche con leggerezza. Perché invece è permesso picchiare i bambini?

  7. Se lo schiaffo o la sculacciata che si desidera avere il diritto di dare al proprio figlio è davvero leggera e sufficiente a far obbedire il bambino, è perché quest’ultimo è docile e non sarebbe comunque molto difficile trovare un altro modo di farlo obbedire piuttosto che dargli le botte.

Le punizioni corporali possono influire sulla vita sociale e politica?

Due ricercatori hanno sostenuto quasi in contemporanea, ma in modo indipendente l’uno dall’altra, uno a partire dalla sociologia, l’altra a partire dalla pratica della psicoanalisi, che l’autoritarismo familiare e le punizioni corporali attraverso cui questo si manifesta hanno avuto un’influenza politica importante sui conflitti e il totalitarismo del XX secolo. Emmanuel Todd, nel suo libro Le Fou et le prolétaire17 [Il pazzo e il proletario], ha mostrato come le “tecniche d’allevamento” in uso in Europa nella seconda metà del XIX secolo e all’inizio del XX siano in parte responsabili de

“la rottura europea del sistema, nel 1914, 1917, 1933, 1939. Quattro scossoni politici e militari, rivoluzionari o fascistoidi, che non possiamo separare dall’evoluzione generale delle mentalità e delle tecniche di allevamento. Ovunque l’uomo nuovo diviene folle di disciplina” (p. 120). “Il delirio familiare e scolastico raggiunge il suo punto culminante fra il 1880 e il 1900. La sbandata politica avrà luogo tra il 1914 e il 1933. In queste date, le generazioni attive politicamente, adulte, portano in sé un’esperienza infantile molto anteriore, impressa nella loro personalità, ma già arcaica.”“Ciò che caratterizza gli estremismi politici, legati alla pratica delle punizioni corporali, sono il bisogno di violenza, di potere e sottomissione” (p. 93).


Credendo di servire la Francia, il proletariato o la razza”, gli estremisti “risolvono una tensione psicologica personale” (p. 112). Al contrario, “è la liberalizzazione delle tecniche educative” che provoca il declino dei totalitarismi, con qualche anno di scarto temporale (p. 320). Alice Miller, dopo aver constatato i traumi subiti dai suoi pazienti, ha avviato delle ricerche sulle tecniche di educazione in uso in Europa e sull’educazione dei tiranni della nostra epoca. In questo modo ha constatato che Hitler, Stalin, Ceaucescu, Mao e, più di recente, Saddam Hussein e Milosevic sono diventati quello che sappiamo a causa di un’infanzia maltrattata e/o vissuta in un’atmosfera di freddezza affettiva, senza niente e nessuno a compensare la brutalità delle botte e la mancanza di affetto. Personalità di questo tipo hanno assorbito dalla loro educazione che per essere bisogna dominare gli altri. Cosa che arrivano a fare grazie a un’intelligenza logica normalmente sviluppata, ma priva di emozioni. Vivendo in mezzo a popolazioni allevate nella maggior parte dei casi nello stesso modo, entrano in risonanza con le loro aspettative, le esaltano per mezzo di discorsi demagogici, rispondono ai loro desideri di sottomissione e presentano loro i capri espiatori di cui hanno bisogno per sfogare la violenza accumulata sotto alle botte subite. Per Alice Miller gli autori della “soluzione finale” erano uomini e donne che non potevano essere fermati dai loro sentimenti, perché erano stati educati fin dalla culla a non sentirli e a vivere i desideri dei loro genitori come se fossero i propri.

Da bambini, erano stati fieri di essere duri, di non piangere, di accettare “con gioia” tutti i loro doveri, di non avere paura, cioè in fondo: di non avere una vita interiore18. Questa nozione di assenza di vita interiore è stata poi confermata da recenti ricerche neurologiche sul funzionamento del cervello. Allo stesso modo, nella società attuale la psicosi, la droga e la criminalità sono “espressioni codificate delle esperienze della prima infanzia19. Al contrario, l’individuo che è capace di resistere al totalitarismo non lo fa per dovere ma “perché non può fare altro che restare fedele a se stesso.” “Più considero tali questioni, commenta Alice Miller, “e più tendo a pensare che il coraggio, l’onestà e l’attitudine ad amare gli altri non vanno considerate come virtù, né come categorie morali, ma come conseguenze di un destino più o meno clemente.”20

Le testimonianze di bambini e neonati dei nazisti confermano l’analisi di cui sopra?

Testimonianze di bambini di nazisti austriaci.“Ho vissuto la mia infanzia dai nonni. Erano molto rispettati in questo paese conservatore. Ma il loro concetto di educazione era basato sulla disciplina, la resistenza, le punizioni corporali, l’impermeabilità alle emozioni. Bisognava far parte dell’élite, della razza dei superuomini, in grado, pena venir considerati deboli, di rimuovere qualunque sentimento. (…) Non c’era posto alcuno per coccole o tenerezza. C’era l’ideologia al posto della bussola.” Doris, 40 anni, sociologa.“Mio padre era terribilmente autoritario. Aveva avuto due figli prima di incontrare mia madre, e ricordo le loro urla e le botte che prendevano quando venivano da noi in vacanza.” Brigit, 36 anni, psicoterapeuta21.

Non è aberrante credere che un genocidio possa avere quale lontana origine l’educazione subita dai suoi autori?

Sembra di certo aberrante finché non si sia presa coscienza della gravità e della molteplicità degli effetti della violenza educativa. Ciò che rende possibile un genocidio è un fondo di odio di una comunità per un’altra, l’accesso al potere da parte di una minoranza particolarmente determinata, capace di dare ordini e di organizzare il massacro, di garantirsi la partecipazione attiva o passiva di una gran parte della popolazione che approva il genocidio o lascia che gli esecutori la realizzino. Orbene, tutte queste condizioni si possono realizzare con più facilità all’interno di una popolazione sottomessa ad un tipo di educazione violenta.


La rabbia accumulata sotto alle botte ricevute nell’infanzia cerca naturalmente dei capri espiatori su cui potrà concentrarsi. La confusione mentale e morale provocata dalle botte rende gli animi vulnerabili ai discorsi più aberranti e favorisce quindi l’arrivo al potere degli estremisti. La pratica della sottomissione alla violenza ha formato delle masse di esecutori pronti a sottomettersi con docilità o accanimento all’ordine di massacrare altri esseri umani “per il bene” della comunità. L’esempio del Ruanda sembra illustrare molto bene questo meccanismo.


Qualche anno prima del genocidio, un’animatrice di un’associazione, che aveva soggiornato in diverse regioni del territorio fra la popolazione, studiò in particolare la maternità e l’educazione data ai bambini. Constatò così che le madri, che portavano i bambini sulla schiena, giungevano a far sì che i bambini si tenessero puliti a solo qualche settimana di vita, picchiandoli ogni volta che si sporcavano.


“Dopo qualche scapaccione, il bambino che sente il bisogno di fare pipì piange in anticipo, poiché sa che riceverà una correzione. Quando la madre lo sente piangere, lo toglie dal suo pareo e lo fa urinare.” E aggiunge: Questa educazione in cui i genitori sono vincitori e i figli perdenti produce dei bambini molto disciplinati e obbedienti, ma anche passivi e persi quando sono fuori dal loro abituale ambiente di vita. Crescendo, questi bambini diventano degli adulti relativamente sottomessi, passivi e fatalisti.”

Françoise Dolto, nel suo libro I problemi dei bambini22, aveva analizzato questi effetti otto anni prima del genocidio, mostrando che il bambino, che non ha il sistema nervoso completo, non può trattenere gli escrementi prima almeno di diciannove mesi per le femmine e ventidue mesi per i maschi… se lo fa, è solo basandosi sull’umore della madre, negando la propria natura. (…) Il bambino in questo modo contrariato, deritmato, (…) non saprà mai ciò che vuole fare (…) Avrà sempre bisogno di una legge esterna, di richiami e di ingiunzioni esteriori, per dirgli ciò che deve fare. Infatti ha iniziato la sua vita senza sapere niente di sé: è sua madre che sapeva al posto suo (…). Questi bambini, allevati in tal modo, li vediamo cercare di aggregarsi in gruppi quando sono giovani: in un gruppo portante di cui sono solo un piccolo elemento, come un bambino tra le braccia di un gigante adulto. Solo là sanno ciò che vogliono: vogliono quel che vuole il branco. La scuola poi non cerca di cambiare questa educazione iniziale: non si sforza affinché ciascuno pensi con la propria testa. Bisogna sapere, pensare, dire la stessa cosa23. Ora, uno dei fatti principali che emerge dal libro di Jean Hatzfeld sul genocidio del Ruanda, A colpi di machete24, resoconto delle interviste a un gruppo di assassini, è che l’obbedienza e il gregarismo sono stati la principale molla degli assassini, almeno tanto quanto l’odio degli Hutu per i Tutsi, anche questa ricevuto dai genitori durante la prima infanzia.

Potremmo moltiplicare le citazioni che fanno eco al testo di Françoise Dolto:


“Obbedivamo a tutto ed eravamo soddisfatti (…) Riconosco la mia obbedienza di quel periodo (…). Uccidere è molto scoraggiante se devi prendere da te la decisione di farlo, anche uccidere un animale. Ma se devi obbedire agli ordini dell’autorità, se sei stato adeguatamente condizionato, se ti senti spinto e tirato (…) ti senti soddisfatto e rasserenato. Ci vai senza più alcun disagio (…). Quando sei stato condizionato come si deve dalle radio e dai consigli, obbedisci più facilmente anche se l’ordine è di uccidere i tuoi vicini (…) Per prima cosa quindi bisognava obbedire ai capi” “Siamo stati educati all’obbedienza assoluta”. Jean Hatzfeld insiste anche sul “potere del conformismo sociale in periodi di crisi” (…) “Tra la moltitudine degli assassini, la messa al bando non è vivibile per una persona (…) Essere soli è troppo rischioso da noi. Dunque la persona si butta al segnale e dà il suo contributo, anche se la contropartita è l’opera sanguinosa che conoscete (…). Quando tutti hanno cominciato ad uscire col machete nello stesso momento, l’ho fatto anch’io senza perder tempo”.

Se aggiungiamo che i risultati dell’educazione in Ruanda sono altrettanto violenti e che abitualmente si ricorre all’uso della “chicote25 (il cui manico non è molto diverso da quello del machete), abbiamo un elemento esplicativo che non dovrebbe essere trascurato. Infatti, oltre all’addestramento alla sottomissione e al conformismo sopra indicati, i colpi di bastone ricevuti durante l’infanzia insegnano al bambino “per imitazione” il gesto stesso della violenza. Riducendo in questo modo anche la sua capacità di compassione, che si impara solo attraverso la compassione ricevuta durante la prima infanzia.
Tutti ingredienti questi in grado di rendere possibile un genocidio quando le circostanze politiche e sociali vi si prestano. Come ha detto una rifugiata dal genocidio: “Un genocidio non è una erbaccia cattiva che cresce su due o tre radici; ma su un nodo di radici ammuffite sotto terra senza che nessuno possa notarle.” Forse solo scavando fino all’infanzia degli assassini potremo raggiungere questo “nodo di radici” ammuffite.

Anche la violenza nei quartieri a forte immigrazione ha qualcosa a che fare con le punizioni corporali?

Si cita ogni sorta di causa di questa violenza, ma quasi mai la prima violenza che la maggior parte dei bambini subisce fin dalla più tenera età da parte dei modelli che rappresentano per loro i genitori. È pertanto evidente che in questi quartieri come dappertutto, e in questi anche più che altrove, i genitori picchiano i figli. Le famiglie che abitano le periferie sono spesso di bassa estrazione sociale, ambiente in cui le punizioni corporali sono un’abitudine consolidata. Sono sovente di origine africana, continente in cui si punisce col bastone. O i genitori continuano a utilizzarlo, e in questo caso la violenza ha sui loro bambini l’effetto che abbiamo visto sopra, oppure rinunciano a questo metodo educativo per paura di venire denunciati ai servizi sociali (si tratta della cosiddetta “sindrome da numero verde”), e dato che non hanno l’esperienza di alcun altro metodo educativo, non sanno più come allevare i loro figli. “Quando ero piccola, mi mettevano del peperoncino negli occhi per calmarmi. Oggi ce l’hanno vietato. Allora, invece di trovare una via di mezzo tra le due culture, abbiamo abbassato le braccia. E oggi, i nostri piccoli di tredici anni si mettono a fare i banditi.” (Discorso di una madre di famiglia di un quartiere di Essonne [periferia di Parigi], “Le Monde”, 14 novembre 2000). In questi due casi, violenza o lassismo (molto spesso accompagnato anche da violenze) il risultato è la violenza su di sé (attraverso la droga, per esempio) o sugli altri.

Le punizioni corporali rendono obbedienti i bambini?

La sculacciata, o a volte la sola paura della sculacciata, permette spesso nell’immediato di farsi obbedire da un bambino. In alcuni casi persino a lungo termine: alcuni bambini si sottomettono alla paura e cominciano a essere docili. Ma in molti altri bambini gli schiaffi e le sculacciate ripetute producono un effetto di indurimento e provocano delle reazioni da bullo e di sfida, soprattutto in presenza dei compagni o dei fratelli e sorelle davanti ai quali, soprattutto, è importante non apparire deboli. Quando si scontra con il “Non mi hai fatto male!” del bambino, il genitore aumenta la dose e il vigore delle botte. Continuare a picchiare in queste condizioni significa, come si è già detto, “gettare un secchio di benzina su di un incendio”, e la relazione violenta si aggraverà sempre più durante la crescita del bambino.

Le punizioni corporali migliorano l’apprendimento intellettuale?

Tutto sembra provare il contrario. Gli insegnanti sanno molto bene che i bambini picchiati hanno, al contrario, più difficoltà degli altri. E non si vede proprio come potrebbe essere diversamente. Un adulto sarebbe in grado di conservare il proprio animo libero e limpido se dovesse fare un compito sotto minaccia, in caso di errore o di resistenza, di vedere un gigante di tre o quattro metri di altezza precipitarsi su di lui per picchiarlo? È proprio questa la situazione del bambino in rapporto all’adulto. D’altronde la maggior parte delle persone picchiate durante l’infanzia ha dimenticato ciò che le botte volevano insegnare. La televisione ha trasmesso un esperimento in cui alcuni studenti dovevano realizzare una serie di test con un braccialetto infilato al polso attraverso cui sarebbe stata trasmessa loro, nel caso fossero incorsi in errore, e ne erano stati avvertiti, una leggera scarica elettrica. Per alcuni minuti non accadde nulla e gli studenti effettuarono il test. Ma, a cominciare dal momento in cui uno studente lanciò un urlo come se avesse subìto la punizione (in realtà si trattava di un complice dello sperimentatore, che invece non riceveva alcuna scossa) il lavoro degli altri cominciò a rallentare e a comportare degli errori.

La spiegazione è verosimilmente quella che suggeriscono le ricerche condotte all’università di Yale:

“Il cervello emozionale (quello in cui si manifesta la paura) ha la capacità di “staccare la spina” alla corteccia prefrontale, la parte più avanzata del cervello cognitivo… Sotto l’effetto di uno stress importante, la corteccia prefrontale non risponde più e perde la propria capacità di guidare il comportamento.”26


Un confronto realizzato negli USA tra 46 Stati, durante gli anni scolastici 1996-1998, mostrò che i migliori risultati universitari sono stati ottenuti da quelli che vietano le punizioni corporali a scuola, mentre quelli che le autorizzano hanno avuto i risultati peggiori.

La violenza educativa può avere degli effetti sul QI (quoziente intellettivo) dei bambini?

Uno studio realizzato dall’Università del New Hampshire nel 2009 dal professor Murray Straus27 ha mostrato che i bambini dai 2 ai 4 anni che non ricevono sculaccioni hanno quozienti intellettivi in media di cinque punti in più rispetto ai bambini che ricevono sculaccioni. Per i bambini dai 5 ai 9 anni, la differenza, sempre in favore dei bambini non sculacciati, è di tre punti. Straus ne deduce: “Più i genitori sculacciano, più lo sviluppo mentale del bambino è lento. Ma anche poche e limitate sculacciate implicano un abbassamento del QI.” La ragione di tale effetto sarebbe doppia. Qualsiasi punizione corporale genera un grande stress per i bambini che la subiscono due o tre volte alla settimana. Lo stress legato alle punizioni corporali implica un aumento dei sintomi post-traumatici, ad esempio la paura che si producano eventi terrificanti. Il bambino viene travolto dalle emozioni che non riesce a controllare e che disturbano il funzionamento delle sue capacità cognitive. “Qualsiasi genitore preferisce avere figli intelligenti – prosegue Straus – questo studio dimostra che evitando di sculacciare i bambini, i genitori hanno il vantaggio di raggiungere questo obiettivo”.

Le punizioni corporali insegnano efficacemente la morale e i comportamenti adeguati?

Alzi la mano chi non ha mai visto un padre o una madre picchiare un bambino per insegnargli “a non picchiare i bambini più piccoli”. Cosa può ricavare un bambino, che si comporta soprattutto per imitazione, da un insegnamento tanto contraddittorio? La situazione in cui si trova dunque il bambino è esattamente quella che gli psicologi chiamano il “doppio vincolo”, cioè è intrappolato tra due direttive contrastanti come in un corto circuito. Il messaggio verbale dei genitori è “Non picchiare un essere umano più piccolo di te” oppure “Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te”, ma il messaggio gestuale, quello che il bambino riceve per imitazione, anche se non se ne rende conto, è “Non farti scrupolo a picchiare, come faccio io, gli esseri umani più piccoli di te!”, “Fai agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te”.


Allo stesso modo, un bambino che si comporta impulsivamente, i cui genitori temono che attraversi la strada senza guardare, controllerà meglio la sua impulsività dopo essere stato scosso o picchiato? Possiamo dubitarne.


Si dice spesso che picchiare un bambino è un modo per insegnargli “la legge” e i limiti che deve conoscere. Strano metodo di educazione civica, denunciato come un delitto da tutte le leggi, vietato agli adulti contro altri adulti, condannato dalla Convenzione dei Diritti del Bambino firmata da tutte le nazioni, e condannato dal codice penale, anche se, in pratica, non è sanzionato. La sola legge che le botte insegnano è la legge del più forte, quella di cui in seguito deploriamo sia la regola nella società. E come possiamo insegnare dei limiti, utilizzando un metodo, le botte, che è esso stesso un’effrazione violenta nel territorio del bambino, il superamento dei suoi margini di sicurezza, e un mezzo che è molto difficile per la gran parte dei genitori mantenere entro una misura ragionevole?

Su quali comportamenti innati si va ad agire quando si picchia un bambino?

Utilizzare schiaffi e sculacciate per far ubbidire un bambino significa immaginare che “capirà” e che la prospettiva di una nuova punizione lo porterà a non ripetere il comportamento che abbiamo voluto reprimere. Immaginiamo che entrino in gioco solo il dispiacere della punizione, l’intelligenza del bambino e la sua volontà che gli farà evitare di subire di nuovo tale disagio. Ma il bambino non è solo un corpo sensibile alle punizioni, un’intelligenza e una volontà.


Quando picchiamo un bambino, interferiamo con i comportamenti innati che abbiamo in comune con i primati.


Il comportamento di imitazione che compare nel bambino già dalle prime ore di vita è all’evidenza uno dei primi coinvolti. Grazie alle ricerche effettuate nel 1992 dal professor Giacomo Rizzolatti dell’Università di Parma, sappiamo che il nostro cervello contiene dei neuroni chiamati, a causa del ruolo che giocano, “neuroni-specchio”. Quando osserviamo un comportamento qualsiasi, essi si attivano come se adottassimo, agendo, lo stesso comportamento. L’osservazione di un atteggiamento, di un gesto, prepara la strada, nel nostro cervello, alla sua imitazione. In altri termini il cervello del bambino che vede suo padre o sua madre picchiarlo si attiva, esattamente come se fosse lui stesso a picchiare. Picchiare un bambino vuol dire per prima cosa insegnargli a picchiare. Significa aprire nel suo cervello le vie della violenza. E bisogna notare che la violenza educativa è una violenza dall’alto al basso, dal forte verso il debole. Essa cioè non insegna al bambino a difendersi, ma ad aggredire i più deboli.

Sappiamo inoltre, dopo una serie di esperienze riportate nel libro dello psicologo Albert Bandura, Aggression, Analyse d’un apprentissage social28, che affinché un comportamento violento sia effettivamente trasmesso sono necessarie tre condizioni. La prima, che i bambini ammirino e amino i loro modelli. La seconda, che i modelli riescano a modificare il comportamento del bambino. La terza, che siano portati a credere che le punizioni violente fossero meritate. Per lo più queste tre condizioni sono soddisfatte nella relazione genitori-figli. Picchiando un bambino non gli comunichiamo la civiltà, ma il suo contrario: la violenza.

I comportamenti di salvaguardia sono quelli che spingono un animale a immobilizzarsi, a fuggire o a difendersi quando si manifesti un pericolo. Un’esperienza presentata da Henri Laborit nel film Mon oncle d’Amérique è davvero illuminante su questo argomento. Un topo, posto in una doppia gabbia e sottoposto a leggeri shock elettrici attraverso il pavimento della gabbia, se ne ha la possibilità, inevitabilmente cerca, ad ogni scossa, di fuggire dall’altra parte della gabbia, da dove, quando riceve una nuova scossa, può ripassare nella prima. La sua pressione sanguigna resta uguale, e se lo si disseziona si scopre che non ha alcuna lesione agli organi. Lo stesso accade se vengono posti due topi nella gabbia e, somministrando scosse elettriche ad un topo in presenza dell’altro, entrambi vengono lasciati liberi di lottare fra di loro. L’esperienza può durare a lungo senza conseguenze infauste per i topi. Ma se mettiamo un solo topo in una gabbia da cui non possa fuggire, il topo si raggomitola su se stesso, la sua pressione sale e dissezionandolo scopriamo delle lesioni nel sistema digestivo. Gli ormoni dello stress, normalmente destinati a provocare nell’animale la fuga o la difesa, hanno attaccato il suo stesso organismo, non potendo svolgere il loro normale ruolo. Oggi sappiamo che gli ormoni dello stress aggrediscono anche i neuroni. Ora, qual è la situazione del bambino picchiato dai genitori? È quella del terzo topo, che non può fuggire né difendersi. Lo stress scatenato dalle botte e la paura delle botte stesse attacca il suo organismo e può provocare nel cervello le micro lesioni di cui parlava Damasio.


I comportamenti di attaccamento identificati e analizzati dallo psicanalista inglese Bowlby negli anni Cinquanta sono anch’essi influenzati dalla violenza parentale. Può trattarsi in questo caso di una vera e propria perversione che lega nella psiche l’amore alla violenza. Molti visitatori di siti sado-masochistici su Internet testimoniano che devono alle sculacciate dell’infanzia la loro difficoltà a raggiungere l’orgasmo se non vengono picchiati. Anche la violenza coniugale ha molto spesso come origine la violenza subita da parte dei genitori. E c’è il forte sospetto che buona parte delle violenze esercitate dai ragazzi sulle ragazze derivi dalla violenza educativa.


L’osservazione dei primati e dei mammiferi ha rivelato dei comportamenti di sottomissione che in effetti sono un prolungamento dei comportamenti di attaccamento. Il loro bisogno di legami sociali è così forte che le giovani scimmie si sottomettono al maschio dominante malgrado le frustrazioni che subiscono dallo stesso. Costringendo i bambini all’obbedienza, la violenza educativa li può portare alla provocazione ma, più spesso, rinforza questa tendenza innata alla sottomissione. Le esperienze di Stanley Milgram hanno mostrato che due terzi degli uomini sono capaci di torturare a morte un proprio simile per semplice sottomissione a un’autorità che essi riconoscono. E a differenza di quanto si crede, la violenza educativa insegna non tanto l’obbedienza alla legge quanto piuttosto a un’autorità violenta percepita come un’incarnazione dell’autorità genitoriale. Cioè la violenza spinge coloro che vi sono sottomessi ad obbedire tanto a un piccolo bullo di quartiere quanto a un Hitler, un Saddam Hussein o un Kim-Jong-Il, con tutti i gradi di violenza collettiva che tutto ciò può comportare.


In questo modo, lungi dall’avere un effetto periferico e superficiale, le botte date al bambino dai propri genitori lo colpiscono fino alle zone più centrali e arcaiche del suo cervello. Crediamo di colpire il suo sedere, il busto, le mani o la schiena, mentre in realtà è come se innescassimo il meccanismo di un’arma a testata intelligente che, a nostra insaputa e contro la nostra volontà, andrà a colpire il bambino dritta al cervello.

Quali sono i princìpi acquisiti da un bambino picchiato?

Picchiare un bambino significa fargli ammettere una gamma di princìpi che distruggono la fiducia in se stesso:

  • Ho il diritto di picchiarti.
  • Ho ragione a picchiarti.
  • Facendoti del male, ti faccio del bene.
  • Credi che io ti faccia del male, ma ti sto facendo del bene.
  • Hai torto a credere che ti faccia del male.
  • Non sei capace di capire quello che ti faccio.
  • Le tue sensazioni, i tuoi sentimenti sono sbagliati.
  • Non devi avere fiducia in te stesso.
  • Non ascoltare la voce che viene da dentro di te.
  • Ascolta solo la voce di tuo padre, tua madre.
  • È lei che ti dice cosa bisogna fare.
  • Soffrire è bene.
  • Far soffrire è bene.

Ciò che un bambino impara non è tanto quello che cerchiamo di insegnargli, ma il modo in cui glielo insegniamo. È su questa base che si formano i suoi princìpi di vita. In ciò che le botte ricevute insegnano a un bambino possiamo riconoscere senza fatica i peggiori princìpi del machiavellismo, della vigliaccheria e della crudeltà:

  • I più grandi e i più forti hanno il diritto di picchiare i più piccoli e i più deboli. La ragione del più forte è sempre la migliore.
  • Quando siamo deboli e piccoli dobbiamo sottometterci alla violenza.
  • Per il bene dei bambini, dobbiamo far loro del male. Il fine giustifica i mezzi.
  • Possiamo picchiare qualcuno per il suo bene.
  • Quando amiamo qualcuno, abbiamo il diritto di farlo soffrire. Chi ama molto picchia molto.
  • Hanno ragione di picchiarmi perché sono cattivo.
  • La maggior parte dei bambini viene picchiata, dunque la maggior parte dei bambini è cattiva.
  • Non bisogna far attenzione alla sofferenza di coloro che vengono picchiati.

Questi princìpi si inscrivono nel più profondo dello spirito del bambino e ispireranno la sua condotta di adulto senza che nemmeno lo sappia o lo voglia.

È vero che i bambini “cercano le sculacciate”?

I sostenitori di questo tipo di punizione hanno spesso davanti agli occhi il bambino insopportabile, sfrontato, provocatore che sembra fare di tutto per ottenere una sculacciata: “Se l’è proprio cercata!” È vero che il bambino nella sua esplorazione dei comportamenti possibili cerchi naturalmente fin dove può arrivare. Se non siamo riusciti a convincerlo che questo o quel comportamento è vietato, è naturale e al limite sano che cerchi di riprodurlo. Noi adulti non trasgrediamo mai dei divieti? Se reagiamo di nuovo senza la forza di convinzione necessaria, il bambino può fare il gioco di provocare la madre o il padre. A partire da una certa età, e a condizione che si trovi fra bambini della sua età, può dire a se stesso: “Se non lo faccio, sono una pappamolle”. In quanto genitori, possiamo essere legittimamente esasperati da tale comportamento, ma questo non giustifica una sculacciata. Bisogna piuttosto esaminare che cosa, nel nostro atteggiamento, abbia potuto produrre questo comportamento.


In un bambino che abbia già ricevuto delle sculacciate, può prodursi tutta un’altra cosa: se la sculacciata ha suscitato nel bambino un piacere sessuale, può molto semplicemente cercare di ottenerne la ripetizione. Un lettore mi ha confessato di aver chiesto a sua madre, una maestra che egli aveva visto picchiare i compagni, di dare anche a lui uno sculaccione per questo motivo.


Ma la maggior parte delle volte, i bambini, quando non sono stati induriti dalle botte ricevute, e spesso anche quando lo sono stati, provano una paura intensa delle sculacciate e delle punizioni corporali. Molti bambini, per evitarle, sono disposti a sopportare qualunque cosa. Nel giugno del 1999 in Utah (USA) è stato trovato un bambino sul punto di morire di caldo in un’auto. I suoi genitori gli avevano concesso di scegliere tra una sculacciata e un’ora in un’auto chiusa in pieno sole. Il bambino non aveva esitato. In Africa molti bambini non vanno più a scuola né fanno ritorno a casa per paura delle botte che riceverebbero. Questo fatto è diventato un problema sociale in molti Paesi. Un uomo per nulla sospettabile di codardia come Churchill ha conservato un ricordo terribile dei due anni passati in una scuola in cui venivano praticate le punizioni corporali. Nella Repubblica Sudafricana è stato trovato uno scolaro in una riserva dove rischiava di venire attaccato dai leoni: preferiva quella sorte piuttosto di quella che lo attendeva al collegio. Balzac, che ne sapeva qualcosa, comparava il destino dello studente che sta per essere sculacciato a quello del condannato che si reca al patibolo. Il fatto che alcuni bambini, che hanno preso l’abitudine alle botte per averne ricevute spesso, sfidino e provochino i loro genitori non deve indurre a credere che sia il caso della maggior parte dei bambini.

Se tutto quello sopra esposto è vero, come mai non siamo tutti all’ospedale o in prigione visto che quasi tutti siamo stati picchiati? La maggior parte della gente è per lo meno apparentemente normale?

Com’è già stato detto poco sopra, gli effetti della violenza educativa per fortuna sono compensati dalla presenza, accanto alle vittime, di questi “testimoni compassionevoli e consapevoli” di cui parla Alice Miller e che permettono ai bambini di conservare la propria integrità malgrado ciò che subiscono. I bambini che, nonostante siano stati picchiati, hanno conservato il loro equilibrio e non replicano su nessuno questo comportamento, in particolare non sui propri figli, lo devono in generale agli sguardi benevolenti, di affetto e di stima di un parente, di un vicino, di un insegnante, che hanno permesso loro di restare se stessi. Lo devono anche, come ha mostrato uno studio di Hunter e Kilstrom, alla loro capacità di rivolta contro ciò che hanno subìto. Ma questa capacità di ribellione positiva (diversa dalla ribellione che conduce, ad esempio, alla delinquenza) si sviluppa più facilmente in coloro che hanno conosciuto la stima, non fosse che di una sola persona, piuttosto che in coloro a cui nessuno ha insegnato che ciò che subivano non era meritato. Lo stesso studio ha mostrato che per un bambino il semplice fatto di capire di non aver meritato ciò che ha subìto riduce il rischio di vederlo diventare un delinquente o una persona violenta.


D’altra parte, gli effetti della violenza educativa variano evidentemente a seconda del livello di violenza subita. Il livello più elevato è quello che può produrre i serial killers e, sul piano politico, la presa di potere degli assassini di massa come sono i dittatori e la realizzazione dei loro progetti. Il livello subito inferiore produce varie patologie, gli incidenti, la violenza sulle donne, il maltrattamento continuativo, la delinquenza e la criminalità ordinaria del diritto comune. E al livello più basso della violenza educativa corrisponde, in una sorta di risultato minimo garantito, la ripetizione della violenza educativa ordinaria (pacche, sberle e sculacciate) sui bambini o la giustificazione di questo modo educativo.

Ma in fin dei conti il bambino ha davvero bisogno di essere corretto?

Il neonato è completamente innocente. Se è animato come ogni essere vivente, non è portatore di alcun peccato originale, di nessuna “pulsione di morte”, di nessuna “violenza fondamentale”. I futuri Hitler, Stalin, Mao, Pol Pot, Milosevic, Saddam Hussein, Landru, Dutroux e tutti quelli che possiamo immaginare come i peggiori criminali, sono stati dei bambini innocenti che avrebbero potuto diventare dei saggi, degli eroi o dei santi oppure uomini normali, capaci di semplici sentimenti umani. Il neonato vuole solo vivere, ma non può vivere se non “con”. È completamente dipendente dai suoi genitori o da chi lo alleva. “Il legame con i genitori – dice lo psichiatra infantile Alain Vanier – è ciò che il bambino considera di più prezioso, più ancora della propria integrità fisica.” L’intero sviluppo della sua personalità, quindi, si compie in interazione con le personalità che lo circondano, in primo luogo con sua madre.

Ogni reazione di chi gli sta attorno, positivo o negativo, lo segna, si imprime in lui ed egli vi reagisce con il proprio personale temperamento. Daniel Stern, nel suo Diario di un bambino29 ha mostrato magistralmente come il bambino, sgridato o picchiato per la prima volta per aver toccato un oggetto che non sapeva fosse vietato, è spaventato da ciò che gli succede, ma non ne capisce la ragione. Ripete quindi la propria esplorazione “per dissipare la confusione” e “ottenere questa volta una diversa reazione”. L’adulto crede invece che il bambino agisca per provocazione e aggressività. Questa falsa interpretazione rischia allora di diventare “l’interpretazione ufficiale ammessa per il bambino, che la conserverà crescendo”. Può succedere in questo modo che il bambino “cominci a credersi aggressivo, e persino ostile. L’altrui realtà è diventata la sua. In questo modo, la sconfitta dell’intersoggettività può introdurre una distorsione a vita.”30.

Perché il divieto delle punizioni corporali dovrebbe essere un pilastro dell’azione delle organizzazioni di difesa dei diritti dell’uomo?

“È crudele, inumano e degradante picchiare qualcuno a colpi di bastone. Le norme internazionali dispongono chiaramente che un trattamento di questo tipo costituisce una forma di tortura. Tale punizione non deve trovare posto nel mondo odierno”, dichiarava nel 2002 Amnesty International a proposito della punizione a bastonate applicata agli immigrati in Malesia. È evidente che tali propositi siano del tutto legittimi. Ma com’è possibile che nessuna organizzazione internazionale faccia simili dichiarazioni allorquando i bambini subiscono la bastonata nella maggior parte dei Paesi del mondo, ivi comprese le scuole di 22 Stati degli USA? Perché questa discriminazione per età che fa sì che ci si mobiliti a giusto titolo per la difesa degli adulti e che si resti passivi di fronte alle bastonate quando sono i bambini a esserne sottomessi da parte dei loro genitori o insegnanti?

Perché il divieto delle punizioni corporali dovrebbe essere un pilastro dell’azione delle femministe?

Il movimento femminista ha aperto molte strade nel senso della lotta contro la violenza all’interno delle mura domestiche (abusi sessuali, stupri, violenza coniugale, maltrattamenti riconosciuti come tali) ma non sembra essersi ancora mai rivolto a occuparsi della violenza educativa ordinaria. Proprio questo è invece il terreno in cui nascono i maltrattamenti, la maggior parte della violenza degli adulti e, in particolare, la violenza coniugale. Molte madri adottano inconsciamente dei comportamenti che in buona fede ritengono essere educativi, ma che rischiano di condurre i loro figli ad avere lo stesso tipo di comportamento nei riguardi della loro futura moglie o compagna. Picchiando le figlie, queste madri corrono il rischio di vederle, come molte donne indiane per esempio, accettare di venire picchiate dai loro marito “per validi motivi”31, molto semplicemente perché pensano di essere state picchiate dai loro genitori “per dei validi motivi”, gli stessi motivi che le spingono a picchiare i loro figli.


I movimenti femministi non resterebbero forse fedeli alla loro vocazione inserendo tra gli obiettivi il voto di una legge che vietasse espressamente la violenza educativa? Fintanto che la violenza educativa non sarà formalmente vietata e fino a che non riusciremo ad aiutare i genitori ad allevare i figli senza violenza, la violenza coniugale avrà ancora un luminoso futuro32.

Perché il divieto delle punizioni corporali dovrebbe essere un pilastro dell’azione degli ecologisti?

I bambini fanno parte della natura e se proteggiamo gli animali sarebbe almeno altrettanto logico impegnarsi affinché i bambini non siano vittime di brutalità. Nessun animale per propria natura tratta male i propri cuccioli per educarli. Noi agiamo quindi contro natura quando lo facciamo.


Soprattutto, i bambini picchiati dai genitori fin dalla più tenera età adottano a propria volta il punto di vista dei loro genitori. Pensano di essere davvero colpevoli, e che i genitori abbiano ragione a picchiarli. Negano se stessi sotto l’effetto delle botte. Perdono il contatto con le proprie emozioni che in effetti sono la loro bussola interiore, il loro vero sé. Più tardi, guardano al bambino che sono stati con disprezzo o derisione. Diffidenti verso se stessi, visto che hanno perso, per questa ragione, una gran parte dell’attitudine alla semplice felicità di esistere, e hanno bisogno per sopravvivere di sostituti all’essere e i sostituti più ricercati, oltre a ogni tipo di droga, sono l’apparire, l’avere e il potere. Nulla come la ricerca collettiva di questi sostituti può generare una società distruttiva della natura poiché avida di possesso, di consumismo e di potere. L’avidità di possedere sempre più oggetti inutili, la corsa all’oro e alla smania di potere rendono ineluttabile la distruzione della natura che sfruttiamo e inquiniamo senza fine e senza scrupoli. Non giungeremo a salvaguardare la vita sul pianeta finché non verremo a capo della violenza generata dalla violenza educativa. Non potremo prendere le necessarie misure per la sopravvivenza del pianeta fintanto che non riusciremo a diminuire la pressione della paura generata dalla violenza e finché la maggior parte degli uomini non potrà godere delle proprie facoltà affettive e intellettuali. Cosa che non può succedere fintanto che la maggior parte dei bambini avrà il cervello perturbato sin dall’infanzia dal modo in cui viene educata.

Perché le Chiese dovrebbero chiedere l’interdizione della violenza educativa?

In effetti, il divieto della violenza educativa dovrebbe essere sostenuto da tutte le religioni, se esse desiderano veramente il rispetto delle persone, specialmente dei bambini, e se desiderano davvero la pace e lo stabilirsi di relazioni meno violente tra gli uomini. Ma in particolare ciò dovrebbe avvenire per le religioni cristiane grazie alle parole senza ambiguità di Gesù sui bambini, e all’etica del rispetto propria del messaggio evangelico. Senza dubbio dovrebbero sentirsi obbligate a un mea culpa pubblico per il modo in cui spesso i bambini sono stati trattati nei loro istituti scolastici. Ma esistono già dei mea culpa in precedenza espressi dalla Chiesa Cattolica e da Papa Giovanni Paolo II. Per quanto riguarda le Chiese Protestanti, il Consiglio Ecumenico delle Chiese ha cominciato, almeno in Africa, a prendere posizioni abbastanza chiare su questo argomento. La Chiesa Cattolica, invece, si accontenta per ora di condannare i maltrattamenti, ma non si pronuncia sulla violenza educativa ordinaria, il che è del tutto insufficiente visto che nessuno se ne sente toccato. Troverete qui annesso un argomentario che potrà servire a coloro che si augurano di fare evolvere l’atteggiamento delle Chiese su questo problema.

Perché la violenza educativa ordinaria non viene quasi mai citata tra le cause della violenza di adolescenti e adulti?

Nel 1999 Claude Bartolone, allora Vice Ministro francese delle aree urbane, chiese a ricercatori dell’INSERM (ricerca medica) e all’Osservatorio Europeo sulla violenza scolastica di fare un rapporto sulla violenza dei bambini e degli adolescenti. Questo rapporto, consegnato al ministro e pubblicato nel settembre del 2000 che analizza le cause di questa violenza, termina con cento proposte per una prevenzione globale della violenza. Di queste, sei riguardano la famiglia, ma neanche una menziona il fatto che il bambino trascorre i primi anni nella famiglia e che il primo contatto dei bambini con la violenza, a volte persino quando hanno solo pochi mesi, avviene sotto la mano, la frusta o la cinghia dei propri genitori. All’interno di questo rapporto troviamo solo qualche riga che evoca la violenza educativa, ma comunque molto interessante:


“I bambini vittime di violenza parentale, in particolare di violenze materne (violenze fisiche e ancor peggio violenze sessuali) sono più a rischio, durante l’adolescenza, di delinquere, di avere problemi psicosomatici, difficoltà scolastiche, problemi relazionali e, nell’età adulta, di depressione, tentativi di suicidio, alcolismo, problemi coniugali”. (Marie Choquet).


Malgrado questo elenco inquietante delle conseguenze di ciò che consideriamo abitualmente come qualcosa di banale e senza ripercussioni: sberle, sculacciate, botte sulle mani, punizioni date da madri o padri, nessuna proposta è stata fatta al ministro da parte dei ricercatori per lottare contro questa forma di violenza.


Perché questa “dimenticanza”?

Gli specialisti di violenza, i ricercatori, gli scienziati, sono uomini come tutti gli altri. Spesso anche loro sono stati picchiati. Abbiamo visto che uno degli effetti della violenza educativa è di renderci ciechi e sordi ai suoi effetti. Dato che l’umiliazione e la vergogna di essere stati picchiati restano inscritti nell’adulto, ciò che si è subìto viene virato in derisione, e si resta incapaci di immaginare che tutto ciò possa avere delle conseguenze gravi. Si evita in tal modo di pensare a queste umiliazioni e si arriva al punto di attribuire alla violenza degli adulti qualsiasi causa possibile, tranne proprio quella (nello stesso rapporto, troviamo un lungo capitolo sulla pretesa “violenza fondamentale – innata?” dei bambini). La violenza educativa è talmente legata nel nostro intimo all’umiliazione subita durante l’infanzia, che prenderla sul serio non risulterebbe serio agli occhi della maggior parte delle persone. Cosicché la violenza educativa, tanto sul piano individuale che su quello collettivo, viene relegata in un angolo morto della nostra mente. È un punto cieco posto nel bel mezzo di tutte le nostre conoscenze.

L’uomo è un animale condizionato dai suoi genitori alla violenza fin dalla culla. Condizionato a tal punto da non poter più prendere coscienza di essere stato condizionato. Quanto tempo occorrerà perché se ne renda finalmente conto?33


Chiunque può diventare Hitler?

Si sente spesso dire, in particolare dai cristiani o da persone influenzate dalla psicoanalisi: “Chiunque può diventare un mostro. Ci vuole così poco per far scivolare gli uomini migliori nella mostruosità e nel crimine.” Questa idea sembra molto seria, cosciente, realistica. Ricordo di aver detto anch’io ai miei allievi, dopo aver letto un libro di Jung: “Tutti noi viviamo sopra a un vulcano interiore che può eruttare in qualunque momento.” Questa idea sembra profonda, ma è falsa.


Essa infatti non tiene semplicemente conto dell’essenziale: il condizionamento alla violenza che abbiamo o non abbiamo subìto nell’infanzia. Un bambino che ha ricevuto dei traumi e che non ne è cosciente, che ha accumulato, a causa della violenza o dell’indifferenza dei suoi genitori o per gli abusi sessuali subiti, una enorme carica di violenza, può in effetti divenire un criminale incallito, un “mostro”, un Hitler. Un bambino che viceversa abbia potuto conservare durante l’infanzia la propria integrità, il cui cervello non sia stato perturbato dagli educatori, che sia stato amato e rispettato, non diverrà mai un mostro. Se gli capita, sotto la pressione di circostanze particolari o per sbaglio, di commettere un delitto o un crimine, ne proverà talmente tanto rimorso che cercherà con tutte le sue forze di ripararlo. L’umanesimo classico che non tiene conto di questa distinzione è solo un pensiero astratto senza rapporto con la realtà dei condizionamenti subiti dai bambini e che, una volta di più, dissimula questa realtà.

Ma esistono anche bambini che picchiano i genitori…

Sì. Sappiamo ad esempio che in Québec il 13% degli adolescenti aggredisce fisicamente la madre. Ma lo studio di Linda Pagani che ha stabilito tale cifra nel corso di un’indagine condotta su di un campione di 725 ragazze e 687 ragazzi di diverse regioni del Québec mostra anche


“l’esistenza di una relazione tra il modo in cui i genitori gestiscono la disciplina e i conflitti, e la condotta nei confronti della madre. Se gli adulti gridano, insultano e lanciano ingiurie per far valere la loro autorità, l’adolescente avrà la tendenza ad adottare lo stesso comportamento; se sono ricorsi alla punizione corporale (per esempio lo schiaffo), il giovane utilizzerà la stessa strategia per esprimere la propria collera.”


In altre parole, è verosimile che la maggior parte dei casi di genitori picchiati abbia per origine casi di bambini picchiati.

La sculacciata
La sculacciata
Olivier Maurel
Perché farne a meno: domande e riflessioni.Le punizioni corporali sono dannose per il corpo e la psiche del bambino. Ma è possibile educare senza picchiare? Se sì, come? Le punizioni corporali sono pericolose per i bambini, in quanto le conseguenze della violenza rimangono permanenti sul corpo e nella psiche.Nel più lungo periodo, inoltre, molti studi dimostrano come questa pratica sia un fattore importante nello sviluppo di comportamenti violenti e sia associata ad altri problemi durante l’infanzia e nella vita. Come possiamo educare i bambini che mostrano un temperamento più aggressivi?Del resto, è stato forse dimostrato che schiaffi e sculacciate rendono più obbedienti i bambiniMigliorano forse l’apprendimento?La sculacciata di Olivier Maurel è una guida che ci permette di aprire gli occhi senza colpevolizzarci, rispondendo con chiarezza a queste e a molte altre domande. La prefazione è curata dalla celebre psicologa e psicanalista Alice Miller. Conosci l’autore Olivier Maurel è nato a Toulon nel 1937. Professore di Lettere al liceo Dumont d’Urville dal 1965 al 1997, è padre di cinque figli.Cresciuto in una famiglia numerosa, le letture dei libri di Alice Miller hanno accresciuto il suo interesse per il tema della violenza educativa, portandolo ad approfondirne le numerose ripercussioni sulla salute psico-fisica dei bambini e sul loro sviluppo. A partire dagli anni ’60, poi, si è fatto promotore di numerose battaglie sociali contro la violenza nel mondo e il traffico di armi.Ha fondato l’associazione Oveo (Osservatorio sulla violenza educativa ordinaria), con lo scopo di descrivere tutte le forme di violenza comunemente accettate in tutto il mondo, a scuola e in famiglia.