postfazione

È lecito per il nostro sistema giudiziario
educare con l'uso della forza?

di Paola Carrera e Davide Angeleri

Apprendere che nella battaglia della Vita si può facilmente vincere l’odio con l’amore, la menzogna con la verità, la violenza con l’abnegazione dovrebbe essere un elemento fondamentale nell’educazione di un bambino

Gandhi

Per parlare dell’atteggiamento del nostro sistema rispetto alla violenza educativa, non possiamo che partire dal dato normativo vigente: l’art. 571 c.p., rubricato come “abuso dei mezzi di correzione”, sanziona con la reclusione fino a sei mesi

chiunque abusa dei mezzi di correzione e disciplina in danno di una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, ovvero per l’esercizio di una professione o di un’arte, se dal fatto deriva il pericolo di una malattia nel corpo e nella mente

le pene sono aumentate se dal fatto deriva una lesione o la morte della vittima.


Il delitto di abuso dei mezzi di correzione e disciplina viene considerato, ormai unanimemente, come norma arcaica, retaggio di un’ideologia di stampo autoritario risalente al periodo fascista, che riconosceva ai genitori, ai maestri e ai precettori il diritto all’utilizzo della violenza allo scopo di educare i soggetti sottoposti, secondo il principio “virga atque correctio tribut sapientiam”.


Di fatto, già corrente l’anno 1996 la Cassazione Civile, con la sentenza n. 4904, affermava che:

È oggi culturalmente anacronistico e giuridicamente insostenibile un’interpretazione degli artt. 571 [abuso dei mezzi di correzione] e 572 c.p. [maltrattamenti in famiglia] fondata sull’opinione espressa nella relazione al codice penale Rocco del 1930, che “la vis modica è mezzo di correzione lecito”, propria di una superata epoca storicosociale, impregnata di valori autoritari anche nella struttura e nella funzione della famiglia. Tali norme vanno, invece, interpretate alla luce della concezione personalistica e pluralistica della Costituzione (in particolare artt. 2, 3, 39, 30, 31) e del riformato diritto di famiglia che, al tradizionale modello istituzionale e gerarchico di famiglia hanno sostituito una visione partecipativa e solidaristica, che nella famiglia individua il coordinamento degli interessi dei suoi componenti e la garanzia dello sviluppo della personalità dei singoli. Tale normativa, che di per sé già impone una interpretazione adeguatrice delle fattispecie penali in esame, ha ricevuto un ulteriore impulso dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo

(Convenzione di New York del 1989 ratificata dall’Italia con legge n. 176/1991) che espressamente riconosce al bambino, tra gli altri diritti fondamentali, quello al “pieno ed armonioso sviluppo della sua personalità”, ad essere allevato “nello spirito di pace, di dignità, di tolleranza, di libertà, di eguaglianza e di solidarietà”, ad essere protetto “contro qualsiasi forma di violenza, danno o brutalità fisica o mentale, abbandono, negligenza, maltrattamento o sfruttamento, inclusa la violenza sessuale mentre è sotto la tutela dei suoi genitori o di uno di essi”. La stessa pronuncia prosegue prendendo ferma posizione nei confronti del concetto di mezzi di correzione, affermando che il termine correzione debba essere assunto come sinonimo di educazione con riferimento ai connotati intrinsecamente conformativi propri di ogni processo educativo, escludendo che possa ancora ritenersi lecito l’uso della violenza finalizzato a scopi educativi perché 

non può perseguirsi, quale meta educativa, un risultato di armonico sviluppo della personalità, sensibile ai valori della pace, di tolleranza e di convivenza nella misura in cui si utilizza un mezzo violento che tali fini contraddice.

A distanza di diciassette anni da questo illuminante pronunciamento nulla però è cambiato a livello legislativo e il nostro Paese continua a mantenere una norma che, di fatto, non punisce l ’uso di metodi educativi implicanti l’utilizzo della forza ma solo l ’abuso di tali mezzi, con ciò continuando a legittimare, sotto l’etichetta del “fine educativo”, la violenza fisica.

Come i giudici interpretano la norma?

A fronte dell’inerzia del legislatore, sorprendentemente sordo ai molteplici solleciti di giuristi, educatori e intellettuali, che a gran voce hanno richiesto l’abrogazione di questa fattispecie, si è però assistito a un’evoluzione giurisprudenziale che ha tentato, seppure con risultati ancora imperfetti, di armonizzare la norma con il mutamento del sentire e del costume, nonché con i princìpi costituzionali e con le normative internazionali a tutela del fanciullo sopra ricordate.


Secondo l’indirizzo attualmente maggioritario debbono, infatti, essere considerati leciti solo quei mezzi di coercizione e di disciplina che, nell’assoluto rispetto dell’incolumità fisica e della personalità psichica, siano necessari per il raggiungimento del fine educativo. Di conseguenza non può mai essere ammesso il ricorso alla violenza fisica, da considerarsi di per sé mezzo illecito, comprese le pratiche comunemente più ricorrenti quali schiaffi, tirate di capelli, calci, pugni e, ovviamente, colpi con oggetti contundenti.


Tuttavia, accanto a questo orientamento e in senso contrario, debbono citarsi quelle pronunce che ritengono tutt’oggi consentiti – soltanto ai genitori peraltro, e non agli insegnanti – i mezzi di correzione implicanti una vis modicissima (ceffoni, schiaffi, tirate di capelli etc.), con la motivazione che 

non possono ritenersi preclusi quegli atti di minima violenza fisica o morale che risultino necessari per rafforzare la proibizione, non arbitraria né ingiusta, di comportamenti oggettivamente pericolosi o dannosi rispecchianti la inconsapevolezza o la sottovalutazione del pericolo, la disobbedienza gratuita, oppositiva ed insolente” integrando invece “la fattispecie dell’art. 571 c.p., non trasmodando in quello più grave dell’art. 572 c.p., l’uso in funzione educativa del mezzo astrattamente lecito, sia esso di natura fisica, psicologica o morale, che sconfina nell’abuso, sia in ragione dell’arbitrarietà o intempestività della sua applicazione, sia in ragione dell’eccesso nella misura, senza tuttavia attingere a forme di violenza

(Cass. Pen., Sez. VI, 7 novembre 1997).


La stessa Suprema Corte aveva consacrato, in un altro precedente, la legittimità di un “opportuno ceffone, da ritenersi consentito e legittimo nella misura in cui non trasmodi in apprezzabile eccesso trasformandosi, in tal caso, nell’illecito di abuso dei mezzi di correzione” (Cass. Pen. Sez. VI, 09 gennaio 2004, n. 4934).


Sempre in tema di abuso non dobbiamo poi dimenticare che, col tempo, il concetto di “abuso sul minore” non viene più inteso necessariamente come comportamento attivo, dannoso sul piano fisico per il bambino, essendosi imposta, nell’attuale cultura medica, prima ancora che giuridica, una nozione che abbraccia anche l’abuso in termini di omissione di cure e nel senso di abuso psicologico, nel quale rientrano tutti quei comportamenti che, sia pure non connotati da violenza fisica, siano volti a vessare, svalutare, denigrare, umiliare e sottoporre a sofferenze morali il bambino, a cui si correlino lo scatenarsi di diversi disturbi psichiatrici (Cass. Pen. Sez. VI, 18 marzo 1996).


La casistica è molto ampia e meriterebbe una trattazione monografica, non compatibile con le finalità di questo lavoro. Ripercorrendo alcuni contributi della giurisprudenza si segnala il caso del padre condannato per abuso dei mezzi di correzione per avere costretto la figlia, accusata del furto di un ciondolo della sorellina, sotto minaccia di percosse, a scrivere ripetutamente su un quaderno la frase “sono una ladra, non devo rubare” e a umiliarsi davanti alle insegnanti e al parroco chiedendo scusa per il gesto (Cass. Pen. 28.06.2007). I giudici di legittimità avevano evidenziato come, pur in assenza di violenza fisica, la condotta del padre fosse stata indubbiamente eccessiva e aveva causato nella bambina, peraltro già colpita dalla separazione dei genitori, una grave sindrome depressiva.


E si può citare ancora il caso dell’insegnante di scuola materna, ritenuta colpevole del reato di cui all’art. 571 c.p. per gli atteggiamenti aggressivi e irosi usati nei confronti di bambini, di età fra i tre e i cinque anni, ai quali rivolgeva insulti, infliggendo loro castighi umilianti privi di qualsiasi giustificazione (Cass. Pen. Sez. VI, 14 ottobre 2008, n. 38778).


Non diversamente, per restare in ambito di condotte consumate in ambito scolastico, è stata tratta a giudizio e condannata, per aver abusato dei mezzi di correzione, la professoressa di una scuola media di Palermo, che aveva costretto un alunno di 11 anni a scrivere 100 volte sul proprio quaderno la frase “sono un deficiente”, usando nei suoi confronti un comportamento palesemente vessatorio, rivolgendogli espressioni che ne offendevano la dignità, rimproverandolo e minacciandolo di sottrarlo alla tutela dei genitori, così causandogli un disagio psicologico per il quale si era reso necessario sottoporlo a cure mediche e a un percorso di psicoterapia (Cass. Pen. Sez. VI, 10 settembre 2012, n. 34492). Nella pronuncia in esame pare interessante rilevare come la Corte Suprema, nel confermare la condanna già inflitta all’insegnante nel precedente grado di appello, abbia posto l’accento sulla considerazione che

nel processo educativo, essenziale è la congruenza tra mezzi e fini, tra metodi e risultati, cosicché diventa contraddittoria la pretesa di contrastare il bullismo con metodi che finiscono per rafforzare il convincimento che i rapporti relazionali (scolastici o sociali) sono decisi da rapporti di forza o di potere.

Peraltro, a conferma del non ancora superato contrasto giurisprudenziale circa i limiti di applicabilità dell’art. 571 c.p., va rammentato che in primo grado quella stessa insegnante era stata assolta, sul rilievo che il castigo da lei inflitto, reputato rispettoso dell’incolumità fisica e psichica del minore, integrava, nel contesto concreto in cui ella operava, un legittimo e indispensabile mezzo pedagogico e disciplinare, posto che l’alunno si era reso autore di gravi e ripetuti atti di bullismo e vessazione nei confronti di un compagno (avendolo più volte additato innanzi a tutta la classe come gay e femminuccia e avendogli impedito di accedere alla toilette dei maschi, unitamente ad altre reiterate prepotenze) e che, pertanto, la punizione adottata era improntata all’esigenza di rieducarlo, stigmatizzando il suo comportamento lesivo (del quale il ragazzino, sia pure in tal senso sollecitato, non si era mai voluto scusare) onde evitare che la convinzione di agire impunemente in quel modo lo portasse, nell’evoluzione della sua personalità, a una progressiva assunzione di comportamenti antisociali (G.U.P. Palermo 28.06.2007). Il giudice di prime cure aveva focalizzato l’attenzione sulla tutela del compagno maltrattato, argomentando che il termine “deficiente” non potrebbe considerarsi di per sé offensivo, perché, come sostenuto dalla stessa insegnante, esso andava inteso nel suo significato etimologico più autentico, quale sinonimo di “carente, mancante”; ciò in quanto l’allievo si era mostrato mancante di sensibilità nei confronti del compagno deriso.


Valutazioni queste opportunamente non condivise e respinte nei successivi gradi di giudizio.


Nel tentativo di dare alla norma un’interpretazione costituzionalmente orientata, va segnalata una recentissima pronuncia degli ermellini, la n. 42962 del 7 novembre 2012, che ha ritenuto configurabile il più grave reato di violenza privata a carico di un padre, separato dalla coniuge, che aveva trascinato per diversi metri la figlia minore, con lo scopo di farle incontrare il nonno paterno contro la sua volontà, per indurla a scusarsi con lui avendo tenuto nei giorni precedenti, a detta del padre, un comportamento insolente.


La Corte ha affermato che la costrizione fisica, usata nei confronti della figlia minore, non può mai essere legittimata dallo ius corrigendi giacché, quali che siano le finalità educative perseguite dal genitore, il diritto genitoriale non può estendersi sino a farvi rientrare l’uso gratuito della violenza.

È punibile l’uso della violenza solo laddove ne derivi una malattia per la vittima?

Se la norma è di per sé censurabile, per i profili testè meglio visti, il nodo dolente è che, a mente dell’art. 571 c.p., il reato di abuso dei mezzi di correzione è configurabile solo laddove dal fatto derivi “il pericolo di una malattia nel corpo o nella mente”.


Il che significa che la condotta di abuso è concretamente punibile solo se il giudice ritenga probabile – o, secondo alcuni, anche solo possibile – che dal fatto scaturisca una malattia.


Scelta legislativa assolutamente discutibile e, ad avviso di chi scrive inaccettabile, che surrettiziamente consacra la sopravvivenza, in capo a genitori, maestri e precettori, del diritto di usare la forza per esercitare la funzione educativa: dal ché ne deriva che lo schiaffo non è punibile di per sé, in quanto gesto contrario ai princìpi di umanità e lesivo della dignità della persona, ma solo se, per le modalità con cui viene inferto, sia tale da ingenerare un pericolo concreto di malattia nel corpo o nella mente.


Ciò costituisce un paradigma evidentemente contrario a un sistema normativo che voglia definirsi civile e in linea con le moderne concezioni che attribuiscono il primato alla dignità della persona del minore.


Fortunatamente, anche in questo caso, la prevalente giurisprudenza ha cercato di porre rimedio a tale infelice scelta legislativa, precisando come nel delitto in esame la nozione di “malattia” debba essere intesa in senso più ampio di quanto non accada nel reato di lesione personale, comprendendo non solo ogni alterazione anatomica e funzionale dell’organismo ma estendendosi a qualsiasi conseguenza rilevante sulla salute psichica del soggetto passivo, dallo stato d’ansia all’insonnia, dalla depressione ai disturbi del carattere e del comportamento (ex multis, Cass. Sez. III penale, 22 ottobre 2009, n. 49433).

Quali rimedi se la condotta è reiterata e abituale?

È comunque importante evidenziare che, al di là delle oscillazioni interpretative dei giudici sul concetto di “abuso” e di “finalità educativa”, la fattispecie penale in esame trova sempre meno applicazioni pratiche, lasciando spazio alla configurabilità di altre – e più severamente punite – ipotesi delittuose quali, in particolare, il reato di maltrattamenti contro familiari e conviventi contemplato dall’art. 572 c.p., che, per quanto qui interessa, punisce con la pena della reclusione da due a sei anni chi maltratta una persona di famiglia o comunque convivente; qualora la vittima sia un minore degli anni quattordici la pena è aumentata sino a un terzo e se dai maltrattamenti ne derivi una lesione personale, grave o gravissima o, addirittura la morte, la pena è aggravata dai quattro ai ventiquattro anni di reclusione.


Esulando dai fini del presente scritto un’analisi specifica di questa figura criminosa, in questa sede sia sufficiente precisare che per maltrattamenti deve intendersi la realizzazione di comportamenti abituali e reiterati che ledano l’integrità fisica o morale della vittima. Sono pertanto comprese nella norma non solo le violenze fisiche, ma anche quelle psicologiche, quali molestie, ingiurie, minacce, umiliazioni, soprusi, manifestazioni di disprezzo e, in definitiva, qualsiasi comportamento ripetuto nel tempo che renda disagevole e penosa l’esistenza di un familiare.


E, si badi bene, a differenza dell’abuso dei mezzi di correzione, per la punibilità non si richiede che dal fatto sorga “il pericolo” di una malattia: i maltrattamenti sono vietati e puniti in quanto tali.


Ulteriore elemento rafforzativo della fattispecie è che, secondo l’interpretazione oggi di gran lunga dominante, si prescinde dalla sussistenza o meno di una supposta finalità educativa, talché qualunque sia il fine per cui l’autore del reato ha agito, la punibilità sussiste. Di recente, è proprio la Suprema Corte a ricordare che

L’uso sistematico della violenza, quale ordinario trattamento del minore, anche laddove fosse sostenuto da “animus corrigendi” non può rientrare nell’ambito della fattispecie di abuso dei mezzi di correzione, ma concretizza, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, gli estremi del più grave reato di maltrattamenti

(fattispecie questa relativa al ripetersi di violenze commesse dall’agente nei confronti del figlio, con lo scopo dichiarato di insegnargli “come stare al mondo”, Cass. Pen. Sez. VI, 10 maggio 2012, n. 36564). È stato contestato il più grave reato di maltrattamenti in famiglia anche al genitore che aveva sottoposto la figlia minore a un regime di prevaricazione e di violenza, tale da rendere intollerabili le sue condizioni di vita, impedendole di frequentare persone di sesso maschile e di uscire di casa se non per andare a scuola o per fare la spesa (Cass. Sez. VI 20 febbraio 2007, n. 34460).


Resta però una differenza oggettiva tra i due reati: i maltrattamenti, come suggerisce il termine stesso, implicano una pluralità di condotte protratte nel tempo, laddove l’abuso dei mezzi di correzione può realizzarsi anche con un gesto unico e isolato.


Resta inteso che, nei casi più gravi di violenze perpetrate nei confronti dei figli o dei familiari, potranno trovare applicazione le norme penali in tema di violenza privata, lesioni personali, violenza sessuale e omicidio.

Quali prospettive per il futuro?

A fronte di questi dati, è evidente che l’attesa di un intervento normativo di ampio respiro diventi spasmodica, per gli interessi che ne sono coinvolti e per la delicatezza del tema, che necessita di un approccio ragionato e di una sensibilità particolare, requisiti questi che mal si conciliano con una legislazione dell’emergenza cui siamo avvezzi negli ultimi tempi.


Il risultato che ci si auspica è quello della abrogazione della norma che oggi sancisce l’abuso dei mezzi di correzione, con l’introduzione di una fattispecie ad hoc che bandisca e punisca il mero uso di modalità violente e irrispettose della persona umana e a prescindere da quali ne siano, in termini di gravità, le conseguenze.


Solo così potrà essere assicurato il contemperamento del nostro diritto ai valori di fondo consacrati nella Costituzione, allo spirito del riformato diritto di famiglia e alla Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, atteso che è inaccettabile in una società che si professi civile tollerare la sopravvivenza, a scopo educativo, di pratiche irrispettose della dignità del minore e mortificanti per la sua persona. Ma non sarà sufficiente l’introduzione della norma penale se la società non si prepari ad accogliere il cambiamento e a farsi parti attiva di una modificazione radicale del modo di vivere le relazioni personali, all’interno della famiglia come nella scuola e più in generale in qualsiasi formazione sociale in cui l’uomo esplica la propria personalità.


È la mentalità a dover cambiare, lasciandosi alle spalle il modello di organizzazione gerarchica con il quale si è convissuti per secoli, per fare il posto ad un concetto di famiglia che sia, non solo nella teoria ma anche nell’esperienza del quotidiano, concepita come comunità di affetti in cui ciascun membro, a prescindere dall’età, sia considerato soggetto e non oggetto, con pari dignità e piena libertà di espressione.


La missione, allora, di chi come noi opera nelle aule giudiziarie è quella di promuovere una cultura di sensibilizzazione della magistratura nei confronti del fenomeno della violenza di genere e, in particolare, della violenza nei confronti dei bambini e dei minori; l’ingiunzione è di non restare indifferenti di fronte alla violenza, in qualunque modo venga agita, perché è indiscusso che la violenza si autoriproduce, generando altra violenza.


Il bambino che vive in un contesto di violenza, subita o assistita non importa, introietta insicurezze affettive e frustrazioni che condizionano in modo permanente il suo comportamento, portandolo a recuperare, in età adulta, quelle stesse dinamiche apprese in famiglia, diventando a sua volta persecutore o, a seconda dei casi, ritirandosi in se stesso con difficoltà oggettive evidenti nell’assumere le responsabilità del ruolo di adulto.


Vorremmo ricordare che un traguardo importante nella direzione della lotta alla violenza lo ha compiuto il nostro Paese ratificando, il 27 settembre 2012, la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, nota anche come Convenzione di Instanbul del 11 maggio 2011; nel preambolo della Convenzione viene riconosciuto che “i bambini sono vittima di violenza domestica anche in quanto testimoni di violenze all’interno della famiglia” (violenza assistita).


E allora, se davvero il nostro ordinamento vorrà fare il salto di qualità, adeguando il diritto ai valori della benevolenza e dell’effettivo rispetto della dignità dei minori dovrà giungersi anche a una modifica dell’art. 155 bis cod.civ., prevedendosi che, in caso di separazione dei genitori sia motivo di deroga all’affidamento condiviso la presenza di condotte violente assistite dal figlio in famiglia, quando i precedenti giurisprudenziali continuano, tuttora, ad affermare il modello di affido condiviso anche in presenza di condotte di uno dei genitori violente e prevaricanti nei confronti dell’altro partner, riducendo tutto alla mera conflittualità.


Vorremmo concludere citandovi qualche passaggio di una relazione di consulenza tecnica esperita in un procedimento di separazione, laddove i genitori contendevano sull’affidamento e in particolare sui tempi di cura paterni. Il figlio della coppia, all’epoca dei fatti frequentante i primi anni della scuola elementare, lamentava alla madre di ricevere costantemente, durante i tempi di permanenza presso il padre, “buffetti”, “sberle” e comunque trattamenti non rispettosi; nel corso delle operazioni peritali il bambino, sentito dall’esperta psicologa nominata dal giudice, riferiva ad esempio che una mattina lui voleva guardare alla televisione un cartone che durava ancora qualche minutino ma il papà ha spento di colpo la tv e lo ha portato “giù a forza e in macchina a metà strada mi ha fatto così” (il bambino mima un colpetto sul collo del piede); lo stesso bambino, confidandosi con la Ctu riferisce che il papà in altre occasioni “gli ha stretto la gamba”, che gli dà sempre “i buffetti” ma che lui “odia i buffetti”, che il papà non dovrebbe darglieli per nessuna ragione e che la mamma non usa queste pratiche per punirlo quando si comporta male.


Ebbene, volete sapere cosa risponde la Ctu al bambino? Prima di tutto si cura di giustificare il comportamento del padre argomentando che, se gli avesse consentito di vedere tutto il cartone sarebbero arrivati, con ogni probabilità, a scuola in ritardo; aggiunge poi che quel gesto mimato dal bambino non significa

picchiare i bambini e che il papà lo ha fatto per indurlo a desistere da un comportamento sbagliato e che dare un buffetto è cosa molto diversa da una sberla.

La conclusione cui la consulente del Tribunale perviene è che, quel padre, 

mette in atto comportamenti verosimilmente più severi di quanto sarebbe necessario, che forse determinano nel minore un vissuto di violenza subita che il minore rende concreta nel riferire percosse con ogni probabilità inesistenti

dunque, non solo le pratiche del padre vengono, di fatto, legittimate e giustificate ma il minore non è ritenuto credibile, in spregio ai bisogni che lui aveva interiorizzato e rappresentato, spiegando il suo disagio e la sua sofferenza nei confronti di questi trattamenti utilizzati abitualmente dal genitore. Inutile dirvi che, quel bambino, ripeteva nel contesto scolastico le stesse modalità prevaricanti nei confronti dei pari, assumendo un atteggiamento che le insegnanti definivano da “leader”, reagendo in maniera oppositiva e aggressiva ogniqualvolta si sentiva frustrato nei suoi bisogni; i legami di attaccamento del bambino risultavano di tipo insicuro/ansioso e a livello comportamentale, e pur disponendo di buone potenzialità intellettive, manifestava a tratti irrequietezza e distraibilità, un livello di ansia molto marcato per la sua tenera età, non sempre emotivamente controllabile dal bambino.


La consulente del giudice ha concluso la sua perizia suggerendo un ampliamento dei tempi di competenza paterni – il che suona, evidentemente, per il padre manesco come una promozione – con la motivazione per cui

è importante che la figura paterna non venga colpevolizzata, bensì pienamente riconosciuta nel suo ruolo.

Comprenderete, a questo punto, perché abbiamo esordito affermando che la strada da percorrere per conseguire risultati di autentica civiltà giuridica è ancora lunga e in salita.


Avv. Paola Carrera e Davide Angeleri del foro di Torino

La sculacciata
La sculacciata
Olivier Maurel
Perché farne a meno: domande e riflessioni.Le punizioni corporali sono dannose per il corpo e la psiche del bambino. Ma è possibile educare senza picchiare? Se sì, come? Le punizioni corporali sono pericolose per i bambini, in quanto le conseguenze della violenza rimangono permanenti sul corpo e nella psiche.Nel più lungo periodo, inoltre, molti studi dimostrano come questa pratica sia un fattore importante nello sviluppo di comportamenti violenti e sia associata ad altri problemi durante l’infanzia e nella vita. Come possiamo educare i bambini che mostrano un temperamento più aggressivi?Del resto, è stato forse dimostrato che schiaffi e sculacciate rendono più obbedienti i bambiniMigliorano forse l’apprendimento?La sculacciata di Olivier Maurel è una guida che ci permette di aprire gli occhi senza colpevolizzarci, rispondendo con chiarezza a queste e a molte altre domande. La prefazione è curata dalla celebre psicologa e psicanalista Alice Miller. Conosci l’autore Olivier Maurel è nato a Toulon nel 1937. Professore di Lettere al liceo Dumont d’Urville dal 1965 al 1997, è padre di cinque figli.Cresciuto in una famiglia numerosa, le letture dei libri di Alice Miller hanno accresciuto il suo interesse per il tema della violenza educativa, portandolo ad approfondirne le numerose ripercussioni sulla salute psico-fisica dei bambini e sul loro sviluppo. A partire dagli anni ’60, poi, si è fatto promotore di numerose battaglie sociali contro la violenza nel mondo e il traffico di armi.Ha fondato l’associazione Oveo (Osservatorio sulla violenza educativa ordinaria), con lo scopo di descrivere tutte le forme di violenza comunemente accettate in tutto il mondo, a scuola e in famiglia.