CAPITOLO V

Addomesticare l’infanzia

-io lavorerò, io studierò, io farò tutto quello che mi dirai, perché, insomma, la vita del burattino mi è venuta a noia, e voglio diventare un ragazzo a tutti i costi. Me l’hai promesso, non è vero? - Te l’ho promesso, e ora dipende da te.1


Fare i genitori o essere genitori? Forse il punto è tutto qui.

Qual è il nostro ruolo come genitori? Quello di disciplinare e incanalare le energie e gli impulsi del bambino, oppure quello di sostenerlo e amarlo senza condizioni? Le due cose sono incompatibili o si possono conciliare?

Il bambino va apprezzato per ciò che è conforme alle regole sociali e ai valori della sua cultura, e scoraggiato per tutti gli aspetti che invece sono in conflitto o dissonanza con essa? Oppure il valore di ogni nuovo individuo che viene al mondo è proprio in ciò che appunto di nuovo può portare? Fino a che punto dobbiamo farci portavoce della società e della cultura in cui viviamo?

Si tratta di un difficile equilibro fra le forze sociali omeostatiche (di mantenimento dello status quo) e quelle di cambiamento. Ogni società ha una forza di autoconservazione e attua dei sistemi per perpetuare se stessa e i valori che ritiene fondanti, e questo in una certa misura è giusto e necessario; ma esistono anche istanze di trasformazione che si affermano tramite le minoranze.


Il bambino si inserisce in questo sistema strutturato e duramente consolidato con la forza eversiva della sua istintualità non ancora addomesticata. Dice Meschiari:


I bambini portano il disordine del bosco non solo nelle nostre case ma anche nelle nostre teste, perché ci obbligano a scrutare negli strati più arcaici della psiche (…) è quindi abbastanza normale che, di fronte a piccoli umani potenzialmente distruttori e a genitori temporaneamente fuori asse, la società si faccia carico di rimettere nel mondo un po’ di ordine2.

Ai genitori, privi di una comunità di sostegno, disorientati e sommersi da mille indicazioni, viene offerta dalla nostra cultura l’ideologia dell’educazione come condizionamento e modellamento dell’individuo, il mito delle abitudini come chiave per riprendere il controllo di una situazione che sembra sfuggire di mano. Ma l’infanzia è un processo in continuo divenire, e quindi per sua natura fluido e difficilmente afferrabile. Addomesticare l’infanzia è un’impresa ardua che causa spesso frustrazione, senso di inadeguatezza e rabbia tanto nei genitori quanto nei figli, e la tanto desiderata regolarizzazione del neonato (a cui seguiranno altre -azioni altrettanto sofferte, come scolarizzazione, normalizzazione, omologazione) viene raggiunta solo a caro prezzo.


Molti manuali danno suggerimenti ai genitori su come modificare il comportamento dei loro figli; vengono proposti metodi al limite della crudeltà, come lasciar piangere i bambini anche fino al vomito, oppure metodi gentili, che cercano di rinforzare o suscitare i comportamenti graditi e di scoraggiare quelli indesiderati con una certa elasticità e sfruttando desideri e preferenze del piccolo. Ma a differenza di tutte queste proposte, la disciplina dolce (o, come preferisco chiamarla, la guida gentile) non è un metodo, ma un approccio, un modo di essere e di relazionarsi. I metodi offrono tecniche per ottenere determinati risultati, e il focus è sul cosa e sul come; gli approcci invece sono focalizzati sul perché, cioè è importante il motivo, il bisogno dietro un dato comportamento, le ragioni per cui si fa una cosa. In generale i metodi, anche se possono essere efficaci, ottengono solo che il bambino smetta di comportarsi in un certo modo, e agisca invece in un altro. Ma per un genitore empatico e rispettoso, che vuole sviluppare il potenziale del proprio figlio guidandolo verso modi di essere altrettanto rispettosi del prossimo, è importante il perché il bambino si comporta in un certo modo; non si limita a desiderare che si comporti in modo diverso, ma per lui è importante che lo faccia per buone ragioni.


Insomma, questo è il concetto da chiarire: gli approcci rispettosi, empatici, non sono metodi per modellare il comportamento dei bambini.

I metodi, in quanto tali, sono sempre manipolatori, nel senso che hanno un obiettivo, vogliono arrivare a un risultato sull’altra persona. Gli approcci invece non hanno obiettivi, hanno in sé la loro ragion d’essere: sono le modalità di relazione che ci fanno star bene e fanno star bene l’altro, a prescindere dal risultato, pur positivo, che potrebbe derivarne.

Si tratta di una filosofia, un modo di rapportarsi, non uno strumento che viene applicato allo scopo di far fare ai bambini ciò che piace agli adulti (o che gli adulti ritengono giusto), e magari, nelle aspettative di molti genitori, anche di farglielo fare volentieri.


No, non è questo lo scopo. Lo scopo è crescere delle persone nel rispetto e nell’amore, fornendo loro sostegno e contenimento, comprensione ed esempio… la calma o la dolcezza non sono uno strumento, ma il modo naturale in cui l’approccio si esprime.


Quando si applica una tecnica invece di usare il cuore, c’è sempre uno scollamento, la perdita di una connessione con il bambino, che è fondamentale per crescerlo con amore. Le cure prossimali non si possono ingabbiare in una serie di comportamenti o regole stereotipate. Possiamo mostrare una direzione, fornirci di strumenti di navigazione, consultare mappe, ma non c’è una strada segnata o una formula standard che possa indicarci l’accudimento ideale, perché ogni bambino è diverso, così come ogni adulto, e anche i bisogni di un singolo bambino cambiano nel tempo e secondo le situazioni che vive. Nulla può insomma sostituire l’intuizione e l’empatia come guida, per l’adulto che voglia essere e mantenersi in contatto; la guida gentile riguarda molto più il saper essere di quanto riguardi il saper fare.


Definire il ruolo genitoriale solo come normativo, cioè con la funzione di modellare e correggere le deviazioni comportamentali dalla norma sociale, è svilente e riduttivo rispetto all’enorme importanza che ha la presenza dei genitori nella vita del bambino, e tarpa le ali alla piena espressione del potenziale di quest’ultimo. Tuttavia l’ideologia pedagogica dominante, che sia ispirata alla pedagogia nera oppure soltanto a un’idea di “governo” del bambino, a senso unico nella trasmissione di regole, di conoscenze e di valori, è così pervasiva che i genitori che si pongono controcorrente, ricercando un approccio basato sulla gentilezza e il rispetto, devono fare i conti con una serie di paradigmi assai radicati nella nostra cultura.


“Regolarizzare”

Che significa che i bambini hanno bisogno di regole? Tutta la società civile ha bisogno di regole. Ma le regole devono essere i nostri servitori, non i nostri padroni. Devono essere uno strumento e non una gabbia.


Questo non significa che vadano violate a piacere; ma devono avere un senso e non giustificarsi in sé, soltanto perché “Si è sempre fatto così”.

La domanda chiave è: vogliamo regole fondate sul come e sul cosa, o regole fondate sul perché?


Il primo tipo di regole è descrittivo, operativo: non attraversare la strada con il rosso, non saltare sul tavolo, non mettere le dita nella presa elettrica. Le regole fondate sul perché appartengono invece a un altro ordine e livello e, sebbene siano in un certo senso meno specifiche, sono anche più omnicomprensive: ad esempio non usare mai la violenza, rispettare gli altri, ascoltare, prendere decisioni condivise. Proprio grazie al loro carattere astratto, si possono adattare al contesto e alla situazione. Va trovato però il modo di renderle comprensibili al bambino, traducendo i precetti astratti in parole concrete e attraverso l’esempio, in modo che egli possa farle proprie.

Un bambino a cui è stato insegnato un solo modo di fare le cose, che è stato “regolarizzato” rispetto al cosa e al come, si accorgerà presto dell’incoerenza degli adulti rispetto alle regole. È più probabile che non le farà veramente sue, e le contesterà o le aggirerà facilmente appena ne avrà il potere o l’occasione; oppure si legherà a una loro applicazione rigida e non sarà capace di adattarsi con flessibilità a una situazione nuova.


Poiché le norme pratiche hanno questa fragilità causata dalla loro natura superficiale, si tende a cercare di imprimerle e affermarle con maggior forza, trasformandole in coercizioni, oppure a rinforzare la regola in modo manipolatorio, cercando di con-vincere il bambino ad accettarle. Si tende anche a renderle rigide e immodificabili, poiché in caso contrario sarebbe ancora più difficile farle rispettare, non essendo state trasmesse attraverso una motivazione profonda. Quindi vengono presentate spesso al bambino come assolute, cioè valide in ogni momento e situazione, senza eccezioni, per non fornire un messaggio “incoerente”… Ma non si può pretendere, né aspettarsi, che i nostri figli rispettino le regole pratiche in modo assoluto. Mentre i bisogni semplicemente esistono e non possono essere contestati, le regole, proprio perché sono solo strategie, possono essere riviste e riformulate.

Tristemente, viviamo invece a volte in un mondo al rovescio, che adotta leggi morali elastiche e regole operative scolpite nella pietra. Non comprendendo che esse sono comunque il prodotto contingente di una visione soggettiva della realtà, ogni tentativo di ridiscutere le regole viene allora visto come un’assurdità o una minaccia:


…E che dire di quelli per cui la vita non è un mare, né le leggi umane torri di sabbia?
Quelli per i quali la vita è una roccia, da intagliare a propria immagine con il cesello della legge?
E dello storpio che odia i danzatori?
E del bove che ama il suo giogo, e crede l’alce e il cervo di foresta smarriti e vagabondi?
E della vecchia serpe che non muta più pelle, e chiama gli altri nudi e vergognosi?
E di chi va al pranzo di nozze di buon ora, e s’incammina poi satollo e stanco, dichiarando tutti i banchetti profani e tutti i convitati fuorilegge? Che dire di loro, se non che stanno al sole, ma di spalle; vedono solo la loro ombra, e quella è la loro legge.
Cos’altro è per loro il Sole, se non un seminatore d’ombre?3


Si invoca una coerenza di maniera, sostenendo che il bambino debba imparare, ad esempio, a non toccare anche dentro casa, in vista di quando si troverà a casa d’altri o in altre situazioni. Sempre ritorna questa ossessione delle “abitudini”, per cui i comportamenti devono essere standardizzati e uniformati, altrimenti il bambino si confonderà. Si sottovaluta la profonda sensibilità che il bambino ha del contesto, cioè della situazione intorno, del clima emotivo, delle reazioni dei presenti in una data situazione. Ma contestualizzare è una funzione importante della psiche e permette alla regola di essere coerente con il suo significato profondo e di non essere solo un’imposizione meccanica, incongruente con la situazione (questo sì che potrebbe generare confusione e disorientamento). Impariamo senza timore a contestualizzare, sia con il nostro atteggiamento non verbale, sia con le parole, illustrando al bambino cosa può fare a seconda delle varie situazioni o persone presenti: lo aiuteremo a sviluppare questa abilità già innata e aumenteremo l’appropriatezza dei suoi comportamenti.


Un bambino abituato a ragionare sul perché delle regole e a fare riferimento al loro senso profondo sarà più capace di rispettare anche norme pratiche diverse dalle sue quando si trova in un ambiente nuovo; per esempio, a casa della zia capirà che c’è la norma del “non toccare i soprammobili” perché la zia è in ansia se qualcosa cade e si rompe. Anche se lui sa che non la romperebbe, rispetta la richiesta, perché è abituato ad ascoltare con sensibilità e ad adattarsi. L’approccio basato sul perché delle regole, quindi, è mosso dalla speranza che i nostri figli faranno scelte etiche, fondate cioè sulle leggi morali che abbiamo saputo trasmettergli, e che troveranno la loro modalità per agire in maniera sostanzialmente corretta, ma con flessibilità.


Il mito delle abitudini

Questo mito è particolarmente radicato e diffuso nella nostra cultura. Le sue basi teoriche nascono nella scuola di pensiero del comportamentismo, che nelle sue versioni più datate pone una particolare enfasi sul comportamento dell’individuo in quanto risultato di condizionamenti positivi o negativi. Premi e punizioni diventano perciò il corollario dell’educazione, e come filosofia di fondo c’è l’idea che il bambino vada plasmato nei suoi comportamenti in modo da diventare un ragazzo e un adulto ben adattato alle norme sociali. Questo approccio sottovaluta o sceglie di non considerare le motivazioni profonde, gli istinti e i bisogni innati come motore interno delle azioni, e quindi per ogni comportamento va a ricercare la causa nei condizionamenti dell’ambiente, enfatizzando moltissimo il ruolo della ripetizione degli stimoli, e quindi delle cosiddette abitudini.


Furono gli studi effettuati da Ivan Pavlov, medico russo, a ispirare i teorici comportamentisti Watson e Skinner. Si tratta di esperimenti condotti in condizioni controllate di laboratorio, su animali e poi su soggetti umani, e che erano basati sull’osservazione del meccanismo di stimolo e risposta. Questa patina di maggiore scientificità viene a volte presentata come una validazione delle teorie comportamentiste. Pavlov e Skinner hanno condotto esperimenti senza cuore in contesti del tutto innaturali. Il fatto di aver applicato un metodo sperimentale in un ambiente del tutto avulso dal normale habitat dei soggetti, senza tenere conto degli stati di stress, allarme o aggressività scatenati da queste condizioni artificiali, non rende questi esperimenti più, ma semmai meno, scientifici. Se si vuole avere un approccio scientifico sul comportamento umano, oggigiorno, ci si deve rivolgere più a discipline come l’antropologia oppure le neuroscienze, che ci hanno aperto tutto un mondo e aiutato a comprendere (o confermare) ciò che muove gli esseri umani nelle varie situazioni. Il comportamentismo è solo uno dei tanti modelli teorici o scuole di pensiero, e molto spesso, dove vi sono evidenze scientifiche, queste smentiscono sia l’efficacia dei metodi di condizionamento, sia la loro appropriatezza.


Esistono oggigiorno versioni più sfumate del comportamentismo, approcci cognitivo-comportamentali che hanno abbandonato la meccanicità del modello di partenza e integrato il corpus teorico derivante dalle neuroscienze; tuttavia a livello divulgativo, di cultura, sembra che siamo invece rimasti fermi agli anni ’50. Da Estivill alle Tate, dalla Hogg ai programmi di inserimento alla materna, troppo spesso sembriamo ancora bloccati alla preistoria del modellare il comportamento tramite ripetizione, punizioni e rinforzi, mentre i sentimenti, i bisogni, le motivazioni, le aspettative biologiche sembrano non contare nulla e anzi vengono presentati come un intralcio ai metodi.


Due in particolare, secondo me, sono i problemi conseguenti a questa ideologia:


  1. Il focus sul comportamento, che riduce tutto a un risultato che non tiene conto né dei bisogni, né dei sentimenti dei bambini (e nemmeno di quelli degli adulti), ma spinge genitori ed educatori a focalizzarsi sull’obiettivo di ottenere individui modellati secondo uno standard che sia accettabile dal punto di vista della cultura di appartenenza. Non è un caso che il potere ami il comportamentismo e che i media più omologati non facciano che riproporre le sue idee. La forza di queste teorie è nell’essere perfettamente funzionali al sistema di controllo e di credenze dominante e quindi ampiamente pubblicizzate anche nei libri, riviste, dalla televisione, ovunque si banalizzi e si faccia da mera cassa di risonanza del pensiero conformista. Anzi: proprio perché non analizza, non cerca le cause, ignora i sentimenti e i bisogni, è lineare piuttosto che interattivo e propone uno standard uguale per tutti, questo approccio è utile a qualsiasi sistema di potere. In questo modo i nuovi individui, i bambini, vengono accolti nel mondo con un amore condizionato: ti amo, ti approvo, ti accetto, hai la mia attenzione solo se ti comporti come voglio io. Questo crea una delle lacerazioni più dolorose della psiche: la costruzione di un falso sé, una maschera che poi diviene connaturata e non più percepita come tale, e che strappa l’individuo dai suoi sogni, dalla sua essenza, dalla spinta naturale che aveva a esprimere se stesso proprio così com’era.

  2. La fissazione sul concetto di abitudine. Questa idea, che tutto derivi da rinforzi positivi o negativi, porta all’arbitraria convinzione che i comportamenti umani nascano sempre da un modellamento di qualche tipo. Così si induce nel genitore la convinzione che debba sempre “fare” qualcosa per far progredire il bambino nelle tappe evolutive, e che non sarà mai un ragazzo e un adulto come si deve (abile, bravo, ben adattato, moralmente retto) se l’adulto non glielo “insegnerà” a forza di premi e punizioni. Ad ogni discostamento dagli obiettivi, questa idea rinforza nel genitore il senso di colpa e di inadeguatezza. Ma il compito del genitore non è quello di ammaestrare, è quello di accompagnare i bambini nel loro percorso evolutivo, la cui spinta è interiore e spontanea, aiutandoli nella comprensione di ciò che avviene intorno a loro e in loro, insegnando un linguaggio dei sentimenti e dei bisogni, facendo da esempio e rendendoli partecipi del suo mondo, coltivando la loro intelligenza emotiva, senza giudizi, con comprensione e accettazione totale della loro unicità.


Smettiamola dunque di parlare di abitudini, buone o cattive, vecchie o nuove. Dietro ogni comportamento c’è un bisogno. Come può un comportamento presente dalla nascita (la ricerca del contatto) essere frutto di un’abitudine? I bambini poi crescono, i bisogni si evolvono. Non si può far camminare un bambino di quattro mesi solo facendolo abituare alla posizione eretta, né un bambino di un anno resterà seduto per sempre, solo perché fino ad allora non si era mai alzato in piedi; e non si può abituare un bambino di due anni e mezzo a gestire emotivamente una separazione esponendolo ripetutamente a quell’esperienza, così come non lo si può trattenere vicino alla mamma quando è pronto a distaccarsi.


Nonostante le settimane e mesi di ripetizione di certe situazioni (ad esempio giacere sulla schiena, nutrirsi di soli liquidi, emettere vagiti) nessun bambino continua a restare supino, poppare e vagire, ma tutti quanti prima o poi e con impulso inarrestabile si mettono seduti, gattonano, camminano, mangiano cibi solidi e iniziano a parlare. Le cosiddette abitudini infantili cadono di dosso come foglie secche nel momento in cui il bambino cresce e il bisogno cambia.

I bambini hanno una fortissima spinta allo sviluppo, ad evolversi, ma prima di questo, già alla nascita e prima di qualsiasi possibile abitudine, hanno un istinto immediato a poppare al seno e stare a contatto con la mamma giorno e notte. Non fanno cose, e non si aspettano cose, per abitudine, ma semplicemente perché guidati da un bisogno: il bisogno di nutrirsi, il bisogno di contatto e protezione. Ma il modo in cui il bisogno viene soddisfatto, quello sì, può diventare una routine, una abitudine. Queste modalità possono cambiare con il tempo; e lo faranno, sia perché il bambino cresce e le risposte ai suoi bisogni diventano più articolate, sia perché diviene capace di dilazionare certi suoi bisogni o di accettare di soddisfarli in modo diverso, cominciando a comprendere che anche gli adulti hanno loro bisogni.


La routine è proprio necessaria?

Molti testi per genitori e programmi televisivi affermano che la routine fa bene ai bimbi. Ma è vero?


Se mamma e bambino gradiscono una routine, niente da obiettare. È importante però sottolineare che la routine non è necessaria in sé, che non è vero che un bambino abbia bisogno di routine per star bene, o che la madre che non la impone lo stia danneggiando o privando di qualcosa.


Pianificare la giornata e creare una routine sono due cose diverse. La routine è fare ogni giorno una serie di cose sempre alla stessa ora e nello stesso modo. C’è chi ne trova vantaggi e si sente rassicurato da questi punti fermi; c’è chi invece si sente in prigione. Dipende dal carattere delle persone, e anche da come è organizzata la loro vita, da quanto è prevedibile.


Per quanto riguarda i bambini, anche i loro caratteri sono diversi; ci sono bambini che si rilassano con una vita ordinata, e altri che si rilassano nella confusione. Ma in ogni caso, applicare uno schema sempre uguale di gesti, luoghi e orari non è benefico di per sé, né tantomeno non farlo va considerato come potenzialmente dannoso. Regolarsi sui propri figli, sulle loro reazioni, e anche sui bisogni del resto della famiglia, è sempre la cosa più saggia. Tutti i bambini infatti crescono e la routine, quando incominciano la scuola, viene da sé. Allora perché complicarsi la vita nei primi anni, che si possono vivere seguendo liberamente i ritmi del bambino e anche quelli dei genitori? Ad esempio viaggiando, uscendo la sera con il bambino, senza preoccuparsi di sconvolgergli una presunta abitudine?


Noi umani siamo una specie nomade: l’unica costante prevista, in senso biologico, nella vita dei nostri cuccioli è la presenza della mamma e il contatto continuo. Perfino oggi, in una vita programmata e ingabbiata da orari e azioni fisse, gli adulti vivono in modo flessibile, adattandosi ma anche discostandosi dalla routine secondo le loro necessità. Perché mai un genitore dovrebbe fissarsi l’obiettivo di far seguire a suo figlio degli orari? Nemmeno i genitori vivono costantemente secondo gli orari, ma se ne discostano a volte secondo le proprie voglie o le necessità del momento. Tutti i bambini crescendo dormono la notte e mangiano ai pasti, assieme agli adulti; tutti andranno a scuola e si adatteranno alle routine che la società impone loro, nella misura in cui faranno le loro scelte dentro quella società, seguendo la strada che più sentono coerente con il loro slancio vitale. Meno saranno stati condizionati a subire una routine rigida, più ampio sarà il ventaglio di scelte che riterranno possibili, e più saranno in futuro capaci di compiere quelle scelte.


Abilità e competenza

Buona parte dei problemi che creano attrito e tensione fra genitori e figli nascono dall’ignoranza di cosa a una data età un bambino è o non è in grado di fare. Ci può succedere di sottovalutare o sopravvalutare le capacità di un bambino, limitandolo senza motivo e aumentando la sua frustrazione, ovvero mettendolo sotto pressione per cose che non può ancora fare. Troppo spesso si mantiene il bambino in una posizione passiva, sostituendosi a lui perché “Ancora non è capace” di fare una certa cosa, o perché si teme la sua goffaggine, che maldestro com’è possa farsi male o rompere qualcosa. Di contro, a volte ci si spazientisce perché non compie azioni apparentemente semplici o non capisce cose per noi ovvie, sospettando una sua mancanza di volontà o una sorta di caparbietà, quasi volesse farci dispetto.


Queste incapacità del bambino possono suscitare a volte quindi un giudizio globale che tende a spogliarlo di ogni fiducia, e genera atteggiamenti di insofferenza, squalifica, mancanza di riconoscimento, di ascolto e di rispetto. “Ma che ne vuoi sapere tu che sei nato ieri”, “Dammi qua che tu non sei capace”, “Hai di nuovo combinato un pasticcio”, “Non puoi farlo, sei troppo piccolo”.


L’impatto di queste frasi sul bambino è devastante. Nonostante desideri compiacere i suoi genitori più di ogni altra cosa al mondo, le richieste che gli vengono fatte sono al di là della sua portata e, spesso, anche della sua comprensione. Gli si chiedono da un lato abilità e imprese per le quali non è ancora attrezzato, e dall’altro si pretende che reprima lo slancio a esplorare e sperimentare, che sarebbe esattamente il mezzo per sviluppare quelle abilità. Pur di non distruggere l’immagine benevola dei suoi genitori, il bambino preferisce considerare se stesso sbagliato, incapace e difettoso.

Non c’è dubbio che i bambini siano poco abili in un sacco di cose. Ma non sono degli incompetenti. Spesso la mancanza di abilità viene confusa con la mancanza di competenza, ma questi concetti sono del tutto diversi. Abile (dal latino habilis, che sa tenere in mano) ha il significato di provetto, esperto, idoneo a un compito: l’abilità ha a che fare con la perizia, la destrezza, e un bambino ha avuto poca esperienza, per non parlare dell’immaturità del suo sistema nervoso, che limita la sua capacità manuale. Competente (dal latino cum + petere, dirigersi insieme) significa adeguato, appropriato. La competenza ha a che fare con la conoscenza approfondita in una materia, e quindi concerne il sapere, a fronte dell’abilità che è legata al saper fare. Un sapere che nel bambino è profondo anche in tenerissima età, e che attinge anche a un repertorio innato che gli permette di interagire in modo appropriato, specie sul piano emotivo, con le persone care. Jesper Juul, terapeuta familiare, approfondisce proprio l’aspetto relazionale della competenza laddove scrive:


Dicendo che i nostri figli sono “competenti” intendo dire che sono in grado di insegnarci ciò di cui abbiamo bisogno. Loro ci danno la prova che ci permette di riguadagnare la competenza persa e di modificare il nostro comportamento di nonamore, autodistruttivo e inefficace.
Imparare dai nostri figli richiede ben più che parlare con loro in modo democratico; significa imporsi di sviluppare un tipo di dialogo che molti adulti non sono in grado di stabilire neppure con altri adulti: un dialogo personale basato su uguale dignità4.

Mentre l’acquisizione dell’abilità è un processo legato alla pratica e all’esperienza, e quindi per così dire esterno al bambino, la competenza è un processo interiore, si assorbe dall’ambiente emotivo e relazionale e fiorisce grazie al sostegno e alla stima che si riceve dalle persone affettivamente importanti. Da questo sostegno nasce l’autostima, un fattore esistenziale cruciale per confidare in se stessi e per avventurarsi nel mondo. Non essere abili può portare a una temporanea bassa fiducia nelle proprie capacità, ma se l’autostima è alta questo comporterà per il bambino una spinta a un impegno maggiore per riuscire. Se invece è mancato il riconoscimento della competenza interiore, se l’autostima è bassa, il bambino più facilmente cederà alla frustrazione, allo scoraggiamento o alla rabbia, e rinuncerà a impegnarsi, attestandosi nelle “retrovie”. Alfie Kohn, docente e scrittore, analizza questo comportamento rinunciatario in una sua riflessione sul rapporto che i bambini hanno con il successo e l’insuccesso:


Di solito risulta difficile dissuadere individui felici e soddisfatti dal conoscere di più di sé e del mondo, o dallo svolgere un lavoro di cui sono orgogliosi. Il desiderio di fare il minimo indispensabile è un’aberrazione, sintomo che qualcosa non va. (…) Chi è dotato di una profonda fiducia in sé stesso, oltre che della certezza di essere una brava persona, difficilmente siede con le mani in mano5.


Torniamo ancora una volta al bisogno di riconoscimento e all’accettazione incondizionata di cui un bambino ha bisogno per crescere fiducioso nelle proprie capacità e mantenere lo slancio ad autodeterminarsi ed esprimere liberamente il proprio potenziale.


Dare fiducia

Dobbiamo imparare, come genitori, a concedere la nostra fiducia e approfondire la conoscenza di quello che un bambino può o non può fare (o imparare a fare), valutando correttamente il suo livello di abilità e di competenza.


Un bambino di 2-3 anni generalmente è in grado:


  • di maneggiare con attenzione oggetti taglienti o pungenti senza farsi male
  • di arrampicarsi in modo sicuro
  • di spogliarsi o vestirsi da solo con indumenti semplici
  • di salire e scendere le scale, anche correndo
  • di maneggiare oggetti delicati senza romperli
  • di toccare un neonato con delicatezza e amore
  • di sporcarsi per bene e poi lavarsi da solo
  • di mangiare da solo
  • di comprendere gli eventi nel loro contesto
  • di esprimere e comprendere chiaramente le emozioni attraverso il linguaggio non verbale
  • di amare in modo incondizionato.

Un bambino di 2-3 anni generalmente NON è in grado:


  • di capire il pericolo di cose che non mostrano minaccia evidente (ad esempio prese elettriche, veleni)
  • di capire perché viene limitato nell’esplorazione degli oggetti che gli adulti usano
  • di stare fermo quando ha bisogno di muoversi
  • di avere un senso del tempo qualitativamente e quantitativamente preciso
  • di introiettare una regola solo in base a spiegazioni date a voce
  • di capire i limiti della sua forza o debolezza senza averla sperimentata
  • di controllare le sue emozioni senza esprimerle fisicamente
  • di elaborare strategie di controllo del comportamento altrui fingendo, ricattando o seducendo
  • di comprendere l’impatto emotivo che le sue azioni hanno sugli altri.

Mentre la maggior parte di queste voci sono abilità, le ultime tre di ciascun gruppo sono competenze. Per aiutarlo ad acquisire abilità, possiamo affiancarlo; possiamo mostrargli come si fa una cosa; ma prima ancora di entrare in scena o di suggerire soluzioni, osserviamolo attentamente e lasciamogli lo spazio e il tempo di mettersi alla prova, senza forzarlo né limitarlo.

Per lo sviluppo delle competenze, invece, al bambino occorre soprattutto ricevere fiducia e stima incondizionata, e relazionarsi con adulti che abbiano la pazienza di aspettare i suoi tempi di sviluppo, e che siano di esempio praticando con lui e fra di loro le competenze relazionali che deve apprendere.


Sembra che i genitori di oggi travisino il concetto di essere pronti, che non significa essere, come si dice, “nati imparati”. Paradossalmente, mentre per certe esperienze, emotivamente impegnative (come sperimentare la separazione dai genitori, essere messo in cameretta la notte, andare al nido, essere svezzato dal seno o dal ciuccio), la nostra cultura non si pone alcun problema di “prontezza”, per altre, più legate alla prestazione o alla conquista di tappe o abilità (come gestire il cibo solido o togliere il pannolino), non viene tollerato il minimo incidente di percorso.


A volte, i genitori partono fiduciosi introducendo una novità, ma si sgomentano alla prima incertezza, errore o rifiuto da parte del bambino, e fanno frettolosamente un passo indietro, pensando di aver sbagliato qualcosa o di stare forzando un bambino “non pronto”.


Ancora una volta, la nostra cultura sembra trasmettere l’idea che i cambiamenti e i progressi siano un voltare pagina, passare una linea, chiudere una porta e aprirne un’altra. Ancora una volta le zone grigie, di transizione, vengono negate, o percepite come una disfunzione, e allora si rinuncia oppure si pretende che il bambino le percorra da solo e in fretta.


Ogni bambino è differente, ogni famiglia è diversa, le situazioni cambiano, quindi non c’è né una regola assoluta su cosa permettere e cosa impedire di fare a un bambino, né una linea precisa da tracciare che segni il momento in cui un bambino è “pronto” a fare una determinata cosa. È nella natura infantile cimentarsi con imprese più grandi di sé, e sta a noi affiancare i nostri figli in modo discreto, pronti a intervenire se sono in reale pericolo o se chiedono il nostro intervento, ma senza sostituirci a loro: i bambini hanno diritto in piena serenità di sbagliare e riprovare, di raggiungere l’obiettivo anche con metodi e strategie insolite e strampalate, e persino di cambiare obiettivo o rinunciare.


La rivoluzione della tenerezza
La rivoluzione della tenerezza
Antonella Sagone
Crescere i figli con una guida gentile.Scegliere la via della gentilezza per accompagnare i bambini a diventare individui integri e capaci di empatia, attraverso la presenza affettuosa, l’ascolto dei loro sentimenti e bisogni, il dialogo. La guida gentile non è essere sempre perfetti e nemmeno essere sempre accondiscendenti: è porsi ai nostri bambini con onestà e rispetto della loro integrità, è scegliere di saper essere piuttosto che di saper fare, di avventurarsi nel mare tempestoso delle emozioni e attraversarlo, insieme a loro, con empatia, e usare queste emozioni come guida per comprendere e conciliare i bisogni di tutti.Confermare il bambino nei suoi sentimenti e nelle sue sensazioni, accogliere la sua percezione anche quando non collima con la nostra, aiutandolo ad ampliare la sua visione delle cose e includere quella più vasta della società, è la strada per crescere individui integri, capaci di valutare in modo critico ciò che la vita propone loro, e quindi in grado di esprimere al massimo il loro potenziale.Al di là della falsa scelta fra autoritarismo e lassismo, nell’educazione dei bambini c’è una terza via, quella della gentilezza, che Antonella Sagone presenta nel suo libro La rivoluzione della tenerezza.Attraverso la presenza affettuosa, l’ascolto dei loro sentimenti e bisogni, il dialogo onesto e rispettoso, gli adulti possono, senza rinunciare al loro ruolo di guida, accompagnare i bambini a diventare individui integri e capaci di empatia, con una base affettiva sicura e la capacità di connettersi con gli altri e con l’ambiente intorno a loro, cambiando in meglio il mondo. L’ebook di questo libro è certificato dalla Fondazione Libri Italiani Accessibili (LIA) come accessibili da parte di persone cieche e ipovedenti. Conosci l’autore Antonella Sagone, psicologa in area perinatale e consulente professionale in allattamento materno IBCLC e formatrice; da 40 anni si occupa dei processi fisiologici della maternità e paternità, e delle pratiche di assistenza e sostegno che promuovono la salute e l’empowerment della madre e di tutte le persone coinvolte nell’accudimento e nella crescita del bambino.