CAPITOLO IV

La danza dei bisogni

E che cos’è la paura del bisogno, se non il bisogno stesso? Il terrore della sete quando il pozzo è colmo, non è forse insaziabile sete?1


I bisogni dei bambini sono intensi, urgenti e irrinunciabili. Un neonato senza un adulto che se ne prenda cura è destinato a morte certa. Ha bisogno di tutto: nutrimento, protezione, cura, contatto, stimoli, contenimento, sostegno, continuità. Ma soprattutto, ha bisogno di una relazione privilegiata e costante con altri esseri umani; e ne ha bisogno per un periodo molto lungo di tempo.


Questa semplice realtà atterrisce molti adulti: hanno conquistato a caro prezzo la padronanza della propria vita, è stata insegnata loro l’importanza di mantenere il controllo della situazione, sono stati abituati a progettare in autonomia i tempi e le modalità delle proprie giornate. Disconnessi dalle competenze innate, isolati da una società che tende a escludere i bambini dagli spazi e luoghi adulti, essere un caregiver diventa per i genitori un compito oneroso e carico d’ansia, e il bambino, con i suoi bisogni, viene percepito come una sorta di buco nero energetico che minaccia l’omeostasi dell’adulto e richiede di essere al più presto messo sotto controllo attraverso una precoce emancipazione.


La relazione fra genitore e bambino è speciale perché quest’ultimo non è ancora in grado di decodificare i bisogni e spiegarli a parole; l’adulto se ne fa perciò interprete, mediatore e risolutore. Ma in questo processo porta tutti i suoi bisogni, la sua storia personale, le sue emozioni, che possono entrare in risonanza con il bambino e le sue richieste, facilitandone o ostacolandone il compito a seconda di quanto il genitore ne sia consapevole, e anche di quanto riesca ad ascoltarli e rispondervi.


Non sempre è facile risalire a questi bisogni di base che, se non soddisfatti, agitano le acque della nostra emotività facendoci sperimentare tutta la gamma delle emozioni; ciascuno di noi è cresciuto in una data cultura, che ha fornito una sua scala di valori portando a considerare alcuni bisogni e ignorarne altri, e ha fornito strategie culturalmente accettabili per soddisfarli. Succede così che spesso queste strategie vengano considerate in sé dei bisogni: “Ho bisogno di soldi”, “Ho bisogno di una vacanza”, “Ho bisogno di un lavoro”, quando in realtà ciò di cui si ha veramente bisogno è, per esempio, sicurezza, riposo, riconoscimento, realizzazione personale.


Per risalire dalle strategie ai bisogni occorre fare un lavoro di introspezione, e analizzare l’emozione che emerge in superficie. Questo permette di identificare il bisogno che l’ha innescata. Ad esempio, alla fine di una giornata una donna potrebbe dire al suo partner: “Ho bisogno che tu ti faccia carico di una parte del lavoro di casa, potresti ad esempio seguire nostro figlio e apparecchiare la tavola, invece che buttarti sul divano”. Questa frase esprime un giudizio sull’altra persona, su ciò che fa e su quello che secondo la sua partner dovrebbe fare; e propone una strategia per risolvere quello che viene percepito come il problema. Ma non esprime il bisogno della madre stanca alle sette di sera. Analizzando come si sente (stanca, irritabile, frustrata) diventa possibile risalire ai bisogni che la fanno sentire così: ad esempio potrebbe avere bisogno di calma, riposo, ma anche forse di apprezzamento per ciò che ha fatto, di sicurezza, e così via. Una volta individuato il bisogno sarà più facile chiedere al suo partner un aiuto senza formulare giudizi sul suo conto, lasciando aperta la possibilità di trovare insieme soluzioni, anche diverse da quelle strategie che lei ha pensato come ottimali o come le sole possibili.


Collisioni e collusioni

Così come non esiste un bambino in sé, ma un bambino in relazione a qualcuno, non esiste nemmeno una coppia madre-bambino in sé, ma esiste in relazione alla comunità di persone intorno ad essa. Se vivessimo nel contesto in cui la nostra specie è stata plasmata, ci sarebbero molte altre braccia, oltre a quelle della mamma, per soddisfare i bisogni di quel bambino, che andrebbe alla mamma per poppare e quando ha bisogno di lei, ma starebbe anche fra le braccia della nonna, dello zio e dei bambini più grandi. Passerebbe molto tempo girovagando nel villaggio, trotterellando dietro a gruppi di ragazzini di età assortite.


Invece il più delle volte madre e bambino sono soli fra quattro mura ed è la mamma – la nonna o un’altra persona quando la madre lavora – a farsi carico di tutti i bisogni del bambino, giorno e notte, tutti i giorni. Non c’è il sostegno della comunità, e anzi, spesso la rete di persone intorno ai genitori è intrusiva, con consigli e divieti, o emotivamente distante, critica o squalificante. E allora anche il genitore più amorevole, paziente e consapevole, alla fine paga uno scotto in termini emotivi: si sente invisibile, usurato, “in credito”. Accudire un figlio è meraviglioso, ma anche logorante quando non c’è alle nostre spalle chi può sostenerci o alternarsi a noi. In quei momenti sale un senso di delusione, qualcosa dentro di noi dice: “E io?” Le voci fuori dal coro che parlano di bisogni fondamentali dei bambini e di necessità di accoglierli, ascoltarli, soddisfarli quanto più è possibile nei primi mesi e anni, sollevano reazioni indignate e accuse di estremismo da parte di schiere di genitori sfibrati e soli.


L’assenza di una comunità di persone solidali viene taciuta, celata, minimizzata, mentre si suggerisce di non dare “troppo amore” ai figli, e si razionalizza la scelta di uno stile di accudimento distaccato, offrendo alibi sotto forma di teorie che parlano di vizi, bambini furbi, educazione all’autonomia, “per il suo bene” e altri concetti mistificanti. Si spinge l’adulto a focalizzarsi sul comportamento del bambino, sul cosa invece che sui motivi, sul perché, e l’accento è su come si sente il genitore di fronte al comportamento del bambino, e non su come il bambino stesso si senta in quel momento.


Ci siamo allontanati così tanto dal continuum per il quale la nostra specie è modellata, che i bisogni fondamentali, degli adulti e dei bambini, non trovano una modalità di soddisfazione armoniosa e coerente, ma sono incanalati in contesti che li contrappongono, creando collisioni, competizione e conflitti.

Nello stesso tempo, la stessa cultura che ha messo i bisogni e le persone le une contro le altre, propone dei sostituti per compensare i bisogni inappagati.

Ciucci, passeggini monumentali, orsacchiotti, girelli, box con palestrine incorporate, baby-citofoni, questi oggetti divengono degli aiutanti indispensabili, benedetti dagli esperti da salotto, promossi dal marketing e approvati dalla società. E sono tutti oggetti che vanno nella direzione contraria a quella delle cure prossimali, diventando spesso il casus belli, l’oggetto di feroci discussioni in rete fra le comunità di mamme.


E i bisogni negati? Non scompaiono: semplicemente trovano altre strade. Quando la modalità più ovvia, più naturale di soddisfacimento viene meno, l’individuo alla fine collude, si fa complice accettando questi surrogati, che non potranno però mai estinguere davvero il senso di insoddisfazione. Questo vale tanto per i bambini quanto per gli adulti. Queste compensazioni, che vengono offerte e proposte dalla nostra società come assolutamente equivalenti se non migliori della loro controparte naturale, non estinguono il bisogno ma anzi aumentano il senso di struggimento interiore, mentre ottundono la visione chiara delle emozioni e il proprio senso di giustezza interiore, facendo sedimentare questa insoddisfazione al di sotto del livello cosciente.


Tutto questo non è per nulla evidente, la presa di coscienza è difficile, perché manca ai genitori il sostegno e l’informazione adeguata per comprendere che non c’è nulla di sbagliato in loro o nei loro figli, ma invece c’è qualcosa di storto nella società in cui vivono.

Ecco perché esplorare la sfera dei bisogni fondamentali può veramente essere una strada per comprendere la relazione di accudimento e trovare modi ottimali per farla fiorire.


Nutrimento

In inglese “nutrire” viene espresso da due verbi distinti: feeding significa fornire il nutrimento fisico, il cibo; nurturing significa invece il nutrimento emotivo, sensoriale, intellettuale, spirituale. In questo senso nutrire in senso più lato diventa accudire, fornendo al bambino tutto ciò di cui ha bisogno per sentirsi bene, prosperare e sviluppare pienamente il suo potenziale.

Anche la stimolazione tattile è un “cibo” fondamentale per la salute e la stessa sopravvivenza del neonato. Ashley Montagu, nel suo ricchissimo libro Il linguaggio della pelle, afferma che


La stimolazione tattile affettuosa è evidentemente un bisogno primario, che deve essere soddisfatto affinché il bambino si sviluppi in un essere umano sano2.


Bambini curati e nutriti ma non accarezzati, abbracciati e coccolati possono ammalarsi gravemente, presentano ritardi evidenti nella crescita e nello sviluppo motorio e hanno un sistema immunitario debole, come mostrano gli studi sulla deprivazione affettiva e sensoriale effettuati su neonati cresciuti negli orfanotrofi. Il nurturing insomma è talmente importante che senza di esso il bambino rischia di morire, anche se riceve cibo e cure fisiche; la sindrome da deprivazione materna era già nota verso la fine del 1800 con il nome di marasma, e mieteva numerose vittime fra i neonati istituzionalizzati. Ma fu il dottor Fritz Talbot a introdurre il concetto della tenerezza come terapia, e il suo trattamento TLC (acronimo per tender, lovely care, ovvero tenere, amorose cure) fece risalire clamorosamente in alto il tasso di sopravvivenza dei bambini ricoverati nei reparti ospedalieri3.


La metafora del cibo ci porta a ulteriori riflessioni. Così come per crescere un bambino fisicamente sano è necessario offrire un’alimentazione appropriata all’età, adeguata, sufficiente, variata e sana, allo stesso modo anche il nutrimento dei sensi, degli affetti e della mente dovrà essere sufficiente, appropriato all’età, sano e diversificato, evitando i “cibi spazzatura”, che non nutrono ma saturano rapidamente i sensi e la mente.


Il significato più profondo del nutrire è dunque strettamente legato all’idea di vita. Nutrire è la funzione primaria di sopravvivenza di ogni organismo vivente, anzi è proprio il nutrirsi che definisce un organismo come vivo. È il processo che permette di ottenere dall’esterno ciò che è necessario all’individuo per ricavare energia, restare in salute e svilupparsi. Nella funzione nutritiva è anche implicita l’idea di assimilazione, che significa la capacità di trasformare l’esterno in interno, l’altro in sé. Questo può essere riferito al corpo ma ugualmente a ogni altra sfera dell’esistenza. Il bisogno di nutrimento del bambino riguarda tutto ciò che gli è necessario per alimentare e realizzare il suo potenziale fisico, emotivo, cognitivo e umano in senso lato. Il bambino riceve il latte materno che non è solo cibo, ma nutrimento biologico, tessuto vivo che va a integrarsi e ad essere assorbito dal suo sistema neuro-endocrino-immunitario, accompagnandone e modulandone lo sviluppo. I genitori nutrono il loro bambino con le cure amorevoli, e l’affettività del bambino prospera e fiorisce. L’ambiente stimola i sensi del bambino ed egli si nutre di queste sensazioni, le assorbe, le trasforma in percezioni e, grazie alla presenza dell’adulto che le commenta e le filtra, in esperienze. L’adulto parla al bambino, il linguaggio diventa un ponte, acquista significato via via che queste parole, di cui il bambino si nutre, diventano parte della sua mente, strumento per il suo pensiero. I genitori nutrono il bambino con la loro visione del mondo e i loro principi morali, e il bambino li fa suoi e sviluppa la sua propria etica.


Il nutrimento cambia via via che il bambino cresce: si modula, si diversifica, diventa meno preminente, ma comunque resta il perno fondamentale perché il bambino prosperi e si evolva, richiedendo la presenza amorevole dell’adulto per molti anni. Perché il bambino non può arrangiarsi, bastare emotivamente a sé stesso; nutrire non permette il fai-da-te, e presuppone sempre la presenza dell’altro; il nurturing è il corollario di una relazione.


Il nutrimento del legame simbiotico

L’intensa interdipendenza fra madre e bambino viene spesso definita una simbiosi. La simbiosi infatti, dal greco symbiosis, vivere insieme, è definita come “Associazione o coesistenza, stretto rapporto o compenetrazione di elementi diversi; fusione”. Quando tale intenso rapporto è a beneficio di entrambi gli organismi coinvolti, si parla di mutualismo; se invece uno si avvantaggia sull’altro, si parla piuttosto di parassitismo.


Il primo modello della simbiosi fra madre e bambino è la gravidanza, con il bambino nell’utero materno, nutrito e accudito attraverso il cordone ombelicale e la placenta, che è una parte del bambino, che con i suoi ormoni orchestra tutti i mutamenti nel corpo materno, in uno stato di fusione quasi assoluta.


Nascendo, il neonato per la prima volta opera delle distinzioni, il dentro e il fuori, il sé e il non-sé. Tuttavia all’inizio la fusione è ancora quasi assoluta. Si parla infatti di esogestazione per indicare un periodo iniziale di vita in cui il bambino è fuori dell’utero, ma vive e interagisce come se fosse ancora parte del corpo materno; e in parte è così, perché il legame del latte unisce i loro sistemi neurologici, immunitari ed endocrini, li fa dialogare e costituisce un’autentica unità funzionale biologica. Il bambino insomma nasce immaturo; ed è come se completasse la gestazione fuori dell’utero, a stretto contatto fisico con il corpo materno.


La simbiosi è un concetto che in psicologia viene spesso usato in senso deteriore, negativo, connotandolo come regressivo, un ritorno a modalità di relazione più primitive, perché tale concetto viene in genere utilizzato per descrivere alcune fasi e situazioni vissute da adulti che si trovano in un percorso terapeutico. Ma la coppia madre-bambino è particolare rispetto alle relazioni fra adulti; il legame diadico è la condizione naturale, il modello da cui la metafora della simbiosi viene tratta: è la matrice delle future regressioni.


L’irrinunciabilità della connessione fra il bambino e l’adulto è espressa nel modo migliore dalla famosa massima dello psicoanalista Donald Winnicott, che affermava: “Non esiste un bambino: esiste un bambino e qualcun altro”. E la forza del legame fra madre e bambino, l’intensa interdipendenza, non significano necessariamente che ci sia fusione, che il processo di individuazione non possa avere luogo.

Naomi Stadlen, psicoterapeuta e consulente in allattamento, osserva:


Madri e figli si comportano, sin dall’inizio, come se si riconoscessero come persone separate. Le madri possono dare l’impressione di un naturale spirito di solidarietà e descrivono sé stesse e i loro bambini come un “noi” ad esempio in una frase così: “Abbiamo trascorso una bella giornata insieme”. Il punto focale di questo tipo di frase è che descrive due differenti persone che stanno imparando a comprendersi e ad andare avanti. l’uso del “noi” da parte della madre non nega la separazione da suo figlio, ma afferma che hanno trovato un modo per stare insieme nonostante tutto4.


Cambiando prospettiva, il fatto che nel suo processo di individuazione il bambino a un certo punto incominci a creare dei confini e quindi a distinguere sé stesso dalla madre in senso cognitivo, non significa che sul piano affettivo non ci sia più un bisogno reciproco fra i due. Dobbiamo cominciare a pensare in termini di un continuum e non di presenza/assenza di simbiosi: la diade continua ad essere un’unità biologica funzionale a lungo, dopo i primi passi che il bambino compie verso l’individuazione. Crescendo, egli acquisirà la percezione di sé come individuo distinto dalla mamma, con caratteristiche, emozioni, pensieri suoi propri; ma questo avviene con il tempo, in modo progressivo, senza fretta, e nella sicurezza di un legame affettivo che fornisca una base sicura da cui poter partire e a cui poter tornare.


L’enfasi verso la precoce emancipazione fa sì tuttavia che la simbiosi non sia vista di buon occhio, e che la relazione diadica venga percepita come una situazione in cui il bambino prende e l’adulto dà, confondendo la simbiosi con il parassitismo: è il mito del bambino insaziabile che prosciuga i genitori, le loro energie, le risorse, il latte dal seno.


La carestia dell’anima

Osserva la psicoanalista Clarissa Pinkola Estés, parlando della fiaba Scarpette rosse:


L’esistenza di una donna può essere spiata, minacciata, allettata, rubata, se non trattiene o recupera la sua gioia fondamentale e il suo valore selvaggio. Il racconto richiama la nostra attenzione sulle trappole e i veleni che troppo facilmente accettiamo quando ci manca l’anima selvaggia. Senza una costante partecipazione alla natura selvaggia, la donna muore di fame e cade nell’ossessione (…). Quando ha fame, la donna accetta qualunque surrogato le venga offerto, compresi quelli che, come i placebo, non le fanno assolutamente nulla e quelli distruttivi, letali, che ne sprecano orrendamente il tempo e i talenti o espongono la sua vita a un pericolo fisico. È una carestia dell’anima che induce la donna a scegliere cose che la faranno danzare pazzamente, senza controllo, fino alla porta del boia5.


Carestia dell’anima è un’espressione forte e drammatica. Ma rende bene il dramma degli individui, adulti e bambini, che vivono in una società che è molto preoccupata del feeding, del cibo, ma sembra considerare il nurturing, il nutrimento emotivo, un “extra” a cui si possa rinunciare a cuor leggero. Questo è oltremodo evidente se si considera ad esempio la funzione dell’allattamento, che è stata riduttivamente definita come il dar da mangiare al neonato, rimuovendo dalla consapevolezza collettiva tutto ciò che di non nutritivo, sia dal punto di vista biologico che psicologico, viene offerto al bambino assieme al seno e al latte materno. Tale operazione di sminuimento segue le logiche del marketing, che tendono sempre a sostituire l’essere con l’avere, i processi con i prodotti.

È abbastanza significativo come, a fronte di un dilagare dell’obesità infantile persino in bambini piccolissimi (l’Italia detiene il primato europeo), i genitori italiani sembrino ossessionati dal timore che i loro figli non mangino abbastanza, e il motivo presunto per cui prevalentemente l’allattamento al seno viene abbandonato è la percezione di “non avere abbastanza latte”.


Rendendo poi l’allattamento un gesto imbarazzante, da non fare in pubblico, isolando la madre e tagliandola fuori dal flusso vitale, impoverendo la sua realtà, si limita anche la sua possibilità di nutrire emotivamente il bambino. Invece di essere un tramite, la madre si sente gravata della responsabilità di nutrire suo figlio contando sulle sue sole forze: ed ecco da dove si alimenta il mito negativo del bambino che esaurisce e drena energie, risorse, salute.


E chi nutrirà allora la nutrice? L’antica tradizione di cucinare e offrire il cibo alla mamma per farle produrre latte, come la moderna tendenza a non farle mancare il più completo assortimento di integratori e magiche tisane, non possono compensare la mancanza di cibo emotivo, sociale, intellettivo e spirituale che spesso è conseguenza dell’isolamento forzato della neomamma.


La cultura del distacco e del controllo sottrae così alla madre e al bambino il nurturing, la gioia di nutrirsi reciprocamente.


La retorica di una certa visione sacrificale della madre (con il presunto dovere materno di darsi al bambino senza riserve), come il timore di essere “vampirizzata”, consumata o prosciugata dal bambino, nascono dalla stessa ideologia di un “nutrire a senso unico”, dalla madre verso suo figlio. Questo stimola nei genitori risposte di evitamento e resistenza a cui la nostra cultura offre altrettante vie di fuga, come una certa retorica sul diritto della donna a “riprendersi la sua vita” o dei genitori a “non lasciarsi monopolizzare” dai figli. Tutto questo fa parte dello stesso paradigma: quello dell’avere contrapposto all’essere, che conduce a un’inclinazione all’avarizia affettiva.


Avarizia è condizione diversa dall’avidità. Mentre l’avidità è guidata dalla bramosia di possedere, l’avarizia è dominata dalla paura di perdere ciò che si possiede. L’avaro fonda il suo senso di sicurezza sul possesso, alienando da sé l’amore e incorporandolo in oggetti che gli è possibile controllare e conservare. Quando la propria esperienza affettiva è consistita nel ricevere amore condizionato, l’idea di una relazione di amore si modella sulla legge del dare e dell’avere e quindi è governata dal bisogno di possesso. Ma questa strategia è intrinsecamente vulnerabile, perché i beni posseduti sono di per sé una quantità finita, che può esaurirsi o deteriorarsi. È solo nell’essere che questi timori e reazioni vengono a cadere, perché nell’universo dell’amore condiviso, della connessione, non c’è possesso, cessione o furto di energie, ma soltanto un continuo flusso.

Osserva lo psicologo Eric Fromm:


Gli individui cauti, che fanno propria la modalità dell’avere, godono della sicurezza ma sono per forza di cose assai insicuri. Dipendono da ciò che hanno: denaro, prestigio, il loro io – in altre parole da qualcosa che è al di fuori di loro. Ma che ne è di loro se perdono ciò che hanno? Ed è un’eventualità niente affatto remota, perché qualsiasi cosa si abbia può essere perduta6.


Come reagisce chi vive secondo il paradigma dell’avere, di fronte a un bambino che ha bisogno continuo di amore e cure per un periodo prolungato di tempo? Quale reazione avrà rispetto alla proposta di farsi guidare dal bambino, di allattare a richiesta, di rispondere ai suoi bisogni finché questi non vengono naturalmente meno?


L’idea che si possano rispettare veramente i tempi del bambino, aspettando che sia pronto a lasciare da sé il seno, gli abbracci, il pannolino, il conforto notturno, non può che suscitare ansia, scetticismo o critiche. “Finché vorrà” è un concetto duro da essere accettato, se chi lo ascolta non ha la consapevolezza che prima o poi i bambini si emancipano da soli. Si alimenta la tragica credenza che i bambini siano dei conservatori che non vorranno mai cambiare, mai evolversi, e che ogni progresso debba essere il frutto di una forzatura, di una costrizione imposta dall’esterno.


A coloro che non si sono potuti appagare di braccia, latte materno, sonno condiviso, tenerezza finché ne hanno avuto bisogno, l’età delle coccole deve apparire come un paradiso perduto che nessuno vorrebbe mai abbandonare.

Quindi nelle loro menti “finché vorrà” diventa “per sempre”. E agli adulti che hanno poco conosciuto l’appagamento dell’essere contenuti, accolti, che hanno poco ricevuto, che non conoscono la reciprocità di una relazione amorevole, sgomenta la fantasia di un amore a una sola direzione, l’idea di dover dare, per un periodo illimitato di tempo, fino a prosciugarsi completamente. La credenza del latte che esiste come “dote” destinata prima o poi a venire consumata ed esaurirsi incarna perfettamente questa paura.


Si mettono dunque in guardia i genitori contro il “troppo amore”, che danneggerebbe il bambino rendendolo fragile e dipendente, mentre esporrebbe gli adulti a uno sfruttamento senza fine: Se gli dai il dito prenderà tutta la mano. Si semina e si incoraggia l’avarizia, la paura della sete quando il pozzo è ancora pieno.


Il bambino piccolo vive nel presente, non sa proiettare nel futuro: per lui ogni bisogno è urgente e irrinunciabile e ogni dilazione è assoluta ed eterna. Ma noi siamo adulti e sappiamo, o dovremmo sapere, che tutto è transitorio, che nulla resta mai fermo per sempre o invariato troppo a lungo. Eppure in questo mondo a rovescio non si ammette l’urgenza infantile nell’esprimere i bisogni, e si pretende che il bambino sappia fare ciò che l’adulto di fronte a lui non sembra invece disposto a fare, e cioè accettare il rinvio, l’adattamento, il sacrificio.


Attività

Ogni bambino ha un enorme potenziale di abilità che devono essere scoperte e sviluppate, e uno slancio vitale a sperimentare e mettere alla prova le sue capacità con le mani, le gambe, la bocca, tutto il suo corpo, la mente e il cuore.


Questo bisogno di attività è il motore del percorso evolutivo di ogni individuo, dalla nascita alla morte, dà significato all’esistenza, fornisce una direzione, alimenta la gioia di vivere, attinge e crea energia vitale.


Ma se il bisogno di attività del bambino è il “fare”, il ruolo dell’adulto non è il “far fare”. L’adulto ha un compito più statico e più cruciale: quello di non ostacolare, ovvero di rimuovere ostacoli all’azione; di offrire occasioni e stimoli, e di essere presente in modo discreto, senza pressare, regolamentare o influenzare il bambino mentre esplora le sue possibilità.


Affiancare i propri figli nel loro fare non è un metodo: è un approccio. Non ci sono tecniche o regole da applicare, occorre solo impratichirsi nell’arte della sorveglianza rilassata. Togliere cioè di mezzo tutte le cose veramente pericolose, e cercare di comprendere il bisogno del bambino agendo di conseguenza: se tocca una cosa perché è curioso, mostrandogliela in modo controllato, spiegando cos’è, e poi proponendo, se necessario, qualcos’altro; se ha voglia di toccare tutto, dandogli qualcosa di lecito da maneggiare; se vuole imitare, mettendogli a disposizione un cassetto basso pieno di oggetti di uso quotidiano, da tirar fuori e manipolare: mestoli di legno, passini, stracci, spugne, contenitori.


C’è uno spazio grigio fra l’area di ciò che il bambino sa già fare e quella di ciò di cui ancora non è capace, ed è la zona del potenziale, del possibile, di ciò che il bambino ancora non fa ma potrebbe riuscire a fare. È in quella zona che gli adulti devono condurre per mano i loro figli, offrendosi soprattutto come sostegno emotivo, ma lasciando che siano loro a trasformare quello spazio grigio in un territorio conquistato. Insomma, come già intuito da Maria Montessori quasi un secolo fa, il ruolo dell’adulto è aiutare il bambino a fare da solo.


Il bisogno di attività nel neonato

Anche un bambino piccolissimo, incapace di reggersi seduto, ha un grande bisogno di attività. Se osserviamo un bimbo di pochi mesi, magari dopo il bagno e prima di essere rivestito, vediamo che il suo corpo è in continuo movimento. Braccia e gambe si agitano seguendo ondate di eccitazione, ogni volta che nel campo visivo del bambino appare qualcosa di nuovo, e più che mai quando appare un viso umano. Le mani e i piedi si muovono sinuosamente articolandosi senza posa. Il suo viso espressivo mostra tutta la gamma delle emozioni, mentre osserva il mondo intorno a lui. Tutto in lui esprime il bisogno di interazione ed esplorazione. Due oggetti affascinanti, le sue mani, appaiono e scompaiono dal suo campo visivo, come farfalle meravigliose che danzano insieme. E quando si incontrano, stimoli tattili lo colpiscono all’improvviso, coinvolgendo anche il gusto quando le mani approdano alla bocca, aggiungendo all’insieme il piacere della suzione.


Questi eventi minimali, per il neonato, sono emozionanti e appaganti. Le esperienze tattili lo aiutano a distinguere sé dall’ambiente, e determinare con sempre maggiore chiarezza i confini del suo corpo: un motivo per cercare di evitare il più possibile che il bambino sia infagottato, in modo da potersi muovere liberamente e sperimentare il tatto sulla maggiore superficie corporea possibile. Le esperienze visive danno una forma al mondo e creano immagini e schemi ricorrenti; e fra queste il viso umano è l’esperienza più significativa. Le voci e i rumori lo riempiono e lo fanno vibrare e i suoni che lui stesso emette sono un’attività eccitante che gli consente di espandere il suo potenziale comunicativo.


Essere portato stimola il suo sistema vestibolare, gli fa sperimentare la gravità, il movimento e l’orientamento nello spazio, lo induce a effettuare movimenti compensatori favorendo lo sviluppo muscolare e il senso dell’equilibrio. E il sistema vestibolare, dicono le ricerche7, è un elemento cruciale per l’integrazione sensoriale e quindi non solo per lo sviluppo delle funzioni motorie, ma anche per quelle linguistiche e per i processi di apprendimento. La scrittrice Jean Liedloff, basandosi sulle osservazioni compiute mentre conviveva con una tribù dell’Amazzonia, descrive l’intensa e varia esperienza dell’essere portati fin dalla nascita e “venire abbracciati da un corpo che vive”:


Persino mentre dorme “viene assuefatto” alle voci della sua gente, ai suoni delle loro attività, agli urti, agli scossoni e ai movimenti repentini, all’immobilità improvvisa, ai sollevamenti e alle pressioni su varie parti del corpo via via che colei che lo accudisce lo sposta dappertutto per poter lavorare più agevolmente o per sua semplice comodità; (…) si trova in uno stato passivo e rilassato; ma i suoi muscoli sono tonificati (…). Ha, inoltre, il compito… di tenere il capo e il corpo dritti… in un’infinita varietà di posizioni a seconda dei motivi e delle posture della persona che lo sorregge8.


Per permettere appieno al bambino piccolo di soddisfare il suo bisogno di attività la cosa essenziale è rimuovere gli ostacoli come appunto vestiti ingombranti, scarpe rigide, e offrirgli la presenza viva degli altri membri della famiglia e, ogni volta che sia possibile, l’esperienza di stare in braccio, in modo da porgergli un mondo in movimento e la partecipazione indiretta alle attività degli adulti. Non c’è bisogno di attrezzature o metodi per “fargli fare”, né di impegnarsi in attività “stimolanti” predefinite, ma solo di tenere il bambino con sé il più possibile; anche se le filastrocche, le canzoni, il ballare sulle ginocchia sono interazioni che il bambino adorerà e che potranno appagarlo intensamente. Il bambino piccolo ha tutto il potenziale per soddisfare il suo bisogno di attività, purché gli si offra l’occasione di esercitare le sue abilità motorie e percettive in un ambiente animato dalla presenza delle persone care.


Esplorare

I miei bimbi, e quelli dei vicini, avevano il mio giardino a disposizione: un po’ di zolle erbose e un sacco di fango. Ci passavano interi pomeriggi e noi potevamo anche far finta di non avere figli! Bastava un’occhiata ogni tanto: la nostra presenza non era richiesta per farli giocare o per stimolarli, tanto erano presi con muretti e inferriate da scalare, rifugi costruiti con fronde e cartoni, a scavare e modellare con fango e terriccio, a fare strane “pozioni magiche” di foglie, terra e meglio-non-sapere cos’altro, che poi misteriosamente funzionavano davvero, facendo crescere di più le erbacce!


Di questo hanno bisogno i bambini: spazio, tempo senza restrizioni, e parecchia materia prima il più possibile informe. E che gli adulti non si mettano in mezzo, nemmeno quando i ragazzi hanno un disaccordo da gestire o ciondolano annoiati: è un loro diritto!


Compito del genitore sarà quello di offrire loro l’occasione di esplorare, frequentando il più possibile ambienti naturali, e in casa creando spazi e rendendo disponibili materiali che consentano di mettere alla prova tutto il loro potenziale sensoriale e le loro abilità motorie.


Pretendere che un bambino nei primi anni di vita, quando il bisogno di esplorare è così intenso, obbedisca all’ingiunzione negativa di “non toccare” cose che i genitori toccano, è non solo poco realistico, ma anche poco sensato dal punto di vista biologico. Probabilmente non c’è un modo per far sì che il bambino smetta di toccare il cellulare, o il tablet, o qualsiasi altro oggetto prezioso che catturi l’interesse dell’adulto: è più forte di lui. Anzi, il comportamento dei nostri piccoli è modellato proprio in modo che siano attratti da tutto ciò che gli adulti manipolano, e spinti a toccare ed esplorare queste cose, perché, secondo il loro istinto, se lo tocca l’adulto verosimilmente è cibo o comunque un oggetto interessante e non pericoloso, mentre se l’adulto lo evita forse è un animale feroce, un insetto che punge o una pianta velenosa.


Il comportamento “avventato” o “invadente” dei bambini che allungano le mani su tutto è quindi invece un segno di competenza, è il modo in cui esplorano l’ambiente, sviluppano le loro abilità e accrescono la loro capacità di evitare i pericoli.


Il gioco

Giocare significa trasportare i dati dell’esperienza e della conoscenza in uno spazio protetto ove si possono sperimentare variazioni della realtà, o dell’irrealtà, senza rischi di conseguenze concrete, ma con la libertà di immaginare e quindi di spingersi oltre nel territorio, per un bambino così cruciale, posto fra quello che fa e quello che potrebbe fare. Nella realtà il bambino fa i conti con i suoi limiti fisici, di conoscenze e di abilità; nel gioco questi limiti possono essere oltrepassati senza danno per sé o per gli altri, permettendo così al bambino di misurarsi con ciò che è molto più grande di lui. Nel gioco il bambino può anche far emergere paure ed emozioni negative senza timore di venirne travolto o di ricevere rimproveri, grazie alla magia del come se, della narrazione, che è “soltanto un gioco”.


Gianni Rodari, giornalista e scrittore per l’infanzia, nel suo bellissimo libro Grammatica della fantasia parla del gioco come di un racconto in atto:


Anche sull’“Asse del gioco”, come in un testo libero, convergono i tributi e le sollecitazioni degli “assi” che abbiamo individuato (…): quello della selezione verbale, quello dell’esperienza, quello dell’inconscio (…), quello che immette nel gioco i valori (…). Per spiegare pienamente un gioco occorrerebbe poter ricostruire passo per passo come avviene la simbolizzazione degli oggetti, come si verificano le modificazioni e trasformazioni, gli “andirivieni del significato”9.


Ogni esperienza interattiva con l’ambiente o con le persone può venire vissuta in modo ludico, giocoso. Nel bambino molto piccolo spesso è l’adulto a dare il via a un gioco, che può anche essere una cosa semplicissima come far cadere un fazzoletto sul viso del bambino, o cantare filastrocche, fare cucù. Il bambino è deliziato, ride e riconosce già la dimensione speciale del momento ludico, che una volta cresciuto potrà riprodurre anche da solo.


Nelle nostre famiglie nucleari il bambino è spesso privo di quella dimensione ludica che comportava l’essere parte di un gruppo di bambini di diverse età, e quindi cerca l’adulto per giocare. Non c’è nulla di male in questo; ma non è nemmeno obbligatorio se l’adulto non si sente a suo agio e preferisce altre modalità e spazi di attività condivisa. Un bambino può godere dell’esperienza di lavare, tagliare, disegnare, cucinare con la mamma o il papà, fare giardinaggio, esplorare la natura, parlare di fatti e di emozioni. In altri momenti, il bambino è preso da un gioco solitario in cui la parte fantasticata può essere o meno agita, ma di cui noi dal di fuori non vediamo che la superficie. Un bambino alle prime parole può in queste situazioni esprimersi in un linguaggio incomprensibile, tutto suo, ma che è la traccia del pensiero che nella sua mente si sta organizzando e dando un senso alla sua realtà. Questi momenti sono impagabilmente preziosi e non andrebbero interrotti, perché sono parte concreta della costruzione della sua intelligenza e capacità di pensare, immaginare, organizzare l’esperienza.


In nessun caso, comunque, anche quando l’adulto gioca con il bambino, dovrebbe orientarne la direzione o porre limiti o regole (al di là delle ovvie regole volte a evitare disastri o rischi di farsi male). Il gioco è uno spazio di espressione libero, intimo, come le fantasticherie, i sogni, i disegni, l’espressione incondizionata di fantasie ed emozioni; un’attività che non può essere né sanzionata, né guidata, né codificata. È un luogo personale, una “terra di mezzo” nella quale noi adulti ci possiamo forse affacciare in punta di piedi, e commentare o indagare solo molto discretamente con il permesso del sovrano del territorio: il bambino.


Dare tempo

Si dice spesso che i bambini non siano capaci di concentrazione e si stanchino presto di qualsiasi attività, ma invece è tipico dei bambini piccoli l’amore per la ripetizione: sono capaci di ripetere anche cento volte la stessa azione, che sia accendere e spegnere un interruttore, gettare un oggetto a terra, esaminare a fondo l’etichetta di un peluche o percuotere un giocattolo per produrre un suono interessante. Il massimo della concentrazione si ha con i materiali informi: acqua, terra, fango, farina, con i quali un bambino anche molto piccolo può trascorrere persino ore di completo assorbimento. Ma allora da dove nasce l’idea che i bambini possano concentrarsi solo per pochi minuti alla volta? Facciamoci caso: il giocattolo gettato via dopo pochi secondi di solito non è l’oggetto degli adulti, di cui il bambino si è appropriato, ma quello fatto apposta per lui, tipicamente molto colorato, sonoro e concepito per essere “usato” in un modo soltanto. Il bambino è sopraffatto dagli stimoli o annoiato e se ne libera in fretta, anche perché viene spesso offerto dall’adulto e non viene “conquistato” attivamente nel momento in cui nel piccolo scatta l’interesse.


In realtà, spesso avviene il contrario: quando il bambino è tutto preso da un’attività che appare ripetitiva all’adulto, quest’ultimo a un certo punto si stanca o diviene ansioso e ritiene di dover intervenire per distoglierlo, per fargli fare qualcos’altro, per impedirgli di “fissarsi” su una sola cosa.

I giochi all’aperto sono uno scenario classico per questo tipo di interventi; l’adulto vorrebbe che il bambino godesse appieno di tutte le possibilità e che provasse tutti i giochi o le opportunità, quando al bambino in quel momento interessa solo lo scivolo, o magari nulla dei giochi, mentre è affascinato dal formicaio sotto il marciapiede.


Gli adulti pensano spesso di dover “aggiustare” i bambini e quello che fanno, solo perché non possono credere che sappiano esattamente di cosa hanno bisogno. La maggioranza degli adulti magari pensa che più di dieci minuti di altalena siano davvero troppi per un bambino. Intervengono a distoglierli, li spingono a passare ad altro, e poi di nuovo… e il risultato spesso è un bambino piangente, che si rifiuta di cambiare gioco, oppure inibito e svogliato, o infine, alla lunga, che “non si concentra su nulla” e che non vuole mai venir via, per quanto tempo si resti al parco. E l’uscita diviene costellata di minacce, esortazioni, giudizi, frasi svalutanti, frustrazione reciproca.


Ma perché tanta ansia e tanta fretta? È talmente semplice lasciarli fare, dare loro tempo… non c’è alcuna regola medica o psicologica che imponga di non ripetere lo stesso movimento per più di tot minuti, o che si debbano provare tutti i giochi… perché si rende la vita con i bambini così inutilmente difficile?


Troppo spesso la perseveranza dei bambini, quando sono totalmente concentrati su un gioco o un oggetto, viene frustrata da interventi correttivi, basati sul metro adulto. In un processo di disease mongering – di creazione di patologie fittizie – aspetti naturali del comportamento esplorativo infantile, come il dedicarsi magari per ore e giorni a un’attività (che sia andare su un’altalena, mettere oggetti in fila indiana, vuotare e riempire contenitori, disegnare lo stesso soggetto), si trasformano in “sintomi” di qualche tendenza patologica da stroncare sul nascere, mentre etichette come “tratti ossessivi”, “comportamenti ripetitivi”, “ritardo psicomotorio”, “spettro autistico”, si agitano minacciosi sullo sfondo. Allo stesso modo, il pensiero lineare dell’adulto, abituato a procedere per blocchi di attività finalizzate secondo una sequenza obiettivo-azione-completamento del compito, mal sopporta gli “andirivieni del significato” di un bambino che esplora, abbandona un oggetto o uno spazio, per poi tornarci da un altro percorso ludico, saltando da una situazione all’altra secondo un filo logico che gli adulti stentano a seguire. Ma è proprio invece attraverso l’attività spontanea, non strutturata e soprattutto autodiretta che si organizza il pensiero, sboccia la creatività e fiorisce la personalità unica di ogni individuo.


Occorre coltivare la fiducia che i bambini abbiano semplicemente i loro tempi, che spesso sono più lunghi e comunque diversi di quanto un adulto vorrebbe. Se si lasciano liberi di esplorare a fondo una certa attività poi faranno tutto più volentieri, senza esitare, senza aiuto e nel migliore dei modi possibili!


I diritti naturali dei bambini

Gianfranco Zavalloni, maestro, pedagogista e autore della Pedagogia della lumaca, Per una scuola lenta e non violenta, stilò nel 1994 il manifesto de I diritti naturali dei bambini10, come completamento alla Convenzione internazionale dei diritti del bambino. Questo elenco di diritti è nato da una riflessione fatta insieme ai bambini e dal punto di vista dei bambini stessi.


Si tratta fra l’altro del diritto a sporcarsi, agli odori, all’uso delle mani, al selvaggio: una lista che può essere letta come espressione del bisogno di attuare il proprio slancio vitale ed evolutivo più autentico.


Per il momento, e a conclusione di questa panoramica sull’attività, soffermiamoci solo sui primi e gli ultimi di questa lista, che parlano della non-attività, ovvero il diritto all’ozio, all’ascolto del silenzio, al gusto delle sfumature. Nella nostra vita sempre strapiena di cose da fare, si è insinuato troppo spesso un horror vacui, una paura del vuoto, che ci fa riempire compulsivamente ogni minuto libero. I bambini (ma più che mai anche gli adulti) hanno bisogno di momenti di pausa, di contemplazione, o di semplice noia. È nel far niente, quando intorno c’è silenzio, quiete, quando fuori di noi “non succede nulla”, che il movimento interiore diventa chiaro, i pensieri risuonano, la mente veleggia verso nuovi orizzonti. A fronte dell’interruttore che ci impone la dicotomia luce/buio, è un’esperienza inebriante per il bambino poter contemplare in tutta calma la lentissima transizione dal giorno alla notte di un tramonto. 


Quando tutti tacciono, i cellulari sono spenti, la strada con i suoi rumori è lontana, dal silenzio emergono rumori mai notati: il soffio del vento, il suono di un ruscello, il ronzio di una mosca, lo scricchiolio di un legno, il delicato tonfo di una foglia che cade a terra. E nella quiete o nel ciondolare annoiati i pensieri si riorganizzano e nuove idee e connessioni si formano. Quando gli stimoli esterni si quietano, e la mente non è più reattiva, diviene attiva. Non sottovalutiamo l’ozio; è nei momenti di dolce far niente, quando il pensiero vagabonda, che sono nate le più grandi intuizioni del genere umano.


Spegnere la vitalità

Da bambini, correvamo sempre. Difficile che ci spostassimo da un posto all’altro camminando soltanto. Al massimo, se dovevamo tenere il passo, saltellavamo un po’ sul posto. E ci arrampicavamo anche, moltissimo, sugli alberi o sui muretti… nessuno ci diceva “Attento… cadi… scendi di lì… vai piano…” a meno che non ci sorprendessero in cima a un palo della luce o appesi a una grondaia.


Ricordo le croste sulle ginocchia per le cadute rovinose che ogni tanto facevamo. Era naturale; faceva parte dell’essere bambini, erano segni di appartenenza alla categoria infantile, e gli scivoloni più grossi lasciavano cicatrici che potevamo usare per rievocare momenti eroici e avventurosi, di cui gloriarci. E i nostri genitori? Erano provvisti di alcol e cerotti.


Oggi, rispetto alle generazioni passate, i nostri figli si muovono pochissimo e in modi che non sollecitano a sufficienza il sistema vestibolare: non rotolano a terra, non saltano la corda né vanno sull’altalena, non ballano in circolo e non fanno capriole. Molti adulti sono esageratamente apprensivi oppure mostrano fastidio per la naturale esuberanza fisica dei bambini e cercano di contenere il loro slancio a correre, saltare, arrampicarsi o stare a contatto con il suolo, temendo per la loro salute e incolumità o ritenendo queste azioni inappropriate ovvero di disturbo per gli altri. Sulla spiaggia o al parco, le ingiunzioni a non correre, a stare fermi, a non toccare o non stare a terra si sprecano e fanno capire quanto poco (e anzi negativamente) vengano considerate queste attività salutari. L’utilizzo di tablet, TV e cellulari fa il resto, inchiodando i bambini davanti a uno schermo: i corpi divengono immobili e il movimento si concentra all’interno del dispositivo.


La vita quotidiana del bambino oggi viene suddivisa in momenti di fruizione passiva (studio, televisione, dispositivi elettronici) e momenti di attività organizzata: che sia la scuola dell’infanzia, il centro sportivo, la scuola di danza o la festicciola, gli adulti si fanno carico di incanalare l’energia e indirizzare l’attività del bambino, proprio come la società si fa carico di indirizzare in modo “produttivo” l’attività dell’adulto.


Ritorniamo ai diritti naturali dei bambini11 ricordando il diritto di sporcarsi, di usare le mani, agli odori, alla strada, al selvaggio. Questa società così fobica nei confronti di tutti gli elementi naturali, che non si avventura all’esterno senza dotarsi di ombrelli, occhiali da sole, sciarpe, stivali rinforzati, repellenti, scarpette persino per camminare sulla spiaggia, crea barriere alla naturale connessione con gli aspetti vitali del nostro pianeta, e soprattutto manda un messaggio implicito molto forte di paura e diffidenza nei confronti della natura. E tuttavia, sebbene non ne siano consapevoli, gli esseri umani sentono che là fuori c’è qualcosa di importante che si è perso. 

La biologa Carla Hannaford, nel suo libro Risvegliare il cuore bambino, osserva che

La nostra paura di sporcarci può impedire ai nostri bambini un’esperienza sensoriale completa. Oggi i ricercatori dicono che i nostri ambienti asettici, puliti e sgrassati hanno indebolito il sistema immunitario, facendo così aumentare le allergie, l’asma e le malattie autoimmuni12.


Si tratta di un’emergenza molto seria dal punto di vista sanitario, perché ormai si contano almeno tre generazioni cresciute senza che il sistema immunitario potesse arricchirsi di quel vasto assortimento di germi che nel nostro intestino, e non solo, vanno a costituire un microbioma sano, che è la base della salute dell’individuo; e le misure di sanificazione richieste dalla pandemia da Coronavirus, nel momento in cui sono proposte, con dubbia efficacia, come “nuova normalità”, rendono estremo e consolidano questo danno biologico, eradicando una ricchezza e biodiversità dei nostri microbioti e di quelli ambientali che difficilmente sarà ripristinabile.


Molti bambini attualmente vengono etichettati come iperattivi, il che è una diagnosi in parte abusata e in parte secondaria a situazioni contingenti. I bambini di oggi sono sottoposti troppo spesso a una stimolazione sensoriale senza precedenti, a ritmi frenetici, esposti alla luce ben oltre gli orari del naturale sorgere e tramontare del sole, immobilizzati davanti a uno schermo per tempi lunghissimi, nutriti con alimenti carichi di additivi e di zuccheri dal ben noto effetto eccitante: tutte cose che possono in parte spiegare le esplosioni di nervosismo, ipersensibilità, eccitazione motoria e le attività estreme di alcuni bambini, che si agitano fra le quattro mura domestiche come falene impazzite imprigionate in una lampada.


È anche vero però che sempre meno gli adulti sopportano la vivacità infantile, essendo loro stessi il più delle volte sovraccarichi a causa di un’intera giornata di lavoro o di attività frenetiche, e bisognosi quindi di riposo e di situazioni calme e prevedibili. Il naturale slancio alla relazione, all’esplorazione, alla sperimentazione diretta attraverso i sensi e il movimento, diventano elementi di disturbo e quindi “problemi” del bambino, patologie da gestire.


Che ci sia o no una base organica o neurologica nell’iperattività di un bambino, anche quelli spontaneamente portati a scatenarsi fisicamente e a eccitarsi in fretta trovano sollievo e calma in ambienti naturali, come un bosco, un prato, una spiaggia non affollata, la riva di un fiume. Identificare le cause del nervosismo può essere utile per collocare il comportamento del bambino entro un contesto che ne spieghi il disagio, e prevenire il sovraccarico della sua mente assorbente; ma oltre a evitare le sollecitazioni più negative, occorre anche offrire quelle benefiche, che apportino al corpo e all’anima del bambino coerenza, nutrimento, connessione.


Affiancare un bambino in attività significa esserci in ogni momento con occhi, testa, cuore e gambe. Difficilmente si potrà restare seduti a lungo a conversare, leggere un libro o utilizzare il cellulare. Non siamo più in una comunità che sappia assumersi collettivamente quest’onere, e la responsabilità di seguire i bambini ricade tutta sui genitori, e in particolare, spesso, sulla madre, in ogni momento della giornata. Questo sovraccarico dei genitori porta a due conseguenze, paradossalmente opposte fra loro: da un lato un’organizzazione sociale centrata sul bambino, dall’altro la spinta a tenerlo a distanza, promuovendo la sua capacità di stare da solo.


Bambinocentrismo

Tutto quello che avevo imparato dal mio mondo, studiato all’università e maturato con i miei figli seguendo la via dell’ascolto e del rispetto, mi aveva portato a valorizzare una certa forma di dedizione in cui l’adulto è completamente assorbito dal bambino, cerca di guardare il mondo con i suoi occhi, di offrirgli stimoli adeguati alla sua età, di modellare il mondo intorno a lui in modo che sia a misura di bambino, di creare spazi e momenti dedicati. La stanza del bambino, il parco giochi, i giocattoli, le posatine baby, la ludoteca, il “tempo di qualità” dedicato a giocare con i figli, legger loro libri adatti o a far fare loro attività educative, le classi di coetanei: tutto questo mette il bambino al centro.


Ma accanto a tanti ambienti, rituali, attività, oggetti, cibi fatti proprio apposta per i bambini, la nostra cultura esprime spesso un fastidio, un’esasperazione; come se fossimo costretti a tutto questo perché il bambino è un piccolo essere estremamente esigente e fragile, che ha bisogno di tutto e di tutti intorno a sé, richiedendo di essere sempre “al centro della scena”.


Il bambino ha certo bisogno di contatto umano e di contenimento, protezione e sostegno nei momenti in cui si sente in difficoltà. Però collocarlo al centro dell’attenzione, più che un bisogno del bambino, forse è un modo, per gli adulti, di circoscrivere e controllare il suo spazio di attività. Questo approccio, alla lunga, risulta limitante sia per i genitori sia per il bambino, e non garantisce affatto di poter prevenire ogni disagio o contrarietà.


La questione che una società centrata sul bambino (child-centered) non sia poi così opportuna è stata sollevata nel libro di Jean Liedloff Il concetto del Continuum.


In questo libro, l’autrice racconta la sua esperienza fra gli Yequana, una tribù dell’amazzonia ancora allo stato naturale (senza contatto con il mondo civilizzato), che aveva con i figli un approccio estremamente rilassato, amorevole, tollerante, rispettoso… ma nello stesso tempo per nulla sollecito, né orientato su di loro, finalizzato a “educarli” o ad “addestrarli alla vita”.

Gli adulti svolgevano le loro faccende nel villaggio e i bambini stavano loro fra i piedi, o altre volte per conto loro in bande di ragazzini di varie età, e imparavano tutto quanto mescolandosi alla vita del villaggio, senza che gli adulti si preoccupassero né di offrire loro “occasioni di apprendimento”, né di dedicare tempo a cose fatte apposta per loro, né a modellare l’ambiente su misura per i piccoli. Alla fine questi bambini acquisivano rapidamente delle competenze elevate muovendosi in un ambiente per nulla “su misura”, eppure cavandosela molto bene, di solito senza farsi male e senza dar noia agli adulti, che erano disponibili per loro ma non “centrati” su di loro. E le bizze erano rarissime, perché i bambini avevano ciò che più desideravano al mondo: spazio nel mondo degli adulti e la libertà di sperimentare ed esplorare. Scrive la Liedloff che rispetto a sua madre, il bambino Yequana


non chiede, né tanto meno riceve la sua totale attenzione, poiché non ha desideri inappagati, né appetiti ancestrali che disturbano la sua dedizione al presente. Coerente con il carattere economico della natura, egli non vuole più di quanto necessiti13.

È da precisare che il concetto di non centrarsi sul bambino, e la filosofia che ne consegue, non hanno nulla a che fare con l’idea della precoce autonomizzazione, tanto cara alla nostra cultura post-industriale. Per gli Yequana i bambini erano un bene altamente prezioso e non li lasciavano mai soli, nel senso di ignorarli se piangevano o erano in difficoltà; non li tenevano a distanza o pretendevano che dormissero in solitudine, che si arrangiassero nei momenti di stress emotivo, anzi il contatto e le cure prossimali erano costanti e diffuse in tutto il villaggio; soltanto, gli adulti non interferivano e non intervenivano nel processo di apprendimento naturale del bambino, non si dedicavano a cercare di plasmarlo, né si adoperavano per modellare l’ambiente in sua funzione.


Tutto questo funzionava perché in questa popolazione, ancora ben connessa alla natura e al continuum umano, quello che necessitava non veniva negato al bambino per timore di viziarlo. Senza prestargli particolare attenzione, il bambino era sempre tenuto a stretto contatto con adulti o bambini più grandi, presi dalle loro attività. Continua la Liedloff:


Un bambino che ha alle spalle una ricca esperienza fatta “in braccio” non avrà bisogno di supplicare una quantità di attenzione maggiore di quanto fisicamente gli sia necessaria, perché non avrà bisogno, al contrario dei bambini che si osservano nei contesti del mondo civilizzato, di essere rassicurato per affermare la sua esistenza e il suo essere degno di amore14.


Quando ho letto questa idea, cioè che i bambini non dovessero essere il centro dell’universo, per me è stato dapprima uno shock, e poi un’illuminazione. Considerare l’approccio child-centered, centrato sul bambino, come un errore andava contro tutto ciò che sino a quel momento credevo di aver capito sulle cure amorevoli e la disciplina dolce. Ma gradualmente ho compreso che mettere il bambino al centro lo rende allo stesso tempo più forte e più debole. Lo valorizza, ma nel medesimo tempo lo emargina. Gli fa acquistare un’importanza speciale rispetto al resto della famiglia, ma nel frattempo gli toglie la libertà e la spinta ad autodeterminarsi.


Non si vogliono qui suggerire nuove regole o standard educativi da sostituire a quelli vecchi, classificando i genitori come più o meno bravi o competenti, a seconda di quanto mettano o no il bambino al centro della loro attenzione. Non ci sono comportamenti giusti o sbagliati in assoluto, perché tutto dipende dal contesto in cui si mettono in atto. Tuttavia, quando ci troviamo di fronte a un bambino ai primi passi e alle prime parole in preda a una crisi di rabbia, quando sentiamo di aver dato abbastanza eppure ci sembra che non basti, può essere importante chiederci come sarebbe la stessa situazione in un mondo più vicino al nostro continuum biologico e non così scollegato dai nostri bisogni fondamentali, per capire che forse non c’è nulla di sbagliato in quel bambino o in noi genitori; forse è sbagliata la situazione in cui ci troviamo a interagire.


Sicurezza

Avrò avuto non più di tre o quattro anni. Avevamo camminato fra i campi e il noccioleto, raccogliendo le nocchie fresche: gusci verdi e morbidi che si rompevano anche solo con il morso dei miei dentini da latte. E dentro, la nocciola neonata, piccola, bianco-verdolina, profumata, con la buccia pallida che si toglieva con le dita e poi era così tenera, gustosa, croccante da mangiare… e quante ne avevo sgranocchiate mentre salivamo lungo il viottolo, mentre il sole lentamente si abbassava rendendo tutto il mondo dorato e smagliante.

Poi eccoci in cima alla salita, al belvedere. Forti mani adulte mi sollevarono piazzandomi seduta sul muretto, le gambe a penzoloni sul precipizio, reggendomi saldamente alla vita.
E davanti a me si aprì il più straordinario degli spettacoli: in basso l’infinita vallata verde e bionda, e poi la città di Roma che si stendeva immensa, imperlata dalle prime luci elettriche, mentre il cielo esplodeva in un tripudio oro, rosso e porpora.

Ero folgorata, e pensavo che non avevo mai visto nulla di così bello né mai lo avrei visto più nella vita; e volevo restare lì per sempre. Le mie gambette nude poggiavano salde sulla pietra ruvida e nonostante sotto di me si spalancasse un’altezza vertiginosa, non avevo paura, perché mi cingevano calme alla vita le forti braccia di mia madre, di cui mi fidavo incondizionatamente.


Quando penso alla sicurezza e alla sensazione che ne scaturisce, dalla mia memoria più antica riemerge questo momento. Sicurezza non è solo essere protetti dai pericoli; si tratta di un senso di solidità esistenziale, la certezza di essere nel posto giusto e di non mancare di nulla, di essere amati, contenuti e sostenuti, potersi abbandonare fiduciosi perché dai propri cari si riceverà contenimento e protezione.


Sicurezza per un cucciolo umano non è una tana scavata in profondità e ben nascosta dai predatori: sono le braccia e il calore materno. Per gli umani la sicurezza ha a che fare con le relazioni. È essere parte del gruppo, avere legami solidi e sapere di potersi fidare e affidare a persone che ti amano e hanno a cuore il tuo benessere e la tua vita. È avere un posto dove andare, qualcuno a cui rivolgersi.


Sicurezza per un bambino è anche vivere in un universo sufficientemente prevedibile, cioè che lo sia per quanto riguarda le cose importanti: ancora una volta le relazioni. Che ci sia stabilità nelle figure di sostegno; che le reazioni di queste figure siano coerenti e comprensibili. Che il bambino possa a poco a poco costruirsi in questo modo una mappa del mondo in cui può ragionevolmente muoversi senza trovarsi nel caos degli eventi o delle emozioni.


Sicurezza è contenimento, che a livello fisico significa tanto contatto pelle a pelle, e poi abbracci, essere portato, la certezza di un seno o una coccola che non vengono negati. E a livello emotivo significa essere accettato senza se e senza ma, accolto con empatia anche quando le proprie azioni o emozioni non sono gradevoli. Questo non significa che l’adulto non debba mai limitare le azioni del bambino, ma, anche in questo caso, la sicurezza è che il bambino, pur avendo un no, sente che le sue emozioni sono comprese e accolte.

Sicurezza è sapere di potersi avventurare perché, al ritorno dalle proprie esplorazioni, le persone care saranno ancora lì ad aspettarlo.


Una base sicura

Il concetto di base sicura è stato introdotto da John Bowlby, il padre della teoria dell’attaccamento. L’attaccamento si basa su tre pilastri, che sono l’offrire sostegno, il richiedere sostegno e l’esplorazione. I primi due regolano il mantenimento della vicinanza nella relazione, mentre il terzo modula la distanza, l’allontanamento. Lasciando la parola a Bowlby stesso.


Nella teoria dell’attaccamento… i legami emotivi intimi non vengono considerati né subordinati né derivati dal cibo e dal sesso. Né si ritiene che sia infantile desiderare conforto e sostegno nelle avversità, come dà per implicito la teoria della dipendenza. Invece, la capacità di stringere legami emotivi intimi con altre persone, talvolta nel ruolo di chi richiede le cure e talvolta nel ruolo di chi le fornisce, è considerata una delle caratteristiche principali di un funzionamento efficace della personalità e della salute mentale15.

Il modo in cui si pone l’adulto nella relazione è determinante su come il bambino svilupperà il suo attaccamento; tali modalità di attaccamento si strutturano in profondità e tendono a permanere anche nella vita adulta. La psicologa Mary Ainsworth ha descritto tre tipologie di attaccamento: attaccamento sicuro, attaccamento insicuro/evitante e attaccamento insicuro/ambivalente16. Il comportamento esplorativo e la sicurezza nel distacco dalla madre si ha nell’attaccamento sicuro, che si costruisce quando la disponibilità del genitore, in particolare la madre, è costante nei primi anni di vita, e il bambino può confidare nella sua presenza amorevole, nella sua comprensione e accettazione, e nelle sue cure.


Il secondo tipo è prodotto da un’assenza di cure e di amore, e da esperienze ripetute di rifiuto. Il bambino che cresce in un ambiente ostile, negligente o violento, cerca di fare a meno delle cure materne e di bastare emotivamente a se stesso; il risultato può essere una personalità narcisista, incapace di amore e di empatia, oppure la costruzione di un falso sé, una personalità artificiosa che è il risultato dello sforzo del bambino di compiacere gli adulti per essere accettato.


Il terzo tipo di attaccamento è causato da una figura di riferimento con una disponibilità incostante o incoerente, presente e amorevole in alcuni casi, in altri poco disponibile, fredda o respingente. La relazione fra madre e figlio è invischiata e imprevedibile, il bambino non è mai sicuro se sarà accolto o rifiutato, e quindi diviene ansioso e si aggrappa alla mamma divenendo riluttante a lanciarsi in esplorazione, reagisce violentemente alla separazione da lei e nello stesso tempo non si lascia consolare facilmente al momento del ricongiungimento.


Questi modelli sono stati osservati e definiti in modo preciso e descritti da decenni di ricerche e hanno un elevato grado di affidabilità e di coerenza. Gli studi sui processi di attaccamento confermano quindi che le cure amorevoli, l’accudimento prossimale, la presenza costante e la pronta risposta ai bisogni del bambino piccolo non solo non causano “vizi” o fragilità emotiva, ma al contrario sono il fondamento irrinunciabile per una personalità affettivamente sana, equilibrata, sicura e autonoma.


Fra libertà e paura

Nel villaggio dei nostri antenati la vitalità dei bambini conviveva felicemente con la gestione del rischio; la sicurezza era a carico della collettività, si fondava sulla cura e attenzione degli adulti presenti di volta in volta, sulla conoscenza profonda dell’ambiente e sulla precoce competenza dei bambini, che imparavano a muoversi con attenzione e in modo prudente osservando gli adulti mentre sotto supervisione li affiancavano nelle loro attività.


Oggigiorno proteggere significa impedire gli eventi potenzialmente pericolosi, illudendosi di poter eliminare il rischio dalle nostre vite. In questo modo, però, lo slancio vitale del bambino, ma anche degli adulti, viene soffocato e scoraggiato. L’ansia di prestazione e il timore dei giudizi paralizza i genitori e le figure di accudimento, in un crescendo di norme preventive, regole di prudenza, standard di sicurezza e protocolli cautelativi, di cui l’attuale medicina difensiva è la rappresentazione più estrema e tragica. In questa logica, le linee guida vengono intese come vincoli ineludibili, il medico si astiene dal prendere decisioni fuori dagli schemi, anche quando la sua intuizione potrebbe essere salvifica, anche quando un diverso contesto richiederebbe approcci differenti; e il genitore preferisce vietare tutta una serie di attività, perseguendo un’invulnerabilità dei propri figli che è soltanto l’assenza di occasioni per farsi male.


Viviamo nella cultura del rischio. Questa insicurezza viene instillata in tutti i genitori fin dal periodo dell’attesa. La creazione di una vulnerabilità presunta trasforma individui integri e perfetti, come sono i bambini o le donne in gravidanza, in oggetti fragili o da “aggiustare”. C’è tanta medicalizzazione, tanta informazione nello stesso tempo superficiale e fin troppo dettagliata sulla patologia, e poco o nulla sulla salute. Così ogni piccolo segno richiama alla mente tutti i timori assorbiti dai colloqui con i medici, dai discorsi fra mamme, dai social, persino dalle pubblicità dei dentifrici o delle creme per la pelle. I più colpiti sono proprio coloro che sono più ricchi di forza vitale e di capacità di attingere al proprio indisciplinato patrimonio istintuale: i bambini e le loro madri.


Proteggere, osserva il filosofo Matteo Meschiari, è un modo sottile ed efficace di controllare, e questo percorso di riduzione e controllo finisce per ricadere non solo sulla donna ma anche sui suoi figli:


Dal punto di vista evolutivo, il gioco rischioso serviva ai figli dei nostri antenati per sviluppare un meccanismo di riconoscimento e controllo della paura, oltre che per elaborare tattiche necessarie a valutare e contenere il pericolo. (…) Quello che invece è cambiato è che oggi pensiamo a rischio e pericolo non come a componenti normali dell’esistenza ma come a problemi da prevenire. La prevenzione ha un effetto compensativo enorme sulla percezione del limite, perché la presenza di misure ad hoc tende a illuderci che il danno sia scongiurato17.

Gli adulti sottovalutano molto l’abilità dei bambini di muoversi con competenza e di evitare gli incidenti, e pertanto si cerca di prevenire gli elementi rischiosi, con il risultato che viene alimentata un’illusione di invulnerabilità che, in presenza di situazioni pericolose, può portare paradossalmente a comportamenti avventati. Si incoraggiano allora le attività più tranquille cercando di eliminare i comportamenti esplorativi, e queste “pareti imbottite” si estendono a ogni aspetto della vita infantile. Li si circonda di oggetti e si incoraggiano obiettivi circoscritti, contenuti nei confini sicuri di regole e ambienti contenitivi: girelli, box, piscinette, barriere, e poi disegni da colorare all’interno, schemi da copiare, letture da analizzare rispondendo a domande e risposte già predefinite. E la società si aspetta dai genitori che vigilino costantemente sui figli impedendo loro comportamenti avventati o presumibilmente rischiosi, o anche solo fuori dagli schemi. Questo modo di vedere il compito genitoriale assorbe una quantità di energie, tempo, risorse, genera ansia e paralizza anche gli adulti facendoli prigionieri, assieme ai loro piccoli, delle stesse barriere, regole e limiti che hanno deciso per loro.


I continui ammonimenti verbali e le esortazioni, rivolte a bambini nel pieno della loro fase esplorativa, a star fermi, non correre, coprirsi bene, non sporcarsi, correlati di funeste previsioni (cadi, ti fai male, ti prendi un colpo, ti viene un’infezione) instillano insicurezza nei nostri figli rendendoli pavidi e titubanti e creando profezie che si autoavverano: le previsioni di caduta fanno tremare le gambe, gli ammonimenti sul freddo fanno rabbrividire, la paura delle infezioni abbassa le difese immunitarie.


Non si sta suggerendo qui che si debba essere avventati o trascurare i pericoli intorno al bambino, che non si debba più allacciare i bambini al seggiolino dell’auto, mettere fuori portata le sostanze tossiche o coprire le prese elettriche. Si sta dicendo che occorre accogliere di nuovo anche gli imprevisti nelle nostre vite, prepararci al meglio contro le avversità ma non coltivare un’illusione di invulnerabilità che ci lascia, invece, più fragili ed esposti agli incidenti. Se non corrono rischi seri, lasciamo i bambini liberi di imparare anche cadendo!


Come osserva il poeta Rainer Maria Rilke,


La sicurezza si può raggiungere forse solo a costo di una ben precisa limitazione di sé, chiudendosi nel recinto di una porzione di mondo che si conosce e si è scelta, in un ambiente che ci è noto e comprensibile, nel quale sia possibile disporre di sé in modo efficace e immediato. Ma possiamo davvero desiderare una condizione del genere? La nostra sicurezza deve invece in qualche modo trasformarsi in una relazione con il tutto, con il mondo nel suo complesso (…). Questa sicurezza tutta da osare accomuna le ascese e le cadute della nostra vita e in questo modo dona loro un senso. Accogliere la vastità dell’insicurezza: in un’infinita insicurezza anche la sicurezza diviene infinita18.

Coerenza

La coerenza ha un ruolo centrale nei primissimi anni di vita. Carla Hannaford la definisce così:


Connessione logica, conformità e congruenza, l’atto o il fatto di essere uniti insieme con coesione, (…) un modo ordinato, armonioso e non contraddittorio di funzionare all’interno di un sistema, come nei sistemi fisico e biochimico del nostro corpo, che influenzano in ogni momento i nostri stati mentali, emotivi, fisici e spirituali


ma anche, in senso più lato,


Uno stato di piacere consapevole, l’essere in linea con il nostro scopo, gioia, felicità e connessione con gli altri19.


Queste brevi definizioni hanno già messo a fuoco ciò che è importante, in termini di bisogni, riguardo alla coerenza: l’essere in una relazione armonica, in sintonia con gli altri, e l’essere connessi armonicamente con il nostro sé e le nostre spinte vitali più autentiche. Questa coerenza dà un senso all’esistenza ed è la matrice anche del buon funzionamento del nostro corpo, si ripercuote e si rispecchia nelle interazioni fra i nostri sistemi biologici e ha un impatto determinante sull’armonia o la disarmonia con cui si sviluppano e operano la mente, il corpo, le emozioni. Alcuni ricercatori hanno studiato un indice del ritmo cardiaco, chiamato schema di variabilità della frequenza cardiaca, e hanno constatato che la coerenza dei valori di questo indice è un indicatore utile per valutare il buon funzionamento e lo stato di salute del nostro sistema nervoso autonomo, che si ripercuote anche sul nostro cervello, sulla capacità di reagire in modo efficace all’ambiente e di memorizzare le esperienze20. Vedremo più avanti come questi processi siano governati dagli stessi cocktail di ormoni che favoriscono l’instaurarsi di uno stato di calma e di connessione, che modella durevolmente il funzionamento del nostro sistema psico-neuro-endocrinoimmunitario.


Quindi coerenza e armonia nelle relazioni, congruenza fra il proprio stato interiore e ciò che rimanda l’ambiente circostante; ma anche coerenza interiore, assenza di conflittualità, funzionamento armonico e integrato dei propri sistemi biologici, organizzazione interna.


Il sistema nervoso centrale e quello autonomo del neonato, per funzionare in modo coerente, organizzato, hanno bisogno di un ambiente esterno sicuro, contenitivo, amorevole. Al contrario, in situazioni di stress, disagio, separazione dalla mamma, si disorganizzano facilmente e a quel punto i riflessi, le risposte motorie, le reazioni neurovegetative divengono caotiche, subentra il pianto, e ci vuole tempo prima che il bambino torni a una condizione organizzata, nella quale sia in grado di coordinare i movimenti a sufficienza per poppare con efficacia, interagire con gli altri, abbandonarsi al sonno con serenità. Ecco che si torna sempre lì: non esiste un bambino da solo, ma sempre un bambino in relazione a qualcun altro. È nella relazione con l’adulto che si prende cura di lui, attraverso le cure amorevoli che riceve, che il bambino diventa un essere completo e coerente.


La coerenza è anche armonia e congruenza fra sé e il contesto, l’ambiente. Quante volte i messaggi che mandiamo ai bambini sono contrastanti, incongrui, disarmonici? Quante volte ciò che diciamo a parole risulta contraddetto dai nostri gesti, espressioni, toni della voce, oppure stride e suona incoerente con i fatti, con ciò che avviene intorno a noi? Spesso gli adulti lamentano che il bambino non ascolta o non obbedisce, ma di rado si è consapevoli del fatto che il messaggio tante volte gli arriva confuso, a lui che è così attento ai dettagli, alle sfumature, alle situazioni e alle colorazioni emotive. Il suo bisogno di coerenza quindi è anche una necessità di messaggi chiari, congruenti con le emozioni e le azioni che li accompagnano.


La coerenza infine ha anche una dimensione temporale, e in questo senso diviene continuità, costanza nel tempo. Attraverso la ripetizione delle esperienze il bambino acquista la sicurezza, il suo mondo diviene comprensibile e prevedibile, e questo costituisce un elemento di sostegno che gli permette di affidarsi con fiducia agli altri. Ma attenzione, quando parliamo di costanza e continuità, non stiamo parlando di routine o di rituali, come affermano certi approcci pedagogici basati sul condizionamento. Stiamo parlando di continuità nelle cose veramente importanti, cioè, ancora una volta, nelle relazioni. Siamo i discendenti di popolazioni nomadi: i luoghi, gli oggetti, le situazioni, i ritmi possono cambiare ogni giorno, ma il bambino ha bisogno di avere la certezza che la mamma, il papà, le persone care sono sempre lì con lui, in ogni situazione, e che non gli venga a mancare la loro presenza calma e coerente.


Un aspetto particolare della coerenza è il senso di integrità e di integrazione interna, esistere come individuo completo e interiormente organizzato. Il neonato si disorganizza facilmente, e la sua psiche in questi momenti è come frammentata, dispersa nel caos. I suoi confini non sono più chiari. Il contenimento, che prima di tutto è l’abbraccio avvolgente, il contatto pelle a pelle, restituisce questo senso dei confini, e ricompatta tutto il suo essere, sia dal punto di vista fisico, percettivo, sia dal punto di vista emotivo.


Il bambino in braccio o portato in fascia è più calmo, respira meglio, digerisce meglio e la fonte del suo nutrimento, quando è “indossato” dalla mamma, è a portata di mano. Il bambino messo in culla può risvegliarsi ed entrare in allarme trovandosi in solitudine e nell’immobilità, condizione per lui innaturale; ma poi arriva la mamma (o il papà), lo prende su, lo abbraccia, e dal caos il mondo torna a essere ordinato e comprensibile.


Queste esperienze precocissime diventano la matrice per tutte le successive esperienze di stress, disorganizzazione e successiva riorganizzazione interiore e recupero della coerenza.


Così come la mamma avvolge il neonato nell’abbraccio che contiene, e ne placa il caos e l’agitazione, allo stesso modo avvolge il bambino nell’empatia, nella comprensione delle sue emozioni; le verbalizza per lui e lo fa sentire accolto e protetto. Di fronte a un mondo a volte troppo grande, complesso, incomprensibile, sovraccarico di stimoli e di tensioni, l’adulto amorevole fa da seconda pelle, da filtro, permettendo al bambino di affrontare l’esperienza a piccoli passi, dosata e ridefinita dalla presenza della mamma, del papà, della persona cara.


Con la sua calma presenza, con i suoi commenti che descrivono e rispecchiano gli eventi esterni e le emozioni che il bambino vive, l’adulto lo aiuta ad affrontare i momenti di crisi o anche semplicemente di passaggio da una situazione a un’altra, attraversando innumerevoli “terre di mezzo” di incertezza e di ignoto.


I momenti di transizione

Molti bambini vanno in crisi con i momenti di transizione, cioè quando si deve abbandonare una situazione e un’attività per passare a un’altra. Per transizioni ci si riferisce a situazioni minimali, quotidiane: uscire di casa, cambiare attività, andare a dormire, l’arrivo o la partenza di una persona; come anche a fasi di passaggio più importanti e prolungate nel tempo: l’arrivo di un fratello o sorella minore, un cambiamento di casa, lo svezzamento dal seno, l’inizio dell’esperienza scolastica, l’acquisizione di nuove abilità come il camminare, il linguaggio, la lettura. Eventi che cambiano profondamente e per sempre la vita. Questi eventi e queste fasi di cambiamento non sono come l’aprirsi e richiudersi di una porta: sono processi, percorsi, stati che sfumano l’uno nell’altro, che possono coesistere per un certo tempo, che portano con sé scatti in avanti e passi indietro, che procedono più in spire e cerchi che in linea retta.


La ricercatrice e pedagogista Gabriella Falcicchio scrive su questi territori di frontiera e sull’odio che li accompagna; una riflessione che è stata per me il tassello mancante per capire la fretta di recidere, di tirare una linea, di cancellare le sfumature, le ambiguità e la fragilità (ma anche la bellezza) di ogni momento di passaggio.


Le terre di mezzo sono luoghi in cui passeggiare insieme con calma, fermandosi a guardare il paesaggio multiforme dell’esistenza, senza smettere di darsi la mano (…). Questa visione, lungi dall’essere zuccherosa, è ancora al cuore di una rivoluzione che necessita di un ripensamento del materno nell’ottica del piacere di vivere con i propri figli al di là del ruolo di Madre perfetta; del bambino come soggetto a pieno titolo da subito, da rispettare nei suoi bisogni e nelle sue manifestazioni di volontà e di capacità decisionale (…). Le terre di mezzo invece per il pensiero diffuso vanno attraversate 1) velocemente, 2) senza espressione di dolore, 3) senza i genitori o altre figure familiari e neppure oggetti di accompagnamento, in altri termini senza chiedere aiuto, senza sostegni e senza la “presenza” di altri21.


Ma perché, ci si chiede, tanto astio, e tanta fretta di trasformare un processo in un evento puntuale, un percorso in uno strappo? Ogni novità andrebbe vista non come un problema da affrontare, foriero di conflitti e ostacoli da superare, ma come un arricchimento e un ampliamento dell’esperienza. Se il nuovo non deve necessariamente uccidere il vecchio, sarà portatore di abbondanza e non causa di rinunce e separazioni.


Le fasi di passaggio sono una terra di mezzo che va affrontata insieme: luoghi esistenziali di frontiera da attraversare per raggiungere continenti nuovi. Luoghi dell’esistenza che tutti noi percorriamo nel corso della vita, che è sano percorrere e che dovrebbero essere superati con quel bagaglio di fiducia di base che solo figure di attaccamento sufficientemente buone possono mettere sulle spalle, come uno zainetto da viaggio22.


L’idea di processo coerente può essere una chiave per comprendere meglio il concetto di coerenza nel tempo, intesa non come routine ma come continuità emotiva. Per un genitore, infatti, un accudimento coerente significa mantenersi consapevole del contesto e nello stesso tempo connesso a suo figlio, e rispondere in modo armonioso ai segnali che manda, al suo stato emotivo e ai suoi bisogni profondi. Non significa, quindi, applicare una regola invariabile, mantenersi rigidamente aderenti a una posizione o a uno schema. Questa non è coerenza, ma rigidità.


La coerenza non è uniformità o invariabilità, la coerenza è flessibile e in quanto tale non può prescindere dal contesto. La coerenza esige livelli di integrazione che si allargano a cerchi concentrici dal sé a ciò che lo circonda. Questo richiede un esercizio prima di tutto di consapevolezza, di ascolto e di ricettività, un momento di presenza e comprensione della situazione, prima di potersi inserire armonicamente con il proprio contributo.


Nell’incoerenza

Le neuroscienze ci mostrano sempre più come i processi di integrazione fra gruppi di neuroni siano fondamentali per il funzionamento cognitivo ed emotivo di un individuo. La sincronizzazione coerente dei segnali nervosi di reti neurali cerebrali, generata da una condizione di sicurezza, benessere e connessione, costituisce il presupposto ottimale per un buon funzionamento della nostra mente, per i processi di apprendimento e per la salute in generale.


Ma cosa succede quando l’incoerenza dell’ambiente e della rete di relazioni si ripercuote sul sistema nervoso, attivando l’asse dello stress? Cosa succede quando queste situazioni di tensione, contraddizione, violenza, mancanza di contenimento, divengono ricorrenti? La biologa Carla Hannaford invita a riflettere sull’importanza di mantenere coerenza in noi e nel nostro ambiente:


Quando lo stress è cronico, uno schema di onde cerebrali incoerenti diviene condizione omeostatica, lo schema entro il quale l’individuo si sente più a suo agio. Se questo tipo di persona si troverà ad affrontare una situazione coerente potrà sentirla estranea e tenterà di spezzare l’armonia per generare l’incoerenza che gli è più familiare23.


In questo modo l’incoerenza e la disconnessione si perpetuano da una generazione all’altra, ed è anche questo il motivo per cui un’inversione di tendenza richiede molto impegno e la promozione di un approccio gentile solleva tanta resistenza.


Purtroppo, laddove la connessione è ostacolata o carente, l’incoerenza che ne deriva causa risposte confuse negli adulti, e disorganizzazione e caos emotivo nei bambini. Nascono derive pericolose: costrutti rigidi, escalation normative, ricerca di consenso e di omologazione, applicazione cieca di regole, appiattimento educativo, bisogno di controllo, attaccamento ai rituali, resistenza al cambiamento e a tutto ciò che non rientra negli schemi, percezione del pensiero creativo e originale come una minaccia allo status quo. Il bisogno di coerenza si aggrappa ai surrogati che la società offre, e cioè a pratiche abitudinarie e a norme e regole generalizzate e invariabili, da seguire senza dover fare lo sforzo di capire, aprirsi alle emozioni, accogliere i bisogni, comprendere i contesti.


Altre volte i genitori rinunciano al controllo e a un modello standardizzato e controllabile e, per sfinimento nell’eterna battaglia per regolarizzare e controllare i loro bambini, meravigliosamente vitali e originali, cedono all’incoerenza e semplicemente navigano a vista, reagendo momento dopo momento alle situazioni così come si presentano, sempre scegliendo la via della minor resistenza. Invece di essere proattivi, cioè agire secondo un senso interiore e una direzione consapevole, diventano reattivi, cioè si lasciano guidare dalle emergenze seguendo il consiglio del momento o la soluzione più rapida, facile e indolore per superare le crisi.


“Cerco un centro di gravità permanente, che non mi faccia più cambiare idea sulle cose e sulla gente”, cantava Franco Battiato in una famosa canzone degli anni ’80. In questa ricerca disperata di un ancoraggio, la nave non prende più il largo, le vele non prendono più il vento e si resta ormeggiati in porti sicuri, nei recinti e nelle porzioni di mondo conosciuto di cui parlava Rilke.


La coerenza del cuore e degli affetti

Un aspetto fondamentale del bisogno di coerenza si riferisce alla congruenza fra il piano cognitivo e quello affettivo: insomma il benessere e la serenità nascono dal fatto che quello che il bambino sente, le sue emozioni, non siano in contraddizione con quello che sa, che pensa, e che il contesto in cui le cose avvengono e i comportamenti si attuano non mandi segnali conflittuali o incoerenti. Qui il ruolo dei genitori è fondamentale per accompagnare il bambino su un percorso di educazione affettiva, aiutandolo a dare un nome alle sue emozioni, con empatia e rispetto.


Questo processo aiuta il bambino ad aumentare il livello di consapevolezza delle sue emozioni e inserirle nella propria visione cognitiva, senza forzarlo a ignorarle, minimizzarle e distorcerle per adeguarsi ad aspettative altrui che lo spingono a costruirsi un falso sé, una falsa personalità allo scopo di trovare la connessione con gli altri, per lui di vitale importanza.


La psicologa Alessandra Bortolotti sottolinea l’importanza vitale e cruciale, non solo per l’individuo ma anche per l’umanità intera, di cambiare rotta e di intraprendere un’alfabetizzazione dei sentimenti, un’educazione affettiva che consenta di ricollegarci alla vita, di creare connessioni fra noi e nutrire le nostre relazioni:


Parlare di educazione agli affetti significa considerare i bisogni come parole del nostro cuore e del nostro essere vivi e reali. Questo dialogo dei cuori comincia solo se siamo in grado di metterci in gioco in prima persona, a riconoscere ed accettare il nostro mondo interiore senza se e senza ma, senza pregiudizi e senza condizionamenti24.

Connessione

Il bisogno di connessione è un bisogno trasversale, che si intreccia indissolubilmente con tutti gli altri bisogni. Per un bambino, essere connesso ai genitori è il corollario di una relazione armonica, coerente, sintonica; è sicurezza della presenza della mamma, del papà, della persona cara; è la base sicura da cui partire per l’azione esplorativa fuori e dentro di sé; è il cordone ombelicale attraverso cui fluisce il nutrimento affettivo, cognitivo e fisico che gli permette di crescere e di sbocciare come individuo.


Madre e neonato, nella specie umana ma in effetti in tutte le specie animali, in particolare mammifere, costituiscono un’unità funzionale biologica, psicologica, emotiva. Persino a livello ormonale, nervoso e immunitario, i sistemi neuro-endocrino-immunitari della madre e del suo piccolo agiscono come una rete integrata che si attiva e reagisce all’ambiente come un sistema integrato. La connessione del neonato con la mamma è il cardine della sopravvivenza, e quindi per lui avere una sistematica e costante conferma che la mamma è lì, e che è connessa con lui, è una questione di vitale importanza che va ben oltre il mero soddisfacimento delle necessità fisiche.


Questo modello simbiotico è il seme da cui sboccerà la capacità di relazionarsi con gli altri. Dalla fusione alla distinzione il percorso non è quello di un aumento delle distanze o di un “taglio del cordone”, ma quello di un cambiamento nella natura del rapporto, che si fa sempre più interattivo e articolato via via che il bambino individua se stesso e la mamma come entità distinte; ma non per questo la loro relazione si fa meno importante o meno intensa.


Il bisogno di connessione d’altronde è primario di ogni essere umano, in ogni momento del suo ciclo di vita. Neonati, bambini, adolescenti, adulti, anziani, per tutta la vita abbiamo bisogno degli altri. Non siamo monadi emotive, perfettamente autosufficienti; siamo stati modellati in modo da funzionare in relazione ai nostri simili. E lo strumento attraverso il quale questo avviene è la capacità di sintonizzarci sui sentimenti e bisogni dell’altro, cioè l’empatia. Le neuroscienze negli ultimi anni hanno evidenziato fino a che punto questa attitudine è profondamente impressa nei nostri circuiti cerebrali. Nel nostro cervello esistono i cosiddetti neuroni specchio, gruppi di neuroni che si attivano come un’eco in presenza dell’altro, rispecchiando, letteralmente, azioni ed emozioni.


Nella relazione fra madre e bambino, la madre ha sommamente attivata questa capacità di immedesimarsi e di “risuonare” fortemente in risposta agli stati del bambino. È così che riesce a capire, con molta più rapidità ed efficacia di chiunque altro, le condizioni fisiche, i bisogni e le emozioni di suo figlio, e rispondervi nel migliore dei modi. Ma poiché tutti siamo dotati di neuroni specchio, chiunque sia coinvolto nelle cure di un bambino può entrare in risonanza e affinare questi circuiti dell’empatia.


Nel bambino il bisogno di connessione è intensissimo; l’adulto, in genere la madre, specie nei primi mesi, non è solo la persona che lo abbraccia, lo nutre, da cui dipende la sua sicurezza e il suo benessere: è anche il mediatore che gli permette di dare un senso alle esperienze, e collocarle secondo una certa visione del mondo che deve andare a costruire; è il portavoce, che con una sorta di traduzione simultanea va rispecchiando i vissuti del bambino con le sue parole, gesti, emozioni, trasformando il caos percettivo in un insieme organizzato.


Il bisogno di connessione si esprime nel bambino con la ricerca attiva della mamma, prima con il pianto e i richiami, poi seguendola ovunque. Un comportamento che nella nostra cultura del distacco viene visto negativamente, ed etichettato come assillante, oppure definito, in senso riduttivo, come “bisogno di attenzione”. Io credo che non esista il bisogno di essere al centro dell’attenzione, ma che esista il bisogno di attenzione, nel senso di essere visto e riconosciuto, avere la certezza che l’altro si accorga di me e sappia capire come mi sento. “Io ti vedo”, è il saluto rituale che i “selvaggi” Na’vi (popolo protagonista del film fantastico Avatar) si scambiano l’un l’atro a ogni incontro. Un vedere che va ben oltre gli occhi, e sancisce il riconoscimento dell’altro come persona, esplicita il rispecchiarsi dell’anima.


Fa da eco a questo vedersi il richiamo del bambino ai primi passi e alle prime parole: “Mamma, guardami!” Un bisogno di attenzione, sì, ma non nel senso egocentrico e narcisista del mondo adulto, che dispensa lodi o consigli, ma come vitale connessione ad altri esseri umani.


Le basi biologiche della connessione

Negli ultimi anni la comprensione dell’essere umano ha fatto enormi passi avanti grazie agli studi della PNEI o Psico-neuro-endocrino-immunologia, cioè la scienza che studia la mente, il sistema nervoso, il sistema endocrino e quello immunitario come un unico sistema integrato che governa il nostro corpo e la nostra psiche. Questo approccio ci fa comprendere meglio gli stati neurocomportamentali, cioè l’assetto emotivo, mentale e fisico che ci accompagna in ogni situazione della vita, mettendoci nella condizione più adatta per affrontarla.


Fra i vari stati neurocomportamentali (come la veglia tranquilla, il dormiveglia, il sonno, lo stress, l’attenzione), forse per la predilezione che la cultura patriarcale ha per le situazioni bellicose e predatorie, è stato ampiamente studiato lo stato di attacco o fuga, cioè l’insieme di cambiamenti che avvengono nel nostro corpo quando ci troviamo in una condizione di pericolo o presunto tale. Così oggi sappiamo moltissimo sull’effetto di una scarica di adrenalina, che attiva il sistema nervoso simpatico mettendoci in assetto di lotta: aumento della frequenza cardiaca e respiratoria, sangue ai muscoli per un migliore scatto, rilascio di zuccheri nel sangue, vasocostrizione periferica (minor sanguinamento in caso di ferite), insomma tutto ciò che serve per fuggire o aggredire rapidamente e con forza.


Molto meno fascino sembra abbia esercitato lo stato opposto e cioè quello della calma e connessione, come la fisiologa Kerstin Uvnas Moberg l’ha chiamato. Tale stato è così orfano infatti che non era nemmeno stato identificato come condizione a sé stante. La Moberg ha dedicato tutta la sua vita allo studio dell’ossitocina e degli altri ormoni che insieme governano quest’altro polo della vita umana, cioè la condizione di gioia, rilassatezza, tenerezza e connessione fra gli individui che si trovano in una situazione di benessere e sicurezza. Il suo contributo ci permette oggi di capire molto di più il potenziale di pace, empatia, amore e cooperazione che è altrettanto caratteristico del genere umano quanto lo è il suo battagliero polo opposto. L’ossitocina, ormone sino a ieri relegato fra le “cose di donne” e collegato agli aspetti della vita riproduttiva (parto, mestruazioni, orgasmo, allattamento), si rivela, grazie agli studi odierni, come il direttore d’orchestra di una quantità impressionante di funzioni che vanno ben oltre la sessualità e interessano le relazioni, la coesione sociale, la crescita e i processi di guarigione. Un quadro complesso che fa parte del sistema binario di cui i processi di attacco o fuga rappresentano la controparte; sistema di guerra e sistema di pace. Spiega la Moberg:


I due principali sistemi, quello di calma e connessione e quello di attacco o fuga, (…) possono essere considerati la manifestazione complessa di due processi fisiologici elementari, che possono essere osservati anche a livello cellulare. Il principio di base dell’ossitocina è quello di permettere alla cellula di assorbire gli elementi nutritivi, immagazzinarli e poi dividersi, senza perdere il contatto con le altre cellule, vale a dire conservando la permeabilità della membrana. Il principio opposto è quello di convertire il nutrimento in energia, ovvero movimento o calore, e rendere la cellula impermeabile interrompendo di conseguenza il contatto.

I molteplici effetti dell’ossitocina assomigliano ai rami di un grande albero (…). Le ferite si rimarginano fino a due volte più in fretta con l’applicazione di ossitocina (…). l’ossitocina sembra anche aumentare la produzione dei fattori di crescita (…). Se l’ossitocina stimola la crescita, ci si può aspettare che sia coinvolta nella riproduzione (…). Il secondo ramo dell’albero dell’ossitocina riguarda la capacità espulsiva, o di eiezione, innanzitutto grazie al ben noto effetto dell’ossitocina sulla muscolatura liscia dell’utero per far uscire il feto e, successivamente, sui muscoli delle mammelle per far uscire il latte durante la poppata (…). Il terzo ramo dell’albero riguarda la capacità dell’ossitocina di stimolare un comportamento sociale e curioso, come trovare il coraggio di avvicinarsi a un altro individuo e interagire con lui, e in seguito essere in grado di riconoscere e scegliere eventualmente di restargli vicino. Questo ramo regola le interazioni sotto forma di comportamenti materni e sociali (…). Un grosso ramo dell’albero dell’ossitocina comprende invece effetti antistress potenti e duraturi25.

Naturalmente, l’immagine dell’albero e la descrizione di funzioni separate è una semplificazione teorica: nella realtà, le varie funzioni interagiscono e agiscono insieme, o, come dice la Moberg, il vento a volte scuote un solo ramo, ma il più delle volte si scuotono tutti insieme.


Il nome di sistema della calma e connessione pertanto è più che meritato per questa complessa rete funzionale che coinvolge il sistema nervoso parasimpatico, le aree cerebrali connesse alle emozioni e al piacere, e l’ossitocina come ormone guida assieme ad altri ormoni come la dopamina e la serotonina, ormoni fondamentali nel bonding, il processo di formazione del legame fra madre e figlio.


Dato che i due sistemi, di attacco o fuga e di calma e connessione, sono antagonisti (ciascuno inibisce il funzionamento dell’altro), si può capire che enorme importanza abbia la loro modulazione fin dalle prime fasi di vita, si potrebbe dire fin dalla vita intrauterina. Mentre il sistema adrenergico è fondamentale per la sopravvivenza nei momenti di pericolo, quello ossitocinico è cruciale perché l’essere umano possa vivere felice e prosperare. Ma le emergenze dovrebbero essere solo occasionali, e se in un passato remoto tempi difficili – in cui la stessa sopravvivenza della specie umana era minacciata – hanno reso necessario potenziare il sistema di attacco o fuga (anche a prezzo di un logoramento da stress cronico), al giorno d’oggi abbiamo molto più bisogno di sapere come mantenere uno stato di pace e cooperazione, come crescere armonicamente e come guarire le nostre ferite. Non è più tempo per le madri di “lavorare per l’esercito”. La gentilezza, le carezze, l’empatia, gli abbracci, la convivialità, tutti grandi stimolatori della secrezione di ossitocina, non costituiscono una minaccia che ci rende troppo molli e meno pronti a combattere: al giorno d’oggi i nostri nemici sono più interiori che esterni, ed è ora di concentrarci su uno sviluppo armonico della nostra società, capace di andare oltre la paura e la diffidenza e di costruire solidi legami fra gli esseri umani, e anche di coltivare la connessione più ampia con l’ecosistema che ci circonda, con le altre specie viventi e con il pianeta che ci ospita.


Ostacoli e barriere

Un giorno mia madre, allora ottantasettenne, ha voluto condividere con me un ricordo che risaliva ai suoi primissimi anni di vita. Non doveva avere più di due o tre anni. Ricorda di essere entrata in una grande stanza in penombra. Un singolo raggio di luce penetrava fra le persiane socchiuse andando a illuminare una piccola zona sul pavimento. Lì accanto, su un mobiletto c’era un bellissimo servizio da tè, preziose tazzine con i bordi dorati. Lei si avvicinò, prese in mano una tazza e questa le cadde andando in mille pezzi proprio al centro della pozza di luce. Meraviglia! Questa frantumazione della tazzina, con tutti i riflessi del sole sui frammenti convessi di porcellana lucida, che schizzavano in ogni direzione, sembrava un’esplosione smagliante di schegge di luce. Così, la piccola bambina che sarebbe diventata mia madre prese un’altra tazzina e ripeté l’esperimento. E ancora il meraviglioso spettacolo si ripresentò ai suoi occhi. E così ancora e ancora quella bimba rapita dalla bellezza lasciò cadere a terra tutte le tazzine, ad una ad una.


Erano passati 85 anni, eppure gli occhi di mia madre brillavano mentre raccontava il senso di estasi di fronte a quel bellissimo spettacolo, che ancora dentro di sé era vivo come se fosse successo il giorno prima.


Mia nonna, di fronte a quella che per lei era solo una furia distruttiva, naturalmente la sgridò e soprattutto si indignò per quella che dal suo punto di vista era una cattiveria gratuita. Una tazzina può cadere dalle mani; ma perché sua figlia aveva voluto distruggere senza pietà tutto il servizio?

Questa breve storia è per riflettere su quante volte noi non abbiamo la più pallida idea di quello che passa per la testa dei nostri figli; leggiamo i loro comportamenti con una chiave adulta, senza renderci conto che loro provengono da un mondo diverso, in cui ogni cosa è nuova, fresca, magica e innocente.


Non è facile per noi entrare in questo mondo incantato; immaginare il servizio da tè non come un bene durevole, prezioso, da conservare con cura, ma come una forma temporanea che vale la pena di perdere per poter godere della vista di un oggetto ben più meraviglioso, lo stesso servizio che va in pezzi. Non è facile immaginare le migliori intenzioni di fronte a comportamenti per noi adulti perfidamente distruttivi.


Da qualche parte, nella visione collettiva dell’infanzia, si trova l’idea che i bambini siano adulti imperfetti, dotati già di tutti i difetti degli adulti ma privi delle loro capacità. Una sorta di copia in piccolo, non formata, incompleta e non ancora addomesticata.


Questa idea alimenta infiniti equivoci, quando l’adulto interpreta il significato e le intenzioni degli atteggiamenti e dei comportamenti infantili.

La cultura del distacco e del controllo opera contro la naturale sintonia fra genitori e figli, ostacolando l’empatia, guardando al bisogno di contatto e connessione come a una debolezza che impedisce ai bambini di crescere e far fronte alle sfide della vita, e ai genitori di guidarli con la necessaria autorità.

L’intenso coinvolgimento della relazione parentale non piace a un sistema sociale che vuole tenere sotto controllo i comportamenti collettivi e che ha bisogno di genitori che trasmettano i valori di questo sistema, e che rientrino rapidamente nel novero dei membri produttivi della società, e che siano buoni consumatori.


Il naturale stato di elevata sensibilità di una madre, i suoi sbalzi di umore, il profondo coinvolgimento con il neonato, l’intensità delle reazioni emotive, che sono una conseguenza fisiologica della gravidanza e del parto e che fanno da base alla costruzione di quella preoccupazione materna primaria di cui parla Winnicott, vengono ridefinite come una fragilità del genitore, uno squilibrio e una deriva pericolosa da reprimere, per poter riprendere al più presto il controllo razionale di sé stessi e della propria vita.


La nostra cultura, che in generale rifugge l’intimità, spinge perciò i genitori a non “sprofondare troppo” nel mondo del bambino, non “farsi coinvolgere” eccessivamente, mantenere le distanze, rendendo così il processo di sintonizzazione e di formazione del legame inutilmente lungo e incerto.

La negazione dell’emotività legata al diventare genitori è tale per cui all’arrivo del neonato molte madri riferiscono un vero shock all’impatto con tanta intensità: “Non me l’aspettavo; non pensavo fosse così”, riferiscono. “Non è tanto il tipo di emozione a sopraffarti – mi ha detto una volta una mamma – quanto l’altalena delle emozioni, la loro intensità e imprevedibilità”. Nessuno le prepara a questo, nessuno le avverte in anticipo. L’innamoramento fra mamma e bambino è un argomento sottaciuto dalla nostra società. Dice Naomi Stadlen:


È significativo confrontare come differentemente le donne si preparano all’amore. Noi non frequentiamo corsi di preparazione all’innamoramento. Piuttosto, la grandiosità dell’innamoramento è descritta in canzoni e poesie, tragedie e commedie, venendo così comunicata a diversi livelli da generazione a generazione. “Oh, è innamorata!” diciamo, e quelle due parole cruciali comunicano un gran numero di significati. Ci aspettiamo che la persona innamorata sia sognante, lunatica, distratta, incapace di mantenere i più comuni impegni e totalmente concentrata sulla persona amata. Raccogliamo segnali di avvertimento sin dall’infanzia riguardo al fatto che innamorarsi può essere un evento sensazionale che ha il potere di sconvolgere la nostra vita, nel bene o nel male26.


In modo molto diverso, nota la Stadlen, viene trattato il processo di coinvolgimento affettivo fra madre e neonato, come se si trattasse di un incidente, una sbandata transitoria, un imbarazzante contrattempo che presto verrà superato e seguito da un rapido ritorno alla “normalità”.

Ecco allora che si mettono in atto una serie di pressioni che ostacolano, concretamente o per manipolazione emotiva, l’intimità fra madre e bambino. Fra questi:


  • le regole basate sulla paura, come ad esempio lo scoraggiamento a condividere il letto (anche in condizioni sicure) perché metterebbe il bambino a rischio di essere schiacciato: questo tipo di raccomandazioni indurrà la madre ad agire contro il suo istinto perché crede nella sincerità e nell’autorevolezza dei consigli ricevuti e vuole solo il bene e la sicurezza del bambino;
  • la paura di viziare, che impone una limitazione dei baci, abbracci, tenere in braccio, allattare, per timore di nuocere alla psiche del bambino;
  • la pretesa sociale che la madre torni presto “come prima”, e che “non si faccia cambiare la vita dal bambino”;
  • la spinta all’omologazione, e le reazioni critiche o ridicolizzanti per qualsiasi cosa che non si conformi alla norma culturale prevalente;
  • le pressioni familiari e sociali a cedere il bambino a qualcun altro, quasi come fosse un nuovo bellissimo giocattolo con cui tutti hanno diritto a trastullarsi, mentre le madri riluttanti vengono accusate di essere egoiste, possessive, iperprotettive;
  • le sollecitazioni del marketing, che spingono a comprare e a usare prodotti e oggetti invece di utilizzare le risorse semplici del proprio corpo, dei cibi familiari e dei comportamenti istintivi, e in particolare,
  • gli oggetti che allontanano e separano: molti di quelli pensati e creati per alleviare il lavoro della neomamma, invece di semplificare, complicano inutilmente la loro vita aumentando le distanze: box, girelli, passeggini fronte mondo, dande, ciucci, biberon, baby-citofoni.

Al posto della desiderata connessione con il proprio bambino, che dovrebbe somigliare a un intenso innamoramento, ci può dunque essere a volte un’esperienza di frustrazione, in cui l’adulto guarda disorientato ai movimenti scoordinati, ai pianti, ai tremori e alle smorfie del neonato rimpiangendo l’assenza di un “libretto delle istruzioni”, di un vocabolario che possa tradurre quei comportamenti in segnali di senso compiuto. Le narrazioni che arrivano ai genitori sottintendono che il prendersi cura del proprio figlio consista in una serie infinita di compiti da portare avanti e di bisogni a cui rispondere, anche se senza eccedere, per non “viziarli”. I bisogni legittimi saranno specificati nei manuali o nei consigli degli esperti, sempre pronti a correre in aiuto dei genitori disorientati.


Ma i bambini non sono una serie di bisogni a cui provvedere. Sono persone, che desiderano intensamente soprattutto una cosa: stare con noi.


Il bisogno di connessione dei genitori

Il bisogno dei genitori di sintonizzarsi sui propri cuccioli è tanto intenso quanto quello dei neonati verso i genitori. Non si tratta di ansia, tempesta ormonale o regressione emotiva: è l’attrezzatura biologica di base che si attiva in ogni donna quando partorisce il suo bambino, alla quale ogni uomo attinge quando per la prima volta stringe suo figlio fra le braccia.


Una mamma raccontava che le sembrava di sentire il pianto di suo figlio quando c’era nell’ambiente un rumore bianco di fondo. Ricordo che anche a me succedeva (adesso che i miei figli sono adulti, mi sembra a volte di sentir miagolare le mie gatte).


Il cervello umano è predisposto per cercare sempre di organizzare gli stimoli secondo uno schema che abbia un senso. Gli studi sulla percezione in presenza di deprivazione sensoriale, rumore bianco o stimoli visuali amorfi mostrano che dal caos emerge sempre un significato: forme precise, parole ben intellegibili… e la mamma, ecco quello che il cervello le propone come prima possibile interpretazione dei suoni: il pianto del bambino! Meglio sbagliare per eccesso, questo è il concetto che nelle nostre cellule è impresso a fuoco. Le neuroscienze da anni studiano nel nostro cervello come i neuroni specchio ci predispongano naturalmente all’empatia, consentendo di metterci sulla lunghezza d’onda delle persone che ci sono care; e per un genitore, prima di tutto con i suoi bambini.


Essere in connessione empatica significa sintonizzarsi sull’altro, i suoi sentimenti e i suoi bisogni, sapendo vedere il mondo con i suoi occhi. Significa anche entrare a far parte di un processo circolare, di un dialogo in cui adulto e bambino interagiscono modellandosi e modulandosi l’un l’altro; dapprima con tutti gli aspetti non verbali (espressioni, gesti, contatto, tono di voce) e poi, via via, anche con le parole, in una danza a due che non è un parlare al bambino, ma un parlare con il bambino.


Questa danza non scivolerà sempre via liscia come pattinatori sul ghiaccio. Non mancano gli inciampi, le cadute, la perdita di ritmo. Ma la cosa straordinaria è che anche nei momenti di fraintendimento e di blocco comunicativo, a un livello profondo genitori e bambini sono in realtà connessi. Quante volte di fronte al bambino che ha uno scatto di collera, o piange frustrato, o si chiude, ci sentiamo arrabbiati, impotenti, soli? Proviamo a vedere le cose da una prospettiva diversa, quella della connessione emotiva profonda fra genitori e figli: tante volte il modo in cui ci sentiamo, nei momenti di conflitto con i figli, è lo specchio di come si sentono loro!


Ma gli adulti non solo cercano la connessione con il bambino, ma anche con la comunità intorno a loro stessi. I genitori, a prescindere dal loro ruolo, hanno una vita di relazione e hanno bisogno di mantenere e coltivare anche queste connessioni, intrecciando legami con altri adulti, con i propri amici, parenti, gruppi, con la propria cultura e società di appartenenza. La massima di Winnicott potrebbe estendersi a qualsiasi essere umano, riflettendo sul fatto che nessun uomo è una monade affettiva, solo sulla terra, ma la propria esistenza e identità acquista significato attraverso la relazione con gli altri: e quindi, non esiste un essere umano, ma esiste una persona e qualcun altro.


Reti virtuali

Sono su Facebook e sono le tre del mattino. Sto leggendo una chiacchierata in diretta, in un gruppo per l’allattamento, fra mamme sveglie per la poppata notturna e penso a come sono cambiate le cose in una sola generazione. Trentasei anni fa ero io quella che faceva le tirate notturne con il mio primo figlio, e come me tante altre mamme, il popolo materno della notte, ciascuna di noi sola nel silenzio della stanza in penombra, con il piccolo al seno, mentre il resto della famiglia dormiva. E ora eccoci qua: un villaggio! Questo è fantastico. Tuttavia rifletto a come questo villaggio meraviglioso e sconfinato – che da luoghi lontanissimi avvicina le persone in tempo reale, anche se può forse fornire sostegno affettivo, riconoscimento e comprensione ai genitori, – non può sostituirsi al villaggio reale che sosteneva i nostri progenitori, fatto di persone vere, braccia capaci di portare un bambino, labbra in grado di dare baci, mani che sanno curare, cuori battenti. E così, nel cuore della notte, leggendo i post, fra chiacchiere a ruota libera e shopping online, mi chiedo quanto poi queste veglie notturne non diventino un’intrusione del quotidiano in una dimensione che un tempo era preziosamente intima e in cui, complice l’ossitocina e il silenzio, il sonno non tardava a tornare.


Il bisogno di madri e padri di essere connessi si esprime non solo con il loro bambino, ma anche con la comunità intorno a loro. Questo senso di appartenenza è importante, perché rafforza il senso di competenza e fa sentire il genitore come parte di un disegno più ampio, come elemento coerente di un insieme di valori e di obiettivi.


Ma il bisogno di connessione si nutre soprattutto di parole e di contatto fisico. Nel comunicare con gli altri, offriamo un contenuto che viaggia con le nostre parole; ma anche un messaggio di relazione, che definisce chi siamo in rapporto all’altro, perché comunichiamo, con quali volontà e sentimenti. Quest’altra parte del nostro atto comunicativo viaggia soprattutto attraverso il canale non verbale, che è fatto di espressioni, gesti, intonazione della voce, sguardi, la nostra posizione nello spazio, il contesto intorno a noi. Tutto questo è assente nel messaggio virtuale, e le emoticon non sono che un tentativo inadeguato di colmare il vuoto, uno strumento spersonalizzato, stereotipato, riduttivo, ripetitivo e troppo facilmente falsificabile. Dobbiamo fare attenzione a non confondere l’originale con il surrogato virtuale, il sociale con i social.


Dobbiamo ricreare nel mondo reale il villaggio che non c’è più, costituire la nostra tribù… cercarci e vederci di persona, perché i social non bastano come villaggio, ci vogliono braccia, sguardi, il suono delle nostre voci, il calore della pelle quando ci abbracciamo, il profumo dei nostri bebè, le radiazioni dei campi elettromagnetici dei nostri cuori… ci vuole l’interazione viva del faccia a faccia che attiva il sistema ossitocinico della connessione e fa viaggiare le emozioni da un cuore all’altro.


Ascolto attivo ed empowerment

Connettersi con il proprio bambino significa per prima cosa imparare una modalità per noi poco praticata di ascolto. Siamo forse stati educati ad ascoltare passivamente, cioè per compiacere e offrire (e ricevere in cambio) approvazione e consenso; oppure in modo strumentale, non davvero interessato all’altro, al solo scopo di vagliare criticamente gli argomenti altrui, per poterli confutare o per portare l’altro dalla nostra parte. Lo facciamo continuamente, senza rendercene conto: quante volte ascoltiamo con impazienza, avendo già deciso cosa vogliamo dire e dove vogliamo portare il nostro interlocutore? O sulla difensiva, leggendo le parole dell’altro come accuse da cui difenderci? La nostra società, così pesantemente giudicante, avvelena le nostre comunicazioni, trasformandole in una guerra in cui esistono soltanto nemici o alleati. Interpretiamo ogni informazione e osservazione come un’accusa o un attacco personale, e il fatto che anche quando ci esprimiamo siamo spesso sulla difensiva o sull’attacco non facilita la reciproca comprensione.


Ma allora, se ascoltare in modo efficace non è né dissentire né concordare, che significa ascolto attivo?


Nell’ascolto attivo non si esprime né condiscendenza né critiche: si sospende il giudizio e ci si sintonizza sui sentimenti e i bisogni dell’altro, facendo da specchio e aiutando così l’altra persona a mettere a fuoco gli aspetti cruciali del suo problema, ciò che veramente ha a cuore e ciò che può e vuole fare per risolverlo. È un processo che nasce prima di tutto nella mente e nel cuore di chi affianca l’altro; una forma di contenimento discreto ma sostanziale, che si basa sull’essere in connessione con le proprie parti vitali e aiutare così anche l’altro a connettersi alle proprie. Questo essere di rimando con empatia, ma senza fretta di offrire risposte, possiede una forza straordinaria: quella di far emergere verità profonde e strategie originali dall’interlocutore, apparentemente “senza aver fatto nulla”.


Per i genitori si tratta, in sostanza, di una questione di fiducia. Fiducia nelle potenzialità del bambino che ci è di fronte, e nella sua capacità di trovare le sue soluzioni, una volta in possesso di tutte le informazioni rilevanti; fiducia, anche, nel fatto che la soluzione che sceglierà (una volta ricevute le informazioni cruciali per valutare) sarà la migliore possibile per lui, anche quando sarà lontana da quella che avremmo pensato o proposto noi stessi. Da questa rispettosa disposizione ad ascoltare e ad offrire sostegno incondizionato nasce l’empowerment: fra genitore e figlio si crea uno spazio, un territorio fertile entro il quale il bambino può a sua volta riconnettersi con se stesso, esplorare le sue risorse ed elaborare progetti e soluzioni. E in questo processo di crescita personale egli diventa più forte, fiducioso e competente, acquisisce non solo informazioni o risposte, ma un metodo personale, un approccio ai problemi tagliato sulle proprie peculiarità.


L’ascolto e l’empatia possono essere grandi alleati per ritrovare la strada della connessione con i nostri figli. Essere in connessione con nostro figlio significa sostanzialmente proprio questo: essere presente, in ascolto, con empatia e rispetto; non avere paura della fisicità di cui i piccoli hanno bisogno, come abbracci, carezze, baci, poppate.


Ad alto contatto significa tenere i propri figli vicino al cuore: dapprima in senso letterale, fisico; poi in senso metaforico, dell’anima.


La rivoluzione della tenerezza
La rivoluzione della tenerezza
Antonella Sagone
Crescere i figli con una guida gentile.Scegliere la via della gentilezza per accompagnare i bambini a diventare individui integri e capaci di empatia, attraverso la presenza affettuosa, l’ascolto dei loro sentimenti e bisogni, il dialogo. La guida gentile non è essere sempre perfetti e nemmeno essere sempre accondiscendenti: è porsi ai nostri bambini con onestà e rispetto della loro integrità, è scegliere di saper essere piuttosto che di saper fare, di avventurarsi nel mare tempestoso delle emozioni e attraversarlo, insieme a loro, con empatia, e usare queste emozioni come guida per comprendere e conciliare i bisogni di tutti.Confermare il bambino nei suoi sentimenti e nelle sue sensazioni, accogliere la sua percezione anche quando non collima con la nostra, aiutandolo ad ampliare la sua visione delle cose e includere quella più vasta della società, è la strada per crescere individui integri, capaci di valutare in modo critico ciò che la vita propone loro, e quindi in grado di esprimere al massimo il loro potenziale.Al di là della falsa scelta fra autoritarismo e lassismo, nell’educazione dei bambini c’è una terza via, quella della gentilezza, che Antonella Sagone presenta nel suo libro La rivoluzione della tenerezza.Attraverso la presenza affettuosa, l’ascolto dei loro sentimenti e bisogni, il dialogo onesto e rispettoso, gli adulti possono, senza rinunciare al loro ruolo di guida, accompagnare i bambini a diventare individui integri e capaci di empatia, con una base affettiva sicura e la capacità di connettersi con gli altri e con l’ambiente intorno a loro, cambiando in meglio il mondo. L’ebook di questo libro è certificato dalla Fondazione Libri Italiani Accessibili (LIA) come accessibili da parte di persone cieche e ipovedenti. Conosci l’autore Antonella Sagone, psicologa in area perinatale e consulente professionale in allattamento materno IBCLC e formatrice; da 40 anni si occupa dei processi fisiologici della maternità e paternità, e delle pratiche di assistenza e sostegno che promuovono la salute e l’empowerment della madre e di tutte le persone coinvolte nell’accudimento e nella crescita del bambino.