CAPITOLO VIII

Semplicemente umani

Considerate la vostra semenza:fatti non foste a viver come bruti,ma per seguir virtute e canoscenza.1


Lo sviluppo esponenziale delle tecnologie ha permesso all’uomo di espandere il suo raggio di azione ben oltre i suoi confini naturali, facendo saltare tutti i meccanismi di retroazione che potevano contenere questa espansione entro limiti sostenibili, e nello stesso tempo creando barriere che hanno reso sempre più difficile la connessione fra gli individui, fra le creature viventi, fra noi e il nostro habitat.


A fronte di un sempre maggiore potenziale di comunicazione fra noi e di una sempre crescente capacità di controllo delle forze naturali, il nostro approccio è rimasto sostanzialmente quello dell’uomo del paleolitico, che doveva sopravvivere in un ambiente difficile e confrontarsi con popolazioni ostili, condizioni climatiche avverse e animali selvaggi. Abbiamo coltivato il nostro sistema di attacco o fuga, e continuato a generare guerrieri e predatori anche quando la carestia era terminata, e avremmo avuto ben più bisogno di costruttori, pacificatori, guaritori, e di un efficace sistema di calma e connessione.


Due anime emergono affiancate nell’umanità: quella dell’empatia e della cooperazione, guidata dalla fiducia e dall’amore, e quella combattiva che è dominata dalla paura della fame e della morte e che prende tutto ciò che può dagli altri, dalla terra, dalle specie viventi, guidata dalla disperazione. Un’anima crea ponti e spalanca le braccia, l’altra erige muri e sguaina spade.


Il sistema di attacco o fuga è cruciale per fronteggiare le emergenze, ma quando diventa un costrutto stabile e pervasivo genera logoramento e autodistruzione. Da troppe generazioni, da troppi secoli i nostri figli vengono educati per lottare. E nell’ultimo secolo, l’applicazione della scienza tecnologica alla fisiologia ci ha spinto oltre, recidendo fra madre e figlio i legami vitali della gravidanza, del parto, dell’allattamento, del sonno condiviso, del contatto continuo, e ha effettuato il più grande esperimento sul campo che l’umanità avesse mai intrapreso: vedere fino a che limite si può spingere la resilienza umana, quanto ci si può discostare dal proprio continuum biologico, sfidare la nostra natura, fino a che punto gli aspetti cruciali del benessere, della salute, dello sviluppo affettivo possono essere messi alla prova e smantellati prima che l’umanità smarrisca se stessa.


Abbiamo inseguito la fantasia onnipotente di un mondo dominato dalla nostra intelligenza e abilità, in cui avremmo controllato e diretto ogni cosa, sostituendoci ai processi naturali per impossessarci delle ricchezze e delle energie dell’universo, in uno sviluppo senza fine che ci avrebbe garantito di non avere mai più fame, freddo, solitudine o paura. La visione bellicosa del guerriero ci ha fatto leggere ogni processo, esterno o interiore, in termini di minacce da fronteggiare, territori da conquistare, vittorie e potere. L’avere ha prevalso sull ’essere e questo ha creato, senza che ce ne rendessimo conto, una fragilità, una separazione fra noi e tutto ciò che di vitale esiste nel mondo e in noi stessi, impoverendo la nostra esperienza di vita e lasciandoci più vulnerabili e soli.

Come osservava profeticamente già 40 anni fa Michel Odent,


Abbiamo capito che la società senza rischi, senza dolore, senza paura, senza violenza che la tecnologia legata all’ideologia dominante piccolo borghese ricerca, era di fatto la società senza speranza, senza piaceri, senza gioie, senza generosità, senza amore… senza amore per la vita, senza un intenso bisogno di vivere2.

In questo percorso di progressiva alienazione, il periodo che ha una maggiore criticità per l’individuo è quello perinatale: la gestazione, la nascita, i primi mesi. Sempre Odent parla di come esistano studi (purtroppo per lo più ignorati) che mostrano con grande forza scientifica quanto sia cruciale il modo di partorire e di accudire i neonati, per il tipo di essere umano che si svilupperà:


Servirebbero interi volumi per presentare uno studio esauriente delle caratteristiche di un gran numero di culture sul modo in cui si oppongono all’istinto materno di protezione durante il delicato periodo che segue la nascita. Una rapida panoramica sui dati a disposizione ci permette comunque di trarre una semplice conclusione: più una determinata società sente il bisogno di sviluppare aggressività e capacità di distruggere altre vite, più invasivi risultano i rituali e le credenze al momento della nascita3.


È ora di abbandonare questi paradigmi distruttivi, abbandonare il mito narcisistico dell’uomo dominatore dell’universo e ritrovare la semplicità della nostra essenza umana.


Ciò che ci rende umani

Alcune caratteristiche biologiche della specie umana sono molto speciali e portano a conseguenze importanti per lo sviluppo delle nostre civiltà.


Come il bastone è un prolungamento del braccio, che permette di superare i nostri limiti corporei, così la tecnologia, frutto della nostra intelligenza, ci ha permesso cose per le quali la nostra natura non ci aveva preparati. Allo stesso modo il linguaggio, strumento concettuale, ci permette di visitare con il pensiero luoghi che per la nostra mente preverbale sarebbero irraggiungibili. Questo ci rende esseri dotati di autocoscienza, il che ci rende meno spensierati ma anche capaci di maggiore lungimiranza.


La nostra consapevolezza ci mette in grado di pianificare il futuro, ma anche di temerlo; di essere compassionevoli, ma anche di manipolare gli altri.

La sessualità sganciata dal periodo riproduttivo (non andiamo in estro nei giorni fertili come gli altri mammiferi) ci rende disponibili ogni giorno dell’anno e consente di approfondire e consolidare i legami di coppia, ma rende anche possibili gli abusi sessuali.


Il lungo periodo di vita dei nostri anziani, per molti anni dopo la fine della propria capacità riproduttiva, ci ha permesso di avere nelle nostre comunità persone che potevano divenire depositarie delle nostre conoscenze ed esperienze, aumentando contemporaneamente la complessità delle dinamiche intergenerazionali.


E, soprattutto, la nascita dei nostri figli a uno stadio così immaturo di sviluppo li ha resi bisognosi di cure e di intenso contatto per mesi e anni, consentendo ai nostri giovani di sperimentare un’infanzia più lunga che in qualsiasi altra specie, durante la quale possono apprendere le vaste conoscenze che sono appannaggio del loro gruppo sociale e consolidare in modo permanente le qualità vitali dell’infanzia; questo ha generato la necessità della famiglia estesa come sistema relazionale permanente di sostegno affettivo, di protezione e di educazione dei figli nel loro lungo percorso verso l’età adulta.

Se alla fine si dovesse fare una riflessione su quali caratteristiche siano davvero uniche nella specie umana, quella che più balza all’evidenza è il nostro slancio a superare i nostri stessi limiti.


Nel bene e nel male, dobbiamo fare i conti con la nostra “fame di altro” che ci rende inappagati e proiettati sempre un po’ oltre i nostri confini biologici.

Che ci piaccia o no, grazie alle nostre doti uniche abbiamo una responsabilità maggiore delle altre specie animali nei confronti del pianeta in cui abitiamo: possiamo e dobbiamo prenderci cura non solo di noi stessi e della nostra specie, ma acquisire una visione ecologica che ci colleghi al tutto e ci renda una parte attiva del processo della vita.


Non siamo che l’un per cento delle creature viventi di questo pianeta. La nostra permanenza in questo mondo non è affatto scontata. Dobbiamo guadagnarci il diritto di non estinguerci, e se vogliamo evitare di diventare un ramo secco dell’evoluzione forse è il caso di fare un passo indietro e recuperare tutto quel patrimonio istintuale di tenerezza, amore e interesse per gli altri che ci è necessario per organizzarci in comunità armoniose e accoglienti. Nessuna specie è statica e immutabile, ma tutte effettuano il loro percorso di sviluppo, e partecipare a questo processo permette di lavorare per la bellezza, l’armonia e la nostra ulteriore evoluzione.

E così come dobbiamo acquisire una visione ecologica del nostro posto nel mondo, altrettanto ecologico deve divenire il modo in cui guardiamo a noi stessi. Come dice la Moberg,


Noi esseri umani dobbiamo cominciare a considerare la salute e il benessere come la nostra ecologia interna. (…) Abbiamo bisogno di ripristinare le riserve, recuperare le forze, riposare e guarire… proprio adesso cominciamo a comprendere quali sono i processi fisiologici coinvolti e in che modo vengono attivati. Ciò ci permetterà forse un cambio di paradigma, a livello sia individuale e che culturale, per riavvicinarci all’equilibrio perduto nella società moderna4.


Non ci sono vie di mezzo: o ci evolviamo diventando una specie capace di vivere dentro il sistema biologico dell’ambiente che ci accoglie (luoghi e persone), oppure regrediamo, preda dell’impulso di combattere o fuggire, continuiamo a considerarci separati dall’ambiente e così facendo lo rendiamo un luogo sempre meno ospitale per tutti, umani e animali, allo stesso tempo impoverendo noi stessi e languendo come un ramo senza linfa.


Le nostre radici biologiche

Il nostro mondo è irrimediabilmente umanizzato e civilizzato, modificato dalla cultura e dalle opere dell’uomo. Questo non significa che non si possano ritagliare spazi per recuperare il più possibile una dimensione di vita vicina a quella per la quale è stata modellata la nostra natura biologica. Certo, non sempre e non dovunque questo è possibile, ma sarebbe già un grande passo avanti divenire consapevoli delle nostre radici umane, di quello per cui siamo stati plasmati come specie e di cui abbiamo interiormente bisogno per sentirci “al posto giusto”. Tale consapevolezza ci darebbe la capacità di comprendere e contestualizzare i momenti di dissonanza, di disarmonia e di stress che troppo spesso attribuiamo a un difetto nostro o altrui. Ci permetterebbe di esercitare la pazienza, comprendendo la difficoltà che può provare un bambino nell’adattarsi a ritmi, condizioni e comportamenti molto lontani da questo continuum; ci aiuterebbe a provare compassione invece di rabbia o delusione verso di lui o verso noi stessi, ad adoperarci per risanare invece di negare e distruggere.


Riportarci alle nostre radici biologiche significa anche ripristinare uno standard di salute e di benessere basato sulla nostra fisiologia e non su aspettative sociali e culturali, di qualsiasi tipo siano. Significa spostare il punto zero, il livello normale, a situazioni basate sulla nostra natura, e non sulle nostre abitudini. Quando ci basiamo invece su standard dettati da usi e costumi sociali, convenzioni, pregiudizi, ecco che il mondo va al rovescio e la normalità diviene un’anomalia.


Tornare alla fisiologia, alle nostre radici selvatiche non significa, come qualcuno teme, tornare al caos o perdere il controllo. Clarissa Pinkola Estés, nell’introduzione del suo libro Donne che corrono con i lupi, osserva:

Riunirsi alla natura istintuale non significa disfarsi, cambiare tutto da sinistra a destra, dal nero al bianco, spostarsi da est a ovest, comportarsi da folli o senza controllo. Non significa perdere le proprie socializzazioni primarie, o diventare meno umane. Significa piuttosto il contrario. La natura selvaggia possiede una ricca integrità.

Significa fissare il territorio, trovare il proprio branco, stare con sicurezza e orgoglio nel proprio corpo (…), parlare e agire per proprio conto, in prima persona, essere consapevoli, vigili (…), scoprire a che cosa si appartiene, levarsi con dignità, conservare tutta la consapevolezza possibile5.


Comprendere da dove proveniamo e che cosa i nostri bambini si aspettano da noi e dall’ambiente che li circonda ci può far comprendere meglio le loro reazioni, e trovare un riferimento affidabile per valutare che cosa, fra i tanti consigli che piovono su noi genitori, abbia un senso oppure sia poco appropriato o ragionevole alla luce della nostra natura umana.


Natura e cultura

Geni o ambiente? Un’antica diatriba che per millenni ha appassionato filosofi, umanisti e uomini di scienza. Che cosa ci rende quello che siamo? siamo determinati dalla nostra natura, dai nostri geni, oppure è l’esperienza di vita che ci plasma, è l’ambiente in cui cresciamo a modellare le nostre abilità, desideri, modi di reagire, coscienze?


Il senso artistico che ho preso da mia madre è solo merito di essere cresciuta in una casa ricca di fogli, tele e pennelli, e aver imparato a leggere compitando i nomi dei colori sui tubetti delle tempere? Chi sarei se fossi cresciuta in un villaggio dell’amazzonia, in una famiglia di minatori del Sudafrica, nella casa di ricchi latifondisti brasiliani? Sarei sempre io?


Lo studio dell’epigenetica e della psico-neuro-endocrino-immunologia ci ha rivelato una realtà la cui complessità supera grandemente questa visione dicotomica.


Abbiamo investito immense risorse nel Progetto Genoma, arrivando alla mappatura completa dei nostri cromosomi, solo per scoprire che l’informazione in essi contenuta non è che il punto di partenza: è l’espressione e la modulazione di questi geni a determinare tutti i fenomeni biologici del nostro organismo. E questa espressione avviene nel contesto corale di un microbioma (l’insieme dei microrganismi con cui condividiamo il nostro corpo) la cui multiforme espressione genica, che modula il nostro metabolismo e il nostro umore, è centinaia di volte più vasta della nostra.

E la cosa non si ferma qui. Questo concerto è a sua volta orchestrato e trasformato dall’ambiente e dalle nostre esperienze di vita, generando una matrice, un modo di funzionare, che può trasmettersi anche per molte generazioni.


Ogni volta che raggiungiamo un maggiore dettaglio descrittivo, una maggiore profondità di comprensione della vita, ogni volta che ci spingiamo più lontano scopriamo solo nuovi orizzonti, più complessità e più domande. Ma soprattutto scopriamo a sempre maggiori livelli quanto nell’universo tutto sia interconnesso: natura, ambiente, cultura, istinti, progresso tecnologico e anche il modo in cui nasciamo. Facciamo parte di un tutto, e ogni nostra scelta si riverbera sulla trama e l’ordito del nostro mondo. Dobbiamo cominciare a pensare in modo ecologico e non solo al nostro piccolo interesse, ma con un senso di responsabilità verso l’universo di cui facciamo parte.


Il “benessere” che è diventato la parola d’ordine di quest’epoca è solo un obiettivo minimale, spesso al negativo: la non-sofferenza, la rimozione di tutto ciò che è fastidio, dolore, morte, paura. Una forma di negazione e una meta narcisistica, coerente con i tempi.


Ben diverso è lo stare bene inteso come armonia profonda con sé e con l’Universo, che include dolore ed estasi ma in una visione di completezza e di realizzazione interiore. E allora non si cercano più tecniche e nemmeno ci si pongono più obiettivi concreti, si cammina e basta perché la meta è nel viaggio.


La ricerca della conoscenza, del perché dietro le cose è un passo; ma anche questa ricerca può diventare un vicolo cieco se rimane fine a se stessa, se non porta a trovare alla fine un significato, un valore, un senso che collochi noi stessi in questo universo, senza farci limitare a cercare di descriverlo o capire “come funziona”. Oltre l’ontologia c’è l’etica, il “dove vado” e “perché vado”, una visione che non può che essere dinamica, in divenire perpetuo, umile, senza pretese di capire tutto, ma sempre aperta all’amore e alla compassione.

La rivoluzione della tenerezza
La rivoluzione della tenerezza
Antonella Sagone
Crescere i figli con una guida gentile.Scegliere la via della gentilezza per accompagnare i bambini a diventare individui integri e capaci di empatia, attraverso la presenza affettuosa, l’ascolto dei loro sentimenti e bisogni, il dialogo. La guida gentile non è essere sempre perfetti e nemmeno essere sempre accondiscendenti: è porsi ai nostri bambini con onestà e rispetto della loro integrità, è scegliere di saper essere piuttosto che di saper fare, di avventurarsi nel mare tempestoso delle emozioni e attraversarlo, insieme a loro, con empatia, e usare queste emozioni come guida per comprendere e conciliare i bisogni di tutti.Confermare il bambino nei suoi sentimenti e nelle sue sensazioni, accogliere la sua percezione anche quando non collima con la nostra, aiutandolo ad ampliare la sua visione delle cose e includere quella più vasta della società, è la strada per crescere individui integri, capaci di valutare in modo critico ciò che la vita propone loro, e quindi in grado di esprimere al massimo il loro potenziale.Al di là della falsa scelta fra autoritarismo e lassismo, nell’educazione dei bambini c’è una terza via, quella della gentilezza, che Antonella Sagone presenta nel suo libro La rivoluzione della tenerezza.Attraverso la presenza affettuosa, l’ascolto dei loro sentimenti e bisogni, il dialogo onesto e rispettoso, gli adulti possono, senza rinunciare al loro ruolo di guida, accompagnare i bambini a diventare individui integri e capaci di empatia, con una base affettiva sicura e la capacità di connettersi con gli altri e con l’ambiente intorno a loro, cambiando in meglio il mondo. L’ebook di questo libro è certificato dalla Fondazione Libri Italiani Accessibili (LIA) come accessibili da parte di persone cieche e ipovedenti. Conosci l’autore Antonella Sagone, psicologa in area perinatale e consulente professionale in allattamento materno IBCLC e formatrice; da 40 anni si occupa dei processi fisiologici della maternità e paternità, e delle pratiche di assistenza e sostegno che promuovono la salute e l’empowerment della madre e di tutte le persone coinvolte nell’accudimento e nella crescita del bambino.