CAPITOLO VII

Chi comanda qui?

Eppure credo che farò fatica a convincere gli amanti dell’aggressività.Hanno sofferto per loro conto e pensano: “La vita è stata dura con me.Ho ricevuto dei duri colpi. E ciò mi ha formato. E allora gli stessi colpi formino i miei bambini”1.

Chi concepisce la relazione con i figli in termini di potere, non vede che un’alternativa: se non comandano i genitori, comandano i figli. È una visione ben triste, perché non riesce a uscire dall’idea di una relazione finalizzata al controllo dell’altro. In realtà, la guida gentile è estranea a logiche come “decidere chi comanda”. Si identificano i bisogni di tutti e si cercano soluzioni che per quanto possibile vadano incontro a ciascuno; quando non è possibile, si cerca il miglior compromesso, e se qualcuno si dispiace, gli si offre comprensione, empatia e conforto.


Si tratta di comprendere il bambino, le sue motivazioni, sentimenti, bisogni; ma questo approccio spesso viene letto come assecondare, dire di sì, lasciar fare. Sono invece due piani del tutto diversi. La comprensione non è dire di sì, è un modo di essere che sta prima del sì e del no, e che c’è sia quando la richiesta del bambino viene accettata, sia quando invece viene respinta.


Si obietta a volte che essere “troppo” empatici produrrà individui incapaci di riconoscere l’autorità. Ancora una volta, si fa confusione fra empatia e accondiscendenza, Ma anche fosse vero che un approccio rispettoso produca individui che rispettano se stessi e gli altri e non accettano acriticamente imposizioni o assiomi, questo non può che essere un bene per la società. Il rispetto va guadagnato, e non può essere preteso solo in virtù di una gerarchia.


Chiediamoci se lavoriamo per la pace o per la guerra. Stiamo crescendo dei soldati o dei cittadini capaci di comprendere i bisogni del loro prossimo, ma che pensano con la loro testa? Meglio per tutti sarebbe la seconda possibilità, e questa non si ottiene certo educando a obbedire e allinearsi a chi è più forte solo perché “è in comando”.


L’illusione del controllo

Una cosa che i genitori devono imparare a gestire, alla nascita del loro primo bambino, è lo stravolgimento della vita, la sensazione di non avere più il controllo della loro esistenza. In un certo senso, se ci si riflette, l’idea stessa che noi possiamo controllare le nostre vite è un’illusione. 


Ci organizziamo, tracciamo confini, predisponiamo le cose in modo da poter avere tutto in pugno, ma la verità è che siamo barchette sulle onde della vita e non sappiamo mai quando arriverà la tempesta o la bonaccia. I bambini irrompono nelle nostre vite per far crollare questa illusione e insegnarci a essere un po’ più “filosofi” e accettare le situazioni della vita che non possiamo controllare, cercando di sfruttarne le potenzialità piuttosto che recriminare sugli ostacoli: cosa difficile in una società che celebra il pieno controllo, la prevedibilità, la pianificazione di ogni dettaglio quotidiano. 


Ed è qui che tutte le varie proposte di tecniche o metodi educativi sembrano venire in soccorso dei genitori, alimentando il mito che sia davvero possibile gestire tutto secondo i propri progetti, purché si applichi il “metodo” giusto. Questo si traduce alla fine in una prova di forza fra l’obiettivo dell’adulto, che si è già prefigurato determinati risultati con determinati tempi e modalità, e il bambino che, ignaro di tutto questo, piomba nella sua vita con i suoi bisogni e fiducioso che verranno accolti e soddisfatti. Ma non certo con l’obiettivo di far dispetto ai suoi genitori!


Perché vedere sempre i contrasti o disaccordi fra genitori e figli nei termini di una lotta per il potere? È quanto di più lontano dalla mente e dal cuore di un bambino, che del potere se ne infischia (anzi non sa nemmeno cos’è), e agisce sulla base dei suoi bisogni e delle sue emozioni. Tanti articoli, libri, manuali, consigli suggeriscono ai genitori come gestire il comportamento dei bambini, come dare limiti, come dire di no, e anche a volte, più sottilmente, come “educare i bambini a gestire i propri sentimenti”, come “insegnare al bambino come riconoscere e controllare la rabbia o la frustrazione”. 


Quest’ultimo è un bell’enunciato, ma è poco più del pio desiderio di avere figli che accettano la volontà degli adulti di buon grado. Spesso questi metodi ripropongono in modo subdolo vecchi concetti, basati su prove di forza o di potere, mettendo la questione nei soliti termini di chi deve decidere. L’enfasi, il focus è nel punto sbagliato. Cioè l’aspetto cruciale qui non è il potere ma la consapevolezza dei propri limiti, sentimenti e bisogni, in modo da distinguerli da quelli dei bambini, così da porsi nei loro confronti con onestà, spiegando anche le proprie necessità e trovando insieme soluzioni rispettose per ogni membro della famiglia. Non sottovalutiamo la capacità dei bambini di comprendere il prossimo, trattandoli con sufficienza, come soggetti da gestire, controllare e indirizzare.


Potere e responsabilità

Se mi vuoi bene dimmi di no2, titola uno dei tanti libri che propongono metodi educativi. Lo trovo un titolo triste, non perché non si possa a volte dire di no ai propri bambini, ma perché pone l’accento sulla contrapposizione genitori-figli invece che sulla connessione e il lavoro per comprendere i reciproci sentimenti e bisogni, ed enfatizza il porre e imporre limiti e regole, invece di ascoltare e ascoltarsi. Altro libro, altro titolo: I no che aiutano a crescere3. Un altro testo molto manipolatorio nei confronti dei genitori che lo leggono, per nulla empatico verso i bambini (anzi direi disinteressato alle emozioni e i bisogni che stanno dietro ai “capricci” dei bambini).


Libri e articoli come questi generalmente descrivono situazioni già deteriorate, con genitori esasperati e disorientati che non sanno come “riprendere il controllo” dei loro bambini; e a questo punto gli esperti mettono in guardia i genitori dal rischio di trovarsi sopraffatti da un “piccolo tiranno”, se non prenderanno fermamente in mano le redini dell’educazione.


Ogni volta che un bambino manifesta sofferenza in modo evidente (col pianto, con comportamenti aggressivi o autoaggressivi, con l’essere insistente o bizzoso, gettando oggetti o in qualsiasi altro modo che manifesti disagio), salta fuori qualcuno a dire che “Lo fa per attirare l’attenzione”, che è un altro modo per insinuare che il bambino stia cercando di esercitare il controllo sugli adulti. Ma se alcuni comportamenti del bambino servono magari ad attirare l’attenzione, è solo perché si provveda a rispondere a una sua necessità o ad alleviare un suo disagio. Non gli importa avere l’attenzione di per sé, gli importa che siano soddisfatti i suoi bisogni di cure, contatto, cibo, comprensione, riconoscimento, connessione. E certo, se tali bisogni non sono ascoltati il bambino cerca di richiamare l’attenzione in modo sempre più eclatante e sempre più insistente, perché qualcuno lo aiuti a stare meglio. Dovrebbe comportarsi in modo diverso?


Peraltro, il bisogno di essere al centro dell’attenzione è tipico della società di oggi, ed è significativo che venga proiettato sul bambino stesso, che invece cerca solo aiuto e risposte. E allora riflettiamo sulla lettura che si fa del suo comportamento, giudicandolo come un furbo calcolatore che chissà per quale motivo cerca di ricattare emotivamente l’adulto al solo scopo di essere notato. Questo obiettivo narcisistico in realtà non gli appartiene.


E che dire della teoria secondo cui i bambini, anche piccolissimi, possano simulare, allo scopo di manipolare i propri genitori? Che possano piangere per finta, per indurli a cedere alle loro richieste, o ridere altrettanto per finta, per intenerirli e averli in pugno?


Nei primi anni è assurdo fare il processo alle intenzioni, leggere fra le righe presunti secondi fini o, peggio, fare prediche al bambino su come egli, con il suo comportamento, “fa sentire” gli altri. Questo perché i bambini piccoli non hanno ancora il corredo neurologico e la capacità cognitiva per comprendere questi concetti: questa competenza si sviluppa solo in un secondo tempo.


Il bambino cerca di far valere le sue ragioni con tutte le sue forze? Certamente. Questo fa di lui un tiranno? Solo nella misura in cui i suoi genitori si calano nel ruolo di sudditi ossequiosi. Ma nei fatti, il bambino non ha alcun potere, oltre a quello di saper chiedere con molta convinzione ed energia. Gli adulti possono in ogni momento scegliere se accondiscendere alle sue richieste o dire di no. Se scelgono il no possono comunque scegliere di farlo in modo gentile e amorevole. Se scelgono il , lo farebbero certo più serenamente se non venissero stigmatizzati come deboli, succubi, perdenti e se la società intorno a loro riconoscesse la loro scelta come competente e amorevole, e fosse capace di esprimere parole di apprezzamento, piuttosto che interpretare la loro relazione con i figli solo in termini di lotta per il potere.

Non c’è alcun bisogno di stabilire una gerarchia di potere fra genitore e figlio, l’asimmetria c’è già: l’adulto pesa dieci volte più di un bambino, ha decenni di vita di esperienza, detiene le chiavi di casa e quelle del cuore dei suoi figli. Non perde questa autorevolezza se va incontro ai bisogni del bambino, anzi. È ovvio che c’è sempre una serie di situazioni in cui l’adulto impone a suo figlio qualcosa che non gli piace, ma non lo fa e non lo dovrebbe fare solo per ribadire il suo potere verso di lui, ma perché vede più lontano e sa prevedere conseguenze e opportunità; o comunque perché sta bilanciando i bisogni del bambino con quelli del resto della famiglia. Allora gli si può anche spiegare senza troppe parole perché non lo si asseconda in quel momento. Ma allo stesso tempo si può essere empatici con il suo dispiacere: non c’è bisogno di farne una prova di forza.


È tempo di scegliere se adottare un’educazione responsabile, basata sulla cooperazione, oppure un’educazione basata sulla forza e sull’obbedienza. Se insegniamo ai nostri figli l’obbedienza come valore, non possiamo sapere a chi, in futuro, essi sceglieranno di obbedire.


Un’educazione rispettosa, basata sulla considerazione e la fiducia nell’altro, inclusi i membri più piccoli della famiglia, restituisce il diritto a governarsi e il dovere di assumersi la responsabilità delle proprie azioni. Non significa affatto dire sempre di sì. Rispettando il bambino, mostrando modi non violenti di confrontarsi, ascoltandolo, con empatia e accettazione dei suoi sentimenti, anche quando gli si dice di no, si insegna al bambino a usare gli stessi strumenti quando si confronterà con gli altri e con le regole sociali. E si crescono adulti responsabili, capaci di gentilezza ma anche di contrapporsi civilmente a regole ingiuste, non così facilmente irreggimentabili dal primo “reuccio” che siede sul trono. Le più grandi tragedie e conflitti del nostro tempo, infatti, sono causate tanto da coloro che, essendo in posizioni di potere, decidono di risolvere i conflitti internazionali con le guerre, scaricandone la responsabilità sugli avversari, quanto dagli altri, che subiscono passivamente queste decisioni o se ne fanno esecutori senza assumersi la responsabilità dell’acquiescenza.

Morton Shatzman descrive i terribili abusi educativi che hanno subìto i bambini della generazione hitleriana. Oggigiorno sembriamo aver preso le distanze da certi eccessi, tuttavia l’ideologia dell’obbedienza come valore positivo ancora è ben radicata fra noi:


Spesso la filosofia, la religione e la letteratura hanno approvato la cieca sottomissione a un potere esterno come il massimo bene e condannato la disobbedienza come un male. Ciò può parzialmente spiegare perché molti, ai nostri giorni, pensano che la colpa associata a certe azioni spaventose sia minore se sono compiute per ordine di qualcun altro4.


La Comunicazione Non Violenta mostra come le nostre reazioni emotive siano appunto nostre, cioè nascano dai nostri pensieri e aspettative. Attribuire agli altri la causa delle proprie emozioni ed azioni deresponsabilizza e giustifica qualsiasi crimine:


Siamo pericolosi quando non siamo consapevoli di essere responsabili del nostro comportamento, dei nostri pensieri e dei nostri sentimenti5.


Il primo passo verso la pace e la cooperazione è l’assunzione delle proprie responsabilità personali, non solo delle proprie azioni ma anche delle proprie emozioni.


Distinguere fra richieste e pretese

“Mamma, andiamo al parco?” “No, ora dobbiamo tornare a casa”. Dopo tanti sì, al primo no il bambino si getta a terra piangendo. Si sente allora di aver sbagliato qualcosa perché, nonostante si cerchi appunto di essere empatici e disponibili, il bambino sembra non tollerare alcuna frustrazione… il mito del bambino sempre felice avvelena la relazione ponendo obiettivi irrealizzabili. Ma il pianto del bambino non è manipolazione: è semplicemente dispiacere. Un dispiacere che come adulti dovremmo accettare.


I genitori si chiedono com’è possibile che non riescano a farsi capire quando avanzano una richiesta logica. Ma un conto è ottenere che il bambino capisca che è ora di andare a casa; un altro conto è che lo accetti… un altro conto ancora è che lo accetti serenamente. Non si può avere tutto!


L’empatia e la disponibilità hanno lo scopo di poter rispondere ai bisogni del bambino per quanto è possibile, e non quello di avere un figlio eternamente felice e sorridente. Se si è in una situazione inaccettabile (il bambino sta per fare o farsi del male, o la sua richiesta non è conciliabile con la situazione) il no è comunque appropriato. Il bambino si infuria e la mamma l’abbraccia e lo conforta. Il fatto che pianga, si arrabbi e non accetti di venire ostacolato è, come dire? compreso nel prezzo.


Noi non possiamo risparmiare ai nostri figli il dispiacere, la rabbia, la frustrazione, né possiamo risparmiare a noi stessi le esternazioni con cui manifestano questi sentimenti negativi. L’importante è dare segnale di messaggio ricevuto, cioè ascoltare questi pianti, accettare le crisi di collera, interpretare correttamente le reazioni del bambino come espressioni di sconforto o richieste di aiuto, e non come tentativi fraudolenti di manipolazione.


A volte il bambino chiede senza contemplare la possibilità del no. Questo atteggiamento di pretesa alimenta il mito del piccolo tiranno e ci fa mal disporre ad accogliere la sua richiesta, perché subentra l’impulso di reagire spostando la questione su un piano di lotta per il potere.


Ma il bambino pretende perché i suoi desideri sono vissuti in modo urgente e assoluto. Sta a noi adulti, capaci di andare oltre i modi in cui una richiesta viene espressa, valutare con calma e capire il punto di vista del bambino, e poi decidere serenamente se accogliere o meno ciò che ci chiede, senza lasciarci fuorviare da dinamiche di potere.


Proviamo a rovesciare la situazione: l’adulto vuole uscire e il bambino no; e osserviamo come si applichino due pesi e due misure, ovvero due letture diverse, a situazioni così speculari.


“Andiamo al parco?” chiede al bambino il genitore che desidera uscire. “No, restiamo a casa” risponde il bambino, e il genitore si sente frustrato e deluso perché il bambino ha dato la risposta “sbagliata”.


Ma chiedere qualcosa, anche se con garbo, se la decisione invece è già presa trasforma la richiesta in una pretesa e la domanda in una forma di manipolazione. La differenza è sottile, e dipende dai nostri obiettivi. Se chiediamo a nostro figlio qualcosa ponendogli un’opzione, deve veramente essere un’opzione, non un’esca messa lì per fargli piacere qualcosa. Si deve contemplare e accettare la possibilità che dica di no e che ci si debba adattare a quel no.


Se invece si è già deciso che si farà come abbiamo scelto, è più rispettoso dirgli: “Fra 20 minuti usciamo insieme. Io ho bisogno di prendere aria. Ti va che prendiamo un gelato per strada?” cioè l’opzione va lasciata per ciò che veramente il bambino può scegliere, non per ciò che non era fin dall’inizio nelle sue possibilità di scelta.


Eppure, di rado si evidenzierà l’aspetto manipolatorio di tante richieste dell’adulto, mentre le richieste del bambino verranno spesso definite come una forma di manipolazione o tentativo di controllo, proiettando ciò che nella realtà è l’adulto a fare spesso nei confronti del bambino, anche senza rendersene conto. Questo gioco di rovesciamento delle parti viene proposto di continuo come chiave di lettura ai genitori, disorientandoli e offuscando la loro capacità di vedere con chiarezza quello che il bambino comunica e quello che loro stessi comunicano al bambino.

Così come per noi è irritante un bambino che pone le sue richieste come pretese, allo stesso modo il bambino, di fronte alla scoperta che le nostre richieste, di fatto, sono imposizioni, cioè pretese, sarà deluso, frustrato e arrabbiato, ed è molto più probabile che ponendoci in questo modo nei suoi confronti otterremo un comportamento oppositivo.


Marshall Rosenberg ha spiegato in modo molto chiaro questa distinzione fra richieste e pretese:


Le richieste sono ricevute come pretese quando gli altri credono che saranno incolpati o puniti se non vi si confermeranno. Quando le persone sentono avanzare una pretesa, vedono solo due opzioni: sottomettersi o ribellarsi. In ogni caso, la persona che fa la richiesta è percepita come coercitiva e la capacità dell’interlocutore di rispondere con empatia è ridotta. (…) Paghiamo un prezzo anche quando queste tattiche sono state usate da altri. Nella misura in cui le persone che ci sono vicine sono state criticate, punite o indotte a sentirsi in colpa per non aver fatto quello che altri richiedevano, esse saranno più propense a portare questo bagaglio con sé in ogni relazione successiva e a sentire una pretesa in ogni richiesta. (…) Mostriamo che stiamo esprimendo una richiesta e non una pretesa con il modo in cui ci comportiamo quando gli altri non fanno ciò che desideriamo. Se siamo pronti a mostrare una comprensione empatica di ciò che impedisce agli altri di fare ciò che abbiamo chiesto, allora, in base alla mia definizione, abbiamo espresso una richiesta, non una pretesa6.


Davanti a un bambino che chiede “troppo” fermiamoci un attimo a riflettere come si sente lui, e come ci sentiamo noi. Termini come “eccessive richieste” sono definizioni che spiegano come si sentono le persone che stanno intorno al bambino, non spiegano il comportamento o i sentimenti del bambino. Sia i suoi che i nostri bisogni meritano ascolto e rispetto.


Dire di no

Guida gentile, si è detto, non significa dire sempre di sì. La gentilezza è su un asse diverso da quello del potere, del controllo, del giudizio. Si colloca sullo stesso piano dell’empatia, della comprensione, del rispetto. E si può rispettare e comprendere l’altro anche quando si è in disaccordo; anche quando ci si oppone e si pone un limite, un diniego, un obbligo. Questo nella vita quotidiana con un bambino piccolo succede molte volte, per ragioni diverse: per motivi di sicurezza, di convenienza, di etica, o anche per rispondere ai bisogni del resto della famiglia. Si tratta di un fatto naturale e connaturato nella vita sociale, che è fatta anche di compromessi e a volte di rinunce momentanee di un membro nei confronti di un altro. 


Mentre i bisogni del neonato sono chiari e urgenti, e generalmente indifferibili, con il bambino più grandicello, le cui richieste sono più articolate, è possibile contrattare, discutere, dilazionare e anche dire di no. Questo non significa che non si tengano in considerazione i sentimenti e i bisogni del bambino; certamente si cerca sempre di trovare dei che vadano incontro ai bisogni di tutti, ma in alcuni casi si può porre un limite, seppure con garbo, senza violenza e in modi che siano comprensibili al bambino. Non è il no in sé che può ferire o mortificare, ma il modo in cui viene espresso.


Un no comprensibile

Con un bambino di pochi anni le parole non sono molto efficaci, specie se la frase è negativa. Non si fermerà davanti a un no, anche perché per i bambini i no sono . Se si dice a un bambino di un anno e mezzo “Non salire sul tavolo”, il suo pensiero concreto formula immediatamente l’immagine di se stesso che sale sul tavolo. Se si dice a una bimba di due anni “Non strappare le foglie della pianta”, immaginerà se stessa che strappa le foglie. E fra il pensare e il fare, è un attimo! Meglio trasformare la frase in un’esortazione positiva, e dire: “Gioca sul pavimento”, “Vieni a strappare questo giornale” oppure “Puoi arrampicarti sul divano”.


Attenzione poi alla doppia negazione, difficilissima da comprendere per un bambino. In poche parole, se un bambino ad esempio è distratto, piuttosto che dirgli “Non essere disattento” meglio dire “Guarda qui” o “Ascolta”.

Consideriamo che ogni volta che stiamo dicendo no a qualcosa, stiamo dicendo a qualcos’altro; il messaggio al bambino sarà molto più chiaro se gli parleremo di questo .


Un no concreto

Un altro tipo di no che per la mente infantile è poco comprensibile è quello eccessivamente astratto o generico. Spiegare il perché di un no va bene, ma è più semplice se ci si riferisce al qui ed ora, al singolo episodio e non al concetto generale. Ad esempio, dire “Non puoi avere sempre tutto” è una frase che ha poco significato per un bambino piccolo. A lui non interessa il sempre tutto, interessa questa cosa qui adesso. Quindi è più appropriato spiegare che “Non puoi avere un altro giro di giostra adesso, perché…”


A volte l’adulto pensa che se il bambino capisce la regola, capisca anche il motivo per cui quella regola esiste. Questo non è affatto detto. Perciò il bambino, anche se sa che gli adulti non vogliono che tiri fuori i maglioni di cachemire dal cassetto del negozio di abbigliamento, non sa nulla e nulla può comprendere del concetto di proprietà o di compravendita.


Così, pur avendo capito perfettamente la regola, può decidere di non rispettarla, e oltrepasserà quel limite ancora e ancora, tutte le volte in cui l’impulso esplorativo e il bisogno di attività sarà più forte del desiderio (che pure esiste) di compiacere gli adulti. E non c’entra nulla la sfida al potere, la strategia o il dispetto, pensieri lontanissimi dalla mente di un bambino di pochi mesi o anni: è semplicemente ancora troppo immerso nel qui ed ora per tenere in conto tutte le richieste che gli vengono fatte dal complesso, e a volte contraddittorio, mondo degli adulti.


E quando il bambino sale sul tavolo lo stesso, strappa ugualmente le foglie? Si interviene! L’aspetto cruciale è l’intervento dell’adulto volto a bloccare l’azione. Ripetutamente, perché i bambini hanno i loro tempi per apprendere. Non c’è bisogno di alzare le mani, ma questo non significa che braccia e mani debbano pendere lungo i fianchi o che si possa restare sprofondati in poltrona. Tanti genitori si lamentano del comportamento dei loro figli: “Eppure gliel’ho spiegato e lui lo sa bene che non deve farlo”. Ma si sono mai mossi dalla sedia, ogni volta, per bloccare l’azione indesiderata?


I no efficaci richiedono un’azione, cioè fisicamente avvicinarsi al bambino e trattenergli la manina che sta per colpire o allontanarlo (azioni da riservare veramente al minimo indispensabile, perché susciteranno giustamente le sue ire, quindi meglio prevenire mettendo gli oggetti proibiti fuori portata e limitare i no alle cose veramente importanti). Accompagnare l’azione con un commento va bene: “Tirare calci fa male”. Ma le parole da sole, per un bambino ai primi passi, non sono sufficienti.


Un no gentile

Nessuno di noi ha piacere nel ricevere un no. Emotivamente parlando, il no può essere un muro contro il quale va a cozzare il nostro entusiasmo, la barriera che si frappone fra noi e i nostri progetti e desideri. Può essere anche una lama che appare all’improvviso e ferisce inaspettatamente, una porta che si chiude sul nostro bisogno di comprensione e di accettazione. Nel bambino ai primi passi, in cui lo slancio vitale e il desiderio di attività ed esplorazione è fortissimo, ogni no scatena momenti di grandissima frustrazione e collera, anche perché, per i motivi detti sopra, spesso non ne capisce la ragione. Rimane il fatto di vedere i suoi amatissimi genitori corrucciarsi, bloccarlo, mostrarsi contrariati… invece di sorridere con gli occhi che scintillano dall’ammirazione, mentre trionfante porge loro un pezzetto di banconota, oppure li saluta dalla sommità dello scaffale più alto. Alla frustrazione si aggiunge lo sgomento per la reazione inaspettata dei genitori e la sensazione che a volte gli siano ostili in modo imprevedibile.


Ecco perché una componente importante nell’arte di dire no è la modalità e la sfumatura emotiva con la quale viene detto. Si può dire no con calma e gentilezza, evitando i toni secchi e gli sguardi corrucciati. Un’espressione seria è sufficiente!


Quindi, quando l’adulto dice no a un bambino la guida gentile si distingue dall’autoritarismo per il fatto che l’adulto non è irritato, non esprime un giudizio morale, non pretende che il bambino accetti di buon grado il no. L’adulto empatico sa accettare la contrarietà di suo figlio, abbracciarlo e mostrargli che capisce i suoi sentimenti ed è dispiaciuto per lui. Anche se comunque si mantiene fermo sulle sue decisioni.


Un no nonviolento

Una bambina chiede di portare con sé il suo ombrello in un giorno di sole, ma le viene negato.

Questo no ha diversi livelli di lettura.


In ogni discorso che facciamo c’è un messaggio di contenuto e un messaggio di relazione. Quando dico, ad esempio, “L’ombrello serve per ripararsi dalla pioggia e oggi non piove” sto comunicando, come contenuto, un’informazione sul clima e sull’uso dell’ombrello. Sto anche dicendo che in genere quando c’è il sole l’ombrello non si porta appresso perché non serve.


Ma sul piano della relazione, sto dicendo altre cose. Sto dicendo che io conosco la vita meglio di te e voglio che tu impari come ci si comporta, quali cose si fanno e quali normalmente non si fanno in una data situazione. Sto anche definendo chi di noi due decide cosa ci si porta appresso quando si esce di casa. Sto comunicando quanto sono disponibile ad ascoltare i tuoi bisogni e a trovare soluzioni che vadano bene per tutti, e quali sono le mie aspettative nei tuoi confronti. Tutto questo è il messaggio di relazione.


Diversi modi di considerare l’educazione dei bambini portano ad attribuire un valore diverso al messaggio di relazione. Qual è lo scopo, sul piano della relazione, quando si dice di no a un bambino? Secondo alcuni, è molto importante dire no anche quando non sarebbe così fondamentale, perché non si vuole rinunciare a un ben preciso messaggio di relazione, che definisce chi decide e chi obbedisce. Per queste persone, educare significa ottenere dal bambino l’accettazione delle gerarchie, l’obbedienza senza discussione; il rapporto con un figlio è visto come una lotta per il potere, in cui qualcuno vince e l’altro necessariamente perde, ed è fondamentale che sia l’adulto a vincere, per poter avere il controllo sulla relazione.


Questa visione nasce da una difficoltà o limite dell’adulto, che non conosce gli strumenti per poter stabilire una modalità di interazione rispettosa dei bisogni propri e del bambino insieme; non conosce la possibilità di soluzioni in cui si possa tutti vincere; non conosce il potere della trasmissione dei valori attraverso l’empatia e la naturale capacità di imitazione dei bambini.


Rinunciare ad arroccarsi su posizioni di potere permette all’adulto di sollevarsi dall’obbligo di fare di ogni decisione una prova di forza, e rende liberi di scegliere se dire sì o dire no soltanto in base ai reciproci bisogni e alla situazione, senza altre costrizioni.

Significa rispettare il bambino, sia quando gli si dice di sì, sia quando gli si dice di no.


Se una bambina chiede di portarsi dietro l’ombrello in un giorno di sole, la voce giudicante e controllante che molti genitori hanno introiettato griderà al capriccio e bisbiglierà di “non darla vinta”. Ma perché la bambola sì e l’ombrellino no? Cosa importa, in questo caso, chi ha torto o chi ragione, e c’è davvero un torto e una ragione?


Quando si concede a una figlia di portare l’ombrello in un giorno di sole, si sta scegliendo un diverso messaggio di relazione. Non ha importanza chi decide cosa, non c’è un tabellone su cui segnare punti di vincitori e perdenti. Dire di no non rende l’adulto più forte, e dire di sì non lo rende più debole. Si sceglie piuttosto di coltivare una relazione costruita sull’ascolto e il rispetto. Il genitore mostra che si può ascoltare le ragioni di tutti, e sforzarsi di trovare sempre la miglior soluzione possibile, quella basata sulla domanda interiore del “Perché no?”, e non quella, focalizzata sul potere, del “Perché sì?”.


Dal fare all’essere

I metodi per forgiare i comportamenti dei bambini possono essere più o meno efficaci; ma non è questo il punto. È proprio quando il metodo “funziona” che si verifica la situazione più triste. Perché il “successo” distoglie l’attenzione da ciò che veramente conta: i sentimenti, gli affetti, i bisogni, gli slanci vitali, tutto ciò che ci rende connessi, adulti e bambini, al nucleo più autentico e vitale di noi stessi. Il focus viene dirottato sul comportamento del bambino e dei genitori: quello che fa lui, quello che fanno loro… il come senza mai fermarsi a riflettere sul perché; il fare senza preoccuparsi dell’essere.


Ci sono due domande importanti che si possono fare rispetto all’educazione.

La prima domanda è: come vuoi che tuo figlio si comporti? In base a questa domanda, certi metodi basati sui premi e le punizioni possono essere una strategia efficace.


La seconda domanda però è: perché vuoi che si comporti in un certo modo? Da quale motivo vuoi che tuo figlio sia mosso? Ti basta che faccia una certa cosa, o vuoi che la faccia per determinate ragioni? La paura della punizione e del biasimo, o il desiderio di essere premiato e lodato, sono buoni motivi? Se non t’importa il motivo per cui tuo figlio agisce come tu vuoi, va bene il ricatto, la lusinga, il premio o la minaccia. Ma se importa anche la sua motivazione, allora non c’è che il dialogo, il rispetto, l’empatia, e anche la flessibilità di capire, attraverso l’ascolto, che ci possono essere soluzioni e strategie di comportamento che forse possono soddisfare i bisogni di tutti.


Spostare l’attenzione dal fare all’essere significa smettere di giudicare il bambino in base ai suoi comportamenti, e iniziare a osservarlo e ascoltarlo per capire cosa lo spinge, che cosa prova.


Se il perché dei comportamenti viene attribuito all’essere intrinsecamente buoni o cattivi, come può il bambino scegliere qualcosa di diverso dal copione che gli è stato assegnato? Come può imparare che cosa significa comportarsi con rispetto per gli altri, se poi i giudizi che si attribuiscono ai suoi comportamenti lo portano fuori strada, lo allontanano dalla comprensione?


Per poter praticare una guida gentile occorre per prima cosa uscire dall’aula di tribunale e smettere di utilizzare, nella nostra mente e poi quando ci rivolgiamo ai nostri bambini, un linguaggio giudicante: non aiuta i nostri figli a diventare migliori e andare incontro alle aspettative che nutriamo su di loro. Non li aiuta, soprattutto, a capire cosa vogliamo da loro, anzi rischia di spingerli in una direzione opposta a quella voluta. Per uscire dalla trappola dei giudizi, bisogna imparare a mettersi per prima cosa in ascolto.


I bambini non sono cuccioli da ammaestrare. Uscire dalla logica del “metodo”, del fare, che ha come fine il modellamento del comportamento del bambino, e imparare a ragionare in termini di sentimenti e bisogni, dell’essere, ci permette di trovare la strada verso soluzioni creative che vadano incontro ai bisogni di tutti, o almeno riconoscano e rispettino i sentimenti, alimentando gentilezza e comprensione.


Empatia o lassismo?

Chi esalta una pedagogia basata sull’imposizione e sul divieto, si immagina come unica alternativa la completa accondiscendenza, dire sempre di sì. Uno stile genitoriale empatico e attento ai bisogni del bambino viene visto come puro e semplice lassismo, lasciar fare, non dare limiti, non avere polso. Non mancano gli strali contro la “nuova moda” della disciplina dolce, la causa di ogni cattivo comportamento dei giovani di oggi.


Sentir dire che le cure prossimali siano un approccio nuovo fa davvero sorridere. È l’approccio più antico invece. Quello che hanno usato i nostri progenitori e che per secoli e millenni, dagli albori dell’umanità, è stato l’unico approccio possibile. Anche oggi abbiamo innumerevoli esempi di culture che ancora trattano i bambini con estremo rispetto: Balinese, mongola, danese, polinesiana, vari popoli africani, e molti altri. Queste società vivono e prosperano senza bisogno di “mettere in riga” i loro figli.


Nella fantasia delle ideologie autoritarie, i bambini, attraverso un approccio distaccato e controllante, dopo un’iniziale resistenza si trasformeranno in esseri felici, appagati e incredibilmente ragionevoli, restituendoci con il sorriso sulle labbra tutto l’amore che abbiamo dato, giorno dopo giorno. Questo però non succede. Essere rispettosi del prossimo, entrare in empatia, essere comprensivi verso le necessità altrui, saper esercitare la gentilezza e l’amore, possono essere qualità che si imparano con i ricatti, la violenza e le imposizioni? Sarebbe bello sapere come può avvenire questo miracolo.


È la prospettiva che deve cambiare. Il focus non deve più essere sul comportamento, ma sui bisogni e i sentimenti. Il bambino è una piccola persona con i suoi bisogni ed emozioni, distinto da noi. E anche noi siamo persone con bisogni e sentimenti. Occorre imparare l’arte di trovare soluzioni che rispettino ciascuno, con la consapevolezza che ci sono volte in cui i genitori, che sono la parte adulta della relazione, si faranno da parte e daranno priorità ai bisogni dei loro figli, ed altre in cui prenderanno decisioni che al bambino non piacciono, e il bambino ne sarà contrariato. Quindi niente di più lontano dal lassismo!


Non sempre è facile vedere l’insieme, quando siamo nel pieno della turbolenza di azioni ed emozioni suscitate da un bambino ai primi passi: è un percorso difficile per quelli di noi che non hanno mai sperimentato questo approccio da bambini. Ci si avventura in un territorio inesplorato. Per capire se stiamo andando nella giusta direzione, dobbiamo prima spegnere tutti i giudici interiori che abbiamo in testa e che continuano a dirci come il bambino dovrebbe fare e dovrebbe sentirsi, e come noi dovremmo fare e dovremmo sentirci. E focalizzarci sul perché il bambino in quel momento sta agendo in un dato modo, che bisogno ci comunica. Come si sente. E come ci sentiamo noi.


Si tratta di muoversi in un equilibrio sottile e dinamico fra l’adattarsi e il chiedere adattamento al bambino, e richiede una capacità di comprendere i suoi limiti dettati dall’età, dalla maturazione cognitiva ed emotiva e dal contesto di una data situazione. Questa abilità si accresce con il tempo e con la pratica dell’empatia e dell’ascolto attivo. È un percorso tutt’altro che di disimpegno, richiede costante presenza, attenzione e consapevolezza; ma è un cammino che con il tempo assume una forma e un significato e che restituisce molto più di quello che si è dato.


La differenza fra lassismo ed empatia è quella di appartenere a due piani diversi. Il lassismo è sullo stesso piano dell’autoritarismo, e anche se in modo opposto è sempre una risposta ai comportamenti del bambino. L’empatia invece si muove sul piano delle emozioni e dei bisogni, cercando una connessione col bambino, a prescindere dagli aspetti normativi della sua educazione.


Per il suo bene

Quante volte un metodo suggerisce ai genitori comportamenti e decisioni che vanno contro ciò che farebbero secondo il loro istinto, la loro visione morale o persino il semplice buon senso? Nel momento in cui la relazione dei genitori con i figli abbandona la strada dell’empatia, della connessione e della considerazione reciproca per affidarsi a un metodo, a un sistema di regole predefinito, prima o poi avvengono dolorose lacerazioni e forzature. Ecco allora ideologie senza cuore intervenire in soccorso dei genitori disorientati, angosciati e in colpa, spiegando che tutto questo lo si fa “per il bene” del bambino, in vista di un suo presente o futuro benessere. Premessa per credere a queste argomentazioni è un certo scollamento dalle proprie emozioni e un’inibizione a percepire correttamente quelle del bambino. Per accettare soluzioni che non tengono in considerazione i suoi bisogni e sentimenti, occorre rinunciare ad avere fiducia nelle sue capacità di autoregolarsi, di apprendere, di saper comunicare in modo competente, di tendere verso il bene. Convincersi che il bambino non sa veramente di cosa ha bisogno e cosa è bene per lui.

Argomentazioni di questo tipo si prestano a qualsiasi ideologia e sono di per sé una premessa pericolosa, che in certe situazioni può portare a giustificare di tutto. La cosiddetta pedagogia nera di cui parla Alice Miller, analizzando in modo particolare la storia personale dei dittatori e le ideologie di periodi storici come quello che ha portato ad allevare la gioventù hitleriana7, si fonda proprio sul concetto che il fine giustifica il mezzo e che tutto ciò che si fa al bambino, si fa per il suo bene, in base a una maggiore saggezza dell’adulto, sul quale ricade la responsabilità di modellare lo sviluppo affettivo e comportamentale dei propri figli, così come si farebbe con una pianta, effettuando sapienti potature.


C’è una rimozione collettiva del nesso fra educazione rigida, punitiva, repressiva e disturbi della personalità, anaffettività, violenza. La pedagogia nera alimenta il mito secondo cui il carattere di una persona si forgia con i limiti, le punizioni e il rigore; e se il risultato non è quello sperato, si rinforza l’idea dicendo che forse non si è stati abbastanza duri, determinati o coerenti. Difficile scalzare questo mito, se non con modelli diversi che possano concretamente dimostrare nei fatti che per educare un bambino non è necessario punire o reprimere, e che al contrario un accudimento amorevole genera persone amorevoli.


È importante ribadire che non si stanno giudicando moralmente i genitori che applicano un approccio rigido e punitivo. Hanno subìto stravolgimenti profondi dei loro istinti amorevoli, di cui tutti in partenza siamo dotati. Non sono crudeli le persone che applicano i metodi coercitivi o di condizionamento, è il metodo che è crudele. Lo è sia con i bambini sia con i genitori che devono applicarlo, tanto che spesso nei manuali che suggeriscono queste tecniche c’è l’ammonimento di non cedere alla commozione o alla pietà e di “tenere duro”. Questi ammonimenti vengono fatti proprio perché si sa che è emotivamente difficile applicarli, talmente vanno contro l’istinto materno e paterno. Chi li applica spesso è spinto dalla disperazione, in quanto non ha trovato e non conosce altri modi per gestire comportamenti indesiderati del bambino, o perché l’isolamento in cui deve crescerlo ha esaurito le sue risorse e fatto trascurare troppo a lungo i propri bisogni. Queste persone si sono persuase che quel dato metodo sarebbe benefico per il loro figlio; e non sono consapevoli della pericolosità dell’idea di esercitare imposizioni “per il bene” del prossimo.


Botte e punizioni

Molti invocano botte o punizioni come soluzione per “raddrizzare” comportamenti inaccettabili, e sostengono che l’inciviltà e l’arroganza di oggi sia il risultato di un’educazione troppo morbida ed accondiscendente. Le persone che sostengono questa teoria sono di solito in buona fede e i genitori che usano le punizioni corporali spesso affermano di farlo a malincuore ma per il bene dei loro figli. Sono idee pericolose e distruttive ma che trovano consenso sociale, il che offre un alibi e una rassicurazione a chi le mette in pratica.


L’uso della violenza a scopo educativo è un aspetto estremo del paradigma “Lo faccio per il tuo bene”, concetto mutuato dalla pedagogia nera di cui la nostra cultura è permeata da secoli. Con il tempo, per fortuna, sta lentamente cambiando la percezione comune rispetto alle punizioni fisiche. Nel 1800 esistevano veri e propri strumenti di tortura e i frustini per bambini si vendevano tranquillamente; nel ventesimo secolo, anche se la legge cominciava a punire il cosiddetto abuso dei mezzi di correzione, era normale ricevere bacchettate sulle mani a scuola e cinghiate a casa; oggigiorno però diversi Paesi hanno incluso le punizioni corporali nel novero dei reati. Ma ancora c’è chi non riesce a fare il collegamento fra violenza ricevuta e violenza esercitata e ritiene che dal male possa venire del bene, che dal dolore, dalla paura e dall’umiliazione possa venire la serenità, la sicurezza e la rettitudine.

Ma allora come intervenire con fermezza se un bambino fa qualcosa di pericoloso o inaccettabile? L’intervento nelle situazioni che non vanno è sempre lecito e legittimo; ma punire è qualcosa di diverso dall’intervenire.


La punizione di per sé non aiuta mai a comprendere e condividere le ragioni per cui viene data. È semplicemente un’intimidazione, cioè un’esperienza negativa che si spera faccia da deterrente nel futuro, per evitare che il comportamento indesiderato si ripeta.


Certo, se il bambino è sufficientemente intimorito, e convinto dell’onnipotenza dell’adulto, può evitare quel comportamento, per paura delle conseguenze. Ma potrebbe anche sviluppare rabbia, risentimento, disperazione per sentirsi incompreso e rifiutato; e quindi incrementare le reazioni emotive negative e i comportamenti di sfida. Oppure potrebbe “farsi furbo” e trovare modi diversi per soddisfare il suo desiderio, senza farsi scoprire.


In alcuni casi il bambino diventa “obbediente” ma poi, nell’adolescenza, riemerge tutta la rabbia, la voglia di rivalsa e il desiderio di libertà e indipendenza, con azioni potenzialmente distruttive, perché effettuate da un giovane adulto e non da un bimbetto di due o tre anni.

Ecco cosa fa la punizione.


La violenza è sempre violenza

Per alcuni è solo questione di non esagerare. Si fanno dei distinguo fra lo schiaffetto e la sberla, fra lo sculaccione e le percosse, fra le botte sistematiche e quelle occasionali, date solo “quando ci vuole”. “Uno schiaffo non ha mai ucciso nessuno”. A parte che nemmeno questo è vero, specie con bambini molto piccoli, ma anche se il bambino non muore o non subisce lesioni, è questo che vogliamo tirare su? Un sopravvissuto?


Si dice che per uno schiaffetto o una sculacciata, magari sul pannolino, parlare di violenza sia esagerato. Si dice che basta il gesto, evitando di far veramente male. Ma lo schiaffo o lo sculaccione funzionano proprio perché causano sofferenza. Il loro scopo è appunto ferire, umiliare, spaventare, far male, anche fosse solo psicologicamente.

Se fosse ammissibile picchiare piano, quanto piano andrebbe bene? Anche il solo gesto di dare una sberla, solo la minaccia, è già un tradimento, una violenza che colpisce al cuore il bambino. Le botte (anche lo sculaccione o lo schiaffetto) umiliano, mortificano, feriscono, fanno vergognare. Questi sentimenti aiutano a capire, a imparare?


Scrive Jesper Juul:


L’integrità e l’autostima sono legate. Più i genitori si occupano dell’integrità di un bambino, maggiore è la possibilità che in lui si sviluppi una sana autostima. Come abbiamo visto, la violenza è un’offesa all’integrità del bambino, a danno della sua autostima. Il fatto che le leggi non permettano violenze fisiche gravi sui bambini non significa che altre forme di violenza siano innocue: semplicemente è stato stabilito che certe forme di violenza non vengono classificate come criminali. (…) Qualunque sia l’atteggiamento dei genitori, la violenza sui figli ha esattamente le stesse conseguenze di quella esercitata sugli adulti: a breve termine crea ansietà, sfiducia e senso di colpa; poi calo di autostima, rabbia e violenza a sua volta8.

Poiché la sculacciata è un atto intimidatorio, non può che fondarsi sulla violenza. È una minaccia attuata per poter in futuro controllare il comportamento altrui attraverso la paura.


Quindi smettiamola di dire che ci sono botte violente e botte innocue. Se fossero innocue, sarebbero inefficaci.


Non si puniscono gli adulti: se un partner, un’amica, un genitore fa qualcosa che non è gradito o che si ritiene sbagliato, ci si parla o al limite ci si discute. Perché sculacciamo un bambino e non ci “scappa” invece di schiaffeggiare un adulto che ci ha ugualmente contrariato? In cosa il bambino è diverso dall’adulto, da poter essere fisicamente colpito con leggerezza d’animo e senza che questo venga considerato grave?


Fino a che età le punizioni sarebbero necessarie, appropriate, benefiche? Se si approfondisce il ragionamento, si scopre che non c’è un punto in cui si può tirare una linea e da quel punto in poi smettere di applicare le punizioni. E nemmeno c’è un limite preciso riguardo all’età in cui si può cominciare a punire. Senza dubbio non si picchierebbe un neonato. Ma allora a che età è lecito cominciare con i castighi o le botte? Quale sarebbe questa fantomatica fascia di età in cui invece è giusto punire un essere umano? A che età sarebbe in grado di capire correttamente (cioè secondo ciò che l’adulto desidera) il significato di uno sculaccione? E nel momento in cui fosse capace di comprendere la richiesta dell’adulto che sta dietro uno sculaccione, non sarebbe ancora più capace di capire un insegnamento dato in modo più rispettoso? Il rispetto vale per tutti e per tutte le età allo stesso modo e la violenza, comunque la si giustifichi, a chiunque la si applichi, in qualsiasi modo si cerchi di dosarla, rimane sempre violenza.


“Così finalmente capirà”

A volte le punizioni fisiche sono considerate una necessaria “ultima spiaggia”, dovuta al fatto che ogni precedente approccio ha fallito.

Quando un genitore passa a mezzi coercitivi in genere è perché ha esaurito gli argomenti. Ma questo non significa che non esistano altre strade, che ancora non conosce, per arrivare a una soluzione del conflitto.


Finché l’obiettivo dell’adulto è plasmare il comportamento del bambino secondo i suoi desideri, senza fare un passo indietro per capire cosa sta succedendo e perché, l’approccio è a senso unico e non uscirà dalle dinamiche di potere e di controllo.


A volte nemmeno si è tentato di capire il punto di vista del bambino, in modo da cercare soluzioni diverse. Altre volte le richieste dell’adulto arrivano al bambino in modo confuso, o con parole troppo astratte e generiche. Altre volte ancora, ci si è limitati a fare un’esortazione, senza materialmente bloccare l’azione indesiderata, e quindi il bambino ha interpretato le parole dell’adulto come una richiesta a cui si poteva anche non acconsentire.


C’è poi chi rifiuta la violenza fisica ma è convinto della necessità di somministrare punizioni. Ma i bambini faticano a mettere in collegamento la punizione con ciò che ha fatto arrabbiare i genitori. Spesso la punizione è, appunto, solo punitiva, cioè non ha alcun nesso logico o consequenziale con il comportamento sanzionato. Si nega al bambino qualcosa a cui tiene; lo si segrega in casa o nella sua stanza; lo si obbliga a stare fermo su una sedia; lo si costringe a eseguire un compito sgradevole o gravoso. Tutto questo comunica in modo molto chiaro che i suoi genitori sono scontenti di lui; a volte (e nemmeno sempre) gli fa capire che cosa del suo comportamento li ha tanto contrariati; ma non lo avvicina di un passo dal capire perché il suo comportamento non va bene, né quale sarebbe stato il modo giusto di agire.

Affermare che le botte sono inevitabili perché il bambino altrimenti “non capisce” e continua a mettere in atto il comportamento indesiderato, significa alimentare una grande mistificazione. Gli adulti hanno un enorme potere e se il problema fosse solo il cibo lanciato a terra, le dita nella presa elettrica, i pattini in casa, lo smartphone fuori controllo, allora la soluzione sarebbe semplice: un giornale aperto sotto il seggiolone a raccogliere il cibo lanciato; un copri-presa; far sparire i pattini; non concedere l’uso del cellulare.


No, quello che veramente fa perdere la calma ai genitori sono sostanzialmente due cose: Il timore che il bambino non impari mai a comportarsi bene, e la sensazione di non avere potere su di lui, che manchi di rispetto agli adulti, che non obbedisca.


L’uso della violenza, insomma, è sempre legato a una sensazione di minaccia al proprio potere. È quella la cosa giudicata veramente grave, e non il comportamento in sé: sentirsi defraudati della propria autorità, avere l’impressione di una intenzionale sfida o mancanza di rispetto.

La frustrazione, il senso di aver fallito nel piegare il bambino alla propria volontà fa ricorrere all’ultimo dei rimedi.


Ma non si può giustificare la violenza con la teoria che è l’unico modo per imporre a un bambino dei limiti: i genitori hanno tutto il potere che vogliono per impedire ai figli ciò che ritengono non accettabile, senza bisogno di punire o usare la violenza. Sono più forti, più abili, hanno l’autorità e la forza emotiva per decidere e dare i limiti che ritengono opportuni. Che bisogno c’è di alzare le mani? Basta dire no e agire di conseguenza. Se non si vuole che il proprio figlio mangi i dolci, non si comprano. Se non si vuole che salga sul tavolo, lo si tira giù dal tavolo. Se non si vuole che guardi la Tv, si spegne e si mette via il telecomando. Se non si vuole che alzi le mani, si tiene ferma la mano del bambino: non si alza anche la propria! I limiti li diamo noi genitori e sono in genere facili da dare: una porta chiusa a chiave, un oggetto fuori portata, un intervento concreto (prendere in braccio un bambino e allontanarlo da una situazione non accettabile). Il bambino protesta? Può darsi! Che problema c’è? Si può tenere la posizione, e nello stesso tempo non aggredirlo verbalmente o, peggio, fisicamente. Si può comprendere e accogliere la sua rabbia e nello stesso tempo non far esplodere la propria.

Quello che davvero impedisce ai genitori di esplorare altre soluzioni, più gentili, rispettose, più aperte all’ascolto reciproco e alla ricerca di una soluzione in cui tutti vincono, è proprio la riluttanza ad accettare l’idea che possa non esserci un vincitore e un vinto. Tanti genitori si bloccano in prove di forza con i loro figli perché pensano che mantenere il punto sia un passaggio fondamentale dell’educazione. E chi cerca una prova di forza, otterrà una prova di forza.


Scrive Meschiari:


Quando un bambino esprime il suo istintivo dissenso a un sistema pedagogico chiuso attraverso mille tattiche di “sopravvivenza” (disattenzione, dimenticanza, resilienza, chiusura, assenza, sordità, mutismo, ribellione, rabbia ecc.) non è semplicemente problematico, è selvatico, cioè sta recuperando modalità istintive di autoconservazione. E contemporaneamente sta criticando un sistema e le persone che lo incarnano, un mondo in cui il sapere diventa un sacco riempito di cianfrusaglie e non un paesaggio da esplorare attivamente nella sua vasta complessità9.


Finché l’educazione verrà intesa come un “addomesticamento”, non ci sarà spazio per un ascolto autentico del bambino e neppure degli adulti; e questo precluderà la scoperta di modi diversi di educare, perché la strada a un’educazione affettiva, realmente volta alla convivenza e alla cooperazione, passa proprio attraverso la connessione empatica di sentimenti e bisogni.


I bei tempi andati

“Ma li vedete i giovani di oggi?” dice chi sostiene che una bella sculacciata ogni tanto ci vuole. Ebbene, sì, li vediamo. Almeno alcuni di loro. E vediamo anche i loro genitori, quelli cresciuti a schiaffoni e urla dalla generazione precedente. Benché si neghi, lo stile genitoriale autoritario e la violenza verbale o fisica come mezzo educativo sono ancora fin troppo diffuse. Se i genitori di oggi sono così criticabili, forse occorre mettere in discussione il modo in cui sono stati a loro volta educati. Sono adulti con poche risorse per arrivare al cuore dei ragazzi e trasmettere valori positivi. Hanno conosciuto il disinteresse o la violenza delle sberle. E altrettanto i loro figli, quelli che vanno allo sbando perché i genitori erano assenti. Non erano lì. E non sono lì nemmeno quando danno la “bella” sculacciata. Crescono individui mortificati, risentiti, con una bassa autostima, emotivamente soli. Che non sanno cosa significa ascolto, empatia, rispetto.


I tanto lodati “vecchi metodi”, cioè l’educazione autoritaria e coercitiva, sono lo strumento perfetto per crescere dei ribelli, dei sudditi obbedienti o dei buoni soldati. Gente che è abituata a obbedire e che comprende la legge del più forte. Gente che non mette in discussione l’autorità e che è abituata a proiettare l’aggressività al di fuori del proprio gruppo: debole con i forti e forte con i deboli.


Per fortuna ci sono anche adulti cortesi, civili, amorevoli con i loro figli (alcuni di questi sono a loro volta diventati genitori), capaci di ascolto e rispetto vero, impegnati socialmente… Sorprendentemente, in genere sono stati cresciuti senza sculaccioni, senza urla, senza punizioni; ma con genitori che non si sono mai tirati indietro tanto nel dare loro dei limiti, quanto nell’accompagnarli con la loro presenza e incoraggiamento mentre trovavano la loro strada. Non sono stati cresciuti nella bambagia o senza regole. Molte cose che ai loro coetanei erano concesse, a loro non lo erano, e a volte protestavano per questo. Non sempre era rose e fiori fra i ragazzi e i genitori, a volte gli uni o gli altri si arrabbiavano. Ma c’era rispetto e ascolto, e buona volontà di comprendersi anche nei momenti di disaccordo.


E spesso hanno dovuto fronteggiare a scuola il bullismo di ragazzi e ragazze incivili e incapaci di gentilezza e di empatia, ragazzi sfortunati che hanno conosciuto le botte o le urla dei genitori, e altri che hanno ricevuto solo condiscendenza e indifferenza, non vero ascolto.


Quindi attenzione a generalizzare quando si parte da una convinzione e si cercano conferme: ognuno vede ciò che vuole vedere. Chi parla dei bei tempi andati o del degrado dei giovani di oggi non vive a casa di quei ragazzi maleducati che non “portano rispetto” per gli altri. Non sa veramente cosa hanno ricevuto, e cosa non hanno ricevuto.


Nuovi nomi, vecchi metodi

Le punizioni di un tempo talvolta sopravvivono ammantandosi di nuova dignità, semplicemente cambiando nome.


Mandare in castigo era uso comune quando ero bambina, dove il castigo poi era l’angolino, con la faccia rivolta verso il muro, oppure dietro la lavagna, a scuola. O anche fuori della porta! Ma eravamo all’inizio degli anni ’60. Poi si è pensato bene di dargli una nuova vernice: ribattezzandolo time-out, che suona così professionale. Appare come qualcosa di nuovo e diverso… ma è sempre il vecchio castigo.


Nelle scuole, la sedia rivolta verso l’angolo è stata anche lei riabilitata come “sedia della riflessione”. Non è più nell’angolo, a volte è dipinta di colori pastello, ma l’intento è sempre lo stesso: quello di mandare un messaggio “forte” di inaccettabilità di un comportamento e l’invito a meditare in silenzio sulle proprie malefatte. Tuttavia, se prima di intervenire con il provvedimento non si fa un passo indietro, chiedendosi perché è avvenuto il comportamento da sanzionare, se non si accompagna il bambino lungo il processo introspettivo, la sedia della riflessione diviene solo un ulteriore atto di incomprensione, di ingiustizia e, quando effettuato in classe, di invito al bullismo.


Vediamo la cosa dal punto di vista del bambino facendo un esempio. Una bambina vuole portare dei piccoli giochi in giardino, la maestra le dice di no perché potrebbero essere ingeriti dai bimbi più piccoli, ma lei li nasconde in tasca e li porta lo stesso. Viene scoperta e invitata a “riflettere” sulla famosa sedia.


In altre parole, viene obbligata a stare seduta in silenzio e guardare gli altri bambini che giocano e la guardano stare seduta. Non può correre a giocare con gli altri e non può parlare, interagire o alzarsi.


Si può chiamarlo quanto si vuole “invito a riflettere”, ma queste sono solo etichette di comodo. Per la bambina è una punizione, che implica un giudizio negativo. La reazione della maestra probabilmente è nata soprattutto dalla frustrazione di aver visto disatteso il suo comando: “Eppure le avevo spiegato!”, e dalla delusione rispetto al comportamento della bambina, implicando un giudizio morale: “Ha cercato di imbrogliarmi”. Ora, non è affatto detto che sia così. La bambina avrà fatto le sue valutazioni, le è stato spiegato che quei giochi potevano essere pericolosi, e quindi ha deciso che poteva portarli lo stesso se stava attenta a non farli prendere ai bambini più piccoli; oppure che poteva giocarci “solo un po’”.


Invece di un tentativo migliore di spiegare la situazione, di uno sforzo per capire perché in quel momento per lei quei giochini erano così importanti, invece di provare a discutere con la bambina cercando di trovare una soluzione che andasse bene per tutti (esempio: “Ora in giardino non possiamo controllare tutti i bimbi se questi giochi vanno in giro, ma più tardi, con calma, potresti mostrarli a tutta la classe e spiegare come si usano?”), la maestra ha deciso che era ora di far capire alla bambina chi comanda.


E così ora la bimba è su una sedia, le è stato ordinato di stare zitta e ferma, i giochi sono stati sequestrati e lei si chiede quando potrà tornare a giocare, se la maestra sarà ancora arrabbiata a lungo con lei, se riavrà i suoi giochi, e se i compagni vorranno giocare con lei dopo o rideranno di lei. Ecco le gran “riflessioni” che farà.


La sedia della riflessione, o sedia camomilla, non è un calmante e non sostituisce una riflessione fatta insieme all’adulto. Diverso è il concetto di allontanare il bambino dalla zona del conflitto, e appartarsi in un luogo tranquillo per riflettere insieme a lui, laddove riflettere deve essere soprattutto ascolto dei sentimenti del bambino e solo in un secondo momento una riflessione fatta insieme su cosa è successo, cosa hanno provato gli altri, cosa si poteva fare per risolvere diversamente la cosa. In questo modo il time-out smette di essere la solita vecchia punizione e diventa, non solo per il bambino ma anche per i genitori o gli insegnanti, un modo per crescere insieme, un’occasione per maturare che invece il rituale della sedia vanifica e banalizza.


Si può educare senza punizioni?

La maggiore resistenza ad accettare un approccio che non ricorra alle punizioni sta nella difficoltà di trovare metodi alternativi che funzionino nell’immediato per limitare nei bambini quei comportamenti che creano un disagio per altre persone. Ci si preoccupa di questo e, forse, del fatto che i bambini possano crescere senza attenzione ai bisogni degli altri o rispetto delle regole, o che possano sfuggire al controllo degli adulti. Sono paure molto comuni, tipiche di una cultura e di un mondo come il nostro, in cui si dà un’enorme importanza ai rapporti di potere fra gli individui.


Chi nella vita ha ricevuto solo premi e punizioni per guidare il suo comportamento, chi, insieme ai limiti, ha ricevuto rabbia e violenza da parte dell’adulto, chi è stato amato solo quando compiaceva l’adulto o è stato trattato con indulgenza accompagnata da indifferenza, ha difficoltà a capire di cosa si tratti quando si parla di dare confini con rispetto e amore, perché le due cose non si sono mai verificate insieme nella sua vita.

Si dice che senza punizioni i ragazzi crescano irresponsabili. Ma che responsabilità imparano ad assumersi ragazzi che sono stati educati a obbedire a una regola imposta dall’alto, sotto la minaccia di botte o punizioni? Comportarsi bene per paura o obbedienza è proprio la resa di ogni responsabilità. Decidono altri, si delega ad altri la definizione di ciò che è giusto o sbagliato. Esattamente la logica del soldato, che non è considerato responsabile nemmeno delle peggiori azioni, se gli sono state ordinate dai suoi superiori.


Si dice anche che senza punizioni i bambini crescano nell’egoismo. Ma quale altruismo può esserci quando la regola viene seguita per evitare conseguenze personali, come punizioni o negazione dell’amore? Due psicologi, studiando gli effetti delle punizioni, sono arrivati alla conclusione che queste ostacolino lo sviluppo del senso morale nel bambino, perché lo orientano a preoccuparsi delle conseguenze delle sue azioni su se stesso, piuttosto che sugli altri10.

Osserva Alfie Kohn:


Più ricorriamo alle punizioni, tra cui i castighi – o ai premi, come le lodi – meno i nostri figli si interrogheranno sulle conseguenze delle loro azioni per gli altri. (…) Quando i difensori della disciplina convenzionale ribadiscono che i ragazzi subiranno le conseguenze del proprio comportamento una volta “nel mondo reale”, la reazione più sensata sarebbe quella di domandare loro quale adulto, nel mondo reale, si asterrebbe da una condotta immorale se non quando risulterebbe lui a pagarne il prezzo (se viene scoperto). La risposta sarebbe: l’adulto che non vorremmo mai diventassero i nostri figli11.


La punizione nell’immediato può essere un deterrente, ma non aiuta il bambino a comprendere il collegamento fra ciò che ha fatto e il disagio che ha creato. Non comunica al bambino le aspettative degli adulti che non sono state soddisfatte dal suo comportamento; non aiuta a ragionare insieme sul problema di conflitto di bisogni e a ricercare una soluzione che soddisfi quelli di tutti. È solo una prova di forza. Le prove di forza insegnano che si è troppo deboli per far valere la propria volontà, ma che è legittimo imporla a chi è più debole di te. La punizione trasforma le relazioni affettive in guerre.


Chiediamoci che effetto provochiamo nei bambini quando, senza approfondire i motivi, cerchiamo di modellarne il comportamento con punizioni o botte. Che esempio diamo? Cosa stiamo loro insegnando se non la legittimità di usare la violenza per ottenere un certo comportamento? Che ascolto stiamo dando ai loro sentimenti? E ai nostri sentimenti che servizio stiamo facendo?


Desideriamo che i nostri figli si comportino in un certo modo. È vero, i metodi punitivi alla fine ottengono il risultato che il bambino assuma il comportamento desiderato (almeno la maggior parte delle volte). Ma quando i nostri figli si conformano alle nostre aspettative, come vogliamo che si sentano? Vogliamo che si sentano responsabili, interiormente coerenti, oppure mortificati, amareggiati, feriti, vinti? Se lo fanno per paura, vergogna, compiacenza, per essere amati, apprezzati, per non subire violenza, disprezzo o ostilità da coloro che amano più di ogni altro, che morale abbiamo insegnato loro? Che tipo di adulti vogliamo che diventino? Adulti che si comportano in modo “giusto” per se stessi, cioè per timore della punizione, per compiacere chi è più forte, per ottenere l’amore degli altri? Oppure vogliamo crescere persone che si comportano bene per gli altri, perché si rapportano al loro prossimo con compassione, sensibilità e rispetto? Pensiamoci prima di guardare con indulgenza e compiacimento a metodi basati sulla forza.


Limitare con rispetto e gentilezza

Ma qual è l’alternativa? Si tratta di trovare approcci educativi che siano comprensibili per il bambino, e che nel medesimo tempo lo trattino con lo stesso rispetto che si dà a una persona adulta, mandandogli il messaggio: “Capisco i tuoi sentimenti e i tuoi bisogni”.


C’è sempre un motivo per cui i bambini si comportano “male”. Accanto ai giusti limiti che si danno loro, occorre ascoltare i loro sentimenti e, al di là delle loro richieste e azioni, che possono anche non essere accettabili, capire cosa sta succedendo in loro e dare una risposta sul piano emotivo. È questa la cosa difficile: ascoltare, capire i perché, comprendere, che è cosa diversa e separata dal rispondere alla richiesta del bambino o dal limitare o meno un suo comportamento. Difficile, perché noi di rado siamo stati cresciuti nell’ascolto e rispetto e non sappiamo nemmeno da dove cominciare.


E il fatto che si scelga di non usare mai la forza a scopo punitivo, non significa che non si imponga o impedisca mai nulla ai propri figli. Se il proprio figlio vuole camminare sul cornicione lo si impedisce. Se vuole picchiare un altro bambino, o far male a un animale, si interviene a fermarlo. Se occorre tornare a casa perché si è fatto buio e lui vuole continuare a giocare fino a mezzanotte, si porta a casa lo stesso.


In alcuni casi ci si impone, anche se con gentilezza ed empatia. Se necessario si porta via di peso il bambino, lo si allontana dalla situazione.


Marshall Rosenberg parla di questo aspetto come uso protettivo della forza, che va nettamente distinto dall’uso punitivo.

Lo scopo che sta dietro l’uso protettivo della forza è quello di prevenire gli infortuni o le ingiustizie, mai quello di punire o far sì che gli altri soffrano, si pentano e cambino. L’uso punitivo della forza tende a generare ostilità e a rafforzare la resistenza a quello stesso comportamento che stiamo cercando di ottenere. La punizione riduce la disponibilità e l’autostima e distoglie la nostra attenzione dal valore intrinseco di un’azione per spostarla sulle sue conseguenze esterne. Incolpare e punire non contribuiscono a creare le motivazioni che vorremmo ispirare negli altri12.


L’uso protettivo della forza può avvenire senza ricorrere alle tradizionali punizioni. Può sembrare strano o impossibile, ma le punizioni non sono necessarie per educare, e si può crescere bambini gentili, garbati, capaci di vero ascolto e sollecitudine verso il prossimo, senza averli mai puniti. Che non significa non aver mai fatto o detto nulla o non aver dato limiti. Ma gli interventi devono essere volti a proteggere, ad ascoltare, spiegare, agire di conseguenza. Una volta che ci si è chiariti, il bambino si orienterà meglio da solo quando si ripresenterà una situazione simile. Non c’è nulla da capire in più a quel punto, perché già ci si è capiti reciprocamente. Si è raggiunto un risultato; non c’è bisogno anche di punire.


I genitori che non puniscono non abdicano al loro ruolo di guida. Mostrano ai figli una direzione, intervengono, incanalano, contengono, incoraggiano. Soprattutto, permettono ai bambini di fare direttamente pratica dei comportamenti virtuosi, prima di tutto sperimentandoli su se stessi in quanto oggetti di rispetto, ascolto e amore; e vivendo immersi in un clima amorevole e gentile, osservando interazioni civili fra gli adulti, condividendo l’impegno per la ricerca di soluzioni che diano il giusto peso ai bisogni di ciascuno.


La gentilezza è educativa. La comprensione e l’empatia sono educative. L’esempio è educativo. Si può dire di no, fare un’osservazione critica, dare un limite con gentilezza, rispetto, accettando l’eventuale contrarietà e i sentimenti negativi del bambino, pur mantenendo il confine che si è dato. Si può dire di no e continuare ad amare il bambino in modo incondizionato, ma ai no si affiancheranno molti . Questo è educativo.


La rivoluzione della tenerezza
La rivoluzione della tenerezza
Antonella Sagone
Crescere i figli con una guida gentile.Scegliere la via della gentilezza per accompagnare i bambini a diventare individui integri e capaci di empatia, attraverso la presenza affettuosa, l’ascolto dei loro sentimenti e bisogni, il dialogo. La guida gentile non è essere sempre perfetti e nemmeno essere sempre accondiscendenti: è porsi ai nostri bambini con onestà e rispetto della loro integrità, è scegliere di saper essere piuttosto che di saper fare, di avventurarsi nel mare tempestoso delle emozioni e attraversarlo, insieme a loro, con empatia, e usare queste emozioni come guida per comprendere e conciliare i bisogni di tutti.Confermare il bambino nei suoi sentimenti e nelle sue sensazioni, accogliere la sua percezione anche quando non collima con la nostra, aiutandolo ad ampliare la sua visione delle cose e includere quella più vasta della società, è la strada per crescere individui integri, capaci di valutare in modo critico ciò che la vita propone loro, e quindi in grado di esprimere al massimo il loro potenziale.Al di là della falsa scelta fra autoritarismo e lassismo, nell’educazione dei bambini c’è una terza via, quella della gentilezza, che Antonella Sagone presenta nel suo libro La rivoluzione della tenerezza.Attraverso la presenza affettuosa, l’ascolto dei loro sentimenti e bisogni, il dialogo onesto e rispettoso, gli adulti possono, senza rinunciare al loro ruolo di guida, accompagnare i bambini a diventare individui integri e capaci di empatia, con una base affettiva sicura e la capacità di connettersi con gli altri e con l’ambiente intorno a loro, cambiando in meglio il mondo. L’ebook di questo libro è certificato dalla Fondazione Libri Italiani Accessibili (LIA) come accessibili da parte di persone cieche e ipovedenti. Conosci l’autore Antonella Sagone, psicologa in area perinatale e consulente professionale in allattamento materno IBCLC e formatrice; da 40 anni si occupa dei processi fisiologici della maternità e paternità, e delle pratiche di assistenza e sostegno che promuovono la salute e l’empowerment della madre e di tutte le persone coinvolte nell’accudimento e nella crescita del bambino.