CAPITOLO VI

Mistificazioni

“Chissà perché,” si arrovellava Jonathan “la cosa più difficile del mondo è convincere un uccello che egli è libero? E che può dimostrarlo a sé stesso, solo che ci metta un po’ di buona volontà? La libertà basta solo esercitarla.Ma perché? Perché dev’essere tanto difficile?”1


Nella società narcisistica, basata sul controllo e sul distacco, si stabilisce una scala di valori in cui solo ciò che è conforme alle aspettative è un bisogno legittimo, mentre ogni altro bisogno, emozione o richiesta è ritenuta ingiustificata, irrazionale, futile, provocatoria, oppositiva, manipolatoria.


A fronte dei tanti bisogni negati, all’adulto come al bambino, vengono proposti altrettanti surrogati per compensare ciò che nel profondo sentiamo mancare. I metodi di controllo e di condizionamento proposti dalla pedagogia nera si ammantano di alibi e di seducenti definizioni.


Ad esempio, mettiamo che si dicesse ai genitori: “Quando piange disperato, lasciatelo a urlare al soffitto e affogare nelle sue lacrime, finché sarà così sfinito da staccare la spina emotiva e rifugiarsi nel sonno; se lo fate sistematicamente a un certo punto imparerà, quando ha bisogno di voi, a non chiamarvi e a tuffarsi nell’incoscienza del sonno anche prima di piangere”. Come si sentirebbero i genitori? Ce la farebbero a fare una cosa simile? Approverebbero questo progetto educativo? C’è da dubitarne. E allora il consiglio viene confezionato in una bella carta colorata, come se dormire da solo fosse una sua esigenza, e lasciarlo piangere fosse alla fine per il suo bene… anzi, tanto per sicurezza si rincara la dose sottintendendo che se il consiglio non verrà seguito si rovinerà l’evoluzione psicologica del bambino. Nessun genitore seguirebbe certe regole senza cuore se non fosse stato convinto che tutto questo è per il bene del bambino, e che non farlo gli causerebbe a lungo andare danni e sofferenze maggiori della momentanea reazione di protesta e disperazione generata dall’imposizione.


Ed ecco che allora tutto ciò che al bambino viene imposto, spesso contro ogni suo bisogno naturale, viene ridefinito come “bisogno” del bambino stesso. Il bambino necessiterebbe proprio di quelle restrizioni e coercizioni, solo che non lo sa! Nasce così tutta una nuova costellazione di bisogni inventati:


  • il bisogno di indipendenza (per avallare le precoci separazioni e scoraggiare l’intimità e il legame affettuoso fra mamma e bambino);
  • il bisogno di cimentarsi e mettersi alla prova (per legittimare l’intenzionale somministrazione di frustrazioni, il negare conforto e lasciare il bambino da solo con le sue angosce e le sue difficoltà);
  • il bisogno di sfogarsi piangendo (che giustifica il non confortare il bambino quando piange);
  • il bisogno di solitudine “indisturbata” (per promuovere le lunghe notti di sonno solitario);
  • il bisogno di routine (per giustificare l’imposizione al bambino di ritmi funzionali alla vita degli adulti);
  • il bisogno di socializzare (per assolvere i genitori nel distacco dal figlio e nel suo passaggio in altre braccia o nel gruppo dei pari al nido e alla materna);
  • il bisogno di stimolazioni (che sostituisce la semplice presenza degli adulti e l’accoglimento del bambino nel loro mondo con una serie di attività programmate per sollecitare i suoi sensi e la sua mente: attività che spesso comportano l’utilizzo di prodotti e servizi).

La parola bisogno, così usata a sproposito, ridefinisce gli interventi (o assenza di interventi) dei genitori come un gesto altruistico, fatto proprio per andare incontro alle necessità del bambino. Istintivamente i genitori oppongono resistenza a metodi che generano stress e infelicità, come lasciare il bambino da solo a piangere, non rispondere ai suoi richiami, limitare il contatto e la tenerezza. Ma ecco che la cultura del distacco mette in campo una serie di strumenti retorici, banalizzando, allarmando, colpevolizzando, vantando inesistenti conferme scientifiche alla bontà dei suoi consigli, e ribadendo che affinché il bambino si sviluppi correttamente occorre vincere la sua resistenza al cambiamento, proprio come i genitori stessi dovranno vincere il loro istinto di prenderlo in braccio e confortarlo, facendosi forza al pensiero dei benefici futuri.


I “capricci”

“I capricci sono uno dei problemi più fastidiosi per il genitore”, esordisce un articolo in rete che promette metodi infallibili per far smettere il bambino di comportarsi in modo irragionevole.

Ecco che ancora una volta si evidenza l’assoluto non riconoscimento dei vissuti, dei sentimenti e del punto di vista del bambino.

I capricci, in effetti, sono un disagio prima di tutto per il bambino. Il bambino non è felice mentre fa i capricci, non è un produttore di capricci così, tanto per dispetto o per “cattiva abitudine”. Sta segnalando qualcosa che gli sta succedendo.


Facciamo un esempio. Una bambina di un anno che si impunta a tavola e rifiuta di mangiare se non le si permette di tenere in mano un bicchiere di vetro, come chiamarlo se non “capriccio”?


Possiamo forse chiamarlo, semplicemente, “volere quel bicchiere”: desiderio di esplorare liberamente ciò che attrae la sua attenzione. Il bicchiere di vetro è in quel momento più importante di ogni cosa, primo perché aveva cominciato appena a studiarlo quando le è stato sottratto, secondo perché è più pesante di altri oggetti e poi è trasparente e scintillante. Non ultimo è affascinante perché lo usano i grandi, quindi per forza deve essere interessante! Tutti i bimbi sono programmati per modellarsi sugli adulti, per questo li osservano e li imitano. Così imparano a distinguere ciò che è buono, utile e divertente da ciò che è cattivo, inutile e pericoloso.


La definizione di “capriccio”, nella mente degli adulti, in realtà significa: La bambina vuole questo, ma il suo desiderio non è importante /non è legittimo /non è appropriato. Ma chi decide che cosa è legittimo o meno? Chi decide se una bambina che desidera intensamente una cosa sta esprimendo una pretesa immotivata?


Noi possiamo dirle di no, a volte con buona ragione (il bicchiere di vetro cade e si rompe), ma non abbiamo il diritto di scandalizzarci per i suoi desideri e le sue emozioni, che sono quel che sono. È una bambina, e fa il suo mestiere!

Ecco un altro esempio. Una bambina di dieci mesi vuole restare a guardare l’acqua del lavandino scorrere, e al no della mamma scoppia a piangere e cerca il seno; la mamma la consola con una poppata. Secondo una certa scuola di pensiero, questo sarebbe diseducativo, perché impedirebbe alla bambina di elaborare la sua frustrazione e superarla da sola, inoltre la disorienterebbe, proponendo il seno e il latte in compensazione di un altro oggetto desiderato.


C’è un pregiudizio invisibile, che definisce l’allattamento come un “dare qualcosa” e non come un “fare”: la poppata è “dare il latte”, nutrire. In questo senso si pensa: è come se gli dessi una caramella, un cibo, la distraggo e la compenso con una cosa che non è quella che voleva, e così dirotto la sua frustrazione con un diversivo. Ma allattare è accudire, non solo nutrire.

Siamo sicuri inoltre di aver davvero compreso appieno il senso della disperazione di questa bambina, che piange tutte le sue lacrime per una cosa che dal punto di vista adulto è assurda o futile?


Quando la mamma dice no alla sua bambina, c’è un messaggio di contenuto e uno di relazione. La bimba può essere dispiaciuta, per esempio, di non poter lasciare aperto il rubinetto del lavandino, e questo è un fatto; si può affiancarla nella sua frustrazione, comprendere il bisogno di esplorazione che aveva, spiegare e così via.


Ma nel suo piangere può anche stare reagendo al messaggio di relazione, al fatto che la mamma gli ha detto di no: si è rotto un incantesimo e si è persa la connessione, e la bambina vuole essere rassicurata che fra lei e la mamma comunque è tutto a posto. Bastano pochi minuti di coccole (con o senza seno a seconda dei casi) ed ecco che è pronta a ripartire, rasserenata, riconnessa… la frustrazione del non poter giocare con l’acqua è sempre lì, però ora è tollerabile perché si è rassicurata di avere la comprensione e l’accettazione dei suoi sentimenti.


“Capricci” in sostanza è una parola che segnala la svalutazione del disagio di un bambino, indica la non-accettazione, l’incapacità di comprendere, di vedere il mondo con i suoi occhi, il mancato ascolto, la difficoltà ad andare oltre la richiesta esplicita e connettersi ai bisogni e sentimenti, non solo del bambino, ma anche dei genitori stessi. Quando questi tentano di consolare il figlio, vengono a loro volta messi in guardia e criticati per la loro sollecitudine, arrivando ad accusarli di indurre il comportamento “capriccioso”, viziando il bambino e anticipando le sue richieste.


Questa inversione causa-effetto è molto frequente in chi dall’esterno osserva le interazioni fra mamme e bambini piccoli. La comunicazione fra una madre e suo figlio passa soprattutto attraverso un canale non verbale, fatto di segnali sottili (gesti, sguardi, espressioni, toni di voce) a cui persone diverse dalla mamma o, ancor di più, estranee alla cerchia familiare, non sono sensibili. Vedono la risposta della mamma a questi segnali, e la leggono come fosse l’azione che dà inizio alla sequenza comunicativa, come se fosse la mamma a prendere l’iniziativa e ad anticipare le richieste di suo figlio, mentre sta invece reagendo a un segnale del bambino, visibile solo a lei.


La “furbizia” dei bambini: un mito duro a morire

È piuttosto diffusa l’idea che i bambini si comportino intenzionalmente in certi modi, allo scopo di vincere la volontà dell’adulto e ottenere ciò che vogliono. Si dice: “È furbo! Ti manipola!” E alcuni arrivano a imperniare tutta la propria proposta educativa su questo concetto: non fatevi infinocchiare dal bambino, che con moine e bizze vuole tenervi in pugno.


Eh sì, sono proprio “furbi” questi bambini, che piangono fino ad arrochirsi pur di dominare i genitori, che trattengono il fiato fino allo svenimento per attirare l’attenzione, che vomitano nel letto per ricattare mamma e papà e farsi accogliere nel lettone, che cadono e si fanno male apposta pur di farsi coccolare. Secondo Alfie Kohn, questa idea rispecchia


una visione terribilmente cinica dell’infanzia – e più in generale della natura umana – secondo cui, appena ve n’è la possibilità, il bambino approfitta subito di noi (…). L’accettazione senza se e senza ma verrà interpretata come licenza a comportarsi in modo egoistico, arrogante, avido e insensibile. L’amore condizionato scaturisce, almeno in parte, dalla profonda, e cinica, convinzione che accettare i figli per quello che sono di fatto consente loro di essere cattivi, poiché, in sostanza, è quel che sono2.


La realtà è ben diversa. Spesso sono gli adulti a essere “strategici”, cioè a comportarsi e dire cose in modo da manipolare i bambini (o altri adulti). E proiettano questi atteggiamenti sui bambini. Loro vogliono solo essere amati e accettati per ciò che sono (anche gli adulti in realtà, ma hanno cacciato quel bisogno molto più in profondità dentro di sé).


Quando un genitore dice che suo figlio fa dispetti, sta in realtà comunicando il proprio modo di sentire, la percezione del comportamento del proprio figlio come un attacco nei suoi confronti, attribuendo quasi un intento malevolo, cioè coltiva l’idea che il bambino lo faccia proprio apposta per veder stare male il genitore. Ma questo in un bambino è altamente improbabile: gli studi ci mostrano che i bambini nei primi anni di vita non hanno ancora sviluppato una teoria della mente, cioè l’abilità di mettersi nei panni degli altri, capire che gli altri pensano pensieri propri, diversi da quelli presenti nella mente del bambino stesso.


I bambini piccoli sono quindi emotivamente competenti (capaci di percepire con chiarezza le proprie emozioni e di reagire in modo coerente alle emozioni degli altri), ma non hanno l’abilità di fingere o di comportarsi in modo calcolato, allo scopo consapevole di ottenere un risultato negli altri.


Perché voler attribuire chissà quali scopi diabolici ai comportamenti infantili che ci sono sgraditi? La spiegazione più semplice, invece, tende a essere quella giusta: se urla disperato, forse è perché è disperato! Perché si vogliono sempre leggere nei comportamenti dei bambini cose che vanno oltre ciò che è evidente? I bambini non hanno secondi fini. Non piangono, o si impuntano, o si infuriano, o saltano e si rotolano per terra, o chiedono il seno, per mettere alla prova i genitori, per fare una prova di forza e dimostrare chi ha il potere, chi comanda, chi è più forte, per il gusto di sfidare o di attirare l’attenzione. I bambini, è vero, fanno cose per attirare l’attenzione, ma perché hanno bisogno che i genitori si volgano a guardarli, ascoltarli e sentirli, e capire che hanno bisogno di qualcosa. In effetti, i bambini piangono perché sono addolorati, urlano perché sono esasperati, colpiscono perché sono furiosi o frustrati, saltano perché hanno bisogno di muoversi e chiedono il seno perché desiderano poppare.


L’idea della furbizia è una proiezione adulta, mina alla base la fiducia che per istinto ogni genitore prova verso suo figlio, e costituisce una forma di negazione e quindi di protezione dagli intensi sentimenti suscitati in noi quando ci confrontiamo con le emozioni dei nostri figli.


Il ruolo della frustrazione

L’esperienza della frustrazione per molte scuole di pensiero è considerata formativa. Ma è davvero così indispensabile per crescere?

Secondo certi “teorici della sofferenza”, la forza e la sicurezza nascerebbero dall’essere riusciti a superare una mancanza o uno stress con le proprie sole risorse; chi cerca aiuto, chi riceve sostegno e amore, secondo questa prospettiva non si è realmente messo alla prova e quindi è debole, è fragile, è vulnerabile perché un giorno potrà trovarsi senza questo aiuto, e allora soffrirà senza aver acquisito la fiducia in sé necessaria per superare i suoi problemi.


Le teorie psicoanalitiche sono state utilizzate da alcuni per giustificare un sistema educativo che osteggia la felicità. Si pensa che crescere sia un processo doloroso di perdita continua e progressiva delle delizie della prima infanzia, a partire dall’utero visto come luogo perfetto di soddisfacimento immediato di tutti i bisogni, e poi dall’età dell’oro dei primi mesi di vita, in cui si è accuditi, nutriti e coccolati dalla mamma. Si teme che questa felicità sia così assoluta da spegnere la capacità di desiderare altro, ed ecco che si teorizza la cacciata dal paradiso come parte necessaria del processo di crescita, visto come strappo doloroso da una condizione beata ma che porta all’ottundimento.


Tale teoria afferma che un individuo a cui non si permetta di sperimentare lo stress e il senso di mancanza non svilupperà la capacità di desiderare e quindi lo slancio ad attivare la propria immaginazione e le proprie risorse per raggiungere gli obiettivi. La frustrazione viene assunta quindi a strumento cruciale per innescare il desiderio, che a sua volta è visto come il primo motore dell’azione vitale, la motivazione a esistere e realizzare se stessi.


Certamente la tensione, la mancanza, gli ostacoli sono stimoli forti che creano energia e spinta all’azione, aguzzano l’ingegno, possono dare direzione alla volontà. Quello che però lascia perplessi è l’idea sottintesa che se si risponde con prontezza ai bisogni e alle emozioni del bambino, questi non proverà frustrazione e quindi non sarà stimolato a mettersi in gioco, vivrà in una specie di Eden senza bisogno di confrontarsi con la realtà.


Si teorizza che un compito dell’adulto sia quello di somministrare intenzionalmente divieti e frustrazioni, per abituare il bambino a fronteggiarle. Questo consiglio può gettare i genitori nell’incertezza. Qual è il livello di frustrazione che un bambino può tollerare e quando invece è il momento di andare incontro al suo bisogno che è diventato urgente?

Il bambino non ha forse già le sue abbondanti frustrazioni? Non riceve già a volte dei no per necessità? Che bisogno c’è di dover pianificare un uso intenzionale della frustrazione come strumento educativo?


Via via che il bimbo cresce ci si accorge che può tollerare un certo margine di disagio, ma non c’è bisogno di intervenire a causarlo apposta, perché la vita in sé è già fonte naturale di momenti di disagio. Più il bambino cresce, infatti, e più le frustrazioni gli si propongono, perché aumenta il suo raggio di azione e la sua comprensione di quello che il mondo gli offre: sa che nella scatola c’è qualcosa di interessante ma non sa aprirla, vuole alzarsi in piedi e correre ma non riesce, vorrebbe premere all’infinito il pulsante di accensione della televisione (perché è uno scienziato e deve ripetere l’esperimento un numero statisticamente adeguato di volte, cioè superiore a quanto un adulto può tollerare!) ma gli viene proibito.


Alcuni bambini hanno una minore capacità di sopportare la frustrazione o il senso di impotenza e di mancanza di controllo. Questo non significa che questa reattività emotiva durerà per sempre. Come adulti possiamo accompagnare i nostri figli sulla strada dell’autocontrollo, stando loro accanto, offrendo loro spunti per superare le difficoltà, descrivendo a parole quello che succede nei momenti di crisi (comprese le loro emozioni), e soprattutto restando calmi, per offrire un esempio vivente di gestione delle situazioni difficili.


Secondo una certa scuola di pensiero, ciò è “viziare”. Ma lo è davvero?

In che modo le emozioni negative aiuterebbero a crescere? Per introiettare le competenze necessarie a elaborare la frustrazione, il bambino piccolo ha bisogno di un adulto che lo contenga emotivamente mentre prova disagio o stress, dolore o rabbia. Non possiamo tenerlo in un mondo ovattato, ma nemmeno bisogna gettarlo nudo in un roveto.


Non sono la frustrazione o le avversità a rendere forte e far maturare il bambino, quello che fa la differenza è il sostegno (comprensione, presenza, affiancamento, fiducia) che il bambino riceve quando affronta una situazione frustrante. L’elemento chiave è l’amore, non la sofferenza. Guida gentile non significa non dire mai no o non dare mai limiti. Significa farlo con rispetto e sensibilità per i sentimenti e i bisogni di tutti, compresi quelli dei bambini, che non sono certo diversi dagli adulti sotto questo aspetto.


La nostra cultura ci ha instillato l’idea che per andare avanti bisogna penare, che la vita è fatta di conquiste sofferte, che la rinuncia a qualcosa è il presupposto necessario per avere qualcos’altro. Tutto falso! La Natura procede in modo inverso, prima si fanno nuove conquiste, e poi si abbandona ciò che, del passato, non serve più. Non c’è bisogno di tagli dolorosi, di privazioni laceranti, di essere gettati in acqua in modo da imparare a nuotare per non annegare. La vita va felicemente avanti, gli esseri umani si sviluppano spontaneamente, la spinta ad evolversi è intrinseca e non ha bisogno di strappi o di coercizioni, ma ogni individuo cresce e sboccia felicemente, se solo non si interferisce.


Il vizio della tenerezza

Uno degli spauracchi più spesso agitati davanti ai genitori, per dissuaderli dall’essere troppo solleciti con i loro figli, è quello dei vizi. Si sostiene che le cure affettuose devono essere dosate e limitate, altrimenti il bambino ne diverrà dipendente e prenderà una serie di cattive abitudini, pretendendo per sempre di essere allattato, coccolato, preso in braccio, tenuto vicino la notte. Si pensa che il bambino non avrà mai la forza di staccarsi da queste piacevoli esperienze, e che spetti quindi ai genitori evitare che ne diventi dipendente.

Un punto di vista alquanto singolare, dato che le vere dipendenze sono abitudini tossiche, e di amore non è mai morto nessuno… per non parlare del fatto che con questi “vizi” il bambino ci nasce!


Alessandra Bortolotti, psicologa perinatale, parlando di esogestazione ricorda che il bambino è naturalmente dipendente:


La crescita fisiologica del bimbo avviene all’interno di una relazione di dipendenza con le figure di attaccamento significative che riflette le competenze reciproche (…). Ogni neonato che viene al mondo chiede soltanto amore e risposte ai propri bisogni che comunica come può. Niente di più. A qualsiasi età, i bisogni dei bambini (“capricci”, direbbe qualcuno) non vanno mai ignorati ma interpretati, perché prima della rabbia espressa c’è sempre un sentimento non ascoltato o non riconosciuto. Più di tutti, la madre è in grado di sintonizzarsi con lo stato emotivo del neonato e del bimbo piccolo, di riscoprirlo nel proprio intimo, costruendovi un rapporto empatico e affettivo. (…) La madre agisce da regolatore emotivo delle emozioni di suo figlio attraverso la relazione con lui nell’intero corso dei suoi primi due anni di vita. Questa regolazione affettiva permette al bimbo di affrontare gli squilibri emozionali attraverso il filtro del contenimento materno3.

È questa la preziosa funzione materna che alcuni critici definiscono viziare, confondendo la tenerezza con l’indulgere in cattive abitudini.

Di certo il termine disciplina dolce, che è un po’ un ossimoro, una contraddizione in termini, ha contribuito a mantenere vivo questo fraintendimento. Per questo in questo libro ho scelto di adottare un termine diverso, guida gentile. Questo approccio non comporta di dire sempre di sì. La guida gentile non è essere sempre perfetti e nemmeno essere sempre sorridenti… questa sarebbe incongruenza emotiva, perché non ci sono solo bei sentimenti in una relazione, anche fra madre e figlio, e i sentimenti difficili vanno accolti sia per i figli che per se stessi… non si nasconde nulla, non ci si imbelletta, ci si pone con onestà e rispetto reciproco. La presunta contrapposizione fra reprimere e lasciar fare è frutto di un equivoco. Il vero opposto della repressione è la maieutica, cioè l’arte del far nascere ed esprimere ciò che nell’altro è ancora increato, allo stato potenziale. Proprio il contrario del lasciar fare, del non intervenire.


Sia la condiscendenza sia la repressione non insegnano nulla e non danno empatia verso i sentimenti del bambino, perché in entrambi i casi il genitore non si è sintonizzato ad ascoltare i bisogni profondi che sono dietro quei sentimenti. Si può dire di no a una richiesta (non tanto per principio o per scopi educativi, scarsamente comprensibili per un bambino piccolo, ma per motivi reali e ragionevoli); ma il sentimento che nasce poi per reazione a quel no va ascoltato e accettato, e va anche ascoltato il bisogno che era dietro alla richiesta, e al bisogno bisogna comunque in altro modo rispondere.


Eppure si continua a definire vizio la naturale ricerca della vicinanza che ogni bambino esprime verso la mamma e il papà, e rispondere al bisogno di tenerezza come un errore educativo, come se il contatto, le coccole, l’espressione dell’amore incondizionato potessero causare chissà che danno. Ancora molti confondono l’approccio empatico con il lassismo, come se davvero offrendo comprensione si dicesse sempre di sì a ogni richiesta del bambino. Ma si può essere genitori amorevoli anche quando si decidono cose che non sono gradite ai propri figli. Possiamo imporre ai nostri figli cose che non piacciono loro, sempre tenendo però conto della loro capacità, che cambia con l’età, di tollerare la frustrazione e di comprendere le situazioni.


Se vogliamo realizzare l’empatia e non il lassismo, il nostro obiettivo non è farci piacere dai nostri bambini, ma essere onesti con loro, recepire i loro sentimenti e accettarli, parlare con loro, ascoltarli davvero. Tutto sta nell’atteggiamento interiore dell’adulto e nelle sue aspettative, nella sua capacità di accogliere anche le emozioni negative del bambino e di comprendere il suo punto di vista, a prescindere dalla decisione che alla fine verrà presa. Non significa accondiscendere a ogni richiesta del bambino, ma ragionare insieme, risalendo alle motivazioni profonde di quelle richieste. Non si tratta di porre dei limiti per principio, a scopo educativo, ma sapere che nel bilanciare i bisogni del bambino e dell’adulto a volte la decisione pende dalla parte del bambino, altre volte da quella del genitore: anche questo fa parte dell’educazione emotiva e della guida gentile.


Distinguere fra bisogni e richieste esplicite

Talvolta si confonde la richiesta esplicita con il bisogno che c’è dietro. Molte volte, il desiderio espresso non coincide con il bisogno.

Io non ho bisogno di denaro; però forse ho bisogno di nutrimento, riposo, sicurezza. Il bambino non ha bisogno dell’ovetto con sorpresa, anche se lui può essere convinto che è ciò che lo farà star bene; però forse ha bisogno di nutrimento, riposo, attenzione, gioco.


Nemmeno dormire nel letto con mamma e papà è un bisogno: lo sarà però quello di contatto, sicurezza, tenerezza. Dormire con i genitori è la soluzione più ovvia, ma è solo una possibile (e legittima) strategia fra tante, per soddisfare questi bisogni.


Un bambino che ha un bisogno, quando non può venire subito ascoltato o si trova in un contesto in cui la comunicazione è ostacolata, ad esempio mentre sta al supermercato, potrà “piantare una grana” con una richiesta del tutto incongrua. Quindi la lettura del suo comportamento va fatta in profondità. Il termine capriccio bolla un pianto o richiesta come esagerato, superfluo, non legittimo, solo perché si ferma in superficie.


La mancanza di tempo, l’angoscia generata dal vedere il proprio bambino piangere, la convinzione di dover “correggere” con rapidità i comportamenti indesiderati, l’imbarazzo di fronte agli altri e l’ansia da prestazione che ci fa desiderare di avere bambini “perfetti”, la poca dimestichezza con l’empatia e l’ascolto ci fanno reagire in modi bruschi e frettolosi, che lasciano tutti infelici e insoddisfatti.


Essere empatici si trova un passo prima dell’indagare il perché e il percome di un comportamento. A volte l’ansia di capire e di risolvere, di “aggiustare” una situazione stressante o di conflitto, ci fa mitragliare il bambino di domande. Ma le domande dirette spesso suscitano reazioni difensive e di rado sono efficaci. “Perché hai gettato la tazza per terra?” in genere suscita una reazione difensiva. “Perché hai rotto la tazza?” peggio…


“Che cosa vuoi? Cosa provi? Come ti senti?” Quasi mai queste domande ottengono una risposta comprensibile quando il bambino è agitato.

“Hai gettato la tazza per terra e si è rotta”. Semplice descrizione… guardare il bambino, la sua espressione. La voce deve essere calma, l’espressione seria, tranquilla.


A questo spesso si ha risposta, se non altro emotiva; a volte una spiegazione. Si può a questo punto azzardare a descrivere i motivi, i sentimenti, formulando un’ipotesi in modo interrogativo:

“Volevi capire cosa succedeva alla tazza cadendo?” “Eri arrabbiato?” “Ti senti stanco?”


Se si è capito male, sarà il bambino a correggerci, altrimenti, magari può aggiungere lui qualcosa di più. E così il processo di dialogo a poco a poco prende il via e si approfondisce.

Si può in séguito parlare dei propri sentimenti: “Quella tazza mi piaceva molto. Mi dispiace che ora sia in pezzi. Mi sento triste”.


E alla fine: “Qualcuno potrebbe farsi male mettendo un piede qui sopra, oppure scivolare. Prendi uno straccio, che raccogliamo e puliamo insieme”.

Certo, nel mondo reale non sempre tutto fila via liscio. Questi episodi spesso avvengono quando il bambino e l’adulto sono già stanchi, stressati o contrariati per altri motivi, e le emozioni possono essere molto intense. In tale situazione, meglio prendersi prima del tempo per calmarsi, anche dichiarare “Ora sono /sei troppo agitata per parlarne con calma, lo faremo dopo”. Si offre perciò al bambino una decodifica dei sentimenti, e nello stesso tempo un esempio e un modello di come gestire i momenti di rabbia o di dispiacere.


Prendiamo un altro esempio. Una bambina al ristorante prende i grissini e li sbriciola con metodo per terra. Si può intervenire in modo brusco oppure gentile, interrompendo il comportamento che non è ben accetto; per esempio, si può togliere con gentilezza i grissini di mano alla bimba e tentare una spiegazione: “I grissini sbriciolati per terra non sono più buoni da mangiare, è uno spreco romperli e buttarli”. La bambina probabilmente però piangerà o avrà un momento di estrema rabbia e frustrazione. Mortificata dall’intervento drastico dell’adulto, a volte continuerà a piangere persino se le restituiremo i grissini.


Capriccio? Occorre andare oltre il comportamento e fare un passo indietro cercando di comprendere cosa sta in realtà succedendo. Non basta sapere il cosa e il come, ma occorre domandarsi il perché la bambina stava facendo quell’operazione con i grissini. Si annoiava? Si sentiva disconnessa dagli adulti presenti e cercava attenzione? Stava scoprendo un’interessante proprietà della fisica? Non aveva fame? Aveva notato un formicaio e voleva dare da mangiare alle formiche?


Finché non ci prendiamo un momento di calma e di totale ascolto e attenzione, e del tempo per capire, non lo sapremo; e poiché la strategia scelta dal bambino non sempre è adatta a soddisfare il suo bisogno profondo, spesso persino se assecondiamo la richiesta esplicita non ristabiliremo definitivamente la calma: il bambino resterà insoddisfatto o piangerà frustrato, anche se ha ottenuto quello che chiedeva.


Comprendere i bisogni reali che stanno dietro alle emozioni, e che spingono a desiderare situazioni o oggetti specifici, non è facile nemmeno per noi adulti, e richiede la capacità di accogliere queste emozioni senza giudicarle, e da lì risalire la corrente fino a incontrare e dare un nome al bisogno che le ha originate.


Per i bambini si tratta di un territorio inesplorato ed è ancora più arduo per loro identificare il bisogno che li agita. A volte è un’inquietudine, un senso di non appagamento a cui nemmeno loro sanno dare un nome… spesso la crisi si scatena quando sono più stanchi o quando qualcosa li stressa.


Quando un bambino è emotivamente alterato fa fatica ad ascoltare ciò che gli si dice, e ancora più a spiegare cosa prova. È utile descrivere (definire e accettare) i suoi sentimenti e parlargli in modo che veda riconosciuti i bisogni che sono stati all’origine delle sue azioni. Questo non significa approvare per forzala sua richiesta o il suo comportamento. Una volta tornata la calma si ragiona insieme su come risolvere la situazione, se si ripresenterà un’altra volta.


Quindi l’abilità del genitore sta nel decodificare i bisogni a partire dalle richieste, e rispondere a quelli; ma anche nell’accompagnare il bambino in un percorso di consapevolezza, per renderlo più capace di individuare il suo stesso bisogno ed esprimerlo al di là della strategia che ha immaginato. Questo si raggiunge facendo ascolto attivo e sospendendo il giudizio. E anche accogliendo la disperazione del proprio bambino quando si dice no a una sua richiesta esplicita: senza giudicarlo negativamente per questo, senza chiederci cosa c’è che non va in lui o in noi stessi.


Bisogni in competizione

I genitori di oggi sono cresciuti in una cultura che non offre una chiave di lettura empatica del comportamento dei bambini, e non ha permesso loro di interiorizzare il rispetto e la comprensione necessari per mettersi sulla lunghezza d’onda dei loro figli. Senza un tessuto sociale di sostegno, senza “libretto delle istruzioni”, questi padri e queste madri cercano di fare del loro meglio per decifrare il groviglio di emozioni che fanno eco ai bisogni dei bambini e ai loro propri. Ma in un contesto distaccato dal continuum biologico in cui questi bisogni e queste reazioni si sono modellate, essi finiscono per entrare in collisione e in competizione, e venire interpretati e ridefiniti più in termini di conflitto che non di sinergia. Inappagati, i bisogni prendono altre strade e cercano modi sostitutivi di soddisfazione, indiretti e disfunzionali.


Con la nascita di un figlio c’è un cambiamento e la coppia deve lavorare per adattarsi a questo cambiamento e includerlo nella relazione, non escluderlo per recuperare un precedente equilibrio a due che non è più attuale. Troppo spesso invece il bambino tende a essere considerato un terzo incomodo, poiché la società, anziché sostenere la coppia in questo processo di integrazione del bambino nella propria vita, struttura gli spazi di lavoro, studio, cultura e svago in modo incompatibile con la presenza dei bambini; suggerisce così ai genitori altri spazi separati, in cui i bambini possono essere gestiti da altre persone mentre gli adulti “si riprendono la loro vita”.


Queste proposte spesso mettono in crisi la madre, che si sente a disagio a separarsi dal suo bambino, a cui si è intensamente legata, affidandolo ad altri per calarsi in una dimensione di coppia che fatica a ritrovare, fra la stanchezza fisica, il coinvolgimento emotivo verso il neonato, e spesso anche il senso di distanza che prova nei confronti di un partner che la nostra società proietta lontano dalla famiglia e verso il lavoro, in una forbice che si divarica specialmente dopo la nascita di un figlio.


I bambini non restano piccoli per sempre, è un periodo breve… e nessuno ha mai detto che si debba pensare solo ai bambini e mai alla coppia, ma solo cercare modalità per conciliare le esigenze di tutti. Perché mai i bisogni della diade, della coppia, dei singoli genitori o del neonato finiscono per trovarsi così spesso in competizione?


Non è sempre stato così: è la nostra organizzazione sociale che, dopo averci lasciati soli a crescere i bambini senza sostegno, ci spinge poi a “parcheggiarli” perché sopraffatti, che ci induce a far classifiche dei bisogni.

La nostra società sembra essere particolarmente ostile verso il grande coinvolgimento che la mamma prova nei primi anni di vita del bambino; e invece di farsi carico di questo bisogno di vicinanza, sembra determinata ad avallare pratiche di limitazione dell’accudimento del bambino, ridefinendole come un processo educativo basato sull’adattamento del piccolo alle esigenze della famiglia. Questo succede in particolare con gli aspetti che implicano il maggior contatto corporeo, il maggior coinvolgimento affettivo, come il portare in braccio e l’allattamento. Le richieste di contatto, allattamento, attenzione del piccolo vengono incasellate in schemi predefiniti, e ciò che non vi rientra viene ridefinito come capriccio. Sembra si sottintenda che il bambino che piange e chiede di poppare o di essere preso in braccio spesso non ne abbia veramente necessità. Tale bisogno viene misconosciuto, sminuito, la funzione di sostegno emozionale e biologico dell’allattamento viene fortemente ridimensionata e ignorata al di fuori degli aspetti nutritivi, la necessità di contatto e di tenerezza viene minimizzata, negata o connotata negativamente.


Nell’esperienza di quarantena forzata vissuta in Italia, causata dalla pandemia, e a séguito delle successive disposizioni di distanziamento sociale, invano molte voci autorevoli si sono levate a richiedere soluzioni che conciliassero le misure di sicurezza con le esigenze sociali dell’infanzia, sottolineando come il contatto, la socializzazione e l’attività ludica nei bambini fossero fondamentali per il loro benessere e la loro salute: mai come in questo frangente è emersa con chiarezza, a livello culturale, la svalutazione di tali bisogni, considerati come un extra facilmente dilazionabile o persino indefinitamente sacrificabile.


Un bambino trascurato perché non viene cambiato e pulito mostra sulla sua pelle segni tangibili del suo disagio: la situazione è impensabile! Ma un bambino che piange perché si sveglia solo nel suo lettino, o perché ha bisogno di poppare, oppure di essere abbracciato, non mostra i segni tangibili della sua sofferenza, che restano nascosti dentro di sé. E qualcuno cerca di farci credere che abbracci e coccole siano un plus di cui si può anche fare a meno, e che dare il seno è solo nutrire, e quindi una volta che il bambino è sazio, ha riposato ed è stato cambiato, il resto è “capriccio”. Si insiste a sostenere che rispondere a ogni pianto genererà individui fragili, dipendenti o peggio, prepotenti ed egoisti. Il senso di frustrazione e isolamento delle madri, lasciate da sole a prendersi cura dei propri figli in modo ininterrotto, viene strumentalizzato, schierandosi con la mamma contro il bambino; e infine si suggerisce che, dopo tutto, il benessere della madre si ripercuote su quello di suo figlio, e quindi va considerato altrettanto prioritario. Ma le cose stanno davvero così?


“Serena la mamma, sereno il bambino”

Quante volte di fronte a una problematicità e a un conflitto fra diversi bisogni, ad esempio stanchezza durante il periodo dell’allattamento o dell’accudimento notturno, espressa da una mamma in crisi, si risponde con frasi falsamente rassicuranti!


“Mettilo pure a dormire da solo: sarai una madre migliore se la mattina sarai riposata”. “L’importante è che tu sia serena, se non lo fai con piacere, anche il bambino ne soffre”. “Meglio una mamma felice che dà il biberon che una stressata che allatta”. Ma da dove nasce questo aut-aut che molte hanno fatto proprio? È una falsa alternativa. Qualcosa nella storia di queste mamme (e bambini) è andato storto; non hanno ricevuto adeguato sostegno e informazione.


Quella cultura così pronta a dare una pacca sulla spalla alla mamma che ha gettato la spugna, con la tesi “Tanto cresce bene anche con l’artificiale”, è la stessa che, quando quella mamma si stava struggendo per allattare con una serie di difficoltà, aveva mancato di fornirle il supporto cruciale per risolvere i suoi problemi; e soprattutto si era ben guardata dal metterle una mano sulla spalla e riconoscere tutto l’impegno che stava mettendo, valorizzare il suo desiderio di allattare, porre la sua fatica nella prospettiva di un futuro allattamento felice e lungo, infonderle fiducia e fornirle informazioni rilevanti.

Il mantra “Serena la mamma, sereno il bambino” è un’autentica piaga, perché mistifica un problema, non approfondisce i motivi per cui una mamma che allatta, o che accudisce il bambino nei suoi risvegli notturni tenendolo vicino a sé, nella nostra cultura, può non essere serena. Se la mamma ha un disagio rispetto all’allattamento o l’accudimento di un bambino durante la notte, questo spesso è dovuto soltanto alla mancanza di modelli realistici da imitare e alla totale mancanza di sostegno, quando non alle critiche rispetto alla sua disponibilità, che logorano e instillano dubbi e insicurezze. Quindi prima di dire: “Se non sei felice ad allattare, allora svezza”, sarebbe meglio mettersi in ascolto e cercare di aiutare la mamma a mettere a fuoco quali aspetti dell’accudimento le pesano e perché, in modo da trovare soluzioni veramente sue, che siano articolate e mirate: le soluzioni drastiche somigliano troppo al proverbiale “buttare il bambino insieme all’acqua sporca”.


Secondo un post diventato virale sui social, un cartello nello studio di un pediatra recitava: “Il meglio non è il seno e nemmeno il biberon; il meglio non è il lettone e nemmeno la culla (e via elencando tutte le varie alternative di accudimento)… il meglio sei tu”.


L’enorme successo di questo testo si spiega col fatto che fa presa su un legittimo bisogno di riconoscimento delle madri, che sono stanche di sentirsi dire, in modo spesso critico o impositivo, cosa fare o non fare con il loro bambino. Infatti i discorsi che trattano le “buone pratiche” di accudimento in termini di giusto e sbagliato, di meglio o di peggio, risultano per questo motivo fastidiosamente giudicanti: non per il contenuto, l’informazione, bensì per come vengono esposte.


Tuttavia questo ha portato a una reazione di fastidio anche ogni volta che si porgono pure e semplici informazioni, nel momento in cui queste informazioni indicano una direzione diversa da quella dove la persona sta andando.


Questi luoghi comuni, così spesso detti con l’intenzione di rassicurare o consolare, esaltano la libertà di scelta della donna, focalizzandosi sui suoi bisogni e presentando i vari modi di nutrire e accudire il bambino come una faccenda di stili genitoriali, diversi ma del tutto equivalenti.


Ma proviamo a cambiare soggetto e vediamo come “suona” in altre situazioni la teoria del “L’importante è che tu sia serena”. Si potrebbe, ad esempio, ugualmente sentenziare: “Felice il bambino, felice la madre”: dal punto di vista logico avrebbe senso quanto la precedente affermazione… eppure una tale affermazione suona quanto meno ingenua, quando non palesemente insulsa.


E vediamo un’altra situazione che ha molte similarità con quella di prendersi cura di un bambino piccolo. Chi accudisce una persona anziana non autosufficiente, che ha bisogno di aiuto sia per soddisfare i suoi bisogni, sia per organizzare la sua vita, le sue azioni, le sue emozioni, si trova, per molti aspetti, nella stessa situazione di una madre con un bambino piccolo, e a volte vede i propri bisogni e quelli dell’anziano entrare in conflitto.


Accudire un anziano o una persona disabile richiede molto tempo, pazienza, amore, energia fisica e mentale.

Immaginiamo che un testo “poetico” recitasse: “Felice la figlia, felice la sua anziana mamma”, e continuasse dicendo: “Non è meglio il letto, e nemmeno la sedia a rotelle.


Non è meglio tagliuzzargli il cibo, e nemmeno lasciargli i bocconi interi.

Meglio non è accenderle la TV, né è meglio leggerle un libro.

Non è meglio farle il bagno tutti i giorni, né è meglio farlo due volte al mese.

Non è meglio tenerla in casa, né andarla a trovare alla casa di riposo.

Il meglio sei tu, sua figlia, perché se tu sei serena, anche lei sarà serena. Se tu stai bene, anche lei starà bene.”

Suona sempre così romantico, così vero, così giusto?

Ogni scelta va rispettata e non sottoposta a giudizio. Ma il punto cruciale di una scelta ponderata è l’informazione. Come osserva Jesper Juul,

È vero che ognuno di noi deve trovare il proprio modo di agire, quello che produce i risultati migliori per noi e i nostri figli. Ma questo non significa che ogni sistema sia buono, o che “comunque fai, fai bene”4.


Ci sono modi di accudire (o non accudire) i bambini che non sono positivi per la loro salute o sono fonte di stress per loro e anche per gli stessi genitori. Per chi si rivolge ai genitori e li affianca è eticamente doveroso informare su questi aspetti: non tutte le pratiche sono equivalenti. Dire invece “Come fai, fai bene perché sei tu la mamma, l’importante è che sia serena tu” è uno scarico di responsabilità, è colludere, compiacere invece di ascoltare, è lavarsi le mani del problema e offrire alibi a comportamenti che possono recare danno, ignorando che c’è uno dei due componenti della diade, quello piccolo, che ha determinati bisogni e questi non scompaiono magicamente, lasciando il bambino sereno solo perché lo è la sua mamma. Queste risposte sbrigative, soprattutto, non considerano che esistono soluzioni, magari più complesse e articolate, ma che possono assicurare serenità, ponendo fine a uno scontro di bisogni.


Confutare l’affermazione che ogni soluzione sia buona per il bambino, purché la mamma sia serena, suscita però la ribellione di tutte quelle mamme che si sentono giudicate se “non ce la fanno” a fare tutto per bene secondo i bisogni dei figli, e restare serene… siamo talmente abituate allo schema giudicante, che ogni obiezione o discordanza con il nostro sentire la viviamo come un giudizio e una critica ingiusta al nostro modo di fare o di essere.


Certo che non è giusto. È di un’ingiustizia lampante. Chiediamoci come siamo arrivate a questa situazione, che vede mamme da sole che, senza sostegno né morale né materiale, accudiscono uno o più bambini 24 ore al giorno sette giorni su sette. La società, per altri versi assente, invece di dare sostegno sceglie, in modo ipocrita e buonista, la facile via di ignorare la fatica delle madri e invece benedirle quando queste mettono in secondo piano i bisogni dei loro figli.


Essere prive del sostegno della comunità non è una condizione naturale. La nostra specie è fatta per vivere in piccole comunità che si sostengono e distribuiscono fra loro il carico fisico, emotivo e organizzativo condividendo risorse e prendendosi cura gli uni degli altri senza che bambini, anziani, disabili gravino in toto sulle spalle di singole persone.


Una mamma e il suo bambino, in una società che fosse coerente con il nostro continuum biologico, sarebbero in mezzo ad altre madri, altri bambini di tutte le età, in una collettività di uomini e donne, giovani e anziani, tante braccia e tanti cuori per prendersi cura del bimbo e della mamma stessa. Non esisterebbe una mamma stanca, esausta e prigioniera fra quattro mura con il suo bambino.


Perché di fatto, i bisogni del bambino esistono e sono oggettivi; e per accudirli al meglio servirebbe un villaggio, e non una mamma da sola. E i bisogni della mamma pure esistono, e anche lì ci vorrebbe un villaggio, e non ciucci, girelli, materassi auto-cullanti, carillon, app e televisori.


Autonomia, indipendenza, autarchia

I fautori del distacco precoce spesso criticano l’accudimento prossimale oltre i primissimi mesi, insistendo sull’argomento di una necessaria conquista di autonomia del bambino: saper dormire da solo, senza venire “disturbato” da genitori troppo solleciti, che lo privano dell’esperienza di poter sperimentare le sue potenzialità nell’autoconsolarsi, nel riuscire ad addormentarsi senza aiuto, nel poter stare in solitudine e senza essere toccato.


Alcuni arrivano a ipotizzare danni a lungo termine in questa presunta intrusione degli adulti nella sfera fisica e affettiva del bambino, una sfera vista come un bozzolo privato che non deve essere turbato dall’intervento o la presenza degli altri. I bambini “troppo accuditi” diventerebbero fragili, insicuri, poco individuati, addirittura pieni di rabbia e aggressività per la loro privacy violata. L’amore dimostrato da questi genitori “troppo presenti” sarebbe l’espressione morbosa di un loro bisogno, una forma di compensazione per vuoti e mancanze affettive personali, presenti o passate.


Ma perché mai un bambino (anzi: un essere umano che ha sentimenti e bisogni e vive in un contesto sociale) dovrebbe imparare ad autoconsolarsi?

E a che età dovrebbe imparare questa abilità? A quattro mesi? A dodici mesi? A vent’anni?

Non si può tirare una linea buona per tutti, dire: “Fino a questa età va bene, dopo no”.


È tempo di smettere di valutare il livello di autonomia di un bambino in base alla presenza o meno di un accudimento prossimale.


Si guardi piuttosto a come se la cava in situazioni complicate, se è assertivo e sa esprimere con chiarezza le sue ragioni, se sa chiedere aiuto quando ne ha bisogno e spiegare chiaramente come si sente e di cosa ha bisogno, se sa opporsi a ciò che non gli va, se è capace di trovare soluzioni creative, se sa relazionarsi agli altri, essere empatico, collaborativo, protettivo verso i più piccoli e le persone in difficoltà… ci sono tanti modi per valutare l’autonomia di un bambino, non solo il dormire nel letto dei genitori o poppare al seno.


Tutti i bambini hanno uno slancio a esplorare e cimentarsi con il mondo esterno, un percorso che a un certo punto li porta a cercare un loro spazio e dimensione, distaccato da quello dei genitori. Questi spazi se li ritagliano quando e come vogliono e quando sono pronti a farlo: non c’è nessun motivo di doverli forzare o sollecitare. Forzare i tempi non ha mai senso e non è necessario, anzi può creare un attaccamento insicuro che – anche se si riesce a far adattare il bambino al distacco forzato – non aumenta il suo senso di autonomia, bensì lo rende più invischiato e ansioso di fronte a ogni separazione, ogni passo verso l’indipendenza.


Il tragico fraintendimento si realizza quando la tanto esaltata autonomia viene definita in termini privativi, in negativo: non dipendere dal sostegno degli altri, non richiedere contatto, presenza, tenerezza, non chiedere mai aiuto. Questa non è autonomia, è semmai in-dipendenza, cioè la capacità di bastare a se stessi senza ricorrere all’aiuto degli altri. Un individuo che si trovi in una condizione d i isolamento, abbandonato, male accudito, in situazioni di emergenza, imparerà ad arrangiarsi e farcela da solo. Possiamo chiamarla autosufficienza e possiamo anche dire che ha fatto di necessità virtù; ma non è il caso di esaltare questa conquista come se fosse chissà quale evoluzione positiva dell’animo umano. Essere gettato in acqua rischiando di affogare non è il miglior modo per imparare a nuotare, e nemmeno l’esperienza formativa che il futuro nuotatore ricorderà con più piacere.


L’autonomia è invece una qualità positiva: sapersi connettere al proprio centro interiore, al proprio senso di giustezza interna, attingendovi forza e slancio per rischiare, avventurarsi, esplorare, trovare la propria strada e le proprie originali soluzioni. Insomma questo spingere all’indipendenza facendo leva sul “fare a meno di” finisce per scoraggiare proprio quella vicinanza, sostegno reciproco e amore che della fattività e iniziativa personale sono invece il punto di partenza, la base affettiva sicura.


Esistono, è vero, bambini che non sono lasciati liberi di esplorare, agire, mettersi in gioco, assumere iniziative, fare da soli, perché l’adulto (che può essere la madre ma anche altri familiari o altri adulti) si sostituisce sempre a loro, bloccandoli fisicamente o instillando insicurezza.


Però c’è un grosso equivoco di fondo. In base a quali segni, quali indicatori, si definisce che una madre sta soffocando l’autonomia del suo bambino? Il più delle volte, si guarda nella direzione sbagliata. Il bambino dorme con i genitori? Poppa ancora oltre i primi mesi? La mamma lo prende in braccio quando lui lo chiede? È coccolato, vezzeggiato, c’è tenerezza reciproca e intimità nel rapporto fra mamma e bimbo? Apriti cielo, tutti definiscono la madre come “soffocante”, e il bambino come una povera vittima che non è lasciata libera di essere autonoma. Qual è l’equivoco? Si parte dall’idea ingannevole che un bambino dopo i primi mesi non possa aver bisogno e volere ancora poppare, stare in braccio, essere coccolato, quindi deve essere la madre a imporlo… queste persone non vedono che la mamma sta rispondendo a un bisogno del bambino, non lo sta inseguendo con le braccia tese a mo’ di piovra!


L’esperienza di chi ha seguito e visto crescere questi bambini così “attaccati” mostra altri aspetti del loro comportamento che sono lontanissimi da una mancanza di autonomia; in una parola, manifestano un attaccamento sicuro. Questi stessi bambini infatti esplorano gli ambienti nuovi con interesse, si arrampicano sugli alberi a tre anni, si vestono da soli prima ancora di saper bene camminare, già a 9-10 mesi mangiano a tavola gli stessi cibi solidi del resto della famiglia, con le mani ma in perfetta autonomia e autoregolazione; e poi socializzano facilmente, hanno reazioni empatiche e sollecite nei confronti dei più piccoli di loro, e a volte meravigliano le maestre dell’asilo per la loro maturità e autonomia. Sono i bambini ai quali fra una coccola e una poppata non viene impedito di giocare con il fango, di maneggiare le posate da soli, di pasticciare con il cibo imparando da sé a gestirlo, di scegliere cosa mettersi addosso, di giocare in riva al mare, di correre e sporcarsi.


La vera dipendenza è quella di chi non è sicuro di essere amato, e non osa allontanarsi dalla persona amata perché teme di perderla. E nella sua disperazione il bambino, quando è veramente solo e ha ricevuto numerose e dolorose esperienze di distacco e di disinteresse da parte degli adulti, imparerà a bastare a se stesso e, per non soffrire più, sceglierà la strada dell’autarchia affettiva, la strada narcisistica di credere di non aver bisogno di nessuno e di essere autosufficiente in ogni cosa.


Ma la vera autonomia non è saper fare a meno degli altri, ma saper godere delle relazioni affettive con gli altri mantenendo la propria integrità, senza temere di poterli perdere.


I bambini hanno bisogno di stare da soli?

È importante ribadire che per un bambino piccolo, di pochi mesi o di pochi anni, l’alto contatto è anche contatto fisico. Il “bisogno di stare da solo” che alcuni enfatizzano, facendo sentire sbagliate e inadeguate le persone che effettuano un accudimento prossimale (cioè fatto di contatto fisico e vicinanza) non è altro che un’invenzione teorica, certo non un bisogno dei nostri piccoli.


I bisogni primari dei bambini nei primi anni di vita non sono quelli di essere “lasciati in pace” e poter fare e stare da soli, ma proprio al contrario di sentirsi affiancati e sostenuti dagli adulti di riferimento, sentire il loro affetto, presenza e contatto costante. Tutti i dati degli studi e la stessa esperienza di centinaia di mamme che hanno accudito così i loro figli smentiscono le catastrofiche previsioni di danni alla salute psicoaffettiva del bambino, nel caso venga allattato, coccolato, tenuto accanto la notte.


La resistenza del bambino ad accettare il distacco non è la conseguenza di una mancata educazione a stare da soli, bensì il segnale che egli ancora non è emotivamente maturo a sufficienza da sopportare l’esperienza della separazione. Quindi i tentativi di abituare il bambino alla solitudine (peraltro una condizione in sé poco naturale nella specie umana), specialmente se imposti in anticipo allo scopo di temprare il suo carattere in vista di avversità future, sono inutili e controproducenti.


Alcuni sostengono che rispondendo con troppa sollecitudine alla richiesta di presenza del bambino gli si manderebbe il messaggio che lui non è in grado di potercela fare da solo, cioè gli si impedirebbe di superare l’angoscia del distacco con le sue sole forze emotive. Una volta ho sentito dire che questa scoperta – di poter fare a meno dell’altro – sarebbe un’emozione “bella e potente”. Ma superare un’esperienza di angoscia di separazione e scoprire poi di essere sopravvissuti non somiglia affatto alla scalata di una montagna con le proprie forze. È più come il ritrovarsi vivi dopo un incidente; perché non nasce da un’esperienza cercata ma subita. I bambini più grandi attraversano una fase esplorativa e cercano attivamente la lontananza dalla mamma, saggiando la distanza, allontanandosi e tornando da lei in modo progressivo. Ecco, quella è la loro montagna, e raggiungerne la cima può essere definita un’esperienza “bella e potente”, ma non perché si scoprono capaci di “bastare a sé stessi” ma perché riempiono quel distacco con la ricchezza di nuove esperienze.


Un bambino più grande può anche isolarsi in certi momenti e stare da solo a “far niente”, sperimentando le fantasticherie e i pensieri del suo mondo interiore in formazione, e così facendo costruirsi un senso di sé. Quando il bambino di sua iniziativa fa questo, non va disturbato. Ma si parla di bambini più grandi, che sono in grado di determinare autonomamente la vicinanza o il distacco; e, di nuovo, si tratta di isolamento voluto e non subìto.


Ci sono culture diverse dalla nostra, che valorizzano e ritengono importante che un individuo sviluppi la capacità di chiedere aiuto e di trovare conforto nel sostegno della comunità, e si adoperano perché imparino a fidarsi degli altri e appoggiarsi emotivamente per un sostegno reciproco. Cosa che nella nostra cultura invece viene biasimata o quanto meno scoraggiata, considerata come una debolezza o un tratto infantile. Ma noi siamo una specie sociale e quindi si tratta invece di un’attitudine in linea con la nostra natura.


Ritengo che la capacità di superare da soli l’angoscia di separazione sia un disvalore della nostra società, più che una qualità della personalità, e che tale capacità di sopportare la solitudine sia nella nostra cultura esageratamente valorizzata e sopravvalutata. Per dirlo in altre parole, vogliamo che il bambino sviluppi la capacità di resilienza, e non la capacità di resistenza. La prima è la capacità di recuperare la propria integrità dopo le avversità, un elemento di forza e adattabilità che nasce da un processo di empowerment, a sua volta scaturito dalla costruzione di una base sicura affettiva. La seconda è più un saper stringere i denti, una capacità di sopravvivenza che però, diversamente dalla resilienza, non garantisce il sapere, passata la crisi, recuperare l’interezza del proprio essere e del proprio sentire.


Lasciar piangere

La nostra società ha un pessimo rapporto con il pianto. Essendo un segnale emotivo particolarmente intenso, può suscitare nell’adulto tutta una gamma di sentimenti e di reazioni che sovente, anche con le migliori intenzioni, risultano controproducenti e sconfortanti per il bambino che è in lacrime. Si può cercare di “aggiustare” subito la situazione, non riuscendo a tollerare nel bambino momenti di rabbia o dispiacere, che intaccano la nostra aspirazione a un figlio perfetto e costantemente felice; si può vivere il pianto come un atto di accusa o la dimostrazione del fallimento educativo e quindi reagire con rabbia, frustrazione, ansia o disorientamento. Molte persone, specialmente uomini, sono cresciute con la teoria che piangere fosse un segno di fragilità, debolezza, vulnerabilità, e hanno sviluppato vergogna e imbarazzo verso questa forma di espressione del dolore. Per molti genitori, a cui è stato a suo tempo impedito di esprimere pienamente i propri sentimenti, o è stato insegnato che certi sentimenti sono “brutti”, è difficile sopportare il pianto del figlio… espressione di dolore che riporta a galla memorie di antiche sofferenze, esperienze emotive spesso rimosse dalla coscienza.


Molti metodi educativi forniscono consigli su come reagire “correttamente” al pianto dei bambini, in modo da scoraggiare questa manifestazione emotiva. Spesso il pianto, che in realtà è solo il segnale di uno stato emotivo, viene erroneamente considerato in sé un comportamento, e come tale un atto volontario del bambino, passibile di essere incoraggiato, modulato o inibito.


Si dice quindi spesso ai genitori che il bambino impara a piangere perché viene compensato dall’arrivo della mamma, e che il metodo di lasciar piangere funziona perché il bambino si abitua a cavarsela da solo e calmarsi senza l’aiuto di nessuno; e questa viene considerata una grande vittoria emotiva.

Quello che non è percepibile a una visione esterna è lo stato d’animo di quel bambino che ha dovuto adattarsi a rinunciare a esprimere il suo sconforto. I disagi, il bisogno di contatto e di vicinanza non svaniscono solo perché il bambino ha appreso a non chiamare la mamma, perché tanto non risponde. I sentimenti negativi non scompaiono solo perché smette di manifestarli. La calma ottenuta nasce dalla disperazione e non da una maturazione interiore, che abbia fatto introiettare la regola che l’adulto tiene tanto a far comprendere al bambino. Anzi, più precoce è l’applicazione del metodo, più incomprensibile e traumatica sarà l’esperienza, e quindi maggiore il rischio che si sviluppino condizioni reattive, cioè la tendenza a reagire con maggiore stress di fronte a ogni situazione di distacco, sia pure solo potenziale: stress che persiste anche quando il bambino ha imparato a non esprimerlo più con il pianto5.

Sono stati condotti studi per vedere cosa succedeva a bambini che venivano educati con il metodo del lasciar piangere per periodi sempre più lunghi. Si è visto che il cortisolo, l’ormone dello stress, era alto sia nelle mamme sia nei bambini nella fase in cui piangevano; poi quando i bambini si adattavano e non piangevano più, il cortisolo nelle mamme scendeva, ma rimaneva alto nei bambini, anche in assenza di pianto6. Il cortisolo crea conseguenze permanenti nella capacità dell’individuo di sopportare gli stress, nel senso che lo rende più vulnerabile. Quindi riflettiamo bene sulla bontà di certi metodi.


Per un neonato la separazione, dal punto di vista biologico, istintivo, è una situazione minacciosa, un’emergenza che lo lascia indifeso alla mercé dei predatori. Pertanto la risposta neuroendocrina del bambino è l’attivazione del sistema adrenalinico di attacco o fuga, ovvero, come lo chiama il neonatologo Nils Bergman, lo stato neurocomportamentale di protesta e disperazione. Esso infatti attiva inizialmente il segnale di allarme del pianto (protesta) e, se in questo modo non si ottiene la ricomparsa immediata del genitore, subito dopo il comportamento di ritiro: il bambino si fa piccolo, si rannicchia, si immobilizza, diviene muto, il respiro e il cuore rallentano, la temperatura corporea si abbassa. È la fase della disperazione, che mette in atto l’estremo tentativo di diventare invisibile ai predatori. Per un tragico equivoco, questa quiete viene scambiata per calma e usata come dimostrazione del fatto che il metodo di non rispondere al pianto funziona: ma quello che il bambino apprende con questi metodi non è soltanto sapere che è solo e che i suoi bisogni resteranno inascoltati; un corollario di queste esperienze, certamente non previsto né voluto dai genitori, è la percezione di qualcosa di sbagliato in se stessi. Quindi questi metodi, che purtroppo funzionano – perché forzano il bambino ad apprendere strategie di autoconsolazione e smettere di chiedere aiuto –, non solo minano la fiducia che i bambini hanno verso gli altri, ma minano anche la loro fiducia in se stessi.


Alcune teorie affermano che sia emotivamente dannoso rispondere con troppa prontezza al pianto. Esiste la teoria secondo cui il pianto è un bisogno e come tale si debba fornire al bambino un’occasione quotidiana per esprimerlo e sfogarsi. Si accusano i genitori che corrono a consolare il bambino di impedirgli di sfogare completamente il suo pianto, distraendolo.

Trovo questo tipo di teorie molto più pericolose dei metodi di estinzione più radicali, perché sono seduttive, manipolatorie. Si dice tutto e il contrario di tutto in modo apparentemente convincente alternando ovvietà ad assurdità, si mescolano cose vere e cose false, parlando in modo astratto, avulso dal contesto reale in cui queste situazioni si verificano. Questi consigli generano incertezza, disorientamento e rendono i genitori più insicuri e dipendenti dall’esperto, dalle sue regolette e dalle sue “istruzioni per l’uso”.


Sono tutti costrutti teorici che non si basano sull’ascolto vero dei sentimenti e dei bisogni. Chi rivendica la “libertà di espressione” solo nei termini del pianto, si rivela incapace di leggere tutti gli altri segnali che hanno preceduto le lacrime.


Certo, impedire che il bambino pianga distraendolo, cioè deviando la sua attenzione su altre cose, non aiuta (la mamma, ma anche il bambino stesso) a connettersi con i suoi sentimenti e dunque con i suoi bisogni. Tuttavia, consolare un bambino quando piange (cioè abbracciarlo, coccolarlo, allattarlo, prenderlo in braccio) è cosa diversa dal distrarre. Confortare fa parte della risposta empatica a un dolore o uno spavento del bambino, è accoglienza del sentimento. Rispondere al bisogno che è dietro al pianto non impedisce certo lo sfogo. Il bambino in questi casi piangerà in braccio alla mamma, il che è sempre meglio che piangere da solo.


E se un abbraccio può sanare una situazione di stress, perché evitarlo? Non sarebbe il caso semmai di chiedersi perché il bambino piange, e vedere se si può fare qualcosa? Piuttosto che cercare di ridefinire il pianto come uno sfogo benefico e necessario, in modo da negarne il valore di segnale d’allarme e richiesta di aiuto, non sarebbe meglio dare ai genitori strumenti per cercare di capire di più il proprio bambino?


La trappola degli stereotipi

Un articolo in rete definiva le “mamme ad alto contatto” in base all’osservanza di tre regole: portare in fascia, allattare al seno e tenere il bambino nel proprio letto durante la notte.


Ma parlare di regole significa già partire male, creare categorie di giusto e sbagliato, di genitori di serie A o B. Questi articoli non fanno che dividere le persone in buone e cattive e danno un’immagine del genitore con attaccamento che è estrema e irrealistica, o soltanto folcloristica.


Certo: allattare, portare in fascia, dormire insieme aiutano la mamma e il bambino e semplificano la comunicazione, l’intimità e le cure prossimali. Spesso ai genitori mancano informazioni cruciali; subiscono pressioni, intimidazioni; sono stati allevati in modo distaccato e non hanno modelli da seguire; per loro, portare addosso, dormire insieme, allattare possono essere fattori determinanti che fanno la differenza. In una cultura a basso contatto come la nostra, questi approcci danno la possibilità di superare i condizionamenti e avere un canale preferenziale per restare in connessione con i propri istinti e con il proprio bambino.


Ma non sono indispensabili questi o altri presupposti per essere genitori ad alto contatto. Ci mancherebbe che la presenza, la tenerezza, il contatto, gli abbracci fossero impossibili se il bambino dorme nel lettino, se gli si dà il biberon o se non si usa la fascia!


I bambini hanno bisogno, certo, della presenza della mamma e di contatto corporeo, cioè essere abbracciati, carezzati, coccolati, baciati, presi in braccio. Questi bisogni però variano da un bimbo all’altro, non c’è una regola ma la chiave è rispondere ai bisogni del bambino via via che li manifesta. Se non si ama la fascia sì può anche lasciare che il bimbo gattoni per terra, ma se alza le braccia verso l’adulto, questo lo prenderà su, oppure si accovaccerà alla sua altezza e lo abbraccerà un po’. 


Allattare a termine è la fisiologia, è naturale, è l’ottimale, ma succede che alcuni allattamenti falliscano o terminino prima del previsto; non per mancanza di volontà della mamma né per incapacità biologica, ma per le interferenze subite, per la mancanza di informazioni, le pressioni, gli ostacoli che lo compromettono a volte precocemente, e qualche volta si recupera e qualche volta no. Inoltre ci sono mamme che scelgono di non allattare, altre che allattano a termine, e il bambino si distacca dal seno a due, tre o più anni, e altre ancora che dopo i primi mesi scelgono di svezzare gradualmente dal seno; e tutte loro possono essere ad alto contatto. Il bambino nel letto è un’ottima soluzione, specie se si allatta, ma può anche stare nella culletta di fianco al lettone oppure nella sua stanza ma in un letto a due piazze, e sarà la mamma a entrare nel suo letto per allattare la notte… oppure a restare accanto a lui tenendogli la mano. L’importante è che ogni volta che il bimbo la notte si sveglia e cerca la mamma o il papà, questi ci siano e non gli facciano mancare presenza e coccole.


I sentimenti negati

Da dove nasce la disconnessione dai figli?

Per connettersi alle emozioni dei bambini, bisogna prima di tutto connettersi, o ri-connettersi, alle proprie; un esercizio che per molti adulti, educati e cresciuti con la pedagogia nera, è difficile e doloroso, quando non addirittura impensabile.


Prendiamo ad esempio la reazione di minimizzazione, negazione, razionalizzazione che tanto spesso esprime un adulto di fronte al pianto del bambino: “È una cosa da nulla / Non c’è niente da piangere / Che piangi a fare, tanto è inutile”. Frasi che vorrebbero confortare, ma che invece aumentano lo sconforto del bambino, il quale non può comandare i sentimenti e che si sente più che mai sbagliato, incompreso e senza sostegno. Forse, se potesse raggiungere una sufficiente consapevolezza dei propri vissuti, l’adulto direbbe qualcosa come “Non sono capace di capire che ti succede, il tuo pianto mi mette in ansia e non so cosa fare, vorrei che smettessi, e se non smetti vorrei che il tuo pianto non avesse significato, perché altrimenti sento che potrebbe essere colpa mia che non so risolvere la situazione”.


Talora coloro che tendono a negare o minimizzare i sentimenti altrui non fanno altro che cercare di insegnare agli altri il sistema difensivo che hanno appreso loro stessi. Cioè anche loro, in tempi lontani, si sono trovati angosciati e piangenti ma senza alcun sostegno o empatia, e si sono rifugiati negli stessi meccanismi di difesa… una storia triste che si perpetua da una generazione all’altra. L’unica via di uscita è spezzare la catena dell’inconsapevolezza e diventare coscienti del proprio meccanismo difensivo.

Ma per trovare il coraggio di farlo, occorre anche sapere che esistono altri modi per affrontare i problemi; che un altro approccio può essere attuato e che questo approccio può essere efficace e alla portata di tutti. Insomma: occorre un barlume di speranza. Si tratta, ancora una volta, di passare dal saper fare al saper essere, e dagli obiettivi immediati a quelli meno visibili, ma a lungo termine.


La modalità meccanicistica e interventista con la quale molti sono stati cresciuti fa sì che, in presenza di un problema, ci si senta in dovere di fare qualcosa per “aggiustare” ciò che non funziona. E quindi si cade nell’ansia e nella frustrazione. Ma la risposta più efficace e pronta non è quella di intervenire a riparare, ma di entrare in empatia e di esserci, di accogliere le emozioni negative del bambino, di abbracciarlo anche emotivamente, con accettazione, e non negare o minimizzare.


La fiera resistenza che spesso si leva alla proposta di una guida gentile come approccio educativo ha dunque radici profonde e generalmente inconsapevoli; si radica nell’esperienza sofferta, dimenticata della propria infanzia, e nel ricordo rimosso di quando si sono subiti metodi educativi senza cuore da parte delle persone affettivamente più importanti, i propri genitori.

Non è facile, per un adulto che a suo tempo è stato cresciuto con questi princìpi, guardare alla sua storia personale senza veli né abbellimenti: troppo dolorosa, e troppo incongrua nei confronti di figure genitoriali che, proprio perché hanno causato sofferenza con le migliori intenzioni, sono stati idealizzati.


Ed ecco la frase, triste e irritante: “Ma io amo i miei genitori, e loro mi amavano!”

Ma nessuno ha detto che criticare i metodi di un genitore significhi incitare all’odio. Semmai alla compassione, perché anche loro sono stati a loro volta vittime di una certa cultura che li ha disconnessi dal loro istinto e sentimenti.

Sostituiamo il MA con un E:


“I nostri genitori ci volevano bene E ci hanno educati con metodi violenti”.

“Ho preso tante botte E amavo i miei genitori”.

Sembra un paradosso ma purtroppo succede proprio così: a volte si cresce con amore e con dolore, con struggimento e paura, e questo tipo di educazione, fra le altre cose, porta l’individuo così cresciuto a essere più facilmente vittima di chi abuserà di nuovo di lui “per il suo bene”, quindi a cercare relazioni in cui la passione e la violenza sono mescolate insieme.

La psicoanalista Alice Miller ha dedicato la sua vita ad analizzare queste antiche ferite, i meccanismi di rimozione e di perpetuazione della violenza, e i modi per emanciparsi da questi fardelli. A proposito del processo interiore necessario per diventare genitori consapevoli la Miller scrive:


Molte persone… hanno capito che l’abbandono dell’atteggiamento infantile con tutte le relative limitazioni non implica necessariamente la rinuncia all’affetto per i genitori. (…) Vi sono riuscite perché si sono sottratte allo stato di infantile sprovvedutezza e inconsapevolezza e si sono messe nella condizione di poter capire il disagio in cui erano – allora – i loro genitori. Non hanno più bisogno di continuare a dire che le botte di mamma e papà hanno fatto loro del bene, benché sia vero proprio il contrario. Non hanno nemmeno più bisogno di continuare a incolpare i genitori come fa il bambino piccolo che non capisce ancora il perché dell’ingiustizia che subisce. Oggi sono in grado di definire esattamente ciò che è accaduto e di immedesimarsi nella posizione altrui7.


Ripensare in modo critico, ma compassionevole, a come i genitori ci hanno cresciuto non solo non impedisce di amarli, ma anzi, una visione critica apre le porte a un affetto più grande, perché non più condizionato da quello che ci hanno dato di buono, e quindi conduce a un amore senza riserve, a prescindere dalle esperienze positive o negative ricevute nella nostra relazione con loro.


I genitori hanno bisogno di essere protetti dai loro sentimenti?

La rimozione collettiva delle sofferenze dell’infanzia, per effetto della pedagogia nera, non è limitata ai genitori, ma si può riscontrare anche negli insegnanti, nei terapeuti, nei pedagogisti, nei legislatori, nei giornalisti, a ogni livello e in ogni settore.


Ci si difende dalla verità minimizzando gli effetti negativi dell’autoritarismo, o negando i benefici di un approccio rispettoso e gentile. Anzi, per buona misura ci si spinge a colpevolizzare e censurare chi raccomanda l’alto contatto, l’allattamento a termine, la disciplina dolce.


Quando le evidenze a favore di questi ultimi si accumulano e diventano difficili da confutare, ciò viene vissuto come una minaccia o un attacco. Sembra che al giorno d’oggi ci sia insomma una soglia di tolleranza bassissima per voci dissonanti: appena qualcuno esprime un’opinione diversa dalle posizioni più omologate, la cosa viene presa sul piano personale, come un giudizio in merito sulla persona.


Accade così che ogni volta che si parla di aspetti positivi della maternità c’è qualcuno che diventa reattivo e legge questo come un rimarcare una negatività di chi non è madre, e celebrarne un aspetto viene considerato come un deprecare il suo opposto; parlare della fisiologia del parto e della bellezza di partorire in modo attivo e indisturbato viene vissuto come biasimo per chi ha effettuato un cesareo, oppure un “rigirare il coltello nella piaga” per chi ha magari subìto un parto violento; e quando si parla dei benefici dell’allattamento c’è qualcuno che lo legge come un riprovazione per chi non ha allattato. Parlare dei fattori protettivi dell’allattamento diventa un’insinuazione che le madri che non allattano siano responsabili di una minor salute dei loro figli; illustrare i benefici del co-sleeping viene letto come una squalifica per i genitori che hanno scelto la culla per il loro bebè; accennare al benessere reciproco e alle gioie dell’alto contatto viene vissuto come un’accusa verso le madri a “basso contatto” di aver cresciuto figli infelici; viene sollevato l’odioso argomento della “non inclusività”, della presunta discriminazione fra “madri di serie A e di serie B”.


Un atteggiamento ipocrita, un pregiudizio non facile da smascherare, perché i messaggi che provengono dall’ambiente sociale e dai media sono spesso capillarmente diffusi, e coerenti fra loro.


La cultura del distacco, che non esita a colpevolizzare i genitori che hanno scelto uno stile prossimale di cura dei figli, diventa improvvisamente protettiva verso i genitori che hanno adottato approcci più distaccati, e gli operatori e i divulgatori che si occupano di salute perinatale vengono esortati a non insistere troppo sui benefici delle scelte più fisiologiche, in quanto ciò farebbe “sentire in colpa” i genitori che per qualche motivo, e spesso loro malgrado, hanno seguito una strada diversa.


Al posto di un atteggiamento di onesta comunicazione delle evidenze scientifiche, e di empowerment dei genitori attraverso informazioni e sostegno, si sceglie la strada del paternalismo e della rassicurazione. Si cerca allora di minimizzare e di convincere la donna che “I bambini crescono ugualmente bene con il latte artificiale” o che “L’importante è che stiate tutti e due bene”. Le frasi consolatorie e minimizzanti però non aiutano nell’elaborazione delle esperienze di perdita: questo non è sostenere i genitori, ma diventare complice di un processo di negazione. La donna che non ha raggiunto il suo obiettivo non ha bisogno di sentirsi dire che ciò per cui si è data tanta pena in fondo non aveva così valore e “Tanto è lo stesso, basta che tu sia serena”: ha bisogno di qualcuno che la ascolti veramente e la accompagni, sostenendola mentre elabora il suo lutto di non aver partorito vaginalmente o di non aver allattato, aiutandola a comprendere perché è successo, a capire che non si è trattato di mancanza di volontà o di egoismo o di un corpo difettoso.


I genitori non hanno bisogno di essere protetti dai loro sentimenti di rabbia o di delusione; e il senso di colpa non nasce dalla conoscenza ma al contrario dalla non comprensione dei meccanismi che portano al fallimento di un progetto personale. I genitori consapevoli e bene informati sanno scegliere senza bisogno di consiglieri più o meno titolati; non hanno bisogno di protezione, e sanno difendersi più che bene da soli dai tentativi di condizionamento o di indottrinamento. Il senso di colpa è una palude che ci invischia e ci paralizza; il senso di responsabilità emotiva ci restituisce lo slancio. La verità rende liberi: di capire, di scegliere e di agire secondo coscienza.


Troppo amore, poco amore

Il bisogno di connessione, nutrimento e sicurezza del genitore si esprime per natura nella ricerca di contatto fisico ed emotivo con il bambino, affiancandolo nella sua esplorazione del mondo e rispondendo in modo pronto ai suoi segnali. Questo viene spesso letto e deprecato come “iperprotettività” e come “troppo amore”.


Nulla è più irritante di questa etichetta. Amare troppo è impossibile. Quello che viene indicato come amare troppo è forse eccesso di qualcos’altro. In altri casi, il “troppo” amore è semplicemente amore.


C’è qui un errore logico a livello di definizioni. Si definisce un certo tipo di accudimento, chiamiamolo soffocante o iperprotettivo, come troppo amore (o troppo contatto, protezione, attaccamento), chiamandolo appunto amore ma dandogli un’enfasi quantitativa, quando il problema della relazione è semmai di tipo qualitativo. Una relazione di accudimento empatica, amorevole, rispettosa non può definirsi tale ed essere nello stesso tempo “eccessivamente” empatica, amorevole, rispettosa. Proprio perché empatia, amore e rispetto richiedono di rispondere ai bisogni dell’altro e non ai propri, non imporranno mai nulla oltre ciò che l’altro richiede o necessita, nemmeno il contatto o la protezione. Se ciò che si dà al figlio diventa eccessivo, soffocante, limitante, riduttivo, se l’adulto sta facendo da “campana di vetro”, come insinuano certe teorie, non siamo sconfinati nel “troppo”, ma abbiamo al contrario diminuito la nostra disponibilità ad amare, comprendere, rispettare, proteggere; ci stiamo sostituendo al bambino e attuando un metodo di accudimento come fosse una faccenda di regole da applicare, senza essere veramente in ascolto.


Un approccio amorevole sostiene, comprende, infonde fiducia e forza, affiancando il bambino nelle esperienze buone come in quelle cattive, con amore e compassione. E questo tipo di amorevole presenza e affiancamento non può mai essere eccessivo. Il troppo accudimento, il troppo amore, possono essere in realtà solamente un mancato accudimento e un mancato amore; cioè un amore o un accudimento che manca il bersaglio.


Alla fine, riflettendo sull’annoso equivoco che confonde gli approcci gentili con una debolezza dei genitori, il nocciolo dell’incomprensione si riassume proprio nella difficoltà che alcuni hanno nell’intendere il concetto stesso di amore. Non tutti hanno avuto l’esperienza appagante di ricevere un amore incondizionato; troppo spesso un bambino riceve affetto e accettazione di sé solamente quando agisce e appare secondo i desideri dei genitori.


Ma amore incondizionato non significa accettare e approvare ogni comportamento o richiesta del bambino: significa accogliere la sua essenza, cioè il suo sentire, il suo modo unico di pensare, significa mettersi nei suoi panni ed essere capaci di guardare il mondo con i suoi occhi, prima di fare di nuovo un passo indietro e dialogare con lui su ciò che “può” o “non può” fare. Senza questo presupposto, il bambino percepirà solo imposizioni o lusinghe, e il no del genitore sarà ricevuto come un rifiuto di sé come persona, un’imposizione e una negazione dei suoi sentimenti e punti di vista.


È facile che i genitori vengano biasimati per essere troppo possessivi, o iperprotettivi, o soffocanti, ma succede anche che vengano criticati per essere negligenti, non abbastanza preoccupati per i loro figli o perché li lasciano troppo liberi senza curarsi dei pericoli a cui li espongono. In realtà, la riluttanza o la disponibilità che le madri hanno a separarsi dai loro figli e ad affidarli ad altri, ad attivarsi al primo pianto o restare sedute e lasciare che il figlio se la cavi da solo, non sempre e non solo dipendono dal modo di essere di ciascuna madre: dipendono anche e soprattutto dal bambino, e poi dal contesto e dalla situazione di quel momento; aspetti che una madre o un padre spesso sa cogliere e valutare meglio di chi è esterno alla relazione genitoriale.


Se non ha senso il concetto di “troppo amore” non avrà senso nemmeno parlare di poco amore: l’amore o c’è o non c’è. E non avrà più nemmeno senso raccomandare una quantità giusta o moderata di amore. Spostando l’enfasi dalla qualità della relazione alla quantità, la nostra cultura del distacco opera uno sviamento e fraintendimento di questioni molto importanti, alimentando l’idea della disciplina dolce come lassismo o iperprotettività. Evitiamo perciò i giochi di parole, osserviamo la qualità di una relazione piuttosto che la quantità, chiamiamo le cose con il loro nome, e i costrutti teorici di questo tipo crolleranno come un castello di carte.


La rivoluzione della tenerezza
La rivoluzione della tenerezza
Antonella Sagone
Crescere i figli con una guida gentile.Scegliere la via della gentilezza per accompagnare i bambini a diventare individui integri e capaci di empatia, attraverso la presenza affettuosa, l’ascolto dei loro sentimenti e bisogni, il dialogo. La guida gentile non è essere sempre perfetti e nemmeno essere sempre accondiscendenti: è porsi ai nostri bambini con onestà e rispetto della loro integrità, è scegliere di saper essere piuttosto che di saper fare, di avventurarsi nel mare tempestoso delle emozioni e attraversarlo, insieme a loro, con empatia, e usare queste emozioni come guida per comprendere e conciliare i bisogni di tutti.Confermare il bambino nei suoi sentimenti e nelle sue sensazioni, accogliere la sua percezione anche quando non collima con la nostra, aiutandolo ad ampliare la sua visione delle cose e includere quella più vasta della società, è la strada per crescere individui integri, capaci di valutare in modo critico ciò che la vita propone loro, e quindi in grado di esprimere al massimo il loro potenziale.Al di là della falsa scelta fra autoritarismo e lassismo, nell’educazione dei bambini c’è una terza via, quella della gentilezza, che Antonella Sagone presenta nel suo libro La rivoluzione della tenerezza.Attraverso la presenza affettuosa, l’ascolto dei loro sentimenti e bisogni, il dialogo onesto e rispettoso, gli adulti possono, senza rinunciare al loro ruolo di guida, accompagnare i bambini a diventare individui integri e capaci di empatia, con una base affettiva sicura e la capacità di connettersi con gli altri e con l’ambiente intorno a loro, cambiando in meglio il mondo. L’ebook di questo libro è certificato dalla Fondazione Libri Italiani Accessibili (LIA) come accessibili da parte di persone cieche e ipovedenti. Conosci l’autore Antonella Sagone, psicologa in area perinatale e consulente professionale in allattamento materno IBCLC e formatrice; da 40 anni si occupa dei processi fisiologici della maternità e paternità, e delle pratiche di assistenza e sostegno che promuovono la salute e l’empowerment della madre e di tutte le persone coinvolte nell’accudimento e nella crescita del bambino.