SECONDA PARTE - I FONDAMENTI DI BASE - CAPITOLO IV

Copro e legame

Neurofisiologia del legame

Il bambino appena nato ha bisogno di un luogo sicuro, per affrontare le complesse interrelazioni di questo mondo. Paragonato ad altri esseri viventi, il suo equipaggiamento di comportamenti istintivi è piuttosto limitato, se non altro è insufficiente per cavarsela da subito con le proprie forze nell’ambiente che lo circonda. Il cucciolo umano necessita di una relazione stabile e fidata con una o più persone empatiche, per poter autoregolare il proprio comportamento in base alle sue necessità.

Oggi sappiamo che dispone di tutto ciò che serve a comunicare direttamente alla nascita con un’altra persona nella sua “nicchia” ecologica: vede nitido da vicino, sente l’odore del seno materno e il battito del suo cuore, di cui conserva il ricordo. La natura ha predisposto tutto in dettaglio affinché questo primo incontro possa funzionare. Cosa succede invece se le condizioni non corrispondono alle aspettative filogenetiche del bambino? Qual è la risposta fisiologica di un bambino appena nato, se la sua necessità di essere al sicuro in braccio non è sufficientemente soddisfatta? Per poter rispondere, in questo capitolo rivolgiamo lo sguardo alle basi neurovegetative della prima relazione tra genitori e figlio. Ci interessa particolarmente come viene modulato e regolato nel profondo dell’organismo il comportamento istintivo di genitori e bambino. Dato che i metodi del PSE mirano specificatamente proprio alle basi vegetative della capacità di relazione, vale la pena soffermarsi sulle funzioni del sistema nervoso autonomo.

Quando vi alzate la mattina, pensate a come batte il vostro cuore? Oppure, prima di andare al bagno, controllate come state respirando? E quell’occhiata alla quantità di saliva in bocca, la date? Be’, se la mattina state bene e i parametri fisiologici sono nella norma, probabilmente non penserete affatto a nulla di tutto questo. C’è proprio da rallegrarsi che il cervello ci risparmia questo lavoro! Io almeno sono felice di non dovermi preoccupare ogni mattina della respirazione, della dilatazione delle pupille e della secrezione ottimale dei succhi gastrici. Il mio cervello - e anche a voi deve succedere lo stesso - è libero per la normale routine quotidiana, che prevede di leggere il giornale, conversare con mia moglie e i figli, e dare un’occhiata all’agenda. Diventiamo davvero consapevoli del controllo autonomo del corpo solo quando non riesce a gestire bene le attività di ogni giorno. Per esempio, il cuore che batte all’impazzata prima di un esame, trattenere il fiato dallo spavento o perdere la voce da quanto la bocca è diventata secca, sono tutti segnali d’allarme che ci avvertono di un intoppo, o di qualcosa fuori posto, nelle funzioni vitali di base. A quel punto ci accorgiamo di respirare, sudare e produrre secrezioni corporee.
Nell’essere umano la parte del sistema nervoso che garantisce il controllo delle importanti funzioni che garantiscono quotidianamente la sopravvivenza occupa davvero poco spazio; si tratta del sistema nervoso autonomo (SNA), detto anche vegetativo o viscerale20. Il sistema nervoso autonomo si trova nel tronco encefalico, la parte più arcaica del cervello da un punto di vista evolutivo. Lo ritroviamo con caratteristiche simili in altri esseri viventi, come i rettili, tanto che viene anche chiamato cervello rettiliano21. Questa definizione risale alle ricerche del neurofisiologo McLean, il primo a parlare negli anni Settanta di una suddivisione in tre parti del cervello: il tronco encefalico, antico da un punto di vista evolutivo, da cui dipende tutto ciò che ha a che vedere con la sopravvivenza; il sistema limbico, deputato all’organizzazione di sentimenti ed emozioni e infine la parte più recente, la neocorteccia, considerata la sede delle funzioni cerebrali più sofisticate, come il pensiero astratto e la consapevolezza, che differenziano particolarmente l’essere umano da tutti gli altri animali22.

Il sistema nervoso autonomo (SNA) è, quindi, innanzitutto deputato alle funzioni legate alla nostra sopravvivenza e ne modula un gran numero, come per esempio la respirazione, la circolazione sanguigna, la temperatura corporea e la sudorazione. Da lui dipende una risposta biologica appropriata in caso di pericolo, quando abbiamo paura. Dobbiamo ringraziare il sistema nervoso autonomo se, senza bisogno di riflettere, ci mettiamo subito in salvo sul marciapiede quando una macchina sta per investirci, o se siamo pronti ad attaccare chi minaccia una persona cara. Questa parte del sistema nervoso si attiva quando si tratta di rendere disponibile energia per la reazione di attacco o fuga23.
Accanto alla regolazione di funzioni corporee, il sistema nervoso autonomo influenza in modo significativo importanti aspetti psichici, come per esempio la regolazione delle nostre emozioni e la scelta di ciò che attira la nostra attenzione. Nell’illustrazione seguente viene presentato il ruolo del sistema nervoso autonomo nelle singole funzioni psichiche e fisiche. Il SNA è un sistema di controllo del corpo fondamentale e regola importanti funzioni psicosomatiche, al punto che potremmo definirlo il nostro sistema di base. Vedremo subito come un suo disequilibrio ha conseguenze fatali per la capacità di relazione e il benessere.

Ritmi corporei

Chiudete gli occhi un attimo e immaginatevi di incontrare vostro figlio (o un’altra persona cara). Pensate a una bella situazione avvenuta di recente, in cui vi siete sentiti proprio bene vicino a lui. Forse riuscite a ricordare com’è quando si addormenta in braccio a voi, ne percepite il peso, il calore e magari anche il ritmo del respiro. Ogni volta che inspira, si solleva un po’ la coperta. Forse vi viene in mente cosa avete provato in quel momento: innamoramento, connessione e vicinanza.

Mentre queste immagini scorrono dentro di voi, fate attenzione ai cambiamenti nel vostro corpo. Forse determinate parti del corpo si rilassano. Notate come probabilmente le spalle si sciolgono e la respirazione scorre più lenta e ritmica. Pensare a belle situazioni vissute con vostro figlio potrebbe risvegliare in voi un senso di calore e, se prima avevate le mani e i piedi freddi, adesso magari sono caldi e ben irrorati. Insomma si espande in voi un senso di benessere e felicità.

Quanto successo in questo piccolo viaggio immaginario è una versione ridotta di ciò che una madre vive a stretto contatto con il neonato finché resta in risonanza con le sue richieste di contatto, le sue necessità e le sue reazioni emozionali, e il sistema nervoso autonomo adotta quindi la modalità di funzionamento tipica di quando ci sentiamo al sicuro. Il ramo parasimpatico del SNA si attiva di pari passo con il senso di sicurezza e connessione, ed è sempre coinvolto quando ci rilassiamo, rigeneriamo e ricarichiamo. Quando, dopo aver pranzato, ci distendiamo per mezz’oretta sul divano a riposare, quando sonnecchiamo rilassati nelle braccia del nostro partner o dopo un banchetto ciondoliamo sulla sedia sazi e fiacchi, è il parasimpatico a prendere il comando del nostro corpo per un po’. Un legame sicuro e stabile con una persona conosciuta è indispensabile affinché il bambino possa ritirarsi in se stesso, rilassato e pieno di fiducia.
Grazie a nuovi studi sul neonato oggi sappiamo quanto sono importanti le fasi di calma, in cui sembra non faccia niente a parte essere presente a se stesso, per rielaborare le sue impressioni dell’ambiente circostante e raccogliere le forze in vista della prossima escursione24. Ma come reagisce il sistema nervoso autonomo, se il bambino piange ore intere in braccio alla madre che non riesce a calmarlo? Cosa succede, da un punto di vista fisiologico, quando un bambino di due anni piange disperato perché ha perso la madre nelle corsie del supermercato? Quali processi vegetativi si attivano quando mi arrabbio con mio figlio, che per l’ennesima volta ha sparpagliato i suoi vestiti per tutta la casa e ignora la mia richiesta di rimetterli in ordine?

Quando siamo sotto stress e ci sentiamo spaventati e oppressi - non importa per quale motivo - assume il comando l’altra diramazione del sistema nervoso autonomo, quella del simpatico, che è sempre all’opera quando dobbiamo attivarci, impegnarci e concentrarci. Il simpatico mobilita le risorse dell’organismo e ha un effetto eccitante e rivitalizzante. Una delle funzioni fondamentali del simpatico riguarda la mera sopravvivenza. Se la nostra vita è in pericolo, grazie alla sua attivazione si rende spontaneamente disponibile molta energia, che possiamo dirottare sui muscoli e sul cervello per affrontare la minaccia incombente. Per esempio, nel caso veniamo aggrediti nel buio da uno sconosciuto, il simpatico - grazie al quale valutiamo il pericolo in modo automatico, senza doverci pensare troppo25 - mobilita immediatamente le forze necessarie per metterci in salvo.
Cercare una soluzione con un’analisi critica da parte della neocorteccia sarebbe in tal caso molto impegnativo e soprattutto troppo lento. Ne va della nostra vita! Altre parti del cervello invece sono in grado di individuare in una frazione di secondo quel piccolo passaggio che permette di sfuggire all’aggressore e, senza fermarvi a riflettere, già correte con il cuore che batte all’impazzata in quella direzione. È accettato universalmente che la reazione di attacco o fuga dipenda dall’attivazione del sistema nervoso simpatico. In generale il simpatico non gode affatto di buona fama. Si reputa che sia all’origine dello stress, della tensione e di molte paure che caratterizzano il mondo industrializzato di oggi. In un certo senso, è il “cattivo” della vita moderna. Tuttavia, va segnalato che gli dobbiamo anche una serie di effetti positivi sul nostro corpo, basta pensare al piacere della suspense quando guardiamo un film d’azione. La maggior parte di persone trova oltremodo gradevole una conversazione animata con gli amici, una conferenza appassionante, l’eccitazione alla vigilia di un esame o ancora la trepidazione prima di un incontro amoroso. Possiamo lasciarci andare a queste intense esperienze solo perché sappiamo che la tensione e l’eccitazione dovute al simpatico scemeranno presto. Nel caso non accada, come in alcuni film polizieschi moderni dove dopo novanta minuti di estrema suspense manca il colpo di scena finale e non possiamo scaricare la tensione, quel brivido piacevole si trasforma in delusione e frustrazione.
Nei primi processi di relazione, genitori e neonato necessitano entrambi di una certa energia e vitalità per nutrire l’interazione e il legame. Pertanto, la madre ha bisogno del sostegno del simpatico quando gioca con il figlio di poche settimane, per imitare la sua mimica facciale, alzare la voce, produrre determinati toni e attirare l’attenzione. Madri e padri depressi non sono in grado di interagire in modo stimolante con il bambino: il loro volto resta inespressivo, non sembrano coinvolti e non emanano affatto la vitalità e l’eccitazione che ci vorrebbero per attirarne l’attenzione26. In un organismo sano il sistema nervoso autonomo passa continuamente da una modalità all’altra, come se fosse capace di “oscillare”.
In un bambino appena nato quest’aspetto della regolazione vegetativa si osserva molto facilmente: contenuto da una relazione sicura ed empatica con il suo partner di legame, è in grado di passare molto rapidamente da una fase di rilassamento, dove è a contatto con se stesso, a una di attività, dove esplora l’ambiente e interagisce con esso. Durante le fasi di ritiro e rigenerazione, si riposa in braccio alla madre, cullato dal ritmo del respiro. La voce a lui ben nota, il rassicurante battito del cuore, il profumo della pelle… tutto gli trasmette: “Sei al sicuro qui, puoi ritirare le antenne, non hai bisogno di stare in allerta.” In queste fasi di riposo prende il comando il ramo parasimpatico del sistema nervoso autonomo. Il neonato rivolge l’attenzione dentro di sé, il processo digestivo procede tranquillo mentre l’attività muscolare è il più possibile “spenta”.
Il bambino è in grado di entrare in contatto con se stesso, rilassato, solo se si sente al sicuro, accoccolato sul corpo di un adulto. In queste fasi controllate dal parasimpatico, si riempiono le sue riserve di energia e rielabora le esperienze precedenti. Ma, ribadiamo, questo tornare-in-sé riesce soltanto a patto che il bambino appena nato si senta abbastanza al sicuro. Solo grazie alla fase di rilassamento sul corpo della madre, il bambino raccoglie le forze che gli servono per poi confrontarsi in modo attivo con l’ambiente. Un’attivazione moderata del sistema nervoso simpatico porta a un aumento lento di eccitazione e tensione nel suo corpo. Ora guarda la madre negli occhi e ascolta la voce calma e amichevole con cui gli parla, con il tipico linguaggio da bambini. Dopo un po’ inizia a rivolgere l’attenzione ad alcuni oggetti, forme e colori che percepisce nelle immediate vicinanze. Motricità ed espressività del bambino sono molto più vitali e attivi nelle fasi di veglia rispetto a quelle di riposo.
Dopo questo intenso scambio con l’ambiente circostante, il neonato è sazio di stimoli ed esperienze nuovi. Si ritira, inizia a diventare irrequieto, aumenta la tensione nel suo corpo, forse comincia a lamentarsi piano piano e fare alcuni movimenti di suzione con la bocca. A questo punto la madre reagisce ai suoi segnali e gli offre il seno. Dopo alcuni minuti di piacevole e ritmica poppata, la tensione se ne va, si abbandona sul corpo della madre, si calma e per un po’ resta nelle sue braccia in uno stato di trance. Un bambino sano e capace di autoregolarsi è in grado di far oscillare il suo organismo tra simpatico e parasimpatico a seconda delle condizioni interne ed esterne. Come vediamo nello schema, il fattore decisivo per la capacità di regolazione vegetativa del neonato è il dissolvimento della tensione accumulata grazie a un processo di apertura e rilassamento. Nel capitolo seguente illustreremo cosa succede, invece, se non c’è oscillazione ritmica tra i due diversi stati nel neonato e nell’adulto accanto a lui.

Ai tempi dei castelli - una piccola digressione

Per figurarci meglio come funziona il nostro organismo nei momenti gradevoli di rilassamento, o al contrario in quelli di grande insicurezza, grazie a una straordinaria macchina del tempo vi invito a dare un’occhiata a come si viveva in un castello medioevale nel 1234. Sicuramente vi è già capitato di visitare simili costruzioni difensive, che di solito si trovano in cima a una ripida collina. Se siete saliti a piedi dovreste ancora ricordare di esserci arrivati stremati e con il fiatone, ma sicuramente ricordate anche il grandioso panorama davanti ai vostri occhi.

Ora ci risparmiamo volentieri la fatica e atterriamo con la macchina del tempo direttamente alla porta della fortificazione. La costruzione dei castelli segue più o meno sempre lo stesso modello, e anche quello scelto da noi, su una collina lungo il Reno, non fa eccezione: dispone di svariate torrette di avvistamento, che permettono di guardare ancora più lontano; le mura di cinta sono spesse, con tre o quattro enormi porte protette da ponti levatoi; all'interno c’è la piazza del mercato, con diversi edifici e costruzioni in cui vivono la famiglia nobile con la servitù, gli artigiani e i soldati. Le case più belle dentro le mura sono riservate ai signori e lì si trova anche il quartier generale del castello. Ora diamo uno sguardo all'interno. L’anno 1234 sembra essere un periodo di pace. È giorno di mercato, le porte sono spalancate e c’è un via vai continuo: sono arrivati molti commercianti a offrire la loro merce e si sentono i grugniti dei maiali, i nitriti dei cavalli e il chiocciare delle galline in vendita.
Gli artigiani attirano i clienti a gran voce e i cantastorie propongono con entusiasmo le ultime vicende di paesi lontani. In breve, è un luogo pieno di vita in cui le persone si sentono al sicuro e, pertanto, sono soddisfatte e serene. Sulle torri e agli ingressi le sentinelle, che devono impedire l’ingresso di visitatori indesiderati, sono mezze addormentate, si danno il turno e ammazzano il tempo giocando a carte. In tempo di pace hanno ben poco da fare.

Saliamo adesso di nuovo sulla macchina del tempo e vediamo cosa succede nello stesso castello dieci anni più tardi. I tempi sono cambiati, alcuni parenti del conte hanno dichiarato guerra e ci sono truppe nemiche pronte ad attaccare accampate fuori dalle mura. Le mura stesse brulicano di arcieri e soldati pronti a combattere. A parte un paio di bambini che giocano, la piazza del mercato è deserta e la vita sociale sembra scomparsa. Tutti coloro in grado di portare un’arma si trovano sulle mura ad aspettare l’attacco nemico.
Si sente estrema tensione nell’aria e gli occhi sono puntati sui soldati fuori dalle mura. Cosa significa questa calma? Come mai non succede niente? Improvvisamente un gruppo di arcieri si avvicina e si dispone in formazione per lanciare frecce infuocate verso il castello. Si sentono le grida dalle torrette di avvistamento e gli ordini secchi dei soldati. Gli incendi vengono spenti rapidamente, però questi brevi attacchi nemici lasciano tracce. I soldati, ormai di guardia da molti giorni, sembrano deboli e sfiniti.

Alcuni sono al limite delle forze, ma si tengono svegli a vicenda perché in ogni momento potrebbe arrivare il grande attacco. Durante la notte si susseguono ancora piccoli attacchi nemici, stavolta con raffiche di pietre catapultate dentro al castello. Aumenta il nervosismo e l’agitazione, il minimo attacco già scatena reazioni piene di rabbia. In generale, il morale delle truppe nel castello è a terra, la tensione è palpabile e si scarica sempre più di frequente in risse e litigi. Tutti desiderano che finalmente inizi la battaglia, oppure che i signori firmino l’armistizio.

Stress e indebolimento del legame

Ma torniamo al neonato: i genitori di un bambino che piange eccessivamente si trovano in una situazione di stress molto paragonabile a quella dei soldati nel castello. Quando Maria si è presentata per la prima volta in ambulatorio non si rendeva ancora conto del suo livello di stress. Erano un paio di settimane ormai che non riconosceva più suo figlio Till di quattro mesi.

Racconta come prima fosse un bambino molto calmo, di cui era facile occuparsi. Dormiva bene, prendeva volentieri il seno e sorrideva molto quando giocava con lui mentre gli cambiava il pannolino. Tutto è cambiato nelle ultime cinque settimane, a seguito del suo ricovero in ospedale per ernia ombelicale.

In quell’occasione, dopo essere stata preparata all’intervento assieme a Till e aver compilato i moduli, aveva dovuto affidarlo a un’infermiera che è scomparsa con lui dietro una pesante porta metallica. Alcuni minuti dopo lo aveva improvvisamente sentito piangere da lontano, e aveva continuato per un’ora intera senza che lei sapesse esattamente cosa stesse succedendo. Più tardi il primario le aveva detto che c’erano state difficoltà con l’anestesia.

Da quel giorno Till ha iniziato a piangere più volte al giorno, all’improvviso, in modo forte e incontenibile. Durante gli attacchi di pianto è come se si trovasse in un altro mondo. Lei cerca sempre di parlargli, ma lui per lo più non reagisce e non ricambia lo sguardo. La cosa peggiore per lei è proprio che, in quei momenti, non risponde più alle sue attenzioni. Ogni volta che piange le sembra di lasciarlo di nuovo solo, com’è successo all’ospedale. Ogni volta rivive quella situazione e non riesce a perdonarsi di non aver fatto nulla. Non avrebbe dovuto permettere in nessun caso che Till venisse allontanato da lei.

Da alcune settimane vive nella paura che quelle terribili crisi di pianto continuino a ripetersi. Dopo il ricovero in ospedale, Till vuole stare sempre in braccio e anche solo andare al bagno o fare una doccia adesso è diventato un’impresa, dato che subito inizia ad agitarsi e a piangere. Anche quando sembra tranquillo, teme che da un momento all’altro si metta a piangere, e al minimo segno di vita è già tutta tesa. La sera lei ha bisogno di molto tempo per liberarsi dall’agitazione e potersi finalmente addormentare per un paio di ore. 

Durante il giorno il suo compagno deve lavorare e lei ce la fa a malapena ad arrivare alla sera, passeggiando per ore nel parco. Till, cullato dal movimento del passeggino, è tranquillo e dorme profondamente, ma non appena lei si siede su una panchina per riposare, si sveglia e diventa subito irrequieto.

Quella di Maria è solo una tra centinaia di testimonianze molto simili e l’abbiamo scelta come esempio emblematico del possibile effetto di uno stato di stress e paura che si protrae nel tempo: una simile situazione indebolisce e mina alla base il legame. A seguito della separazione in ospedale, della paura che ha avuto e del senso di colpa che prova, la madre si trova in una continua tensione simpaticotonica. La sua difficoltà ad addormentarsi, la mancanza di appetito, la preoccupazione e l’affievolirsi della capacità di sintonizzarsi con il bambino sono una conseguenza diretta dello stato di allarme in cui si trova il suo corpo. Da un punto di vista neurofisiologico l’organismo della madre reagisce come se si trattasse tutto il tempo di questione di vita o di morte, non importa se il bambino sta piangendo o se in quel preciso momento dorme placidamente.

Ci sono davvero similitudini interessanti con la situazione nel castello medievale descritta precedentemente. Quando c’era la minaccia incombente dell’assedio delle truppe nemiche, si osservava un fenomeno paradossale, che si presenta anche nel disturbo precoce del legame e della regolazione: l’attenzione si sposta verso l’esterno e, contemporaneamente, si chiude il confine del sistema, ovvero in quel caso le porte del castello. Simili meccanismi si osservano nei genitori in crisi di fronte al pianto del neonato: la loro attenzione si concentra esclusivamente su di lui e si riduce fortemente la capacità di ricevere e rielaborare gli stimoli sensoriali, come per esempio i rumori e le sensazioni tattili. Nel nostro esempio, la madre è prigioniera di un’attività incessante, ma perde sempre più la capacità di sintonizzarsi empaticamente con i messaggi non verbali del bambino.

La tensione continua del suo corpo le impedisce di risuonare con le necessità e gli stati emotivi del neonato. L’iperattivazione del sistema nervoso simpatico è quindi all’origine dei differenti sintomi psicosomatici che Maria vive quotidianamente assieme al figlio, tra cui il fatto che si aspetta una nuova crisi ed è in ansia per questo, la tensione muscolare, l’eccessiva attività motoria, l’insonnia e la perdita di appetito. Essi non sono altro che diverse manifestazioni del profondo disturbo della regolazione neurovegetativa, che sta durando da alcune settimane. L’agitazione eccessiva e continua dei genitori, con una forte connotazione ansiosa, impedisce inoltre di giungere a un’autentica ricarica energetica durante le crisi di pianto. Il corpo dell’adulto che sta accanto al neonato resta in una modalità di funzionamento accelerata e, di conseguenza, rapidamente si manifesta una sindrome da affaticamento (burn-out).

Piangere per allentare lo stress

Il bambino dispone di un repertorio limitato per segnalare che le sue necessità e le sue richieste di contatto non sono sufficientemente comprese e accolte. Se l’adulto accanto a lui è tutto il tempo teso e sotto stress, aumenta inoltre notevolmente il rischio che le sue necessità non vengano soddisfatte in modo adeguato. Da una prospettiva psichica e neurovegetativa, la perdita di sintonizzazione e connessione con la persona primaria di legame rappresenta un pericolo. Il bambino, di fronte al continuo indebolirsi di una relazione importante, reagisce automaticamente attivando il sistema nervoso simpatico. Diversamente dall’adulto, però, non può allontanarsi né proteggersi dalla fonte di disagio. Nel neonato l’attivazione del simpatico porta a un aumento dell’attività motoria, degli attacchi di pianto, della produzione di ormoni dello stress e anche dei momenti di veglia.

Con il pianto segnala che i suoi bisogni fondamentali (fame, sete, etc) non sono del tutto soddisfatti, che la sua integrità fisica (dolore) è in pericolo, che gli stimoli sono eccessivi o che il contatto sicuro con la persona primaria di riferimento non è sufficiente. In pratica, piangendo il neonato segnala un disequilibrio interno o esterno. La situazione cambia solo se l’adulto accanto al bambino percepisce i suoi segnali di disagio e risponde con empatia. Tutto dipende quindi dalla corretta interpretazione dei messaggi non verbali del bambino e da un’appropriata risposta da parte del suo partner di relazione. Con questa premessa, capiamo che il pianto serve anche a ripristinare l’equilibrio nel neonato per quel che riguarda il suo stato di eccitazione, dato che potenzialmente è in grado di allentare lo stress simpaticotonico. In questo senso è imprescindibile una relazione con i genitori, o con altre persone di riferimento, che gli trasmetta sufficiente sicurezza e tranquillità.

Prendiamo ad esempio un bambino spaventato perché il medico gli sta infilando un ago per effettuare un prelievo di sangue. Mentre prima era completamente rilassato, ora d’un tratto il suo corpo si contrae e inizia a piangere e agitarsi. In un primo momento resta ancora teso, è scosso da tremiti e tiene gli occhi spalancati, a poco a poco però, proprio grazie a questa reazione corporea, la tensione si scioglie.
Se chi gli sta accanto e lo tiene in braccio resta calmo e tranquillo, già dopo pochi minuti è in grado di ritornare alla modalità parasimpatica e rilassarsi. A mio parere il ruolo del pianto sull’equilibrio energetico viene largamente sottovalutato. A patto di essere sostenuti da una persona primaria di legame, piangere fino in fondo, in modo liberatorio, è un importante meccanismo di autoguarigione per il neonato27. Guarda caso la repressione del pianto infantile è molto diffusa proprio nelle culture in cui lo è anche una separazione prematura tra madre e bambino28.
Percepire e interpretare accuratamente il pianto del bambino aiuta i genitori a correggere il loro comportamento, se non corrisponde alle necessità del bambino.
Ecco un piccolo esempio:
La madre di un neonato di otto settimane decide, l’ultimo fine settimana prima di Natale, di andare in città per comprare gli ultimi regali, portando il bambino nel marsupio. Dato che vorrebbe rientrare a casa prima di pranzo e la lista degli acquisti è lunga, corre affannata da un negozio all’altro. Dopo due ore il bambino si sveglia, irrequieto e agitato. Costretta dalla necessità, la madre decide di sedersi un attimo al bar per allattarlo. Però, durante la poppata, già pensa al negozio successivo e non trova la pace interiore per dedicarsi pienamente a lui. Il bambino percepisce la sua scarsa attenzione, non si rilassa abbastanza e non riesce a prendersi quel momento di ritiro dentro di sé di cui avrebbe bisogno, per rielaborare gli stimoli delle ultime ore. Finita la pausa, la madre continua la sua maratona nella zona pedonale e neanche mezz’ora dopo il bambino si fa di nuovo sentire. Tende le gambe, si irrigidisce tutto e segnala in modo non verbale che ha raggiunto il limite della sua tolleranza. Nel giro di un paio di minuti già piange disperato in braccio alla mamma.
In questa situazione la madre può reagire solo in due modi ai messaggi non verbali di suo figlio: riconoscere che sta suonando il campanello d’allarme e correggere il suo atteggiamento, oppure affrettarsi a portare a termine il suo piano, senza prendersi cura di lui.

Nel primo caso capisce che il bambino le sta comunicando di essere sopraffatto dal giro di compere, dai numerosi stimoli e dalla sua scarsa presenza, e decide per esempio di rimandare l’azione a un altro giorno e rientrare a casa, dove subito si dedica intensamente a lui. Non appena la madre è di nuovo rilassata e disponibile al legame, il bambino ritrova la sicurezza emozionale che gli permette di esprimere con ancora maggiore intensità quello che ha vissuto. In braccio alla madre può abbandonarsi a un pianto liberatorio e allentare lo stato di stress del suo organismo. Grazie al sostegno emozionale della madre, può “raccontare” la sua versione della storia e, grazie al pianto liberatorio, può ripristinare la capacità del suo corpo di autoregolarsi per quel che riguarda la modalità vegetativa.

Questo libro si propone di incoraggiare genitori e professionisti a smettere di temere il pianto del bambino e di cercare di evitarlo a tutti i costi, e iniziare a considerarlo parte di un meccanismo di autoguarigione innato. Pertanto, nel Pronto Soccorso Emozionale, non si cerca di reprimere il pianto ma piuttosto, grazie a un sostegno emozionale mirato, di mettere i genitori nella condizione di riconoscere i segnali del bambino e stargli accanto in modo empatico. Essendo più sensibili ai suoi segnali, i genitori sono in grado di soddisfare più velocemente le sue necessità.

Il mondo delle amebe

Come reagisce il neonato se una delle persone più importanti per lui, da cui dipende proprio la sua sopravvivenza, da giorni è preoccupata e tesa? Cosa gli succede se, quando piange, questa persona reagisce solo molto lentamente, con gesti meccanici e lo sguardo assente? Per le strutture più antiche del cervello umano questa mancanza di presenza emozionale equivale a una situazione di pericolo. È “ragionevole” che un bambino appena nato si apra solo quando si sente sufficientemente al sicuro e ben contenuto, ed è altrettanto “ragionevole” - sempre riguardo la sua sopravvivenza - che si chiuda se viene ripetutamente esposto a situazioni sgradevoli, prova dolore o ha paura. Ma cosa succede se si chiude in modo permanente e non esce più dal suo guscio? La regolazione dell’attrazione e della repulsione, che altrimenti serve a proteggere il sistema, si è scollegata dal resto? Se così fosse, possiamo ancora parlare di comportamento “ragionevole” ai fini della sopravvivenza?
Già all’inizio del ventesimo secolo, Sigmund Freud, il fondatore della psicanalisi, aveva ipotizzato che l’aprirsi e il chiudersi dell’organismo fosse un principio naturale universale profondamente radicato. In una nota aveva paragonato la fluttuazione della libido, che si espande e poi si ritira, al movimento primitivo delle amebe29. Freud non sapeva nulla delle attuali ricerche sul cervello, ma intuitivamente non aveva dubbi su una possibile similitudine tra i complessi processi psichici dell’essere umano e quelli semplici di regolazione degli esseri viventi ancora privi di cervello. Il suo allievo Wilhelm Reich lo ha preso di parola e, negli anni Trenta, si è dedicato allo studio degli organismi monocellulari30.
Gli interessava soprattutto come essi reagissero a improvvisi cambiamenti dell’ambiente, quando diventa sgradevole e non corrisponde più alle “aspettative” naturali. Cosa succede se un’ameba viene punta con un ago, viene fatta passare una debole corrente elettrica nella soluzione in cui si trova, o ancora viene esposta a una forte vibrazione, per esempio sbattendo un oggetto sul tavolo dove si trova il microscopio? In pratica, era interessato a vedere come reagivano le amebe allo stress.

Sembra che anche un’ameba possa essere “attanagliata” dalla paura o, perlomeno, questo è quel che sembra. Normalmente esplora vivace l’ambiente con gli pseudopodi, ma in caso di stimolo sgradevole li ritrae, si appallottola e resta così per alcuni minuti, prima di espandersi lentamente e riassumere la forma originaria. Sottoposta allo stesso stimolo in modo ripetuto, ritrae gli pseudopodi sempre più velocemente e ha bisogno di sempre più tempo per riprendersi dallo stress. Al microscopio si osserva come diventa “prudente”: si rimette a tastare attorno a lei con grande lentezza, come se verificasse che sia davvero tutto a posto
31.
Quando la situazione diventa troppo stressante, perché a causa di impulsi elettrici, della temperatura o delle punture dolorose l’ambiente in cui si trova non corrisponde più a quello naturale, allora si ritira in modo permanente. Al microscopio si vede che non allunga più gli pseudopodi e riduce ogni attività vitale. Il movimento del plasma alla superficie diminuisce, e permane solo una leggera pulsazione al centro32.

Sicuramente non è corretto trasporre tout court all’essere umano questa reazione biologica, tuttavia è un dato di fatto che chiunque può riconoscersi nell’ameba e notare la somiglianza tra i primitivi movimenti plasmatici e quel che succede quando è spaventato, deluso, e si ritira in se stesso. Anche noi esseri umani abbassiamo le saracinesche, ci chiudiamo e diventiamo cauti, se i nostri slanci d’amore restano ripetutamente insoddisfatti. Diversamente dall’ameba, però, disponiamo di un cervello complesso al servizio della nostra sopravvivenza e non siamo costretti a limitarci alla reazione di contrazione ed espansione: possiamo riflettere sulla situazione e parlarne con altre persone, per modificarla, difenderci o scappare.
Ma, nonostante l’evidente evoluzione avvenuta dall’organismo monocellulare all’essere umano, sembra proprio che abbiamo conservato la modalità primitiva di regolazione. Un bambino separato più volte nei primi mesi dall’adulto che si prende cura di lui, che ha trascorso settimane in ospedale circondato da macchine rumorose e altri neonati che piangono, non si sentirà al sicuro in questo mondo. Come l’ameba “stressata” reagisce ritirando i “sensori”. La terribile reazione psicofisiologica di stress del suo organismo rispecchia la mancanza di contenimento nel suo mondo sociale.

Se un bambino viene esposto per un lungo periodo a stress, perde la capacità di spegnere autonomamente la modalità simpaticotonica: il suo sistema nervoso autonomo non riesce più a uscire dallo stato di allarme. Anche dopo essere stato dimesso dall’ospedale, rientrato a casa dai genitori, continua a funzionare a pieno regime, come se fosse in pericolo. I momenti di veglia sono più lunghi, succhia il seno avidamente e come se avesse fretta, non ricambia lo sguardo e in generale è agitato, anche nei movimenti. Si ritira se lo accarezziamo delicatamente o gli rivolgiamo la parola con dolcezza. Il suo organismo reagisce a ogni contatto con l’ambiente - indifferente di che tipo - come di fronte a uno stress.

Corazza corporea e perdita del legame

Le più grandi fonti di stress nella vita di un neonato sono la mancanza di attenzioni amorevoli e la separazione dalla persona di riferimento più importante, specialmente se queste situazioni si protraggono nel tempo. Intanto sappiamo che, in caso di assenza prolungata o scarsa disponibilità emozionale delle persone di riferimento più importanti, il neonato - o il bambino piccolo - entra in uno stato d’emergenza neurofisiologico, e non solo psichico33.

È stato dimostrato che, in caso di legame con genitori con uno stile di attaccamento insicuro-evitante, nel neonato l’aumento di rilascio dell’ormone dello stress cortisolo si cronicizza. In pratica, un vissuto psichico di mancanza di sicurezza interna ed esterna è inscindibile da una modificazione delle funzioni corporee nel neonato. Nel frattempo ricerche di neurobiologia hanno ampiamente confermato l’unità funzionale tra corpo e psiche34.

Nel Pronto Soccorso Emozionale, che nasce dalla moderna sperimentazione in psicoterapia corporea, ci interessiamo a questi aspetti e, soprattutto, ci chiediamo come vengono fissate le emozioni nel corpo quando siamo esposti in modo prolungato nel tempo a condizioni in cui proviamo intenso dolore, paura o disagio. Come si manifesta con il linguaggio corporeo, se reprimiamo un’emozione, o ci difendiamo da essa? Come cambiano la postura, la fluidità dei movimenti o la capacità di concentrarci su quello che cattura il nostro interesse, quando non ci sentiamo al sicuro e, dunque, ci ritiriamo in noi stessi? Fin dagli anni Trenta, Wilhelm Reich, che è stato un pioniere della psicoterapia corporea e della medicina psicosomatica, iniziò ad approfondire come si fissa nel corpo quel che accade quando ci difendiamo da forti emozioni di rabbia, paura o attrazione. Reich è stato uno dei primi a notare che la repressione delle emozioni si manifesta sotto forma di tensione cronica dei muscoli e dei tessuti in determinate parti del corpo35.

Già nei primi anni il bambino impara a reprimere specifici processi emozionali, quando lo mettono in conflitto con la persona di riferimento più importante, quella con cui ha la relazione d’amore più forte. Secondo il modello proposto da Reich, ogni volta che vive una situazione di conflitto il bambino perde parte della sua flessibilità e della capacità di esprimersi, sia a livello emozionale sia somatico. Reich in un primo momento usò l’espressione di “corazzamento” emozionale e corporeo, per sottolineare che si tratta di un processo di crescente chiusura e irrigidimento verso l’esterno36.

In realtà, in tal modo l’organismo del bambino cerca di risolvere le situazioni di forte conflitto vissute nell’età dello sviluppo. Il timore di non essere più amato dalla persona con cui il bambino ha la relazione più importante è la motivazione principale per trattenere le emozioni. Se la madre gli nega il sostegno emozionale, lo punisce con lo sguardo o lo rimprovera quando è triste, il bambino adotta, in modo quasi esclusivamente non verbale, lo schema psico-strutturale dei genitori. Trattenendo le lacrime, il bambino non reprime soltanto l’emozione che sta provando, ma anche il conflitto che, se piangesse, nascerebbe con un’importante persona di riferimento. Questo processo provoca una tensione cronica nei muscoli e nei tessuti della gola. Negli anni Quaranta e Cinquanta Reich si dedicò particolarmente allo studio dell’origine dei disturbi precoci della regolazione nel neonato e nel bambino piccolo37. Riconobbe come nel neonato il processo di formazione della corazza avvenga in modo diverso rispetto al bambino più grande, che per esempio sa già parlare38.
Infatti, dato che non si sono ancora sviluppati alcuni specifici sistemi psichici di difesa, il neonato non è in grado di reprimere in modo mirato le emozioni “pericolose” e reagisce contraendo l’intero organismo quando si interrompe - in modo puntuale o duraturo - la relazione con una persona di riferimento importante. Come una chiocciola, il neonato ritira i “sensori” emozionali e corporei e si isola dal resto del mondo. Arriva a ritirarsi completamente solo nel momento in cui le sue proteste e i suoi segnali d’allarme sono stati ignorati e trascurati. Nel corso delle sue ricerche Reich ipotizzò che, nel bambino, le prime esperienze traumatiche non si fissino nei muscoli, ma nel sistema plasmatico e nel tessuto connettivo39.

In un certo modo il sistema plasmatico del bambino reagisce a un forte stress quasi come quello di un’ameba: si contrae e si irrigidisce, tentando disperatamente di difendersi dalla paura di morire che ha provato alla nascita. Ciò spiega anche come mai spesso il neonato dopo una nascita e/o una separazione traumatica sia tutto rigido e il suo corpo sembri un tubo di gomma ghiacciato: perde ogni flessibilità e capacità di abbandonarsi e rilassarsi40.

Questa teoria psicosomatica di Reich ben si presta a spiegare come un’esperienza di legame insicuro si ripercuota sulle funzioni biologiche del neonato. Secondo questo modello - che è una colonna portante del Pronto Soccorso Emozionale - la formazione della corazza nel neonato viene vista come risposta corporea a una prima relazione di legame non abbastanza sicura. La contrazione della muscolatura e del tessuto connettivo è, quindi, da un lato la manifestazione fisica della mancanza di relazione, dall’altro una strategia di sopravvivenza per compensare il senso di insicurezza e pericolo41.
Dal punto di vista del PSE si tratta di un fenomeno molto significativo, dato che abbiamo sempre osservato come il ripristino della capacità di legame nei genitori, e quindi di una relazione sicura e contenitiva con il figlio, sblocchi nuovamente nel neonato i processi che erano stati “congelati” nei tessuti del corpo. Non appena i genitori ritrovano la sicurezza in se stessi, viene a galla la sofferenza legata a traumi vissuti in precedenza, fino a quel momento rimossa, e può essere finalmente espressa.

Cause delle crisi dopo la nascita

Nella pratica clinica si osserva come, nelle situazioni di crisi, più aumenta lo stato di stress e ansia nella madre, più aumenta la tensione nel neonato, e viceversa. L’insicurezza della madre limita la sua capacità di cogliere i segnali del bambino, e lo stress permanente le impedisce di comprenderne appieno il suo linguaggio corporeo. Solo raramente è possibile individuare un motivo plausibile del pianto e ciò non fa che aumentare la tremenda tensione in chi si aspetta da un momento all’altro lo scoppio di una crisi. Il bambino percepisce nel corpo, per l’ennesima volta, che la madre non si dà pace. Si accorge che respira a malapena, il suo sguardo è sfuggente, il suo corpo meno accogliente del solito e anche la sua voce non è carezzevole come nelle giornate serene. Il neonato entra così in uno stato di forte tensione e non riesce ad uscirne. L’attivazione prolungata del simpatico si riconosce dal fatto che piange a lungo, non sembra mai soddisfatto delle poppate, dorme poco e male, tendendo a svegliarsi a ogni minimo disturbo, inoltre la sua percezione degli stimoli è ridotta, evita lo sguardo e ha un’attività motoria eccessiva. La diminuzione della disponibilità al legame e l’aumento della tensione corporea vanno, quindi, di pari passo con uno stato di stress e paura che perdura nel tempo sia nei genitori sia nel bambino, e segnalano senza ombra di dubbio una dinamica di crisi post partum. La crisi si manifesta quando i partner di legame non riescono a uscire con le proprie forze da una condizione di stress e pericolo, che vivono su di un piano sia psichico sia corporeo.
Quali sono dunque le cause profonde dei disturbi appena descritti nella prima relazione di legame tra genitori e neonato? Cosa rivelano le ricerche più recenti? Esse sembrano confermare ciò che i professionisti che accompagnano genitori e bambini nei momenti di crisi vivono quotidianamente, e suggeriscono che i disturbi della regolazione della prima relazione tra genitori e figli potrebbero dipendere: a) da molteplici fattori; b) sia dal bambino sia dall’adulto; c) dal vicendevole rafforzamento dei processi dell’adulto e del bambino. Infatti, nella persona di riferimento il disturbo della regolazione può venir attivato dai conflitti nella vita di coppia, dalla mancanza di sostegno dell’ambiente familiare, da una situazione economica precaria o ancora dal fatto che i genitori stessi, quando erano piccoli, hanno sofferto per la mancanza di un legame sicuro42.

Per quel che riguarda il bambino, invece, nuovi studi mostrano che, durante la vita prenatale, uno stato prolungato di stress, emozionale o corporeo ne influenza il temperamento e la capacità di regolazione dopo la nascita43. Ma anche nel caso in cui, a causa di uno stress cronico, il bambino ha un “carattere difficile”, le risorse interne ed esterne della persona di riferimento fanno la differenza.
Se la relazione di coppia dei genitori è stabile, sono inseriti in una buona rete sociale e dispongono di una sufficiente capacità di autovalutazione ed empatia, allora sono in grado di stargli comunque accanto, contenendolo. D’altro canto, una madre eccessivamente ansiosa e paurosa, terrorizzata da ogni possibile difficoltà, può arrendersi alla minima sollecitazione sentendosi subito impotente e disorientata.

Compensazioni dei disturbi precoci del legame

In ambulatorio capita spesso che i genitori raccontino di sentirsi come minacciati dal pianto e dall’agitazione del figlio e parlino apertamente di senso di impotenza, delusione e rabbia. Nella maggior parte dei casi viene del tutto a mancare il flusso interno di informazioni, e i genitori, non riuscendo più a decifrare i segnali del neonato, si sentono disorientati e incapaci di agire. È normale che, quando il bambino piange, nei genitori si attivi il sistema nervoso simpatico, che contribuisce a generare la tensione, la concentrazione e la vitalità necessarie per riconoscere e affrontare in tempo una situazione di pericolo. Il pianto del neonato, anche da un punto di vista neurovegetativo, serve a mettere in allarme e scuotere l’adulto, che idealmente verifica le possibili cause, per esempio fame o bisogno di contatto, prendendosene cura amorevolmente.

Se così avviene, si crea un’esperienza di relazione positiva che rafforza il legame. Ovviamente brevi fasi di tensione, delusione e rabbia rientrano nell’inevitabile sfida di essere genitori. Tuttavia, è completamente diverso se, per via della sua intensità, della sua durata e della sua frequenza, il pianto diventa un peso per i genitori. In tal caso perde la sua funzione di rafforzare il legame, anzi accade proprio il contrario: di fronte ai segnali di disagio del neonato, i genitori reagiscono con rifiuto e repressione, perché da un punto di vista neurovegetativo reagiscono come se fossero in grave pericolo. La continua paura di perdere il lavoro o il compagno è , infatti, del tutto paragonabile all’insicurezza di una madre che da giorni o settimane non riesce a calmare suo figlio quando piange da un punto di vista neurofisiologico.

Per evitare che l’agitazione aumenti ulteriormente, spesso i genitori ricorrono a un vero e proprio arsenale di strategie per calmare il bambino. A questo proposito, nel Pronto Soccorso Emozionale chiamiamo “contatto sostitutivo” il tentativo disperato di regolare il pianto e il malessere nel neonato. Ne sono un tipico esempio offrire continuamente il seno, cullarlo per ore e ore, sollecitarlo con determinati rumori, come quello dell’aspirapolvere o della lavatrice. Di solito, per catturare l’attenzione del bambino, vengono stimolati intensamente uno o più canali sensoriali. In un certo senso, questa strategia segue il principio di spegnere il fuoco con il fuoco stesso: per arginare l’attivazione del simpatico, il bambino viene talmente sommerso da stimoli che il cervello, totalmente sopraffatto, non riesce a rielaborare.

Dalle nostre osservazioni tuttavia emerge che la “saturazione” dei canali auditivi, visivi, orali o tattili è soltanto di breve durata. Di fatto lo stato vegetativo cambia solo superficialmente e, anche se in un primo momento c’è davvero sollievo, alla fine il profondo stato di stress e tensione mostra di nuovo il suo vero volto. Molti genitori intuitivamente se ne rendono conto e ammettono di adottare una strategia di “fuga”, sentendosi minacciati dal pianto del neonato. In particolar modo si accorgono che sono costretti a stimolarlo senza posa per ottenere quello che tanto desiderano: che smetta di piangere. Ma, anche se, con determinati stimoli proposti con insistenza, in un primo momento il bambino si calma, non si instaurano la vicinanza e la connessione che i genitori altrettanto desiderano.

Per esempio, prendiamo una madre con il bambino in braccio che cerca di calmarlo molleggiandosi su una palla da ginnastica, ma sta respirando superficialmente, è tutta tesa e il suo livello di ormoni dello stress è alle stelle: nonostante i suoi sforzi, né nel bambino né in lei la situazione neurovegetativa cambia, anche se la sua strategia qualche effetto sortisce, in quanto il movimento permette di scaricare l’energia inutilizzata.

Detto in altre parole, finché la madre gira per casa camminando veloce con il bambino in braccio, non sente fino a che punto ha accumulato paura, rabbia e delusione per aver perso la connessione con lui. Pertanto, muoversi senza posa, quello che è un contatto sostitutivo per lei quando deve stare accanto al figlio che piange disperato, è al tempo stesso un modo per difendersi da forti emozioni e una risorsa. Volendo fare prevenzione, va segnalata ai genitori una strategia alternativa, che nasce da un altro tipo di visione, perché possano abbandonare il sistema di protezione che hanno usato fino a quel momento. Anche per il bambino il contatto sostitutivo offerto dai genitori è un’arma a doppio taglio. Da un lato, gli permette di avere un contatto “superficiale”, ma dall’altro non risolve la sua difficoltà profonda, e in più gli viene impedito di esprimere cosa sente. Non può comunicare cosa lo mette a disagio. Vorrebbe protestare perché non riceve abbastanza attenzione dai genitori, e invece viene zittito con il seno, oppure con il biberon.

Vorrebbe esprimere il dolore che ha provato quando, durante la degenza in ospedale, è rimasto per settimane separato dalla madre, e invece viene cullato finché non si calma. In conclusione, offrire un contatto sostitutivo significa reprimere fortemente i segnali di disagio del bambino, e questo a sua volta impedisce ai genitori di essere empatici con lui, comprenderlo e quindi poter correggere quelle condizioni inappropriate, a cui reagisce con stress e allarme. Se i suoi messaggi non vengono compresi, non gli resta che arrendersi e “seppellire” i conflitti da qualche parte nel corpo.

Questo è quello che succede quando, per esempio, dopo un po’ il neonato smette di piangere e inizia lui stesso a reclamare direttamente la stimolazione orale sostitutiva del biberon o del ciuccio. Per evitare malintesi, preciso come io stesso promuova la pratica del portare i bambini addosso e l’allattamento al seno a richiesta, e sia un convinto sostenitore del contatto corporeo con il bambino, consapevole del significato che ha per la prevenzione. Tuttavia, negli ultimi anni ho osservato con crescente preoccupazione come stia aumentando il numero di neogenitori che scelgono l’allattamento al seno, portano in fascia e in generale seguono una modalità ad alto contatto allo scopo di evitare che il bambino pianga. Allora, e solo in questo caso, c’è il rischio che quei genitori entrino in un vicolo cieco. In tutti gli altri casi invece si tratta di un tipo di accudimento che, nei momenti difficili accanto al bambino, contribuisce a ripristinare vicinanza e connessione.

La forza del legame
La forza del legame
Thomas Harms
Il pronto soccorso emozionale nelle situazioni di crisi con i bambini.Un prontuario per genitori, psicoterapeuti e professionisti della salute del periodo perinatale per conoscere e gestire i momenti di crisi del bambino. Il Pronto Soccorso Emozionale offre ai genitori che si trovano in difficoltà con i propri figli l’opportunità, fin dai primi momenti dopo la nascita, di (ri)trovare e rafforzare il filo emozionale che li unisce. La descrizione del Pronto Soccorso Emozionale che Thomas Harms svolge nel libro La forza del legame è rivolta agli psicoterapeuti, ai genitori e a tutti i professionisti della nascita, della prevenzione, dello sviluppo o della consulenza nel periodo primale. Conosci l’autore Thomas Harms, psicologo, offre da più di 25 anni consulenza e psicoterapia corporea orientata al legame a neonati, bambini e adulti.Dal 1997 è direttore del Zentrum für Primäre Prävention und Körperpsychotherapie (Centro per la Prevenzione Primaria e la Psicoterapia Corporea) a Brema.