quarta parte - capitolo xiv

Lo scioglimento del trauma

La plasticità e la vitalità tipiche di ogni neonato possono riattivare nell’adulto accanto a lui traumi passati non rielaborati, e ciò avviene soprattutto se, a causa di situazioni di stress precoci, la capacità di regolazione del bambino è disturbata, piange spesso e richiede molta attenzione. In questo caso il pianto del neonato è in grado di far scattare i cosiddetti flashback109, per cui la madre può ritrovarsi a rivivere il senso di impotenza e disorientamento provato prima, durante o dopo il parto, accompagnato dalle relative reazioni corporee (come l’accelerazione del battito cardiaco). Spesso la correlazione con l’evento passato non viene riconosciuta, e si reputa che il panico e il senso di impotenza paralizzante siano dovuti unicamente al pianto del bambino.
Ora illustrerò come queste reazioni a catena legate a traumi non risolti, che indeboliscono il legame tra genitori e figli, possano venir interrotte con il Pronto Soccorso Emozionale. Segnalo che il modello dei sette passi non è particolarmente utile, anzi a volte non funziona affatto, in caso di stress post traumatico, poiché allora la capacità di attingere alle proprie risorse e la disponibilità al legame sono fortemente compromesse. Se l’Io è sufficientemente stabile, un approccio intrapsichico è senz’altro indicato, ma in caso di stress post traumatico - nei genitori o nel bambino - risulta appropriato soprattutto quello interpsichico.

Nel caso infatti il cliente abbia un disturbo della capacità di relazione e di regolazione dovuto a traumi passati tale che il dialogo interno con il corpo è temporaneamente interrotto, il consulente assume il ruolo di co-regolatore. Lo aiuta così a identificare il suo stato emozionale e, grazie alla creazione di una forte connessione, a ripristinare un senso di sicurezza e controllo a contatto con il neonato. A causa della forte compromissione delle risorse, se nel corso della terapia emerge la necessità di una risoluzione del trauma ci vogliono almeno da dieci a quindici sessioni per giungere a un miglioramento stabile dei sintomi, mentre nelle consulenze in situazioni di crisi in caso di disturbo della regolazione moderato o medio si raggiungono buoni risultati già con quattro-dieci incontri.

I segni del trauma nella prima relazione tra genitori e neonato

Quando, a contatto con il neonato, nei genitori si riattiva lo stress da trauma, osserviamo un drammatico acuirsi dei sintomi psicosomatici che ho precedentemente descritto110. La madre vive una traumatica ripetizione, attivata dal pianto eccessivo del bambino, e spesso sente crescere in lei la paura, che nel giro di pochi minuti se non di secondi, da lieve si trasforma in vero e proprio panico, come se si trattasse di questione di vita o di morte. Il senso di impotenza paralizzante va spesso di pari passo con un’incapacità a esprimersi a parole.


Frequentemente il corpo diventa insensibile e come ovattato e, nonostante dal di fuori sembra agire ancora con calma e coraggio, non percepisce più se stessa. Questo stato di dissociazione, in cui interiormente “se ne va via da se stessa”, si manifesta chiaramente nel modo in cui tocca il bambino e lo tiene in braccio, che diventa meccanico e indifferente, oppure nello sguardo assente, uno sguardo in cui è impossibile trovare sostegno. Nonostante la calma esteriore apparente, nel contatto diretto emergono una tensione e un’agitazione enormi e l’atmosfera circostante risulta elettrica.

Ritorno alla sicurezza interiore

Nel lavoro terapeutico con genitori e neonati in caso di trauma, una delle grandi sfide è l’incredibile velocità a cui si presenta l’iperattivazione del sistema nervoso. Spesso basta già la sconvolgente condivisione iniziale delle paure, la delusione e il dolore vissuti durante il parto, perché l’organismo sia sopraffatto. Per questo motivo nell’anamnesi evitiamo che i genitori comincino parlando solo degli aspetti negativi, dolorosi e sgradevoli dello stare assieme al neonato. Infatti, quasi senza eccezioni, ciò porta rapidamente ad accelerazione e ipereccitazione, e spesso crea artificialmente una situazione caotica, dato che il neonato risponde immediatamente alla correlata perdita della disponibilità al legame dei genitori diventando irrequieto e piangendo più forte.

Questo accade in particolar modo se lui stesso è in uno stato di stress e la sua capacità di regolazione è limitata. Per evitare queste dinamiche, nel PSE ricorriamo alla tecnica del cordone ombelicale, ovvero in concreto fin dall’inizio individuiamo una base di sicurezza. Se i genitori dispongono ancora di un minimo di capacità di percezione, possono essere sviluppate ulteriori risorse grazie all’esplorazione delle sensazioni corporee o alle visualizzazioni che rafforzano il legame. Mi piace paragonare il fatto di occuparsi come prima cosa di un sistema di protezione interno ed esterno ai chiodi e alle corde usati per le scalate in montagna. La sicurezza è massima se il peso della persona sulla parete viene distribuito su più chiodi: nel caso dovesse davvero perdere la presa e scivolare, grazie ai chiodi e alle corde che ha portato con sé non precipita nel vuoto. In modo simile nel Pronto Soccorso Emozionale si procede puntando sulle risorse interne111.

Se all’inizio della sessione la cliente individua un punto sicuro del suo corpo, percepisce un contatto con il corpo grazie alla respirazione addominale e riesce, immaginandosi un bel momento assieme al figlio, a rilassarsi e sentire di nuovo fluire calore, allora disponiamo di una rete di vari sistemi di protezione, ai quali possiamo attingere durante il trattamento. Infatti, se durante la sessione scoppia un crisi, ovvero il bambino improvvisamente inizia ad agitarsi e piangere disperatamente, nella maggior parte dei casi non è più possibile impostare queste risorse. Pertanto, specialmente nella terapia di genitori e neonato orientata al trauma, il motto “prima di tutto la sicurezza” diventa imprescindibile.


Tuttavia, anche con la migliore preparazione possibile possono presentarsi d’un tratto situazioni in cui i genitori, colti di sorpresa dall’intensità delle loro emozioni o dalla forza con cui si esprime il neonato, sono talmente scombussolati che perdono del tutto l’autolegame. Quando Ellen, di cui già abbiamo raccontato nel capitolo 2, si cimenta per la prima volta nell’ambulatorio, alla presenza di “testimoni”, nell’accompagnare l’attacco di pianto del figlio Sven di tre mesi, è come se in pochi secondi le crollasse il pavimento sotto i piedi. Più precipita nella morsa della paura, più il cuore le batte all’impazzata e svanisce ogni sentimento d’amore per il suo adorato neonato. D’un tratto diventa nient’altro che un fagottino urlante, e lei vuole unicamente e finalmente farlo smettere. Sembra proprio che non senta più le mie domande.


Grazie alla base di sicurezza che abbiamo concordato in anticipo, percepisco che il filo emozionale si è interrotto del tutto. Ellen prova di nuovo lo stesso senso di impotenza e disorientamento di quando all’ospedale le avevano comunicato che il figlio appena nato era in pericolo di vita. La invito a concentrarsi sul contatto rassicurante con la mia mano. Subito inizia a propagarsi sotto il mio palmo un calore vibrante. Nel mio corpo si diffonde tranquillità, mentre poco prima tensione ed eccitazione erano ancora forti. Contemporaneamente a questo cambiamento nel mio corpo mi accorgo di una delicata sensazione di essere connesso a lei. Solo pochi minuti prima, io stesso ero sorpreso dell’intensità della reazione di madre e bambino, mentre ora per la prima volta comprendo la situazione precaria in cui si trovano entrambi e mi sento loro vicino. Il punto di contatto tra la mia mano e la parte alta della schiena di Ellen genera calore, a conferma dell’avvio di un processo di risonanza e rispecchiamento. Su mia richiesta, Ellen racconta: “Adesso la mano sulla mia schiena ha qualcosa di confortante. Mi sento come avvolta da un caldo mantello. Improvvisamente percepisco di nuovo me stessa. È come un liquido caldo, che si distribuisce in tutto il corpo. Prima dal petto alle braccia, e adesso lentamente anche verso i piedi.”


Mentre la madre parla, Sven smette di piangere e ascolta attentamente cosa sta dicendo. Adesso l’intero ambiente è intriso di grande vicinanza e intimità, che aumentano ancora non appena iniziano a guardarsi intensamente negli occhi. Il metodo del cordone ombelicale funziona come un freno, non appena i processi tra genitori e bambino iniziano ad accelerare. Prendendo contatto con la base di sicurezza, la madre ritorna a un luogo stabile, che le offre sostegno. Pochi secondi prima che la madre si renda conto del senso di panico e di resa, l’operatore può già percepire la reazione psicofisiologica di indebolimento della connessione info-energetica. Accanto a questa constatazione “energetica”, ovvero ciò che prova l’operatore per risonanza, ci sono altri piccoli segnali vegetativi utili per accorgersi di una crisi imminente, come il visibile aumento della tensione corporea, le pause che precedono l’inspirazione o il movimento oculare agitato.


Come già più volte segnalato, con questo modo di procedere l’operatore funge da aiutante per il Sé del cliente. Grazie alla capacità di regolazione dell’operatore, la madre può ripristinare il dialogo interno con il proprio corpo e la riorganizzazione dell’autolegame in lei va di pari passo con il ripristino della sua capacità di sintonizzarsi intuitivamente con il vissuto del neonato. Nel Pronto Soccorso Emozionale utilizzando il metodo del cordone ombelicale si evita, o almeno si smorza sul nascere, una ripetizione del senso di impotenza, di perdita di controllo e di paura di morire della situazione traumatica originaria. Sperimentare l’aiuto che arriva grazie alla relazione con l’operatore, permette di ritrovare la sicurezza interiore a sua volta terreno fertile per ripristinare il dialogo con i propri messaggi corporei.

Esplorazione del trauma - contattare la paura

Predisporre appropriati dispositivi di freno nell’accompagnamento di genitori e bambini con precedenti esperienze traumatiche è un primo passo importante per garantire una sicurezza interiore e un controllo maggiori, però in molti casi non basta. Di solito nel PSE facciamo un ulteriore passo, che chiamiamo esplorazione del trauma. Questo confronto con la situazione all’origine del trauma può avvenire soltanto quando ci sono sufficienti risorse interiori, come percezione corporea e delimitazione. Se ci sono questi presupposti, utilizziamo specifiche tecniche di visualizzazione per esplorare un po’ più precisamente l’esperienza originaria, entrando in contatto con essa da una distanza sicura.


A questo scopo utilizziamo tecniche di dissociazione artificiale, ovvero proponiamo brevi viaggi di fantasia in cui, partendo da una prospettiva dall’alto, come se fosse su una nuvola, il cliente ritorna al luogo originario in cui ha avuto paura e lo esplora, senza percepire o giudicare ciò che vede in questo “viaggio”. In una sessione successiva, per esempio, con un viaggio di questo tipo Ellen ritorna indietro al momento in cui, dopo aver partorito, il primario entra nella stanza. Si vede nel letto d’ospedale ed è in grado di descrivere la sua postura e lo sfinimento sul suo viso. Da una distanza di sicurezza riconosce quanto è esaurita e distrutta, dopo tutte le ore di doloroso travaglio, e si accorge di essere al limite delle forze.


Si rende conto che, di fatto, avrebbe solo bisogno di accettare come sta e lasciarsi andare, ma viene travolta da tensione e paura in quanto non sa come sta il bambino. Nella visualizzazione, Ellen improvvisamente riconosce che la donna nel letto d’ospedale - che non è altro che lei stessa - si sente sola e abbandonata e, per la prima volta, sente empatia per il suo smarrimento. Può ora vedere come le forze la abbandonano quando il medico porta la notizia: si arrende, non ce la fa più, l’arco è troppo teso. È come se si spegnesse la luce in lei e non può far altro che lasciarsi andare al suo destino.


L’esplorazione del trauma ha due obiettivi: il primo è identificare il momento in cui l’organismo passa da uno stato di stress a uno di shock; il secondo è riconoscere concretamente l’indebolimento e la pressione che precedono immediatamente lo stress post traumatico. Inoltre ha anche l’obiettivo di riconoscere gli impulsi, i desideri e le necessità presenti prima del crollo, che però a suo tempo non è stato possibile né esprimere né soddisfare. L’aiutante interiore Dopo aver sufficientemente esplorato e scandagliato la situazione traumatica originaria, facciamo ancora un passo importante: nella visualizzazione invitiamo a far entrare un aiutante immaginario nel momento in cui lo stress raggiunge l’apice, quindi appena prima del passaggio dal disagio allo shock.


Questo aiutante, come già abbiamo indicato in precedenza, può anche essere una figura anonima e senza volto, sconosciuta. Suo compito è offrire alla persona in difficoltà qualcosa di benefico, che la sostenga e la rafforzi; può trattarsi di un gesto, della mera presenza nella stanza, o ancora di un contatto corporeo o qualche parola. L’importante è che le immagini emergano spontaneamente dal processo di visualizzazione e non siano suggerite dall’esterno. Riallacciandoci all’esempio precedente, Ellen si rivede esaurita e senza forze seduta nel letto d’ospedale e, improvvisamente, una donna più anziana dagli occhi molto calorosi e vivaci si avvicina a lei e le cinge amorevolmente le spalle con il braccio.


Questo gesto avviene con grande semplicità, senza sforzo, e il suo messaggio è chiaro: “Starò con te. Non sei sola.” Ellen vede che la donna, con quell’abbraccio protettivo, si calma e si rilassa, e si rende conto che avrebbe avuto bisogno di un simile conforto quando aspettare di ricongiungersi con il figlio le era sembrato interminabile e aveva temuto che morisse. Soltanto ora comprende la tragedia che ha vissuto. Scorrono le prime lacrime e sente profonda empatia per la donna sola nel letto d’ospedale. Nel PSE lo sviluppo di empatia con il proprio smarrimento è il presupposto per far pace con quanto vissuto. Ellen si spinge ancora oltre: “In un certo modo adesso posso vedere che, anche nelle situazioni in cui Sven piange disperato nelle mie braccia, mi lascio da sola e mi pianto in asso. Non mi prendo cura della Ellen indifesa, che non ne può più e, nella vita quotidiana, è al limite della sopportazione.” Ora è in grado quindi di riconoscere la correlazione tra il trauma originario e la situazione attuale e si rende conto che anche adesso, quando il bambino piange, avrebbe bisogno che un aiutante interiore le offrisse conforto e sostegno.


Nell’ultimo passaggio, la benefica visualizzazione viene anche tradotta in una reale esperienza corporea oppure, se il cliente si mostra disponibile, nella sessione terapeutica il consulente assume il ruolo dell’aiutante interiore e si comporta nella realtà esattamente come ha fatto lui nella visualizzazione. Nel caso di Ellen, per esempio, le ho chiesto di assumere, tenendo il bambino in braccio, l’identica posizione che aveva quando, nella visualizzazione, è apparso l’aiutante interiore. Dopo che si è sistemata nel centro della stanza assieme al neonato, in quel momento completamente calmo e rilassato, appoggiato a pancia in giù sul suo grembo, le chiedo di descrivere il contatto corporeo offerto dall’aiutante. Ellen mi fornisce istruzioni dettagliate su come la devo abbracciare, fino a quando ritrova esattamente la posizione del viaggio di fantasia.


A quel punto la invito a ricordare l’ultima situazione in cui si è sentita disperata e abbandonata a contatto con Sven. Nel corso di quest’esperienza reale, riprodotta più o meno fedelmente sulla base di quella immaginaria, Ellen è ora in grado di descrivere con chiarezza i cambiamenti che percepisce nel corpo: “È come se l’abbraccio mi aiutasse a connettermi nuovamente con la mia forza interiore. Il senso di solitudine e totale disperazione si trasforma in fiducia e certezza di potercela fare con le mie forze.” Nelle settimane seguenti Ellen continua a vivere momenti di stress e tensione con il figlio, ma adesso è capace di comunicare con il suo corpo e di ricordarsi dell’aiutante interiore. Si ricollega all’immagine dell’abbraccio che la sostiene per ritrovare forza e fiducia.


Tutta fiera, in una sessione successiva racconta che adesso riesce a stare accanto al figlio. Certo, a volte è impegnativo, ma non si scoraggia più come prima. Da un punto di vista pratico, la risoluzione del trauma ha successo se convergono diversi aspetti. Intanto la madre deve prendere atto della situazione di emergenza vissuta in passato, dato che spesso all’inizio la tendenza a negare quello che è successo è forte. Molte madri lo considerano una debolezza e un fallimento, e preferirebbero non sia mai accaduto. Secondariamente, la madre deve riconoscere che in quello specifico stato di stress aveva avuto impulsi e idee, che però non ha seguito, o non ha potuto seguire. Questo aspetto è problematico e spesso si obietta che un simile approccio faccia sentire la madre in colpa. In realtà, invece, nel momento in cui la madre si rende conto che aveva diverse opzioni e le sarebbe bastato un po’ di sostegno per trovare una via d’uscita, improvvisamente comprende quanto le è successo. Si accorge che, poco prima di entrare in uno stato di shock paralizzante, avrebbe potuto esprimere meglio cosa desiderava, chiedere sostegno a qualcuno o seguire l’impulso del suo corpo, anche se sembrava irragionevole. Come si vede dall’esempio di Ellen, il vero significato del ricorso all’aiutante interiore sta nel fatto che si delineano nuove modalità e competenze per stare accanto al bambino nella vita di tutti i giorni. Difatti, grazie all’aiutante interiore, si attivano forze psichiche fino a quel momento assopite, che aiutano i genitori a prendersi cura di sé nei momenti di crisi, cosa che prima non era stata possibile.


Obiettivo di questo approccio non è quindi la ripetizione e la rielaborazione del trauma passato, bensì la riorganizzazione dell’attuale costellazione di legame. Non appena la madre riconosce che quando oggi, nei momenti di impotenza in cui il bambino piange incessantemente, si “lascia da sola”, esattamente com’era successo allora dopo il parto, e sviluppa verso di sé un atteggiamento nuovo che rafforza il legame e le dà orientamento, getta le basi per una relazione con il figlio in cui l’empatia e la sintonizzazione sono migliori.

Esplorazione del trauma e risposta del neonato

Durante l’esplorazione del trauma non è una buona idea che il bambino si trovi a contatto diretto con il corpo della madre. Sono state fatte esperienze positive se il padre o un’altra persona si prendono cura del neonato, restando nella stessa stanza. Altrimenti c’è il rischio che, rivivendo uno stato di paura esistenziale, il neonato viva anche una ripetizione dell’esperienza di legame traumatica che scatta con l’improvviso venir meno della disponibilità al contatto e alla risonanza del genitore. Specialmente se il trauma è avvenuto alla nascita, durante l’esplorazione dei singoli stadi nella madre nel PSE spesso succede che il neonato fornisca con il suo linguaggio corporeo interessanti informazioni su ciò che lui stesso ha vissuto durante il parto o la gravidanza: si tocca precise parti della testa o assume specifiche posizioni. Qualcuno potrebbe dubitare del fatto che davvero il neonato stesso, con il linguaggio non verbale, ci permetta di accedere al suo mondo, come se si trattasse della chiave giusta per una serratura. Nelle consulenze in situazioni di crisi abbiamo però assistito spesso a simili processi, per esempio con la madre di Felix di cinque mesi, che non è riuscita ad aprirsi nella fase conclusiva del parto: non appena si è accorta che tutti i medici, le ostetriche e le infermiere guardavano il suo corpo nudo, si è chiusa e non ha più avuto spinte efficaci.

Mentre racconta, Felix in braccio al padre inizia a emettere suoni come se spingesse e a respirare più velocemente, mentre sulla sua fronte appaiono gocce di sudore112. Dopo un breve momento di calma, inizia a scalciare con impeto e buttare la testa all’indietro, come se fosse bloccata e la volesse liberare a tutti i costi. Continuo a rivolgere la mia attenzione interamente alla madre, però inserisco i segnali non verbali del neonato nel processo terapeutico. Comprendendo intuitivamente il linguaggio del neonato, la madre si rende conto che la sua difficoltà durante il parto andava di pari passo con la difficoltà vissuta dal bambino, rimasto bloccato nel canale del parto. Pertanto, nella terapia l’espressione non verbale del neonato e la narrazione della madre sono perfettamente complementari e permettono di avere un quadro completo della scena traumatica originaria.


Se partiamo dall’ipotesi che tra madre e neonato ci sia una perfetta sintonizzazione dei processi neurofisiologici, emozionali ed energetici già in gravidanza e poi anche durante il parto, allora diventa comprensibile che l’attivazione del vissuto della madre durante l’esplorazione del trauma avvii contemporaneamente anche un processo di risonanza e rispecchiamento nel neonato. Riassumendo quindi, possiamo dire che nel PSE includiamo il linguaggio non verbale e le reazioni vegetative ed emozionali del neonato nel processo di scioglimento del trauma.

La forza del legame
La forza del legame
Thomas Harms
Il pronto soccorso emozionale nelle situazioni di crisi con i bambini.Un prontuario per genitori, psicoterapeuti e professionisti della salute del periodo perinatale per conoscere e gestire i momenti di crisi del bambino. Il Pronto Soccorso Emozionale offre ai genitori che si trovano in difficoltà con i propri figli l’opportunità, fin dai primi momenti dopo la nascita, di (ri)trovare e rafforzare il filo emozionale che li unisce. La descrizione del Pronto Soccorso Emozionale che Thomas Harms svolge nel libro La forza del legame è rivolta agli psicoterapeuti, ai genitori e a tutti i professionisti della nascita, della prevenzione, dello sviluppo o della consulenza nel periodo primale. Conosci l’autore Thomas Harms, psicologo, offre da più di 25 anni consulenza e psicoterapia corporea orientata al legame a neonati, bambini e adulti.Dal 1997 è direttore del Zentrum für Primäre Prävention und Körperpsychotherapie (Centro per la Prevenzione Primaria e la Psicoterapia Corporea) a Brema.