quarta parte - capitolo xiii

Rebonding e processi di contenimento

Fasi del pianto liberatorio del neonato

Cosa succede nelle consulenze in situazioni di crisi, se i genitori smettono di distrarre il neonato con varie strategie e impedirgli di esprimere il suo disagio? Come piange, se viene tenuto amorevolmente in braccio da genitori che non perdono la connessione con il proprio corpo? Ora parleremo delle condizioni emozionali ed energetiche alle quali il pianto del neonato può avere un effetto liberatorio e dare sollievo. Nelle sessioni in situazioni di crisi arriva sempre il momento in cui, ai primi segni di agitazione e pianto, i genitori desiderano stare accanto al bambino in modo diverso, accogliendo le sue emozioni. Per accompagnare questo intenso processo, nelle precedenti sessioni devono già essere stati ben introdotti all’autolegame e averlo sperimentato concretamente.


È importante che sappiano cosa significhi riconnettersi con il proprio corpo, sia per se stessi sia per il bambino. In molti casi avverto i genitori delle reazioni emozionali e corporee che possono presentarsi in loro e nel neonato. Inoltre ci accordiamo su un preciso segnale di stop, con cui possono in ogni momento interrompere e concludere il processo. Non sempre una preparazione preliminare dei genitori è possibile. Spesso durante la consulenza il neonato si mette a piangere all’improvviso, cogliendo tutti alla sprovvista, e allora bisogna immediatamente dar loro istruzioni su come accompagnare il pianto. Come già descritto precedentemente, nel PSE incoraggiamo i genitori a rinunciare ai modi che hanno usato fino a quel momento per calmare il bambino quando è agitato104.

Il venir meno delle strategie di contatto compensatorio spesso basta perché il neonato pianga più intensamente. Tutto ciò che abbiamo detto finora sull’importanza di assumere una posizione comoda è particolarmente valido per il processo di rebonding. Se è presente anche il padre, lo invitiamo a sedersi dietro la madre in modo che lei possa appoggiarsi a lui. Questa semplice posizione, che offre sostegno, già da sola crea un clima di fiducia. A questo proposito, parliamo di “far da madre alla madre” (mothering the mother): la madre stessa riceve le attenzioni che dovrebbe offrire al neonato. Sono molto utili i cuscini da allattamento, o delle semplici coperte, da sistemare sotto le braccia e le gambe per alleggerirla dal peso.

Il neonato viene sistemato a pancia in giù sul corpo della madre, o dell’adulto che lo tiene in braccio, che mette una mano sulla parte superiore della schiena alla base della nuca e l’altra in basso all’altezza dell’osso sacro. Se il neonato ha bisogno di piangere, nel giro di pochi minuti diventa più teso e agitato (fase II): inizia a muovere le estremità e il lamento si trasforma rapidamente in forte pianto. Nello schizzo seguente si può seguire l’andamento dell’agitazione nel processo di rebonding. Alle prime fasi caratterizzate da un aumento della tensione, segue quella in cui nel pianto si riconoscono rabbia e protesta (fase III): molti bambini iniziano a tendere il corpo e rifiutare, per un po’, il contatto con chi li tiene in braccio. In alcuni casi oscillano tra repulsione e attrazione, ma il più delle volte sembra quasi che non sopportino di essere abbracciati.

Successivamente si mette a piangere disperatamente, spaventando chi gli sta accanto (fase IV): il neonato esprime ora quanto si sente in balia della situazione, impotente e disorientato. Mentre nella fase di protesta cerca continuamente lo sguardo, di solito a questo punto chiude gli occhi. In questa breve fase intermedia il fatto che i genitori siano in grado di continuare a sostenerlo e accompagnarlo dipende fortemente dal loro autolegame. Molti sono costretti a interrompere il processo, perché si scoraggiano o hanno compassione del bambino.


A questo punto succede spesso che i genitori perdono di colpo la connessione con se stessi e con il bambino. Segnali certi di questo fenomeno sono per esempio il fatto che trattengono il respiro o respirano più superficialmente, improvvisamente iniziano a rimuginare o ancora sono sopraffatti dalla paura. Nella maggior parte dei casi basta invitarli a spostare nuovamente l’attenzione sul corpo perché tornino a essere più disponibili al legame. Questa breve fase di disperazione si trasforma rapidamente in una di liberazione e apertura (fase V e VI), in cui il bambino muove ritmicamente il corpo per scaricare l’eccitazione corporea dovuta al pianto. Mentre prima era agitato, ora si accoccola contro l’adulto, il suo respiro si fa più profondo e coinvolge tutto il corpo, dalla testa ai piedi.


È interessante notare quanto il cambiamento nel ritmo del pianto si ripercuota sul vissuto soggettivo dei genitori e del consulente: all’inizio riuscivano a malapena a tollerarlo, provando perfino repulsione e rifiuto, mentre ora sentono empatia e sono commossi. La maggior parte delle madri percepisce di colpo la tristezza nel pianto del figlio e le sue necessità. Molti genitori raccontano che, nel momento preciso in cui sono stati toccati dal pianto del bambino, il loro cuore si è riaperto. Spesso è la prima volta che si sentono così connessi e vicini al figlio, oppure ritrovano finalmente una qualità di legame che già c’era stata ma, a causa delle condizioni esterne sfavorevoli, era andata perduta. Molti bambini si calmano presto dopo questa reazione di apertura e restano appoggiati al corpo della madre sereni e con gli occhi ben aperti, mentre lei sente gratitudine e sollievo.


Nella maggior parte dei casi, per alcuni minuti, cercano intensamente lo sguardo, come se volessero verificare che sia davvero tutto a posto. In questa fase di legame (fase VII) il silenzio è impressionante: si tratta di uno stato di presenza totale, dell’immergersi in un incontro umano molto profondo. Nonostante sia stato centinaia di volte testimone di questo processo, ogni volta mi commuovono la bellezza e la grazia di un simile momento. Improvvisamente cala la pace, dove da settimane dominavano lotta, paura e sopraffazione. Si ritrovano unite persone che erano ormai diventate degli estranei, perché paura, rifiuto e odio avevano soppiantato l’amore e la connessione. Pertanto il rebonding, se avviene in tutta la sua forza, è il processo curativo per eccellenza per guarire le ferite legate alla separazione e alla perdita.

Il ritmo neurovegetativo del pianto

Gettiamo un secondo sguardo, da una prospettiva vegetativa ed energetica, alla sequenza appena descritta della dinamica del pianto del bambino. Nella prima fase lo stato di stress aumenta fino ad attivare il sistema simpatico. L’esperienza traumatica di legame, finora rimossa, che aveva spaventato il bambino ed era all’origine della sua reazione di rifiuto psicofisico, emerge ora alla superficie. Il bambino la può percepire. Soltanto grazie a un sostegno saldo e al contatto corporeo con l’adulto accanto a lui, il neonato può ora avere accesso a esperienze che fino a quel momento aveva rimosso. Diversamente dalla situazione di conflitto originaria, in cui si è sentito in grande pericolo ma i suoi segnali sono stati ignorati, questa volta non viene lasciato da solo con la sua paura. Per un breve momento, nel processo di rebonding, prova di nuovo lo stesso dolore e la stessa paura di morire, sensazioni che a suo tempo sono state terrificanti, e il suo sistema vegetativo entra di nuovo in un identico stato di allarme.

Con la differenza che, adesso, il suo pianto - grazie alla stabilità dell’autolegame dei genitori - riesce a raggiungere il loro cuore. L’obiettivo del lavoro di rebonding non è ripetere e rielaborare l’esperienza traumatica di legame originaria, bensì riorganizzare l’attuale dinamica di legame nella relazione primaria tra genitori e neonato. Quando l’organismo del bambino abbandona la modalità di emergenza, che era diventata cronica, può finalmente “incontrare” i genitori, da un punto di vista emozionale e corporeo. Questa riorganizzazione non è necessariamente accompagnata dalla riattivazione delle informazioni legate alla tensione (per esempio, la paura di morire). Sembra che ad alcuni bambini basti che i genitori, con le modalità descritte, ritrovino uno stato di empatia e sensibilità, e quindi la capacità di rispecchiamento e risonanza, per poter allacciare con loro una relazione di legame sicura. Questi bambini ripristinano uno stato di apertura e la loro capacità di autoregolarsi senza vivere, o addirittura essere costretti a vivere, i processi catartici precedentemente descritti.
Nell’illustrazione vediamo come nella prima fase di attivazione nell’organismo prevalga il sistema simpatico. Il bambino si agita, piange, si inarca, stringe i pugni ed evita lo sguardo. In questa fase la disponibilità al legame del bambino è chiaramente ridotta. Raggiunto l’apice dell’attivazione, avviene un netto cambiamento a livello vegetativo e inizia a prevalere il sistema parasimpatico: il bambino si rilassa sempre più e cresce la sua disponibilità a cogliere i segnali e accettare le offerte dell’adulto accanto a lui. La diversa situazione vegetativa permette la sintonizzazione dei processi vegetativi, emozionali, comportamentali e anche corporei tra genitori e bambino. I processi di regolazione della relazione di legame tra genitori e neonato migliorano spontaneamente solo a seguito di questa riorganizzazione della fonte energetica e vegetativa.

Autolegame e pianto

Nel PSE partiamo dal presupposto che, grazie alla stabilità dell’autolegame della persona primaria di riferimento per il bambino, si crea uno spazio di sostegno e sicurezza. Quando la madre si radica nel corpo, percepisce le varie informazioni corporee e ne è consapevole, allora è in grado di offrire al bambino il sostegno emozionale che a sua volta permette al pianto di essere pienamente liberatorio.


Durante il ciclo di pianto, facilitiamo e controlliamo il processo di autolegame principalmente stabilizzando la respirazione addominale nei genitori, ovvero il consulente bada a che non venga meno in loro la connessione con il movimento respiratorio. Nelle consulenze e nella terapia si è rivelato particolarmente utile concentrarsi sull’inspirazione, pertanto invitiamo semplicemente la madre a percepire come la parete addominale si muove verso il bambino quando inspira. L’uso consapevole della respirazione addominale facilita la regolazione parasimpatica dell’intero organismo. A ogni inspirazione il genitore si centra, aumenta il volume respiratorio e, attraverso il diaframma, lo spazio interno si espande fino all’addome, che si gonfia leggermente.


Se la madre ogni volta che inspira si connette al proprio corpo e, allo stesso tempo, sente il contatto corporeo con il bambino, resta per lui un punto di orientamento sicuro anche nei momenti di forte tensione, quando si sente in grave pericolo. Con questo modo di procedere i genitori hanno a disposizione una sorta di biofeedback: la percezione interna della respirazione addominale diventa il sismografo della loro disponibilità al legame e della loro apertura. Non appena si accorgono che il respiro diventa più superficiale, più rapido o addirittura si interrompe, sanno che stanno per perdere la connessione con se stessi e con il neonato.

Mentre il bambino piange, restare concentrati sulla respirazione addominale è un sistema di protezione e sicurezza, sia per i genitori sia per il consulente. Finché la madre, tenendo il bambino in braccio, riesce a restare connessa con il proprio corpo, il radicamento è garantito105. Si potrebbe dire che la respirazione addominale funga da parafulmine per il pianto del neonato. Molti genitori affermano di sentirsi meno stressati e oppressi, e parlano di un improvviso senso di sollievo, dato che riescono a stare accanto al bambino e sostenerlo anche quando ha bisogno di esprimere la sua disperazione. Differentemente da varie altre forme di accompagnamento106, in cui si dà molto rilievo al sostegno corporeo del bambino quando piange, nel PSE il fulcro attorno cui ruotano gli interventi è l’autolegame nei genitori. Se il neonato, all’apice del pianto, percepisce che l’adulto di riferimento resta “in sé” e continua a respirare con un ritmo calmo, ad avere il solito e fidato tono di voce e ad accarezzarlo in modo amorevole e delicato, allora può essere per lui il faro e l’approdo nel bel mezzo dell’uragano emozionale che lo sta travolgendo.
L’obiettivo non è che l’adulto, per esempio la madre, tenga il bambino in braccio per ore mentre piange fino allo sfinimento, ma piuttosto fare in modo che riesca a far sentire al bambino la sua sicurezza interiore. Se i genitori dispongono di scarse risorse, non appena perdono la connessione con se stessi bisogna interrompere il pianto del bambino, altrimenti c’è il rischio che si senta sopraffatto o, addirittura, che sia lui sia l’adulto vengano ritraumatizzati. Il modo più sicuro per evitare tutto ciò è incoraggiare la madre ad alzarsi in piedi e mettersi a camminare. Specialmente se è in preda al panico, sopraffatta dal senso di impotenza, muovendo il corpo scarica l’energia libera, che altrimenti potrebbe nutrire ulteriormente la sua paura. Inoltre, la posizione eretta dà a entrambi un senso di maggiore stabilità e sicurezza. Sottolineiamo ancora una volta l’importanza di accordarsi su un segnale di stop prima di iniziare.

Nei seminari spesso paragono la forza della sessione di rebonding con un rafting in un torrente impetuoso di montagna. Mentre nel modello dei sette passi i processi si sviluppano lentamente, come se si trattasse di una gita in canoa su di un lago calmo, nell’accompagnamento dei cicli di pianto abbiamo a che fare con una carica energetica elevata sia nei genitori sia nel bambino. Una volta avviato il processo, quando il bambino piange liberamente nella braccia della madre, abbiamo a disposizione soltanto la “frenata di emergenza” per interromperlo.

Con la verbalizzazione del segnale di stop i genitori vengono invitati a mettersi in piedi e, prima che siano del tutto sopraffatti, a ricorrere alle strategie che usano di solito per calmarlo. Allattarlo, portarlo in fascia o cullarlo li aiuta, e al tempo stesso aiuta anche il bambino, a ritrovare la sicurezza interiore e a diminuire l’eccitazione corporea. Il rebonding è molto prezioso soprattutto nelle crisi che insorgono nel primo periodo dopo la nascita. Quando i genitori, alla presenza di testimoni, vengono delicatamente introdotti all’accompagnamento del pianto del neonato, sperimentano con sollievo che davvero a un certo punto smette. Contrariamente a quello che si aspettano, in pochi minuti il bambino si abbandona sul loro corpo e si accorgono di essere in grado di aiutarlo a superare una difficoltà che, da solo, non saprebbe affrontare. Spesso, non appena capiscono cosa sia un pianto liberatorio, non temono più le emozioni intense del bambino.

Come relazionarsi con le emozioni dei genitori

Nel rebonding arriva sempre il momento in cui, improvvisamente, il processo che sfocerebbe in un pianto liberatorio sembra bloccarsi, come se il bambino non riuscisse a superare la situazione. Spesso questi momenti critici riflettono una difesa intrapsichica di fronte al crescere della carica emozionale nei genitori. Nel passaggio dalla fase di disperazione a quella di liberazione, infatti, facilmente nella madre affiora il ricordo della paura vissuta nel periodo perinatale, ma spesso tende a reprimere o trattenere le sue emozioni per difendersi, nel caso non riesca ad accettare quello che reputa essere un suo fallimento o una sua debolezza.


Di conseguenza, in lei aumenta la tensione corporea e diminuisce la disponibilità al contatto, e il neonato - che percepisce il diverso stato reattivo dell’adulto accanto a lui grazie alla risonanza vegetativa - perde la sua base emozionale sicura. In altre parole, succede che la difesa intrapsichica di fronte alla paura diminuisce la disponibilità al legame e impedisce una relazione ben sintonizzata tra madre e bambino. L’indebolimento del campo di legame che ne risulta impedisce a sua volta il processo di autoguarigione attraverso il pianto liberatorio. La tendenza a trattenere le emozioni si può sciogliere rapidamente, particolarmente se la madre, o l’adulto in questione, sposta l’attenzione sul proprio corpo e riesce a riconoscere e nominare le emozioni e le sensazioni che prova. Se era stata precedentemente individuata una base di sicurezza, sentire le mani del consulente in quel punto facilita l’espressione delle emozioni represse.


Ciò avviene in modo davvero impressionante se la madre, appena prima dell’apice dell’attivazione, inizia a trattenere le lacrime. In tal caso si nota subito il blocco del respiro, il cambiamento dello sguardo, l’aumento della tensione muscolare delle mani e delle braccia. A volte basta solo invitarla ad accentuare appena l’espirazione perché scoppi a piangere, altrimenti bisogna esplorare cosa l’abbia spaventata quando ha iniziato a trattenersi, o quale emozione rifiuta. Non appena si allenta il blocco emozionale, la madre stessa può lasciarsi andare al pianto liberatorio e spesso questo è il momento in cui smette di controllarsi e si apre nuovamente al contatto con il bambino. Affinché possa addentrarsi profondamente nel suo vissuto corporeo ed emozionale, la madre deve sentirsi al sicuro e fidarsi. In questo senso la qualità della relazione con il consulente è imprescindibile. Abbiamo osservato che, non appena si scioglie il blocco emozionale nella madre, il bambino si apre al pianto liberatorio. Ora che la madre lascia scorrere liberamente le lacrime, anche lui può abbandonarsi allo stesso processo e ritrovare l’equilibrio emozionale e vegetativo.

Il pianto e il trauma della nascita

Spesso, durante l’accompagnamento del neonato, si presenta una situazione particolare: il suo pianto disperato fa scattare nella madre il ricordo di eventi avvenuti al momento del parto in cui si è sentita sopraffatta. Lei stessa allora entra in un stato regressivo e rivive il senso di impotenza e disorientamento che ha provato nei primi giorni dopo la nascita. È interessante che molte donne notano una somiglianza tra il ritmo del pianto del figlio e quello delle contrazioni nelle fasi critiche del travaglio, soprattutto alla fine della fase espulsiva.

Riconoscono in quel pianto pieno di tensione, che sembra non finire mai, le loro grida durante il parto e ricollegano quello che sta accadendo nel presente all’esperienza passata. Ricordano la sofferenza, il dolore, il senso di sopraffazione e percepiscono, anche se in forma attenuata, la disperazione che hanno vissuto allora. Il pianto del bambino, il ricordo del parto e le sensazioni che prova in quel momento nel corpo si fondono in un’unità funzionale. La connessione sicura con il consulente permette alla donna di contattare la paura rimossa vissuta durante il parto, senza però sentirsi nuovamente sopraffatta. D’un tratto la madre riesce ad “ascoltare” lo stato di emergenza in cui si trova il bambino e che esprime piangendo. Molte madri, se riescono davvero ad avere accesso alla loro paura e al loro dolore, sviluppano spontaneamente empatia per il bambino e il suo pianto diventa semplicemente un riflesso di quello che hanno vissuto, quando si sono sentite in pericolo107.


Per evitare un’eccessiva attivazione, è particolarmente efficace puntare sulla connessione energetica tra consulente e madre. Grazie alla tecnica del cordone ombelicale, il consulente è in grado di riconoscere in tempo se la madre è paralizzata dallo shock e, spesso, di percepire prima di lei se la capacità di risonanza viene meno. In tal caso c’è il rischio che venga sopraffatta dalla paura e riviva lo stesso senso di impotenza e di resa che ha provato durante il parto. Con il PSE la madre impara a correlare la paura che vive nel presente al vissuto passato. Tuttavia è importante che, nel presente, sia in grado di restare connessa al figlio e stargli vicina e per questo ha bisogno di sentirsi protetta e al sicuro assieme all’operatore. Questa relazione protettiva le permette di sentire quella paralizzante paura di morire a piccole porzioni, senza annegarci dentro, ovvero senza perdersi. Ogni volta che la madre sta per essere travolta dal senso di oppressione, anche quando è sola, il ricordo della connessione sicura con il consulente la aiuta a ritrovare sicurezza. In caso ideale, grazie a questo modo di procedere, nella vita quotidiana la madre smette di spaventarsi quando il bambino piange. Ora che non si sente più sopraffatta, il pianto del bambino smette di essere una sfida impossibile per lei. Affinché avvenga questo cambiamento, è fondamentale che identifichi, riconosca e rielabori le vecchie paure, in modo che non ostacolino più la relazione con il bambino108.

Cambiamenti dopo il lavoro di rebonding

Molti genitori, al termine di una sessione di rebonding riuscita, sono sorpresi di quanto cambiano le manifestazioni psicosomatiche del bambino: da giorni, se non settimane, era perennemente insoddisfatto, e ora di colpo non lo è più. Durata e frequenza del pianto diminuiscono molto, e non esprime più che gli mancano sostegno e contenimento. Naturalmente, dopo una prima riconnessione, continuano a presentarsi crisi di pianto, ma con minore tensione e attivazione. Il bambino si calma più velocemente in braccio alla madre e il suo pianto diventa “informativo”: chi gli sta accanto riesce più facilmente a cogliere cosa sta esprimendo, si accorge quindi che desidera stare a contatto e riconosce quanto sia disperato, soffra o si senta abbandonato.


Ci possiamo ovviamente chiedere se i cambiamenti osservati dipendano esclusivamente dal fatto che i genitori sono di nuovo sensibili e disponibili al legame. Sembra che la strada verso una nuova costellazione della relazione venga aperta nei due sensi: da un lato, il linguaggio corporeo del bambino diventa più chiaro e diretto, grazie al maggiore rilassamento del suo corpo e, di conseguenza, alla sua maggiore capacità di esprimere le emozioni; dall’altro, grazie al legame con il figlio creatosi grazie al rebonding, migliora direttamente la sensibilità dei genitori.

Dopo le prime sessioni di rebonding, il bambino dorme e si riposa a lungo e questo facilmente disorienta i genitori. Se prima il suo sonno era leggero e poco rigenerante, ora dorme profondamente diversi cicli di sonno e niente sembra disturbarlo. Dopo l’esperienza vissuta preferisce inoltre dormire a contatto con i genitori, nel lettone o nella fascia. Anche durante il giorno le fasi di veglia passiva e di trance sono più estese. Ci vogliono diversi giorni perché il comportamento del bambino si normalizzi e inizi a esplorare l’ambiente o a interagire con i genitori maggiormente. Colpisce in particolare quanto possa cambiare l’atteggiamento verso il contatto visivo: spesso i genitori sono sorpresi della vera e propria “fame di sguardi” che si manifesta già poche ore dopo la prima sessione. Questo interessante fenomeno si lascia spiegare unicamente con il ripristino della capacità di autoregolazione e della disponibilità al contatto nel bambino, che ora tollera l’aumento di eccitazione dovuto al contatto visivo, mentre prima poteva reagire solo in modo difensivo.
Come vediamo nel grafico, dopo un pianto liberatorio il bambino passa per una fase parasimpatica di guarigione e recupero, che necessita molta protezione e comprensione da parte dei genitori. È importante che i genitori non interpretino il tipico ritirarsi in se stesso del neonato come un rifiuto e gli voltino le spalle delusi. Per questo motivo, nel PSE i genitori vengono preavvisati dei possibili cambiamenti nel comportamento del bambino. Ma non sono solo le sue manifestazioni esteriori a modificarsi di colpo, anche da un punto di vista fisiologico il cambiamento è molto profondo, specialmente per quel che riguarda la disintossicazione del sistema digerente. Dopo una sessione, infatti, il bambino produce una gran quantità di feci, spesso dall’odore pungente e sgradevole. Inoltre si osserva un aumento della sudorazione e, spesso, i genitori raccontano di averlo dovuto spogliare diversi giorni di seguito la notte, perché era tutto sudato. Di solito il sudore è caldo e i primi giorni ha un odore fortemente acido o putrido, ma nel giro di poco tempo tutto si normalizza.

La forza del legame
La forza del legame
Thomas Harms
Il pronto soccorso emozionale nelle situazioni di crisi con i bambini.Un prontuario per genitori, psicoterapeuti e professionisti della salute del periodo perinatale per conoscere e gestire i momenti di crisi del bambino. Il Pronto Soccorso Emozionale offre ai genitori che si trovano in difficoltà con i propri figli l’opportunità, fin dai primi momenti dopo la nascita, di (ri)trovare e rafforzare il filo emozionale che li unisce. La descrizione del Pronto Soccorso Emozionale che Thomas Harms svolge nel libro La forza del legame è rivolta agli psicoterapeuti, ai genitori e a tutti i professionisti della nascita, della prevenzione, dello sviluppo o della consulenza nel periodo primale. Conosci l’autore Thomas Harms, psicologo, offre da più di 25 anni consulenza e psicoterapia corporea orientata al legame a neonati, bambini e adulti.Dal 1997 è direttore del Zentrum für Primäre Prävention und Körperpsychotherapie (Centro per la Prevenzione Primaria e la Psicoterapia Corporea) a Brema.