Un’analogia
Il modo migliore per riscoprire i bisogni fondamentali di una donna in travaglio è partire da un paragone. Sia l’entrare in travaglio che il prender sonno sono cambiamenti dello stato di coscienza. Entrambi comportano la riduzione dell’attività della neocorteccia. Tutti noi abbiamo ben chiare le condizioni che consentono al cervello dell’intelletto di mettersi a riposo, quando si tratta di addormentarsi, mentre tendiamo a dimenticarcene in occasione del parto; ecco perché ci serve questa analogia. Diciamo che l’addormentarsi è la nostra “fonte” e l’entrare in travaglio è il “bersaglio”. La fonte è affidabile, perché tutti noi abbiamo imparato dall’esperienza come proteggerci da ogni tipo di inutili stimolazioni della neocorteccia, quando vogliamo dormire, dal momento che ci addormentiamo almeno una volta ogni 24 ore.
È noto a tutti che è più facile addormentarsi in un luogo silenzioso. È particolarmente difficile invece quando qualcuno parla, specialmente se ci vengono rivolte delle domande. Quando la sera ci apprestiamo a prender sonno, non è certo di aiuto dover rispondere a domande come il nome da ragazza di nostra madre o il nostro nuovo numero di telefono. Sappiamo quanto una conversazione dell’ultimo minuto possa ritardare il momento dell’assopimento: il linguaggio, in particolare quello razionale, stimola l’attività della neocorteccia. Quando comunichiamo verbalmente, le parole che percepiamo vengono elaborate da strutture cerebrali specificamente umane. Questo punto viene più che mai ignorato nel campo dell’assistenza alla nascita. Nei moderni reparti maternità, le ostetriche o altri operatori riempiono le donne in travaglio di domande, perché devono compilare dei moduli. Devono seguire dei protocolli messi a punto da individui che non hanno compreso la fisiologia della nascita. Ad esempio, a donne che sono già “su un altro pianeta” viene richiesto di riferire il loro ultimo tasso di emoglobina nel sangue, o quando hanno mangiato l’ultima volta. Molti uomini non esitano a parlare alla loro partner durante le fasi profonde del travaglio. L’incomprensione dell’effetto del linguaggio in simili occasioni è molto diffusa.
Allo stesso modo, sappiamo che di solito è più facile addormentarsi in penombra piuttosto che in piena luce. Di notte, spegniamo la luce e abbiamo inventato scuri, persiane e tende per proteggere il nostro sonno. I professionisti che analizzano l’attività cerebrale con tecniche come l’elettroencefalografia, sanno bene come stimolare la corteccia dei loro pazienti: accendono la luce e chiedono loro di tenere gli occhi aperti. Tuttavia, nell’era dell’industrializzazione della nascita – che è anche l’era della luce elettrica – la maggior parte delle donne partorisce sotto luci intense. Se date un’occhiata ai testi di ostetricia o di ginecologia, non troverete neppure un capitolo su questo argomento: questo ci indica quanto grande sia la mancanza di comprensione della fisiologia del parto. Se si osserva una donna in travaglio dalla prospettiva di un fisiologo, è facile intuire che probabilmente l’intensità della luce non è ininfluente, o per lo meno che è un argomento che vale la pena prendere in seria considerazione. Vi sono certo ospedali in cui si acconsente di abbassare le luci quando una donna è in travaglio, ma più spesso lo si fa per accontentare una richiesta particolare, piuttosto che per adempiere ad una pratica inclusa nel protocollo ospedaliero allo scopo di rendere più facile il parto.
Sappiamo tutti molto bene come sia difficile addormentarsi se ci si sente osservati. La privacy quindi è un bisogno fondamentale. Provate a immaginare che uno scienziato vi riprenda con una telecamera, durante la notte, per studiare le posizioni che assumete mentre dormite; probabilmente quella notte non avreste un riposo sereno. Lo stesso sarebbe se dal tramonto all’alba vi venisse continuamente registrato il ritmo cardiaco. Alcuni studi sistematici confermano che il sentirsi osservati è un fattore di stimolo dell’attività neocorticale. Ce lo dice anche il buon senso: quando sappiamo che ci osservano, tendiamo a modificare il nostro comportamento, ci sentiamo diversi.
Queste considerazioni ci suggeriscono che c’è differenza fra un’ostetrica che sta di fronte alla donna in travaglio e una che si mantiene un po’ in disparte. Ci dicono anche che, in sala parto, andrebbe valutato con attenzione l’uso di strumenti potenzialmente percepibili dalla donna come varie modalità di osservarla, che si tratti di una macchina fotografica in mano al marito o di un monitor fetale elettronico usato dai medici.
Il bisogno di privacy durante il travaglio ci offre un’opportunità per tornare a far riferimento alla diffusa e radicata incomprensione che circonda la fisiologia della nascita. La tendenza a ignorare o negare il bisogno di intimità durante il travaglio è un fattore realmente culturale e non è limitata a certi particolari ambienti, medici o no. Se si dà un’occhiata alla moltitudine di libri sulla nascita rivolti al pubblico, notiamo che spesso le illustrazioni ci mostrano la donna in travaglio circondata da due-tre persone che la guardano, trasmettendo così un messaggio sbagliato. Molti ginecologi furono sorpresi dai risultati di una serie di ricerche sull’efficacia del monitoraggio elettronico continuo del battito cardiaco fetale: tutti gli studi hanno dimostrato che questo sistema ha come unico effetto statisticamente significativo l’incremento del tasso di parti cesarei, rispetto all’uso di un monitoraggio discontinuo, cioè praticato ad intervalli. Molti medici non avevano previsto risultati simili, benché sia ovvio che se una donna in travaglio sa che le proprie funzioni corporee sono sotto un monitoraggio continuo, ciò costituisca un palese stimolo per la sua neocorteccia. Questa stimolazione provoca tendenzialmente travagli più lunghi, più difficili e quindi più pericolosi, facendo aumentare il numero di cesarei d’emergenza. È interessante notare che il bisogno di privacy durante il travaglio non è esclusivo della specie umana, bensì tutti i mammiferi possiedono strategie specifiche per soddisfarlo. Con un po’ d’ironia, potremmo sottolineare che i mammiferi non-umani, la cui neocorteccia è molto meno sviluppata della nostra, sembrano sapere molto meglio di noi cosa fare per metterla a riposo.
È altresì noto come sia difficile addormentarci se ci sentiamo minacciati da pericoli di qualsiasi tipo. Quando ci sentiamo in pericolo, rilasciamo ormoni appartenenti alla famiglia delle adrenaline, la nostra neocorteccia viene stimolata e questo ci permette di mantenerci vigili e all’erta. Durante la notte ci svegliamo anche se aumenta il freddo, altra situazione associata ad un aumento dei livelli di adrenalina. La stessa cosa avviene per la donna durante il travaglio: ha bisogno di sentirsi al sicuro. I fisiologi possono aiutarci a riscoprire i bisogni fondamentali tipici di tali circostanze, ma il loro ruolo non è certo quello di offrirci ricette che ci aiutino a sentirci al sicuro; non ci resta quindi che richiamarci ad una strategia usata dalle donne di tutto il mondo: la tendenza a partorire vicino alla propria madre, o a qualcuno che può ricoprirne il ruolo, spesso un’altra madre o una nonna di riconosciuta esperienza nella comunità. Ecco come ha avuto origine la figura dell’ostetrica: inizialmente era una figura materna, e nostra madre è il prototipo della persona con cui ci sentiamo al sicuro, senza sentirci osservati nè giudicati. Non possiamo fare a meno di pensare ai bambini che, all’ora di andare a letto, hanno bisogno della presenza rassicurante della loro mamma.