Prigionieri del sistema
Esistono anche dei ginecologi che si sentono prigionieri di un sistema e che cercano di trasformare la loro pratica professionale. Ne ho incontrati in Paesi molto diversi. Mentre alcuni sono realmente isolati, altri riescono a soddisfare il loro bisogno di appartenza ad una rete di colleghi che condividono obiettivi comuni. A Seul mi è capitato di trascorrere una giornata con i ginecologi del gruppo “Nascere meglio”, alcuni dei quali venivano dalla capitale mentre altri da sperduti villaggi di campagna. In Corea le ostetriche sono quasi completamente scomparse e le donne solitamente partoriscono in ambienti molto medicalizzati, con un tasso di tagli cesarei intorno al 40%. In un Paese che detiene il record mondiale per il più alto numero di ecografie in gravidanza, è significativo che uno dei principali argomenti di conversazione, a cena, fossero le cure prenatali. Risultò evidente che le cure prenatali sono un elemento della pratica ostetrico-ginecologica che si può modificare velocemente, o almeno più in fretta rispetto agli atteggiamenti e all’ambiente che attualmente circondano l’evento nascita.
Il concetto di cure prenatali è nuovo, visto che è nato e si è sviluppato nel corso del XX secolo, ed è inscindibile da quello di nascita industrializzata e medicalizzata. Questo ci aiuta a capire che lo stile predominante di cure prenatali consiste nel mettere costantemente l’accento sui potenziali problemi. Poiché il solo e unico obiettivo delle visite prenatali convenzionali è quello di diagnosticare delle anomalie e delle condizioni patologiche, la parola “cura” è inappropriata e persino fuorviante. Standardizzazione e analisi cliniche effettuate in modo sistematico sono le caratteristiche principali dell’assistenza prenatale industrializzata. Queste caratteristiche sono ben chiare se leggiamo una qualsiasi rivista medica; citiamo ad esempio un breve articolo pubblicato su “Lancet”, la cui autrice appartiene a un istituto australiano che si occupa di salute materno-infantile. L’autrice aveva cercato, evidentemente con poco successo, di inserire nel contesto dei consueti controlli prenatali una visita di coppia, e nell’articolo commentava sconsolata “Ci vorranno anni per convincere gli uomini a frequentare regolarmente le visite prenatali”; spiegando le ragioni del coinvolgimento dei mariti, affermava: “Le visite di coppia non dovrebbero essere presentate soltanto come un modo per effettuare test sull’AIDS, ma come una opportunità per monitorare ed eventualmente curare altre malattie infettive, come ad esempio quelle sessualmente trasmissibili e la tubercolosi, e anche per discutere eventuali piani di trasporto d’emergenza in caso di improvvise complicazioni in gravidanza o durante il travaglio”. È evidente che l’obiettivo è quello di parlare soltanto dei rischi potenziali – il più spesso possibile e a più gente possibile.
In un tale contesto, non stupisce che spesso le visite abbiano un potente “effetto nocebo”, cioè un’influenza negativa sullo stato emotivo della donna gravida e, indirettamente, della sua famiglia. Ricordiamo che, in molti Paesi, quasi ogni donna riceve circa 10 visite in gravidanza, ovvero 10 occasioni per sentir parlare di problemi potenziali. Le donne di oggi non possono vivere la gravidanza con serenità, e ognuna ha almeno una ragione per preoccuparsi: si sente dire che ha la pressione troppo alta o troppo bassa, che sta prendendo peso troppo alla svelta o troppo lentamente, che è anemica, che ha poche piastrine e quindi è a rischio di emorragia, ha il diabete gestazionale, il bambino è troppo grosso o troppo piccolo, la placenta è bassa, la gravidanza è particolarmente a rischio perché ha 18 anni oppure perché ne ha 39, il bambino ancora non si è girato, le analisi del sangue indicano una possibilità che il bimbo sia Down, non ha assunto acido folico al momento giusto e ora il bimbo è a rischio per la spina bifida, l’ecografia rivela una possibile anomalia al rene destro, non è immunizzata contro la rosolia o contro la toxoplasmosi, è Rh negativa, avrebbe dovuto partorire lo scorso mercoledì e quindi bisogna indurre il parto, ecc… Ma oggigiorno è ancora possibile essere una donna “normale”?
Anche in materia di visite prenatali, la radicata tendenza dei ginecologi a standardizzare, e il loro bisogno di parole d’ordine quali “routine” o “protocolli”, vengono oggi contestati dai risultati di autorevoli studi epidemiologici, che mettono in discussione i punti di vista della ginecologia convenzionale.
Lo studio RADIUS (Routine Antenatal Diagnostic Imaging with Ultrasound, cioè Ecografie prenatali diagnostiche di routine) ha coinvolto più di 15.000 donne in gravidanza, suddivise in due gruppi: quelle del primo gruppo venivano sottoposte alle ecografie di protocollo durante tutta la gravidanza, le altre soltanto in caso di bisogno, quando era necessario risolvere un problema particolare. Le mamme appartenenti al secondo gruppo ebbero in media 0,6 ecografie. Secondo l’editoriale di una delle più prestigiose riviste specializzate (il “New England Journal of Medicine”), la conclusione dello studio è chiara: non vi è alcun motivo medico di sottoporre tutte le donne in attesa ad ecografie di routine.
Vi sono dei punti in comune con una ricerca che ha coinvolto l’intera popolazione canadese, la cui conclusione è stata che l’effettuare sistematicamente a tutte le donne incinte il test diagnostico per il diabete gravidico non migliora i risultati. Dopo la pubblicazione di questo studio, il Collegio Americano di Ginecologia e Ostetricia ha riveduto le proprie linee-guida dichiarando che non è necessario eseguire di routine il test per il diabete gestazionale.
Citiamo anche le conclusioni di una indagine dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che ha coinvolto 53 centri in 4 Paesi (Thailandia, Cuba, Arabia Saudita e Argentina). I risultati dell’indagine hanno confermato che, affinché le cure prenatali risultino efficaci, sono sufficienti meno controlli di quanti ne sono abitualmente previsti.
Una rapida occhiata a questi recenti studi ci spiega chiaramente come mai oggi un certo numero di ginecologi si senta tirato fra due opposte correnti. Da una parte, la loro formazione è avvenuta all’apogeo dell’industrializzazione della nascita e si sentono ancora prigionieri di un sistema basato sul rispetto di “protocolli” che prevedono il ripetersi di determinate “routine”. Dall’altra, il loro buon senso viene sollecitato da tutta una serie di dati scientifici che rimettono in causa la standardizzazione delle cure prenatali. Forse questa contraddizione e questo conflitto interiore indicano che il cammino verso un atteggiamento biodinamico è già iniziato?