capitolo xvii

essere ostetrica o ginecologo
prima del 2036

Ostetriche che non si adattano

In tutto il mondo, per alcune ostetriche è difficile adattarsi al livello attuale di industrializzazione del parto. Queste ostetriche si rendono conto che, nelle scuole convenzionali, vengono formate per seguire dei protocolli stabiliti da comitati medici. Si sentono prigioniere di un sistema che sta distruggendo l’arte dell’ostetricia. Alcune di loro semplicemente smettono di lavorare, come in attesa di una nuova fase nella storia della nascita. Altre si calano nel ruolo di “cavallo di Troia” e cercano di combattere il sistema dall’interno. Altre ancora cercano opportunità alternative alla pratica in strutture convenzionali. Alcune hanno espresso la necessità di “dis-apprendere”. Durante la fase di transizione che stiamo aspettando, il concetto di “ostetriche in dis-apprendimento” potrebbe divenire meno “esoterico” e misterioso. Il termine è stato coniato da Jeannine Parvati Baker, madre di sei figli e fondatrice dell’Hygeia College, che si trova in Utah. Secondo Jeannine e le sue discepole, ogni madre è un’ostetrica. Le conferenze internazionali organizzate da questa “scuola del mistero” vengono chiamate “raduni” e hanno luogo in luoghi deserti. Oggi l’Hygeia College ha circa 1000 studentesse nei 5 continenti. Ci auguriamo che in un avvenire prossimo siano meglio compresi gli obiettivi di questa scuola1.

Prigionieri del sistema

Esistono anche dei ginecologi che si sentono prigionieri di un sistema e che cercano di trasformare la loro pratica professionale. Ne ho incontrati in Paesi molto diversi. Mentre alcuni sono realmente isolati, altri riescono a soddisfare il loro bisogno di appartenza ad una rete di colleghi che condividono obiettivi comuni. A Seul mi è capitato di trascorrere una giornata con i ginecologi del gruppo “Nascere meglio”, alcuni dei quali venivano dalla capitale mentre altri da sperduti villaggi di campagna. In Corea le ostetriche sono quasi completamente scomparse e le donne solitamente partoriscono in ambienti molto medicalizzati, con un tasso di tagli cesarei intorno al 40%. In un Paese che detiene il record mondiale per il più alto numero di ecografie in gravidanza, è significativo che uno dei principali argomenti di conversazione, a cena, fossero le cure prenatali. Risultò evidente che le cure prenatali sono un elemento della pratica ostetrico-ginecologica che si può modificare velocemente, o almeno più in fretta rispetto agli atteggiamenti e all’ambiente che attualmente circondano l’evento nascita.


Il concetto di cure prenatali è nuovo, visto che è nato e si è sviluppato nel corso del XX secolo, ed è inscindibile da quello di nascita industrializzata e medicalizzata. Questo ci aiuta a capire che lo stile predominante di cure prenatali consiste nel mettere costantemente l’accento sui potenziali problemi. Poiché il solo e unico obiettivo delle visite prenatali convenzionali è quello di diagnosticare delle anomalie e delle condizioni patologiche, la parola “cura” è inappropriata e persino fuorviante. Standardizzazione e analisi cliniche effettuate in modo sistematico sono le caratteristiche principali dell’assistenza prenatale industrializzata. Queste caratteristiche sono ben chiare se leggiamo una qualsiasi rivista medica; citiamo ad esempio un breve articolo pubblicato su “Lancet”, la cui autrice appartiene a un istituto australiano che si occupa di salute materno-infantile. L’autrice aveva cercato, evidentemente con poco successo, di inserire nel contesto dei consueti controlli prenatali una visita di coppia, e nell’articolo commentava sconsolata “Ci vorranno anni per convincere gli uomini a frequentare regolarmente le visite prenatali”; spiegando le ragioni del coinvolgimento dei mariti, affermava: “Le visite di coppia non dovrebbero essere presentate soltanto come un modo per effettuare test sull’AIDS, ma come una opportunità per monitorare ed eventualmente curare altre malattie infettive, come ad esempio quelle sessualmente trasmissibili e la tubercolosi, e anche per discutere eventuali piani di trasporto d’emergenza in caso di improvvise complicazioni in gravidanza o durante il travaglio”. È evidente che l’obiettivo è quello di parlare soltanto dei rischi potenziali – il più spesso possibile e a più gente possibile.


In un tale contesto, non stupisce che spesso le visite abbiano un potente “effetto nocebo”, cioè un’influenza negativa sullo stato emotivo della donna gravida e, indirettamente, della sua famiglia. Ricordiamo che, in molti Paesi, quasi ogni donna riceve circa 10 visite in gravidanza, ovvero 10 occasioni per sentir parlare di problemi potenziali. Le donne di oggi non possono vivere la gravidanza con serenità, e ognuna ha almeno una ragione per preoccuparsi: si sente dire che ha la pressione troppo alta o troppo bassa, che sta prendendo peso troppo alla svelta o troppo lentamente, che è anemica, che ha poche piastrine e quindi è a rischio di emorragia, ha il diabete gestazionale, il bambino è troppo grosso o troppo piccolo, la placenta è bassa, la gravidanza è particolarmente a rischio perché ha 18 anni oppure perché ne ha 39, il bambino ancora non si è girato, le analisi del sangue indicano una possibilità che il bimbo sia Down, non ha assunto acido folico al momento giusto e ora il bimbo è a rischio per la spina bifida, l’ecografia rivela una possibile anomalia al rene destro, non è immunizzata contro la rosolia o contro la toxoplasmosi, è Rh negativa, avrebbe dovuto partorire lo scorso mercoledì e quindi bisogna indurre il parto, ecc… Ma oggigiorno è ancora possibile essere una donna “normale”?


Anche in materia di visite prenatali, la radicata tendenza dei ginecologi a standardizzare, e il loro bisogno di parole d’ordine quali “routine” o “protocolli”, vengono oggi contestati dai risultati di autorevoli studi epidemiologici, che mettono in discussione i punti di vista della ginecologia convenzionale.


Lo studio RADIUS (Routine Antenatal Diagnostic Imaging with Ultrasound, cioè Ecografie prenatali diagnostiche di routine) ha coinvolto più di 15.000 donne in gravidanza, suddivise in due gruppi: quelle del primo gruppo venivano sottoposte alle ecografie di protocollo durante tutta la gravidanza, le altre soltanto in caso di bisogno, quando era necessario risolvere un problema particolare. Le mamme appartenenti al secondo gruppo ebbero in media 0,6 ecografie. Secondo l’editoriale di una delle più prestigiose riviste specializzate (il “New England Journal of Medicine”), la conclusione dello studio è chiara: non vi è alcun motivo medico di sottoporre tutte le donne in attesa ad ecografie di routine.


Vi sono dei punti in comune con una ricerca che ha coinvolto l’intera popolazione canadese, la cui conclusione è stata che l’effettuare sistematicamente a tutte le donne incinte il test diagnostico per il diabete gravidico non migliora i risultati. Dopo la pubblicazione di questo studio, il Collegio Americano di Ginecologia e Ostetricia ha riveduto le proprie linee-guida dichiarando che non è necessario eseguire di routine il test per il diabete gestazionale.


Citiamo anche le conclusioni di una indagine dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che ha coinvolto 53 centri in 4 Paesi (Thailandia, Cuba, Arabia Saudita e Argentina). I risultati dell’indagine hanno confermato che, affinché le cure prenatali risultino efficaci, sono sufficienti meno controlli di quanti ne sono abitualmente previsti.


Una rapida occhiata a questi recenti studi ci spiega chiaramente come mai oggi un certo numero di ginecologi si senta tirato fra due opposte correnti. Da una parte, la loro formazione è avvenuta all’apogeo dell’industrializzazione della nascita e si sentono ancora prigionieri di un sistema basato sul rispetto di “protocolli” che prevedono il ripetersi di determinate “routine”. Dall’altra, il loro buon senso viene sollecitato da tutta una serie di dati scientifici che rimettono in causa la standardizzazione delle cure prenatali. Forse questa contraddizione e questo conflitto interiore indicano che il cammino verso un atteggiamento biodinamico è già iniziato?

Atteggiamento biodinamico e assistenza prenatale

Un vero atteggiamento biodinamico comporterebbe uno stile radicalmente diverso di assistenza alla gravidanza. Nel 1991-92, durante un progetto di ricerca sull’alimentazione in gravidanza presso un grande ospedale londinese, mi sono reso conto che anche in un ambiente simile non sarebbe difficile cambiare le attuali cure prenatali. Ho intervistato circa 500 donne in attesa, reclutate casualmente. L’intervista andava a sommarsi alle visite protocollari, e la conversazione verteva principalmente sui bisogni nutrizionali specifici del cervello del feto in via di sviluppo. Quasi tutte le donne erano desiderose di parlare della crescita del bimbo in grembo e tendevano a prolungare l’intervista. Questo conferma il fatto che i professionisti sanitari possono avere un effetto positivo sullo stato emotivo delle future madri. Per lo meno, una delle loro principali preoccupazioni dovrebbe essere quella di sortire un effetto protettivo.

Nel contesto scientifico attuale, siamo nella condizione di comprendere come certi stati emotivi della madre – in particolare quelli associati a tassi elevati di ormoni come ad esempio il cortisolo – possano avere conseguenze sullo sviluppo del feto. Per di più, dozzine di studi raccolti nella nostra banca dati (www.birthworks.org/primalhealth) confermano che lo stato emotivo della futura madre avrà effetti a lungo termine sul bambino. Un operatore flessibile non dovrebbe impiegare molto tempo per riuscire a cambiare il suo atteggiamento.


Anche se questo ruolo teoricamente sarebbe della famiglia e della comunità, alcuni operatori sanitari potrebbero incoraggiare e persino organizzare attività dai potenziali effetti positivi sullo stato emotivo delle donne gravide. In Francia, negli anni ’70 e ’80, avevamo portato un pianoforte nell’ospedale pubblico in cui lavoravo e ogni martedì sera le donne in attesa potevano ritrovarsi a cantare. Chiunque poteva partecipare a queste serate, inclusi i papà, le ostetriche, le signore addette alle pulizie, le segretarie etc… Al termine di queste serate, tutti si sentivano allegri: potevamo esser sicuri – senza bisogno di misurare i tassi di cortisolo e catecolamine2! – che gli equilibri ormonali delle donne in attesa erano favorevoli alla crescita e allo sviluppo del feto nell’utero.

In effetti il primo dovere del professionista sanitario dovrebbe essere quello di evitare per lo meno di esercitare sulla donna in gravidanza un “effetto nocebo”; di fatto è quasi sempre possibile – e giustificato – presentare in maniera positiva i risultati di un’analisi o di un esame clinico.


Prendiamo l’esempio di una donna che si sente dire, verso il termine della gravidanza, che ha la pressione alta. L’atteggiamento corrente, orientato a porre l’accento sulla malattia, indurrebbe probabilmente a presentare questa informazione come una cattiva notizia. Il messaggio che viene trasmesso è che qualcosa non va. Al contrario, un atteggiamento biodinamico porterebbe a spiegare alla donna che un semplice aumento della pressione arteriosa rappresenta una risposta di adattamento del corpo, che non deve essere confusa con la pre-eclampsia, malattia in cui un aumento della pressione si collega alla presenza di proteine nelle urine e a varie disfunzioni metaboliche. Un aumento della pressione senza altri sintomi rappresenta di solito un buon segno dell’attività placentare. La placenta, come “avvocata del bambino”, [cioè intermediaria fra questo e il corpo della madre che lo accoglie, N.d.T.], provoca nell’organismo materno delle modifiche fisiologiche attraverso il rilascio di ormoni e richiede alla madre di aumentare il flusso sanguigno. Almeno 4 studi autorevoli confermano che l’ipertensione indotta dalla gravidanza è solitamente associata a buoni esiti di parto. Gli operatori che hanno a cuore la protezione dello stato emotivo della futura madre, sanno come spiegare in modo rassicurante che un segnale, come l’aumento della pressione arteriosa, non va confuso con una malattia, come la pre-eclampsia. Ad esempio, potrebbero dire alla donna: “quando si ha un tumore al cervello, si ha dolore alla testa, ma quando si ha mal di testa non vuol dire che si è affetti da tumore al cervello!” Sarà ancora più rassicurante per lei sentirsi dire che non c’è alcun bisogno che si misuri ancora la pressione, dal momento che solo la presenza di proteine nelle urine è un sintomo affidabile di pre-eclampsia.


Un operatore, o una operatrice, la cui priorità è quella di proteggere lo stato emotivo della futura madre, non utilizzerà mai termini carichi di effetto nocebo come ad esempio “diabete gestazionale”. Nel caso in cui si sia riscontrato un cambiamento del metabolismo degli zuccheri, si spiegherà alla donna che si tratta di una risposta fisiologica transitoria: il bambino ha comunicato alla madre, tramite la placenta, che ha un maggiore bisogno di zuccheri, e l’organismo materno ha reagito a questa richiesta diventando meno sensibile all’azione dell’insulina. Il “diabete gestazionale” è stato definito anche “una diagnosi in cerca di malattia”. Nei casi in cui si dovesse arrivare ad una simile diagnosi, si dovrebbe semplicemente raccomandare alla donna ciò che andrebbe suggerito a tutte le donne incinte: evitare gli zuccheri raffinati (dolciumi, bevande dolci ecc…), preferire i carboidrati complessi (pasta, pane, riso…) e praticare regolarmente attività fisica. In effetti, un atteggiamento biodinamico indurrebbe ad effettuare il test della tolleranza al glucosio soltanto in un numero limitato di casi selezionati.


Ricevo di continuo telefonate da parte di donne in attesa che sono entrate in stato di agitazione – quando non di vero e proprio panico – dopo una visita. Uno dei motivi più frequenti per cui mi chiamano è la scorretta interpretazione dei tassi di emoglobina (il pigmento dei globuli rossi), valore misurato in maniera sistematica a tutte le donne gravide. Molti operatori sono convinti che conoscere questo valore sia necessario per diagnosticare una eventuale mancanza di ferro nel sangue. Se verso la fine della gravidanza il risultato delle analisi è di 9 – 9,5, troppo spesso la futura madre si sente dire che è anemica e le vengono prescritti dei supplementi di ferro. Viene convinta che c’è qualcosa che non va nel suo organismo, e che è necessario intervenire.


Se invece, viceversa, l’operatore volesse proteggere il suo stato emotivo, si interessasse alla fisiologia della placenta e studiasse la letteratura medica, allora presenterebbe alla madre questi risultati come una buona notizia: le spiegherebbe infatti che, come confermano i dati, tassi di emoglobina intorno a 9 sono statisticamente associati a parti eccellenti. Le spiegherebbe che nella donna il volume del sangue aumenta notevolmente durante la gravidanza, e che la concentrazione di emoglobina indica il grado di diluizione del sangue: è la placenta che richiede alla madre di rendere più fluido il proprio sangue. La madre così sarà in grado di capire che i risultati del test sono un segnale di buona attività placentare e che il suo organismo risponde perfettamente alle istruzioni che sta ricevendo. Ancora una volta, invece, la tendenza attuale è quella di confondere una risposta fisiologica transitoria (la maggiore diluizione del sangue) con uno stato patologico (l’anemia).


Alla base di questi madornali errori di interpretazione, c’è la diffusa incomprensione della fisiologia della placenta, ovvero del suo funzionamento. La totale mancanza d’interesse nei confronti del ruolo della placenta come “avvocata del bambino” è radicata profondamente, tanto quanto la mancanza di interesse verso la fisiologia del parto.


I fisiologi studiano le leggi universali della natura. Il totale disprezzo della prospettiva fisiologica è una carattestica tipica dell’industrializzazione del parto… come dell’industrializzazione dell’agricoltura. Comprendere le leggi della natura e lavorare nella loro stessa direzione, al contrario, è l’aspetto principale dell’atteggiamento biodinamico, che si parli di colture agricole, di allevamento o di assistenza alla nascita. L’evoluzione delle cure prenatali ci ha offerto una occasione per illustrare e spiegare il concetto di atteggiamento biodinamico.

L'Agricoltore e il Ginecologo
L'Agricoltore e il Ginecologo
Michel Odent
L’industrializzazione della nascita.Uno scambio di idee che analizza le molteplici similitudini fra l’industrializzazione dell’agricoltura e quella del parto. Sembra il titolo di una favola moderna: durante uno scambio di idee, l’agricoltore e il ginecologo comprendono fino a che punto entrambi abbiano manipolato le leggi della natura e analizzano le impressionanti similitudini fra l’industrializzazione dell’agricoltura e quella del parto, ambedue sviluppatesi nel corso del ventesimo secolo.L’Agricoltore e il Ginecologo di Michel Odent è una pietra miliare sull’industrializzazione della nascita. Conosci l’autore Michel Odent, medico ostetrico celeberrimo, noto soprattutto per aver introdotto il parto in acqua e le sale parto simili a un ambiente domestico, ha al suo attivo una cinquantina di studi scientifici e oltre dieci libri pubblicati  e tradotti in più di venti lingue. Da molti anni gestisce a Londra il Primal Health Centre, studiando gli aspetti relativi alla salute del bambino dalla gestazione al primo anno di vita.Di recente ha creato un nuovo sito internet - www.wombecology.com - dedicato all’ecologia della vita intrauterina.