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Perché dovrei farlo?

Sono ostetrico da 22 anni e, lavorando in diverse strutture, credo di aver capito qualcosa su quello che gira intorno al parto. Per me è stato un po’ un ritornare all’inizio della mia storia… In seconda elementare chiesi a mia madre come mai ero nato in casa e non in ospedale. Lei, con estremo candore mi rispose: “Perché non ero malata!”
Roberto

Fino al XVII secolo il parto era un territorio quasi esclusivamente femminile. Gli strumenti usati dalle donne che assistevano le altre donne erano la fiducia nel corpo femminile e nelle sue potenzialità, la calma, la pazienza, l’ascolto, la compassione, la comprensione. La levatrice capiva quello che la donna sentiva e provava, anche attraverso gli sguardi, la gestualità, l’espressione verbale. E poteva contare su una sapiente manualità. Un lavoro molto faticoso, impegnativo. È molto più duro stare accanto a una donna in travaglio per delle ore, che infilare il cateterino dell’epidurale. Ma oggi si va tutti di corsa, anche in sala parto, dove a comandare è l’orologio.


Negli Stati Uniti i bambini nascono per lo più in orario d’ufficio, dalle 9 alle 17. Una tendenza che sta prendendo piede anche in Italia. Poco importa se la donna non è d’accordo. Nel 50% dei casi la sua opinione non viene presa in considerazione, 4 donne su 10 prima di partorire non ricevono un’informazione sufficiente sul loro stato1 e al Sud il 60% dei parti avviene senza il consenso alle prestazioni durante il parto o sulla posizione da assumere2. Ormai siamo arrivati al punto che le partorienti hanno difficoltà a credere di poter mettere al mondo un bambino vivo e sano senza l’intervento medico. Negli ospedali le donne che hanno una gravidanza senza problemi (la stragrande maggioranza), e quelle con problemi medici vengono trattate nello stesso identico modo. La filosofia è quella del ‘non si sa mai…’. Per giustificare il massiccio ricorso alla tecnologia si evoca la riduzione della mortalità perinatale. Ma analizzando bene i dati si deduce che questo calo è dovuto soprattutto al miglioramento delle condizioni socio-economiche e dell’assistenza prenatale. Al contrario, c’è stato un notevole aumento della morbilità, cioè delle complicanze e degli interventi ostetrici, con conseguenze negative sulla salute della donna e del suo bambino.


Dopo aver partorito in casa la mia primogenita Sara, nel 1997, il commento più frequente era “Ma sei pazza! Come ti è venuto in mente?”. Dopodiché, puntualmente, scattava la fatidica domanda “e se fosse successo qualcosa? Cosa avresti fatto?”. Le evidenze scientifiche dimostrano che nei parti in casa selezionati le percentuali di complicazioni e di morti materne e neonatali sono uguali, o inferiori, rispetto a quelle relative ai parti ospedalieri. “A parità di condizioni la coppia mamma-bambino in buona salute, non ha vantaggi dal partorire in ospedale”, afferma Valeria Barchiesi, ostetrica che si occupa da oltre trent’anni di parto naturale e fondatrice nel 1997 de Il Nido – Associazione Mamme-Bimbi e Scuola di Genitori. “Perciò, in termini di benessere, per i casi selezionati l’esito finale è molto migliore a casa. Le statistiche negative si riferiscono a parti domiciliare non scelti, di fortuna, come quelli prematuri”. Le ragioni per le quali il parto a domicilio è poco richiesto e utilizzato dalle donne, e anche difficilmente proposto dalle strutture pubbliche, sono diverse: mancanza di consenso sociale e istituzionale, assenza di un rapporto strutturato con l’ospedale, costi e la percezione di una minore sicurezza rispetto a quello offerto dalla struttura ospedaliera.

Perché l’ho fatto

Tre anni e mezzo dopo la nascita di Sara, ho deciso di far nascere in casa, in acqua, anche Leonardo. Devo ammettere che negli ultimi anni l’atteggiamento rispetto a questa alternativa è abbastanza cambiato. I più audaci azzardano addirittura un “Ma che bello! Sei stata bravissima!”. Nella classifica dei commenti, ai primi posti troviamo “ma in Italia si può fare? Non è vietato?”; cui segue “sei stata costretta perché non hai fatto in tempo ad arrivare in ospedale?”. Ma c’è anche chi mi ha chiesto “Hai fatto il cesareo?”, “Hai fatto l’epidurale?”. Le ultime due domande mostrano chiaramente la scarsità di informazioni rispetto a una scelta che in Italia viene fatta da circa lo 0,1%, contro il 30% delle colleghe olandesi. Ma di questo aspetto parleremo più avanti.


Il percorso che mi ha condotto a dare alla luce i miei figli tra le mura domestiche in un Paese che, con quasi il 40%, è ormai al primo posto nel mondo occidentale per numero di parti cesarei, è stato molto lento, graduale e impegnativo. Come ho già raccontato nel mio libro Partorire senza paura3, la mia non è stata una scelta ideologica o all’insegna del “politicamente corretto”. Né mi sono mai sentita “alla moda” o un’eroina per aver fatto a meno degli antidolorifici e della tanto agognata epidurale. Chi ha questo tipo di motivazioni non è una buona candidata al parto in casa e spesso, nonostante le intenzioni, non ci riesce.


Per affrontare un parto in casa bisogna essere profondamente convinte della propria scelta. Riuscire a toccare la propria emotività, evitando l’onda dei luoghi comuni e i rigidi protocolli ospedalieri, ascoltando invece il corpo, l’istinto naturale e soprattutto, con il sapiente supporto di un’ostetrica qualificata e il sostegno del partner e/o delle persone care, fare leva sulle proprie forze. Un’ostetrica che da oltre dieci anni assiste i parti in casa mi ha raccontato che subito dopo la nascita della sua bimba la neomamma le ha confessato: “Mi sono sentita come una Ferrari, e tu e la ginecologa mi sembravate i meccanici che cambiavano le gomme al box”. Paragone molto azzeccato, che condivido pienamente.

Avevo 37 anni ed ero alla prima gravidanza. Non sapevo nulla del parto e non avevo avuto una precedente esperienza negativa o deludente, uno dei motivi che portano a decidere di partorire tra le mura domestiche. In realtà da principio pensai a questa opzione per paura dell’ospedale, del ricovero, della prospettiva di essere manipolate e gestite, io e mia figlia, da persone che non conoscevo e delle quali non mi fidavo, senza nulla togliere al personale medico e infermieristico che ogni giorno assiste migliaia di donne e che interviene in caso di patologia. Avevo il sospetto che quel modello standardizzato di “nascita perfetta” che mi veniva proposto fosse una mistificazione. Mi chiedevo come mai una donna sana che, come me, aveva trascorso nove mesi in perfetta forma, dovesse essere all’improvviso trattata come una malata, come un contenitore da svuotare. E non avesse più voce in capitolo. Se per nove mesi ero riuscita a far crescere la mia bambina nel migliore dei modi, perché avrei dovuto interrompere quel processo perfetto e farmi dire da altri, “più competenti di me”, cosa dovevo fare e provare? Perché avrei dovuto rinunciare a svolgere fino in fondo il talento di cui la Natura ha dotato ogni donna?


Viviamo in un’epoca di maschi depilati, di donne alla perenne ricerca di una pseudoperfezione, che si sottopongono senza colpo ferire a dolorose, e costose, rinoplastiche, liposuzioni, mastoplastiche e addominoplastiche, per aderire ai modelli imposti dallo star system e dagli spot pubblicitari. E quindi, vai con extension, lampade solari, ricostruzione delle unghie, gonfiamenti di labbra e depilazioni del pube! Vediamo sempre più donne che farebbero qualsiasi cosa per trasformarsi in adolescenti in fiore: arrivano persino a rifarsi le piccole labbra e si sottopongono alla ricostruzione dell’imene. La nostra è una società in cui parole come sudore, secrezioni, peli, sangue, dolore, fatica sono rigorosamente bandite. Di recente ho raccontato a una giovane amica il parto in casa di una donna che mi aveva appena raccontato la sua esperienza. A un certo punto mi ha interrotto dicendo: “Ti prego, non andare avanti, mi sto sentendo male…”. E ha aggiunto: “Mi fanno impressione anche i parti in ospedale, figurati quelli in casa. L’idea di toccare la placenta, il cordone… mi fa venire il mal di stomaco”.


Ci tengo a precisare una cosa: non sono mai stata un’igienista, né una vegetariana o una seguace della New Age tutta incensi, yoga, shiatsu, tofu e cibi biologici. Non ho mai fatto ginnastica in vita mia e ho sempre avuto un ottimo rapporto con Nutella, marron glacé, cheeseburger e patatine fritte. Le mie due gravidanze non mi hanno trasformato in una salutista a tutti i costi, anche se ho fatto un minimo di attenzione agli eccessi alimentari e praticato un po’ di stretching. E non mi sono fatta scoraggiare dall’opinione della ginecologa che mi seguiva da dieci anni. Una professionista che stimavo per la sua esperienza, competenza e umanità. Peccato che quando le chiesi un giudizio su una possibilità sulla quale ancora non mi ero informata, commentò “Il parto in casa? Una pazzia”. Un’affermazione alla quale, dopo essermi documentata, reagii semplicemente cambiando ginecologa. L’ho rivista 20 anni dopo. Era appena uscito il mio primo libro Partorire senza paura ed ero stata invitata a parlare in un convegno al Consiglio Nazionale delle Ricerche organizzato dalla Società Italiana di Psicoprofilassi Ostetrica (SIPPO). Alcuni primari ginecologi mi interruppero brutalmente ritenendo “inopportune” le mie affermazioni (in realtà avevo appena cominciato il mio intervento… stavo parlando – in termini non proprio idilliaci, lo ammetto – dell’approccio-tipo del ginecologo alla prima visita della futura mamma). Tornando in platea, mi accorsi di lei: sorrideva applaudendomi con calore insieme alle decine di ostetriche che poi si complimentarono con me, esprimendo la loro solidarietà per quella censura nei miei confronti. E devo dire che, anche alla luce della posizione negativa di un tempo, il fatto che fosse stata una (l’unica) ginecologa ad avermi applaudito, mi fece doppiamente piacere.

Una scelta egoistica?

Dicono che le donne che partoriscono in casa siano delle egoiste, che pensano più a se stesse che alla salute e alla sicurezza del bambino. Posso dire che, come molte altre donne che hanno fatto la mia stessa scelta, più che concentrarmi su me stessa e sul mio benessere, durante le mie gravidanze sentivo il desiderio profondo, l’impellente necessità di fare tutto il possibile per salvaguardare i miei bambini dal rischio di sostanze chimiche o procedure chirurgiche potenzialmente dannose. E, al contrario di molte donne, anzi, della maggior parte delle future mamme, l’ospedale non m’ispirava sicurezza. L’idea di un possibile errore medico, di procedure che avrebbero potuto interferire nel processo fisiologico del parto, mi atterriva. Così come la possibilità di essere mal consigliata e mal gestita, magari solo per una questione di tempi e protocolli da rispettare, per la comodità dell’organizzazione del reparto maternità, o per un’eventuale irreperibilità del mio ginecologo. Ne avevo sentite e lette tante, e non volevo certo trovarmi in una situazione di cui mi sarei potuta pentire. Sull’onda dell’impennata delle cause legali per presunti errori, passate negli ultimi dieci anni da 17 mila a circa 30 mila l’anno, molti medici attuano la cosiddetta medicina difensiva, l’inutile moltiplicazione di test, analisi e visite specialistiche che costano alla sanità pubblica 500 milioni di euro solo per le assicurazioni. “La medicina difensiva non è altro che un circuito vizioso scatenato dalla direttività che induce un senso di incompetenza ed inadeguatezza e, quando si determina il danno, non c’è meraviglia se parte la denuncia risarcitoria. Questo stato di cose induce impropriamente ulteriore medicalizzazione. È follia seguitare su tale strada. E non solo per i costi sempre più insostenibili. Mettere in discussione la valenza “politica” della medicalizzazione della nascita non deve far trascurare i rischi specificamente connessi ad essa. Basti pensare al rischio di falso positivo per un test diagnostico, rischio che si accumula se il test è ripetuto, spesso indebitamente”4.


Secondo un’indagine degli specialisti ospedalieri sulle denunce ricevute5, il 7% delle segnalazioni di errori (dati del Tribunale per i diritti del malato) riguardano Ostetricia e Ginecologia, i tre-quarti dei quali riguardano procedure per la gravidanza e il parto6. La cosa più preoccupante è che il 48% di questi errori danneggia la donna, il 52% causa danni al feto o al neonato. L’evento più frequente denunciato è la morte del feto, ma vengono segnalati anche casi di lesioni al neonato, malformazioni non diagnosticate, decessi e lesioni delle partorienti. I ginecologi dell’Aogoi (Associazione Ostetrici e Ginecologi Italiani) dicono che un gruppo di studio “ora esaminerà i casi ripetitivi per introdurre al più presto variazioni nelle tecniche e nelle procedure che possano scongiurare nuovi errori”. Chissà, vedremo. Nel frattempo, continuiamo a leggere sulle pagine di cronaca nera casi di madri e neonati morti in sala parto.


Durante l’attesa sentivo la fragilità della realtà esterna alla mia pancia, mentre la mia forza e quella della mia bambina non erano minimamente in discussione. L’esatto contrario di quello che poi ho avuto modo di constatare in moltissime “colleghe” mamme o future mamme. In maniera inaspettata e con mia sorpresa, queste mie sensazioni del tutto istintive e spontanee sono state poi suffragate in abbondanza dalle numerose ricerche, interviste e dati che ho raccolto dopo i miei due parti. È incredibile quanta letteratura, soprattutto straniera, abbia confermato le mie semplici intuizioni. Un esempio? Il primo che mi viene in mente è un passaggio di Immaculate Deception (Inganno Immacolato), magnifico testo di Suzanne Arms7 che consiglio vivamente a tutte le future mamme (anche se purtroppo non è ancora stato tradotto in italiano): “La maggior parte dei casi di mancata progressione del travaglio di parto oggi deriva da fattori ambientali: perdita di adeguato supporto emotivo e di privacy, lo stesso ambiente ospedaliero, in cui procedure come il monitoraggio elettronico fetale ed ecografie dominano la scena. Il subconscio di una donna interpreta qualsiasi procedura a cui viene sottoposto il suo corpo come un segno che qualcosa non va o sta per non andare per il verso giusto. Anche una donna che ha fiducia nel suo corpo, nella sua capacità e nel processo del travaglio, può perdere fiducia. Smette di ascoltare se stessa e il suo bambino e si rivolge alle autorità che le dicono cosa succede e cosa fare”.

Mamme sole (e “incapaci”?)

Sono molto contenta che si inizi a parlare di più del parto in casa.
Io ho partorito a casa lo scorso anno la mia bambina ed è stata un’esperienza meravigliosa, che mi ha cambiato la vita… Spero davvero che tante altre mamme possano provare la gioia di dare alla luce il proprio bambino nel modo migliore possibile!
Lucia

Quando nei paesi industrializzati il parto, da processo naturale si è trasformato in una procedura controllata, la nascita è stata trasferita dalla casa all’ospedale. Un luogo sicuro in caso di eventuali complicanze e patologie, dove però le donne per lunghi periodi vengono lasciate sole. Alcuni studi, riportati in un documento dell’Organizzazione Mondiale della Sanità8, hanno scoperto che paradossalmente una donna a basso rischio e al primo parto può essere assistita da almeno 16 persone durante sei ore di travaglio ed essere comunque lasciata sola per la maggior parte del tempo. Gli interventi di routine, le procedure standardizzate, la presenza di estranei e lo stress possono interferire nel processo del parto prolungando il travaglio e provocando i cosiddetti “interventi a cascata”. La richiesta di un ritorno al processo naturale ha aperto le sale parto ai padri e agli altri membri della famiglia, ma il luogo è rimasto lo stesso: l’ospedale. Alcune strutture sanitarie hanno cercato di “umanizzare” i reparti maternità per venire incontro alle esigenze delle partorienti e ridurre così la percentuale di traumi perineali ed evitare il desiderio di una differente gestione del parto nella gravidanza successiva. Ma tutto questo non ha avuto conseguenze sull’utilizzo di epidurali, forcipi e tagli cesarei, in continuo aumento.


“La coercizione, ovvero l’atto di forzare una persona a pensare o a comportarsi in un certo modo, sfortunatamente fa parte dell’assistenza prenatale sperimentata da molte donne”9. Non è il caso di Elena, che ha scelto di far nascere Martino e Alessio tra le pareti domestiche: “Quando una donna realizza di essere incinta è un momento cruciale. Lì dovrebbe cominciare una riflessione sul volersi bene, sulla forma fisica, sulle cose della vita. Il parto fa parte della vita, e la trasforma, nel profondo. Le donne invece si affidano a qualcun altro, al ginecologo. Alcune dicono ‘io di questa cosa non so nulla, quindi mi affido a un professionista’. Io le rispetto, ma il punto è che non vado da un enterologo per mangiare un piatto di polenta con i funghi. Io quel piatto prima me lo mangio, e poi se ho male vado dall’enterologo. Invece, purtroppo si va dal ginecologo come se si stesse già male. Quando dico queste cose il commento è ‘che esagerata! Che paragone del cavolo’. Ma secondo me è così. Quando vai in ospedale non sai chi troverai, manca quel rapporto con l’ostetrica che ha senso costruire durante tutta la gravidanza. Pur non sapendo ancora se avrei partorito in casa o in ospedale, ho costruito un rapporto di fiducia con le due ostetriche che poi mi hanno assistito, e con chi mi era vicino. Ma a volte ho provato imbarazzo. Anche se non riuscivo a sentirmi una persona che metteva a repentaglio me stessa e mio figlio, gli altri mi ci facevano sentire, e per questo non ho detto quasi a nessuno che volevo partorire in casa. Io ho avuto la fortuna di avere due sorelle che mi hanno molto sostenuta, una delle quali è ostetrica e ha fatto due parti in casa. Ma la cosa fondamentale è la tua convinzione”.

Il parto in casa è una modalità che si sta irregolarmente diffondendo in tutto il mondo. A sorpresa negli USA – che Save the Children bolla come il paese industrializzato (dopo Russia, Albania e Moldavia) con il più alto tasso di mortalità materna legata al parto – il numero di nascite casalinghe è aumentato del 50% dal 2004 al 2011, raggiungendo il +71% nello Stato di New York10.


In generale c’è una grossa disparità tra i Paesi industrializzati, in alcuni dei quali il parto a domicilio è quasi del tutto scomparso se non vietato, e i Paesi in via di sviluppo, dove la difficoltà delle donne di accedere alle strutture sanitarie lo rende l’unica scelta possibile. Di fronte alla miriade di obiezioni che mi sono state mosse in questi anni a proposito della sicurezza del parto a domicilio, ho più volte insistito sull’importanza dei fattori ambientali. Secondo la mia esperienza personale e le evidenze scientifiche, il fatto che la mamma abbia la percezione di un ambiente protetto e sicuro influenza fortemente il buon esito del parto. Ma vorrei andare oltre. Perché qui non è in gioco solo l’autodeterminazione della donna, tema assai caro alle femministe dei gloriosi anni Settanta. Mentre scrivo ho sotto gli occhi Il Primo Respiro, un bellissimo libro di Nicoletta Ferroni, esperta in rebirthing11 e in altre discipline naturopatiche, secondo la quale il modo in cui si nasce influenza il nostro carattere e la nostra modalità di approccio alla vita. “Molti adulti di oggi, inclusa me stessa, non saremmo qui se non fossero stati effettuati interventi di emergenza, malgrado siano stati invasivi e brutali”, scrive. “Tuttavia riconosco che in sala parto o in sala operatoria, i rappresentanti del team, malgrado professionalità e competenza, si comportano dando spesso troppo ascolto alle proprie paure, che non a caso vibrano con le paure provate alla loro stessa nascita. Se madri, padri e addetti ai lavori armonizzassero la loro nascita, tanti bambini – gli adulti di domani – potrebbero nascere in modo meno traumatico”. Se state pensando alla possibilità di partorire in casa, ma avete dei dubbi, vi sarà d’aiuto leggere questo acuto contributo di Barbara Siliquini, presidente dell’associazione Onlus ‘Parto Naturale’ e ideatrice di Genitori Channel12, che dopo due parti in ospedale ha dato alla luce la sua terza figlia tra le mura domestiche.

Per il parto a domicilio ancora “non mi sento pronta”

“Sono pronta ad arrivare in un ospedale, un posto pieno di malati e malattie, spesso una struttura fatiscente, o per lo meno vecchia; mi sento pronta a condividere un bagno, sozzo, con altra gente mai vista prima; mi sento pronta a rinunciare alla mia privacy; a rinunciare che mio marito stia a fianco a me e a mia figlia nelle prime ore della sua vita (forse il momento più emozionante della nostra vita come famiglia); mi sento pronta a mettermi nelle mani di ‘professionisti’ di cui non so nulla: se erano degli emeriti asini a scuola, se sono degli ansiogeni, delle persone sconsiderate, gente comunissima, che pensa quindi prima a se stessa e al proprio tornaconto poi a quello degli altri.


Sono pronta a mettermi nelle mani di un medico che pensa che siccome lui è il medico io dovrei affidarmi a lui e zitta e mosca; sono pronta a partorire in un posto dove quando a me sembrerà di non sopportare più il monitoraggio, o di voler mettermi a carponi per far uscire mio figlio, mi faranno mettere su un lettino, mi legheranno i polpacci a dei reggigamba e mi diranno ‘signora si calmi’ quando tirerò giù un ‘porcapu***’ perché fa male.


Sono pronta a far prendere mia figlia per i piedi come un cappone, quando viene al mondo, terrorizzata per aver lasciato quel luogo sacro che era la sua mamma; sono pronta a farle somministrare il suo bel bagnetto, pesata, asciugata e centrifugata nelle mani di gente che non rivedrà mai più; sono pronta a rendermi conto ex post che quell’ossitocina che mi hanno messo in vena mi ha sconquassato e che forse non era così indispensabile; sono pronta a fare i conti con le possibili conseguenze di un’episiotomia sicuramente non necessaria e forse mal fatta; sono pronta a prendermi il rischio che qualcosa vada storto perché qualcuno quel giorno era distratto o fuori forma.


Sono pronta a partorire in ospedale… mi sento più sicura. Non mi sento pronta ad accogliere mia figlia nel calore della sua casa, tra le braccia di suo padre e di professionisti che ho scelto con cura, che mi hanno raccontato dove affondano le radici della loro professionalità, che hanno raccontato a me e al marito cosa terranno sotto controllo durante il travaglio e il parto per capire che tutto rientra nel fisiologico, che io e la mia piccola stiamo bene. Non mi sento pronta ad avere un’ostetrica, o due, che si occupano solo ed esclusivamente di me per tutta la durata del travaglio e del parto. Non mi sento pronta a costruire un rapporto di fiducia e di consapevolezza di ciò che avverrà durante tutta la gravidanza; non mi sento pronta a passare una notte intera incantata a guardare il miracolo che ho appena compiuto che si gode il tepore del letto nel quale è stata concepita e desiderata.


Non mi sento pronta ad accoglierla nell’intimità dei rumori, degli odori, dei ritmi giorno/notte della sua casa. Non mi sento pronta ad avere tutte le mie comodità in un momento così,…”.

Il parto in casa
Il parto in casa
Elisabetta Malvagna
Nascere nell’intimità familiare, secondo natura.Tanti consigli pratici e utili suggerimenti per prepararsi ad affrontare al meglio il parto in casa, in completa sicurezza. Oggi la quasi totalità dei parti avviene in ospedale, e il 40% di questi termina con un taglio cesareo. Negli ultimi tempi, però, l’approccio alla maternità sta cambiando: cresce infatti il numero delle donne che vorrebbe vivere questo momento in modo più naturale, con intorno quanto di più caro.Nel suo libro Il parto in casa, dedicato a una scelta che in Italia è ancora oggetto di resistenze, pregiudizi e tabù, Elisabetta Malvagna, con occhio attento, indaga senza preconcetti su questa pratica e ne sostiene la sicurezza, documentando le sue teorie con un’ampia letteratura scientifica e proponendo un’interessante riflessione sul rapporto tra la donna moderna e la nascita.Partendo dalla propria esperienza di mamma di due bambini nati tra le mura domestiche, l’autrice riporta dati, statistiche e numerose testimonianze di personalità del settore, operatori e mamme che hanno scelto questa opzione. Sono poi forniti numerosi e utili consigli pratici per prepararsi ad affrontare questo straordinario momento al meglio e in completa sicurezza.Non mancano, infine, un decalogo sull’allattamento e un manuale di sopravvivenza per gravidanza, parto e post parto, oltre a capitoli sulla figura dell’ostetrica e sulle Case di Maternità. Conosci l’autore Elisabetta Malvagna, giornalista Ansa, scrittrice e blogger, studia da anni il tema della nascita.Ha fondato e cura i blog partoriresenzapaura.it, ispirato all’omonimo libro uscito nel 2008 e ormai divenuto un classico del settore, e partoincasa.it.