Perché il cesareo evita danni alla madre e al bambino, ma ne provoca a sua volta, come l’aumento di emorragie, embolie, anemie, infezioni, complicazioni da anestesia e altro, fra le complicazioni che riguardano la madre, così come i problemi del bambino quali l’immaturità polmonare o l’assenza di beneficio per il feto sano rappresentata dal passaggio attraverso il canale del parto.
Ma vi sono poi le conseguenze psicologiche che sono più lunghe e che richiedono un periodo di recupero più lento. Il libro le definisce “ferita emotiva” e parla delle domande che le madri si pongono mesi dopo un cesareo. Sono domande che noi addetti ai lavori non ci poniamo, né ci preoccupano, poiché ci limitiamo a dire che “la ferita è a posto e non ha nulla”. È la stessa risposta che diamo dopo un’asportazione dell’utero per piccoli fibromi assolutamente benigni e con scarsi sintomi. Tutto va bene, ma alla donna è rimasta la sensazione di perdita per non avere avuto il parto sognato, una ferita sul ventre o senza il suo utero.
Tutto ciò crea dubbi, rabbia o depressione, sensazione di abuso e di violazione del corpo, mutilazione e molteplici domande senza risposta, perché la maggior parte dei sanitari non è in grado di rispondere.
Ma il fatto che non sappiamo rispondere non significa che queste domande non abbiano risposta. È sempre più necessario lavorare in collaborazione con altri specialisti, psicologi, psichiatri, assistenti sociali, che sappiano risolvere questi dubbi. Non è possibile che dopo essere uscita da una sala operatoria o dopo una grave malattia di qualsiasi genere, la persona che ha sofferto tutte queste ferite fisiche e psicologiche se ne vada a casa, prima è meglio è (per il sistema), per essere seguita da un familiare, in genere di sesso femminile, che nutre gli stessi dubbi.
Qualcosa non va in questo aspetto della sanità. Sorgono sempre più spesso associazioni e gruppi di sostegno che cercano di supplire a questa mancanza. Ma non basta. La salute è uno stato di benessere fisico e psichico. Il benessere fisico è garantito, in genere, ma manca quello psichico.
Non è nemmeno sufficiente creare unità di supporto per le patologie gravi. Non possiamo misurare la gravità in base alle dimensioni dell’intervento o della sua malignità, perché il danno psicologico varia da persona a persona. Ciò che per alcuni è un dramma, per altri non lo è. Ma non siamo noi medici, chirurghi o infermieri i più indicati – per via della nostra formazione o deformazione – nel valutare queste situazioni. Il personale sanitario può intuire che una persona abbia problemi psicologici, ma molto spesso manca l’appoggio di un altro tipo di professionalità, soprattutto nella sanità pubblica, che sia in grado di affrontare simili problemi.
Il libro offre alcune indicazioni su come curare la ferita emotiva, ma ritengo che con l’aiuto di una mano esperta, sarà tutto più facile.
Il capitolo su Il fallimento dell’ostetricia moderna è molto significativo. Mi permetto di riportare un caso che ho vissuto in prima persona. Venne inaugurata una nuova e moderna area parto in un grande ospedale, fornita di importanti innovazioni tecnologiche e sistemi di monitoraggio fetale elettronico che inviavano i segnali a un’unità centrale, a distanza, dove si rilevavano tutti i dati. In un’altra modernissima stanza una donna era in travaglio sola! L’ostetrica e il marito erano molto occupati ad osservare la registrazione del monitor fetale presso l’unità elettronica centralizzata, a distanza.
Tutti siamo molto attenti alla registrazione continua dei dati fetali, alle analisi, alle ultime ecografie, alle flebo sulla schiena e sul braccio, a evitare che la donna si muova, che non faccia rumore, ma non ci preoccupiamo di appoggiarle una mano sulla pancia o di prenderle la mano, perché la nostra missione è l’altra. In cosa ci siamo trasformati?
Sono molto belli i riferimenti agli ormoni dell’amore e del parto come l’ossitocina, la prolattina, l’adrenalina, le endorfine e l’importanza del parto come atto sessuale che viene soppresso quando si pratica un cesareo. Sono molto interessanti anche le riflessioni sulla routine ospedaliera, la mancanza di intimità e la spersonalizzazione della donna dal momento in cui arriva all’ospedale, la condotta del personale sanitario, la posizione della donna nel parto, la medicina difensiva e, perché no? gli aspetti economici e la loro relazione con l’aumento dei cesarei.
Un punto di vista che noi addetti ai lavori dobbiamo tenere presente è quello delle donne, che la maggior parte delle volte sono in mano agli uomini, senza che la loro opinione o la loro volontà conti qualcosa. L’associazione El Parto es Nuestro cerca di farci ricordare e di ottenere l’applicazione in tutte le maternità di tutte le raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS).
Queste raccomandazioni sono del 2001, ma fa specie la reticenza da parte della maggioranza degli ospedali a metterle in pratica. Si obietta che sono state scritte per paesi in via di sviluppo e non per le nostre “avanzate” maternità, come se esistessero donne di prima e di seconda categoria. Tutte le donne, in tutte le parti del mondo, sono uguali e hanno gli stessi diritti, e le nostre decisioni mediche si devono basare sempre su prove scientifiche e non su abitudini, usi o routine e, soprattutto, mai sulla comodità di chi assiste al parto.
Sono dieci princìpi fondamentali che hanno lo scopo di non medicalizzare di norma tutti i parti ed evitare le pratiche di routine, tanto fastidiose per le donne, come la rasatura – reminescenza di quando non c’erano servizi igienici nelle case – il clistere e l’episiotomia, la limitazione dei movimenti e l’obbligo, antifisiologico, di partorire con le gambe alzate – che è una posizione comoda per chi assiste il parto ma innaturale e contraria all’intimità della donna –, l’uso sistematico di flebo di liquido fisiologico per prendere una vena “nel caso servisse”, l’allontanamento del bambino dalla madre non appena nato e tante altre pratiche che si perpetrano senza che nessuno sappia bene il perché. L’OMS e il buon senso li comprendono, il personale sanitario no.