quinta parte - Prevenire l’orientamento ai coetanei

capitolo xviii

Ri-creare il villaggio
degli attaccamenti

Molti adulti dai quarant’anni in su ricordano un’infanzia in cui il villaggio degli attaccamenti era una realtà. I vicini si conoscevano l’un l’altro e si facevano visita. I genitori degli amici potevano esercitare il ruolo di genitori succedanei per i figli altrui. I bambini giocavano per strada sotto lo sguardo protettivo e benigno degli adulti. C’erano i negozi di quartiere o di paese dove si acquistavano i generi alimentari e gli attrezzi per la casa, il pane, i dolci e tutto il resto, e dove i negozianti erano molto più che addetti senza volto in catene di supermercati e centri commerciali dove si vendono prodotti industriali di massa. Proprio come il Signor Hooper della serie televisiva “Sesame Street”, erano individui conosciuti e persino amati. I membri della famiglia estesa – zii e cognati – erano in regolare contatto reciproco e, in caso di necessità, avrebbero potuto sostituire i genitori nell’accudimento dei bambini. Non che fosse un mondo idilliaco – nell’esistenza umana è cosa ben rara – ma c’era un senso di radicamento, di appartenenza e di connessione che serviva da matrice invisibile nella quale i bambini maturavano e acquisivano il proprio senso del mondo. Il villaggio degli attaccamenti era un luogo di orientamento agli adulti dove la cultura e i valori venivano trasmessi verticalmente da una generazione all’altra e dove, nel bene o nel male, i bambini seguivano la guida dei grandi.


Per molti di noi, il villaggio degli attaccamenti non esiste più. I puntelli economici e sociali che erano di supporto alle culture tradizionali sono spariti. Sono scomparse quelle comunità solidali, dove le famiglie estese vivevano a stretto contatto, dove i bambini crescevano fra mèntori adulti che lavoravano vicino casa, e dove le attività culturali tenevano unite le diverse generazioni. Molti di noi devono condividere il compito di allevare i propri figli con adulti mai visti prima. La maggior parte dei bambini nordamericani lascia le proprie case quasi ogni giorno per andare in luoghi dove adulti con cui non hanno alcuna relazione di attaccamento si assumono la responsabilità di accudirli. Tenere i bambini a casa per molti di noi non sarebbe fattibile. Se vogliamo riprenderci i nostri figli, o evitare che si orientino ai coetanei, abbiamo solo un’altra possibilità: ri-creare villaggi di attaccamento all’interno dei quali crescere i nostri bambini. Forse non saremo in grado di rimettere insieme i pezzi di Humpty Dumpty, e certo non sarà possibile rimodellare strutture economiche e sociali ormai desuete, ma possiamo ugualmente fare molto per facilitare le cose a noi e ai nostri figli.


Avere un tetto sopra la testa non vuol dire sentirsi a casa, e il problema dei bambini orientati ai coetanei è che, pur vivendo ancora sotto il nostro stesso tetto, non si sentono più “in famiglia”. Lasciano il nostro tetto per sentirsi “a casa” con i loro compagni. Usano il nostro telefono per chiamare “a casa”. Vanno a scuola per stare “a casa” con i loro amici. Hanno “nostalgia di casa” quando non sono in contatto reciproco. Il loro istinto a tornare verso casa è stato sviato e li spinge gli uni nelle braccia degli altri. Anziché preferire la dimora dei genitori, gli adolescenti orientati ai coetanei diventano nomadi, trascinandosi in gruppi o incontrandosi nei centri commerciali. La loro dimora sarà pure il luogo dove abitano, ma il loro sentirsi a casa non è più insieme a noi.


Solo nel contesto di un villaggio di attaccamenti possiamo creare delle case per i nostri figli nel vero senso della parola. La casa e il villaggio sono entrambi il frutto dell’attaccamento. Ciò che rende tale un villaggio è la connessione fra le persone che ci vivono. Le connessioni sono anche ciò che dà vita alla casa, sia in riferimento alla casa stessa, sia alle persone che ci vivono. Ci sentiamo davvero “a casa” solo con coloro a cui siamo legati.


Solo quando un bambino si sente a casa con coloro che se ne prendono cura il suo potenziale evolutivo può realizzarsi appieno. Aiutare un bambino a sentirsi “in famiglia” con gli adulti a cui lo affidiamo è un tutt’uno con il compito di creare un villaggio di attaccamenti nel quale farlo crescere. Nelle comunità tradizionali di attaccamento un bambino non era mai costretto a “lasciare la sua casa”; era a casa ovunque andasse. Anche i bambini di oggi non dovrebbero essere costretti a lasciare le proprie case, o almeno il senso di essere a casa con gli adulti che li accudiscono, finché non siano abbastanza maturi da sentirsi a casa con se stessi.


Creare un villaggio di attaccamento è possibile, basta avere la giusta visione e iniziativa. Come per l’attaccamento in sé, la costruzione del villaggio deve diventare un’operazione consapevole. Non c’è ragione di struggersi per ciò che ormai non esiste più, ma abbiamo invece tutte le ragioni di ripristinare ciò che manca.

Sviluppare un gruppo di sostegno

Dobbiamo considerare preziosi gli amici adulti che mostrano un interesse per i nostri figli, e trovare il modo di promuovere una relazione fra loro. È anche necessario attribuire estrema importanza alla creazione di costumi e abitudini che leghino i nostri figli alla famiglia allargata. Essere parenti non è sufficiente, è necessaria una relazione genuina. Per disgrazia, molti nonni sono diventati anch’essi troppo orientati ai coetanei per assumersi il proprio ruolo nella gerarchia di attaccamento. Molti preferiscono stare insieme agli amici anziché ai nipoti, e in una società mobile e frammentata come la nostra, molti vivono anche lontano. Se il contatto con la nostra famiglia allargata è impossibile, o se per alcune ragioni non è nel miglior interesse dei figli, è necessario coltivare relazioni con adulti desiderosi di riempire tale vuoto.


Anche il nostro modo di socializzare deve cambiare. In Nord America, la socializzazione tende ad essere orientata ai coetanei, dividendosi lungo le linee generazionali. Persino quando generazioni diverse si trovano insieme, le attività si fondano sull’età: gli adulti se ne stanno con gli adulti e i bambini con i bambini. Per creare villaggi di attaccamento, il nostro modo di socializzare dovrebbe coltivare connessioni gerarchiche. Durante il nostro soggiorno in Provenza, abbiamo visto che la socializzazione includeva quasi sempre i bambini. I pranzi, le attività e le gite, tutto era preparato e organizzato considerando la loro presenza. Gli adulti prendevano l’iniziativa di richiamare a sé i bambini e far loro da guida. Questo tipo di socializzazione familiare all’inizio ci colse di sorpresa, ma era perfettamente sensata dal punto di vista dell’attaccamento. Maggiore sarà il numero di adulti amorevoli nella vita di un bambino, e più immune egli sarà all’orientamento ai coetanei. Dovremmo partecipare il più possibile, insieme ai nostri figli, ad attività che ricalchino quelle di un villaggio e che leghino adulti e bambini, che sia attraverso centri religiosi o etici, attività sportive, eventi culturali, o la comunità allargata.


Sulla strada all’angolo dove abita il mio coautore, i genitori si sono organizzati in quello che chiamano “il piccolo isolato che può”. Le relazioni sociali sono coltivate di proposito tra le famiglie che vivono nell’isolato. Ci sono panchine e tavoli da picnic disposti fuori dalle abitazioni, dove genitori e bambini di tutte le età si incontrano. I bambini hanno imparato a relazionarsi a tutti gli adulti della strada come figure di attaccamento, dei veri e propri zii succedanei. Una volta all’anno, la strada viene chiusa al traffico per quella che, in definitiva, è proprio una festa di villaggio. Ci sono giochi, viene servito del cibo, la musica è trasmessa dagli altoparlanti. Il dipartimento locale dei vigili del fuoco fa arrivare un camion rosso e i bambini si divertono fra gli spruzzi delle pompe antincendio.


Ogni genitore ha bisogno di un gruppo di sostegno, e meno questo esiste in modo naturale, e più è necessario che sia coltivato di proposito. Abbiamo tutti necessità di qualcuno che ci sostituisca ogni tanto, e molti di noi hanno bisogno di condividere le responsabilità genitoriali con altri. Selezionare con cura i sostituti e favorire l’attaccamento dei nostri figli a questi adulti dovrebbe essere la priorità. Non basta che una bambinaia o una babysitter sia disponibile, fidata, e abbia i diplomi necessari. Ciò che fa funzionare la cosa è che il bambino accetti il sostituto del genitore come bussola di riferimento e si senta a casa con quella persona. Questo è il genere di relazione che ha bisogno di essere indotta e coltivata. Accogliere il potenziale candidato in alcune attività familiari e invitarlo a un pranzo in famiglia potrebbe essere proprio il tipo di iniziativa utile per dare l’avvio a una connessione.


La situazione odierna richiede spesso che entrambi i genitori lavorino – per non parlare del numero crescente di genitori unici. Non possiamo rimettere indietro gli orologi e tornare a un passato idealizzato quando un genitore, di solito la madre, restava a casa finché i figli erano grandi, o almeno non andavano a scuola. Economicamente e culturalmente abbiamo raggiunto un altro stadio. Ma dobbiamo assicurarci che i nostri figli formino relazioni solide con gli adulti a cui affidiamo il nostro ruolo – come spiegherò nella prossima sezione.


Gabor, il mio coautore, di recente si è recato in Messico per la prima volta. È rimasto impressionato dall’assoluta felicità dei bambini che ha visto nei poverissimi villaggi Maya durante il suo viaggio. “La gioia illuminava i volti di quei bambini”, egli ha detto, “non si vedeva alcun segno dell’alienazione e dell’aggressività che si riscontrano nei bambini del Nord America. Avevano un’apertura ingenua e innocente, nonostante la vita dura dei loro genitori”. I Maya, come altri gruppi di indigeni in tutto il mondo, praticano l’“attaccamento parentale” (“Attachment parenting”) in modo del tutto inconsapevole. Portano addosso i loro piccoli ovunque vadano per i primi anni di vita e, in generale, li crescono in villaggi tradizionali di attaccamento. L’idea che i genitori si separino dai neonati o dai bambini piccoli li colpisce come una cosa strana. Analogamente, secondo un recente articolo giornalistico, a Nairobi, in Kenya, un’imprenditrice che aveva aperto un negozio che vendeva passeggini, spiegava così perché gli affari andavano a rilento: “Le donne qui non vedono perché dovrebbero aver bisogno di un aggeggio con cui spingere in giro i propri bambini; li portano semplicemente addosso ovunque vadano”. E ancora, un qualunque visitatore in Africa non potrà fare a meno di notare la spontaneità gioiosa, la naturalezza dei sorrisi, e i movimenti sciolti del corpo dei bambini africani. Questo deriva dallo stretto contatto con adulti amorevoli nel villaggio di attaccamento. Ahimè, è una cultura che la guerra e la fame stanno devastando in molti luoghi.


Non porto questi esempi per biasimare la nostra cultura, ma per mostrare ciò che abbiamo perduto in termini di genitorialità istintiva e fondata sull’attaccamento. Forse non riusciremo a ritornare a queste pratiche, ma dobbiamo compensare la loro perdita in ogni modo possibile. Da qui la mia insistenza a fare del nostro meglio per ri-creare il villaggio di attaccamento al meglio delle nostre capacità, e per quanto lo permettano le circostanze.


Mi viene chiesto spesso a che età un bambino è pronto per sostenere la separazione da un genitore che torna al lavoro o, magari, che lascia il bambino per andare in vacanza. La mia risposta è quasi sempre una domanda sulla natura del gruppo di sostegno. Solo l’attaccamento può creare un sostituto del genitore; è dunque necessario coltivare questi attaccamenti. La nostra cultura sociale non svolge più questo compito. Nel far venire al mondo un bambino, oggi, ci dobbiamo prendere anche la responsabilità di crearci un nostro gruppo di sostegno. Se diventassimo consapevoli dell’attaccamento e ci assumessimo questo ruolo, potremmo ascoltare conversazioni così:


“Come sta andando la ricerca di una buona tata per Samantha?”

“Abbiamo trovato una ragazza che sembra promettente. Proprio in questo momento sono insieme in cucina a preparare di tutto. Sembra che sappia entrare in sintonia con Samantha. Voglio che trascorrano del tempo insieme e che Samantha sia completamente legata a lei prima di lasciarle da sole. Dopo, dovrebbe filare tutto liscio come l’olio!”


Gli attaccamenti con gli adulti sono importanti soprattutto durante l’adolescenza. Quando un adolescente si allontana dai genitori, come si tende a fare a quell’età, avere un altro adulto a cui rivolgersi può evitare che si rivolga ai coetanei. Se devono servire a questa funzione, comunque, queste relazioni devono essere coltivate molto tempo prima che il bambino arrivi all’adolescenza. Se dobbiamo essere rimpiazzati, sarà molto meglio che ciò avvenga con sostituti ben selezionati.

Essere buoni mediatori

Nel villaggio tradizionale gli attaccamenti dei bambini sono generati da quelli degli adulti. Oggi, in molti casi, come in quello degli insegnanti, abbiamo ben poca scelta sugli adulti a cui dobbiamo affidare i nostri figli. In queste situazioni, la sfida riguarda più il saper mediare la relazione tra i nostri figli e coloro che ne sono responsabili. Essere mediatori vuol dire preparare due persone in modo tale che siano più propense a legarsi l’una all’altra. Spesso ci comportiamo da mediatori in modo piuttosto istintivo, per favorire relazioni affettuose tra fratelli o anche fra i nostri figli e i nonni. Dobbiamo utilizzare questa danza istintiva di attaccamento per creare il nostro villaggio.


A volte i bambini si legano spontaneamente a coloro che ne sono responsabili: gli operatori degli asili nido, gli insegnanti, le babysitter, i nonni. Ma se ciò non avviene, non dobbiamo restarcene con le mani in mano. Possiamo fare molto per facilitare una relazione efficace fra il bambino e chi prende il nostro posto. I mediatori, di solito, hanno una serie di assi nella manica. Una volta che l’obiettivo sia chiaro, è sorprendente come tutto il resto segua con facilità.


Uno degli strumenti più importanti è la presentazione, cioè un’opportunità per creare una prima impressione amichevole. È anche un modo naturale per dare la nostra benedizione al nuovo attaccamento. È importante che i figli ci vedano in una interazione amichevole con la persona alla quale stiamo per passare il testimone, che si tratti di una maestra d’asilo, di una puericultrice del nido, di un insegnante di pianoforte, di un istruttore di sci, del preside o della maestra di scuola. Il segreto è di prendere l’iniziativa nel far conoscenza con l’adulto a cui stiamo per affidare nostro figlio, e poi assumere il controllo delle presentazioni. È un’occasione d’oro per la mediazione.


Se vivessimo in un mondo in armonia con il progetto evolutivo, genitori e insegnanti stabilirebbero una connessione reciproca amichevole come prima cosa, e in seguito i genitori eserciterebbero il loro giusto ruolo facendo le presentazioni. Le feste della scuola, invece di far incontrare i ragazzi con i loro coetanei, dovrebbero facilitare l’interazione fra i membri del gruppo adulto di attaccamento. Dovrebbero esistere consuetudini e iniziative che agevolino il passaggio dei bambini da un adulto all’altro. E invece, qual è la realtà oggi? Io e il mio coautore siamo stati recentemente invitati a condurre un seminario per professionisti in una città della British Columbia. Fummo sorpresi nell’apprendere che il liceo locale stava organizzando una cerimonia senza i genitori per la consegna dei diplomi; e questo sulla base del fatto che il numero degli iscritti ormai era tale che non esisteva uno spazio sufficientemente grande da contenere gli studenti e i loro familiari insieme. Eppure, la città ha una serie di grandi strutture, compresa una pista da hockey. Il problema non è la mancanza di spazio, bensì la mancanza di consapevolezza!


Un altro importante strumento di mediazione è far affezionare l’una all’altra le due parti che devono connettersi. Che si riferisca all’uno il complimento dell’altro o si interpretino segnali di apprezzamento, l’obiettivo del mediatore è di facilitare il piacersi delle due parti. Troppo spesso noi genitori saltiamo questo passo e ci concentriamo su ciò che ci preoccupa o sulle cose che non vanno. La relazione è il contesto nel quale poter lavorare con il bambino, e pertanto ha la priorità. La relazione deve essere consolidata prima di ogni altra cosa; dopo si potrà affrontare ciò che non va. Siamo noi genitori a dover prendere l’iniziativa e a condurre il gioco. Dobbiamo solo essere consapevoli di questo obiettivo, tutto il resto seguirà in modo naturale. Potremmo trovarci, ad esempio, a parlare con l’insegnante in questi termini: “Avete fatto un’ottima impressione su nostra figlia!”, “Piacete molto a nostro figlio ed è molto desideroso di non deludervi”, “Nostro figlio ha chiesto di voi quando eravate assente, gli siete mancata molto”. A nostro figlio, invece, potremmo dire cose del tipo: “La tua maestra ha detto cose molto carine di te”, “Non sarebbe tanto interessato a te se tu non fossi importante per lui”, “Il tuo maestro ha detto che gli sei mancato e che spera guarirai presto”. Si può trovare sempre qualcosa che possa essere interpretato positivamente per favorire una connessione fra il bambino e colui che ne è responsabile.


Tutti i bambini hanno bisogno di connessioni con gli adulti per non cadere nelle crepe dell’attaccamento. Quando un bambino ha un numero sufficiente di adulti da cui dipendere mentre si sposta da casa a scuola, al nido, al parco giochi, non c’è pericolo che l’orientamento ai coetanei attecchisca. Il nostro compito è di assicurarci che il bambino sia costantemente protetto da un attaccamento efficace con un adulto, e che gli adulti funzionino come in una staffetta. Dobbiamo essere sicuri di aver passato con successo il testimone dell’attaccamento prima di lasciare la presa; è quando il testimone ci cade di mano che i nostri figli rischiano di venir richiamati da qualcun altro.

Non c’è limite alle mediazioni possibili. Un progetto scolastico pionieristico, ideato dal dottor Mel Shipman negli anni ’80, iniziò con l’avvicinare i cittadini anziani ai bambini delle scuole elementari nell’east side di Toronto. Il programma prevedeva solo un’ora di contatto a settimana, ma l’impatto positivo delle relazioni intergenerazionali ebbe un effetto a cascata sull’intera scuola. Molti studenti ritennero che queste relazioni avessero cambiato la loro vita, e lo stesso fu per i partecipanti più anziani. Il successo del Riverdale Inter-Generational Project alimentò un movimento a livello provinciale che al momento coinvolge diverse centinaia di agenzie nel promuovere legami affettivi fra le generazioni69. Questo famoso progetto si è diffuso anche in diversi stati della costa orientale. È interessante notare che gli ideatori di questa meravigliosa iniziativa, ignari dell’orientamento ai coetanei, non riuscivano a spiegare in maniera adeguata il grande successo della loro iniziativa. Una volta tenuto conto dell’orientamento ai coetanei, possiamo facilmente capire i benefici effetti del contatto intergenerazionale. Sia per i giovani che per gli anziani, esso soddisfaceva un bisogno profondo.
L’insegnante che abbia dato vita a una relazione efficace con uno studente ha il potere di mediare le relazioni con gli altri insegnanti e con il personale scolastico che è responsabile del bambino – il bibliotecario, il supervisore durante la ricreazione, il preside, lo psicologo, ma soprattutto l’insegnante dell’anno successivo. Quale differenza farebbe se gli insegnanti utilizzassero il potere dei loro attaccamenti per creare una relazione efficace con altri adulti da cui gli studenti devono dipendere! La mia adorata maestra Ackerberg fu quanto di meglio potesse capitarmi in prima elementare, ma se avesse fatto da mediatrice con la mia maestra di seconda e avesse passato il testimone dell’attaccamento, non avrei dovuto attendere fino in quinta elementare prima che un nuovo attaccamento prendesse piede.

Disarmare la concorrenza

Viviamo in un mondo dominato dalla competizione negli attaccamenti. Il conflitto è potenzialmente in agguato ogni volta che i nostri figli formano un nuovo attaccamento con qualcuno con cui non abbiamo una relazione. Le scuole generano attaccamenti competitivi. Divorziare e risposarsi genera attaccamenti competitivi. I villaggi di attaccamento già esistenti spesso si disintegrano con il formarsi di nuove relazioni antagoniste, rendendo i bambini suscettibili di orientarsi ai coetanei. Dobbiamo consapevolmente disinnescare, per quanto possibile, la competitività, sia che gli attaccamenti rivali siano fra i diversi adulti nella vita del bambino, sia che si creino fra i genitori e i coetanei.


A volte un attaccamento competitivo può innescarsi con un altro genitore: divorziato, affidatario, o acquisito. Per quanto possibile, è importante comunicare al bambino che la vicinanza a un genitore non deve significare distanza dall’altro. Dobbiamo trasformare quelle che sembrano relazioni “questo-o-quello”, in relazioni “questo-e-quello”. Possiamo riuscirci parlando dell’altro genitore in termini amichevoli, e facilitando il contatto con il genitore che è assente. A volte la rivalità diminuisce quando il bambino riesce a vedere che i genitori interagiscono in modo amichevole: sedendo l’uno accanto all’altro durante una celebrazione scolastica, applaudendo e inneggiando insieme durante una partita di baseball, incoraggiandolo durante un saggio di musica. Nonostante la difficoltà che gli adulti possono incontrare nel superare le differenze reciproche, ne vale davvero la pena. Il villaggio degli attaccamenti non solo può essere preservato quando la vicinanza a un genitore non obbliga alla distanza dall’altro, ma può essere persino allargato.


Di gran lunga più frequente è il caso in cui la competizione, reale o potenziale, non si trova negli altri adulti, ma nei coetanei dei nostri figli. Esistono centinaia di modi per attenuare queste tendenze alla divisione. Prima di tutto, potremmo noi stessi coltivare delle relazioni con gli amici dei nostri figli, assicurandoci di far sempre parte del quadro e di essere coinvolti nelle loro relazioni. Si potrebbe, per esempio, rispondere al telefono e salutare per nome gli amici dei figli che hanno chiamato, e persino fare con loro un po’ di conversazione. Se i ragazzi sono già abbastanza orientati ai coetanei preferiranno far finta che neppure esistiamo. La nostra unica speranza di contrastare questa tendenza è di insistere nell’essere presenti – naturalmente in modo gentile e amichevole. La stessa cosa vale quando si entra in casa. Permettere agli amici dei figli di entrare dalla porta di servizio o quella sul retro consente loro di evitare i normali rituali di attaccamento della famiglia, ossia i saluti e le presentazioni. Per la stessa ragione, creare un’area separata della casa dove i bambini possano isolarsi è l’ultima cosa da fare. Il nostro desiderio deve essere quello di farli stare con noi in quella parte della casa dove si soggiorna tutti insieme, e dove è possibile mantenere il legame e rovesciare la mentalità del “questo-o-quello”. Quando si tratta di attaccamento, coloro che non sono in relazione con noi è probabile che diventino nostri rivali. Ciò che a volte rompe il ghiaccio e li induce ad una relazione con noi è servire loro un pasto in un contesto familiare. Capisco che non si tratti di una cosa facile, ma parlo per esperienza personale quando dico che ne vale proprio la pena, nonostante l’impaccio che si possa percepire all’inizio.


Quando i bambini raggiungono l’adolescenza, di solito si fa pressione sui genitori affinché favoriscano gli incontri con i coetanei e le feste. Se l’orientamento ai coetanei aleggia nell’aria, il messaggio implicito o esplicito rivolto ai genitori è di eclissarsi durante queste occasioni. Di nuovo, è importante prendere l’iniziativa, sventare la polarizzazione, e stabilire un precedente. Quando Bria, la nostra terza figlia, raggiunse l’età dell’adolescenza, eravamo ormai degli esperti in questo tipo di manovra. Quando arrivò l’inevitabile richiesta con la preghiera di renderci invisibili, prendemmo la palla al balzo. Ma sì! Certo che poteva dare una festa! E... no! Certo che non saremmo spariti! Di fatto, saremmo stati ospiti molto attivi e avremmo organizzato un banchetto che nessuno dei suoi amici avrebbe potuto rifiutare. Io scelsi di stare al barbecue, così potevo chiedere ad ognuno degli ospiti cosa preferiva e come lo preferiva. Nel frattempo, il mio proposito sottaciuto era quello di trovarmi di fronte a loro in modo amichevole, catturare i loro sguardi se possibile, sollecitare un sorriso e un cenno della testa, ottenere un nome e cercare di ricordarlo, e naturalmente presentarmi a mia volta. I fratelli più piccoli di Bria vennero ingaggiati come camerieri. Il messaggio sarebbe stato chiaro: avere a che fare con Bria significava avere a che fare con tutta la sua famiglia. Era un pacchetto tutto compreso. Quando rendemmo chiaro il nostro proposito di essere ospiti attivi e presenti, la prima reazione di Bria fu di avvilimento! Dubitava che avrebbe mai funzionato. Temeva che nessuno dei suoi amici sarebbe venuto, e che se anche lo avessero fatto nessuno le avrebbe più rivolto la parola. I suoi timori erano infondati. Non fui certo in grado di far breccia in tutti quanti, ma dubito che coloro con cui non ci riuscii sarebbero stati comunque inclini a farsi vivi di nuovo. Era molto più probabile che i ragazzini con cui invece funzionò avrebbero cercato con nostra figlia quel tipo di relazione che non sarebbe entrata in competizione con noi.


Ancora un altro modo di sventare la competizione potenziale è coltivare delle relazioni con i genitori degli amici dei nostri figli. In un villaggio di attaccamenti preesistente, avremmo già una connessione con i genitori dei bambini che interagiscono con i nostri figli. Non vivendo più in un mondo siffatto, la sola possibilità che abbiamo è di ricostruire il villaggio partendo dal basso: dagli amici dei figli ai loro genitori. Se non ci riusciamo, il mondo degli attaccamenti dei nostri figli resterà frantumato e scisso, intrinsecamente foriero di antagonismi. Potremmo non essere in grado di controllare chi sono gli amici dei nostri figli, ma se riusciamo a stabilire connessioni amichevoli con i loro genitori, potremo armonizzare e dare unità al mondo di attaccamenti in cui i nostri figli vivono. È sempre possibile riuscirci? Naturalmente no. Le differenze possono rivelarsi insormontabili, ma vale comunque la pena di provarci. La posta in gioco è troppo alta; non possiamo permetterci di ignorare nessuna opportunità.


Io e mia moglie siamo stati fortunati con Bria. I genitori di due delle sue amiche più care erano molto favorevoli all’idea di coltivare legami che servissero a tenere unito il mondo delle ragazze. Avevamo già sviluppato un rapporto con le amiche di Bria, e anche gli altri genitori avevano fatto la loro parte. La mia idea era di disinnescare i potenziali antagonismi, creare un mondo dove la vicinanza ai coetanei non fosse a spese della vicinanza ai genitori. La creazione del villaggio funzionò molto meglio di quanto avessi mai potuto sperare. La ciliegina sulla torta fu la notte dell’ultimo dell’anno, alla vigilia del nuovo millennio. Prima di questo evento, ognuno di noi aveva condiviso con il resto della famiglia le proprie fantasie su cosa avrebbe voluto che accadesse durante questa serata speciale, e cosa avrebbe voluto che significasse. Il desiderio di Bria era quello di stare insieme, non solo alle sue migliori amiche, ma anche alle loro famiglie e ai loro ospiti. Invitammo tutti a casa nostra e trascorremmo la serata godendoci la compagnia reciproca. Brindammo alle giovani donne che ci avevano ispirato nella creazione di un villaggio che era partito dal basso, dando vita a legami che altrimenti non sarebbero mai esistiti. L’evento restò a testimonianza del fatto che quando i coetanei e i genitori non sono rivali, i nostri figli possono avere entrambi.


Solo quando il loro mondo di attaccamenti si scinde, i coetanei e i genitori finiscono per appartenere a sfere diverse. La nostra sfida è creare una relazione con i figli, e un villaggio di attaccamenti in cui farli vivere, dove i coetanei possano essere inclusi senza che i genitori vengano soppiantati.


Poiché l’infanzia è in funzione dell’immaturità, la sua durata è in aumento nella nostra società. Allo stesso tempo, poiché la vera genitorialità è un fatto di relazione, e può esistere soltanto finché il bambino è attivamente legato a noi, la durata della genitorialità partecipe e attiva è in rapida diminuzione: è qui che i coetanei si insinuano. Quando gli attaccamenti vengono sviati, perdiamo la nostra genitorialità, e la sua precoce scomparsa – prima della fine dell’infanzia – è disastrosa sia per i figli, sia per i genitori. Quando la genitorialità ci viene sottratta, i nostri figli vengono privati degli aspetti positivi dell’infanzia. Essi restano immaturi, e sono al contempo spogliati dell’innocenza, della vulnerabilità, e dell’apertura infantile che sono necessarie alla crescita e a un libero godimento di ciò che la vita ha da offrire. Gli viene sottratta con l’inganno l’eredità a cui hanno pieno diritto in qualità di esseri umani.


Chi dovrà crescere i nostri figli? La risposta che riecheggia, l’unica compatibile con la natura, è che noi – genitori e altri adulti coinvolti nella cura dei piccoli – dobbiamo essere i loro mèntori, le loro guide, i loro modelli, e coloro che li cresceranno e sosterranno. Dobbiamo tenerci stretti i nostri figli finché il nostro lavoro non sarà concluso. Non per motivi egoistici, ma perché possano poi avventurarsi fuori dal nido; non per trattenerli, ma per permettergli di compiere il loro destino evolutivo. Teniamoli saldamente accanto a noi finché non potranno tenersi saldamente a se stessi.

I vostri figli hanno bisogno di voi
I vostri figli hanno bisogno di voi
Gabor Maté, Gordon Neufeld
Perché i genitori oggi contano più che mai.La potente riscoperta del valore basilare dell’attaccamento tra genitori e figli. Più l’attaccamento è forte e sano e più i figli crescono sicuri. Il caos culturale dettato dal materialismo imperante e dalle infatuazioni tecnologiche dell’economia globalizzata minaccia la relazione con i propri figli: questi fattori appartenenti al nuovo mondo, infatti, allentano i legami di attaccamento fra i bambini e gli adulti che se ne prendono cura, distruggono il contesto appropriato perché i genitori possano svolgere il loro compito, menomando lo sviluppo umano e, inesorabilmente, erodendo le basi della trasmissione culturale e valoriale.Nel libro I vostri figli hanno bisogno di voi, un medico e uno psicologo uniscono le forze per trattare una delle tendenze più fraintese e allarmanti del nostro tempo: i coetanei (amici, cuginetti, compagni di scuola) che prendono il posto dei genitori nella vita dei figli.Questo fenomeno è definito come “orientamento ai coetanei”: tale termine si riferisce al fatto che, quando i bambini in età scolare e i giovani ragazzi hanno bisogno di un’indicazione, preferiscono rivolgersi ai coetanei anziché far riferimento al padre, alla madre e al rispetto dei valori naturali, al senso di ciò che è giusto o sbagliato, all’identità e ai normali codici di comportamento.Quando i coetanei sostituiscono i genitori, lo sviluppo dei bambini si arresta: non ci sono più sane figure educative di riferimento, l’orientamento ai pari crea una massa di giovani adulti immaturi, conformisti e inquieti, incapaci di integrarsi nella società corrente. Ora, questo continuo orientarsi ai coetanei non può che deteriorare la coesione familiare, impedendo uno sviluppo sano e equilibrato del bambino, avvelenando l’atmosfera scolastica e favorendo la crescita di una cultura giovanile aggressiva, ostile e prematuramente sessualizzata.Dal canto loro, i genitori sono a disagio, frustrati, e si acuisce la sensazione che lo sviluppo dei bambini sia sfuggito alla loro influenza. Perché si possa essere genitori efficaci, è necessario quindi che i bambini sviluppino la giusta relazione con i genitori.I ragazzi non stanno perdendo i genitori perché manca competenza o coinvolgimento, ma per mancanza di un attaccamento primario. La conservazione della cultura si basa proprio sui modelli di questo genere, e la conseguenza principale della loro perdita è la scomparsa del contesto appropriato per una sana crescita. L’attaccamento di un bambino ai genitori crea infatti un grembo psicologico necessario per dare vita alla personalità e all’individualità.Gli autori Gordon Neufeld e Gabor Maté aiutano i genitori, gli insegnanti e gli operatori sociali a comprendere questo fenomeno inquietante, fornendo soluzioni utili per ristabilire la giusta preminenza del legame che unisce i figli ai genitori e restituendo a questi ultimi il potere e la forza di essere una fonte vera di contatto, guida, calore e sicurezza. Un libro non finisce con l’ultima pagina!Questo titolo si arricchisce di contenuti “extra” digitali. Per consultarli è sufficiente utilizzare il QR code in quarta di copertina.