quinta parte

Prevenire l’orientamento ai coetanei

capitolo xvii

Non favorire l'orientamento
ai coetanei

Dobbiamo smetterla di porre i coetanei dei nostri figli in condizione di rimpiazzarci, naturalmente senza dimenticare che il nemico non sono loro, bensì l’orientamento ai pari.


Siamo stati raggirati dall’orientamento ai coetanei in modo molto simile all’antico popolo di Troia, ingannato dal Cavallo di Ulisse. Credendo che l’enorme cavallo di legno fosse un dono degli dèi, i Troiani lo fecero entrare attraverso le mura della città, e prepararono in tal modo la loro distruzione. Analogamente, i genitori e gli insegnanti di oggi vedono di buon occhio una precoce e assidua interazione fra coetanei. La incoraggiamo, inconsapevoli dei rischi che si corrono quando questo tipo di interazione avviene senza la direzione e il consiglio degli adulti. Non siamo in grado di distinguere le relazioni fra coetanei che si formano sotto la guida consapevole e benigna degli adulti da quelle che prendono piede in un vuoto di attaccamento. Ignari, incoraggiamo l’orientamento ai coetanei a sabotare l’attaccamento dei figli nei nostri confronti. Se i Troiani avessero potuto vedere i loro nemici greci appostati nel ventre di quel congegno insidioso, non sarebbero stati ingannati. È il nostro problema di oggi. Il Cavallo di


Troia dell’orientamento ai coetanei viene percepito come un dono, anziché una minaccia quale in effetti è.


L’incapacità di prevederne gli effetti nocivi è del resto comprensibile, dal momento che i primi frutti sono piacevoli e seducenti. A un primo sguardo i bambini orientati ai coetanei sembrano più indipendenti, meno appiccicosi, più a loro agio a scuola, più socievoli e disinvolti. Nessuna meraviglia che si cada nella trappola, vista l’assenza di consapevolezza dei meccanismi coinvolti e dei costi a lungo termine. Come evitarla, allora, questa trappola?

Non lasciarsi ingannare dai primi frutti dell'orientamento ai coetanei

Per molti adulti, la capacità dei bambini di stare insieme fra loro e divertirsi suona come emancipazione. I coetanei sembrano la migliore delle baby-sitter, soprattutto dal momento che noi genitori non possiamo più fare affidamento su nonni, famiglia allargata e comunità attorno a noi per condividere i compiti dell’accudimento. I coetanei sembrano una vera benedizione, dando respiro a genitori e insegnanti esausti e provati. Quanti di noi si sono sentiti grati quando l’invito di un amico dei nostri figli ci ha concesso una fine settimana di libertà per rilassarci, o ci ha garantito il tempo e lo spazio di cui avevamo estremo bisogno per lavorare a un nostro improrogabile progetto? I bambini sembrano contenti e il nostro carico di lavoro si alleggerisce. Ben poco possiamo immaginare di quanto tempo, energia, costi, e accudimento riparatore in più queste esperienze esigeranno da noi, nel corso degli anni successivi, se l’orientamento ai coetanei dovesse prendere piede.


Paragonati ai bambini orientati agli adulti, quelli orientati ai coetanei danno l’impressione di essere meno bisognosi e più maturi. Questi ultimi smettono di pressarci per fare le cose insieme a noi, coinvolgerci nelle loro vite, ascoltarli in ciò che li preoccupa, o aiutarli con i loro problemi. Visto l’altissimo valore che la nostra società assegna all’indipendenza – la nostra e quella dei nostri figli – l’orientamento ai coetanei sembra una buona cosa. Ci dimentichiamo del fatto che crescere richiede tempo. Nella nostra cultura postindustriale siamo troppo di fretta in tutto. Probabilmente non saremmo indotti in errore dalle false impressioni se non fossimo tanto impazienti di veder crescere i nostri figli.


Questi bambini sono in grado di staccarsi da noi solo perché si sono aggrappati gli uni agli altri; a lungo termine, hanno molte più probabilità di restare bloccati nell’immaturità psicologica. Sarà molto più difficile per loro saper pensare a se stessi, tracciarsi una rotta, prendere delle decisioni, avere pensieri propri ed essere se stessi.


Ci aiuta a cullarci in questo compiacimento il fatto che, almeno sulle prime, i bambini orientati ai coetanei tendono a essere anche scolarizzabili con più facilità. Il costo di questa impressione sbagliata è la perdita della possibilità di istruirli, ed è stata già discussa nel capitolo 13. L’orientamento ai compagni può rendere un bambino temporaneamente più a suo agio a scuola, a causa degli effetti della separazione sull’apprendimento. La scuola porta i bambini lontano da casa, separandoli dai genitori con cui hanno una relazione di attaccamento, se sono bambini orientati agli adulti. Per costoro, l’ansia da separazione sarà intensa e il senso di disorientamento a scuola molto acuto. Molti di noi ricordano ancora il primo giorno in una nuova scuola: la stretta allo stomaco, il sentirsi sperduti e confusi, il disperato scrutare alla ricerca di qualcuno o qualcosa che ci fosse familiare. Per i più giovani, questo vuoto di attaccamento è insopportabile; il livello elevato dell’ansia che ne consegue interferisce con l’apprendimento. L’ansia ci inebetisce, abbassando il nostro quoziente intellettivo in maniera significativa; essere in uno stato di agitazione interferisce con la capacità di concentrazione e di memorizzazione; l’ansia rende difficoltoso seguire le indicazioni e rispondere alle istruzioni. Per i bambini è semplicemente impossibile apprendere se si sentono smarriti e spaventati.


I bambini che sono già orientati ai coetanei quando entrano a scuola non devono affrontare un tale disagio. Nei primi giorni di scuola, all’asilo, sembrano più intelligenti, più sicuri di sé e capaci di trarre il meglio dall’esperienza scolastica. I bambini orientati ai genitori, menomati dall’ansia da separazione, appaiono, per contrasto, meno abili e capaci – almeno finché non saranno in grado di formare un buon attaccamento con un insegnante. I bambini orientati ai coetanei hanno tutto da guadagnare in un contesto povero di adulti e ricco di loro pari. A scuola i coetanei sono molti e facili da individuare, perciò i bambini orientati verso di loro non si sentiranno smarriti o senza indicazioni da seguire. Così, nel breve termine, l’orientamento ai coetanei sembra una vera e propria manna, ed è questa, senza dubbio, la dinamica cui attinge la ricerca quando sottolinea i vantaggi della scolarizzazione precoce.

A lungo termine, naturalmente, gli effetti positivi sull’apprendimento dovuti a un’ansia e un disorientamento minori, saranno a poco a poco cancellati dagli effetti negativi dell’orientamento ai coetanei. A ciò fa riscontro l’evidenza, messa in luce dalla ricerca, secondo la quale gli iniziali vantaggi della scolarizzazione precoce non sono sostenibili nel tempo57. I bambini orientati ai coetanei vanno a scuola per stare insieme agli amici, non per imparare. Se anche questi amici non sono interessati all’apprendimento, i risultati scolastici peggioreranno. Quando i bambini vanno a scuola per stare con i compagni, sono indotti a studiare solo fin dove non rischiano di distinguersi, e quanto basta per rimanere con quelli della loro età. All’infuori di questo, l’apprendimento è irrilevante e può essere persino un ostacolo nelle relazioni fra coetanei.


Anche l’ansia fa la sua ricomparsa a tormentare gli studenti orientati ai coetanei. Poiché l’attaccamento ai compagni è intrinsecamente dominato dall’insicurezza, l’ansia diviene spesso una condizione cronica. I bambini orientati ai pari sono tra i più agitati, perennemente irrequieti e intimoriti. Nei gruppi di bambini e ragazzi orientati ai coetanei, si riesce quasi a percepire l’agitazione nell’aria. Insensibili alla vulnerabilità dei sentimenti di ansia, ad essi non resta che la manifestazione dei suoi aspetti fisiologici: l’agitazione e l’irrequietezza. Che venga percepito in modo consapevole o meno, lo stato di allarme blocca l’apprendimento. L’orientamento ai coetanei all’inizio può esaltare le prestazioni, ma in ultima analisi non fa che sabotare i progressi. Se l’attaccamento del bambino ai coetanei si intensifica, il divario fra la sua intelligenza e i conseguimenti scolastici si amplierà. La condizione stessa che di solito gli crea un vantaggio in partenza, alla fine lo farà cadere.


È interessante notare che, al momento, i candidati favoriti per accedere ad alcune Università prestigiose sono i ragazzi che hanno ricevuto la loro istruzione in famiglia58. Secondo Jon Reider, responsabile per l’ammissione alla Stanford University della California, sono candidati ideali perché “I ragazzi istruiti in famiglia possiedono certe abilità – la motivazione, la curiosità, la capacità di rendersi responsabili per la propria istruzione – che le scuole superiori non riescono a instillare bene nei propri studenti”59. In altre parole, i bambini che hanno frequentato l’asilo possono aver registrato la migliore partenza scolastica, ma quelli che hanno avuto l’esperienza della scuola famigliare conseguono i migliori risultati finali, perché nel nostro sistema scolastico trascuriamo il ruolo cruciale dell’attaccamento.


L’asilo non è il problema principale e la scuola familiare non è la risposta definitiva. Il fattore chiave è la dinamica dell’attaccamento. Sottoporre i bambini alle esperienze che lo rendono dipendente dai coetanei non funziona. Dobbiamo ancorare l’esperienza scolastica nell’attaccamento agli adulti.

La timidezza non è il problema che crediamo

Di solito pensiamo alla timidezza come a una qualità negativa, qualcosa che vorremmo far superare ai nostri figli. Tuttavia, dal punto di vista evolutivo, questo limite apparente ha una funzione utile. La timidezza è una delle forze di attaccamento, concepita per bloccare il bambino dal punto di vista sociale, affinché venga scoraggiata ogni interazione al di fuori della cerchia sicura dei legami di attaccamento.


Il bambino timido è paralizzato se attorniato da gente con cui non ha legami di attaccamento. È naturale aspettarsi che i bambini orientati agli adulti siano spesso socialmente ingenui e goffi insieme ai coetanei, almeno nei primi anni. Per contrasto, i bambini orientati ai coetanei sembrano avere un successo maggiore da un punto di vista sociale. È il loro cavallo di battaglia. Devono sempre sapere cosa è “fico” e cosa no, cosa indossare e come parlare – applicano gran parte della propria intelligenza a decifrare gli uni dagli altri le indicazioni su come essere e come agire.


Molta della socievolezza tipica dei bambini orientati ai coetanei è il risultato di una perdita di timidezza. Quando i compagni sostituiscono gli adulti, la timidezza si inverte. Il bambino diventa timido con gli adulti ma socievole in compagnia dei coetanei. Quando è con loro esce fuori dal guscio, gli si scioglie la lingua, si comporta con maggior padronanza e sicurezza. Il cambiamento nella personalità è impressionante, e siamo inclini a dar credito all’interazione con i coetanei. Di certo, ci diciamo, una tale risultato positivo non può derivare da qualcosa di problematico! Tuttavia, la vera integrazione sociale e un’autentica abilità sociale – aver cura degli altri e tenere in considerazione i sentimenti delle persone che non si conoscono – nel lungo termine non saranno gli attributi del bambino orientato ai coetanei.


I bambini orientati agli adulti di solito sono molto più lenti nel perdere la loro timidezza di fronte ai coetanei. Ciò che alla fine dovrebbe mitigare la loro timidezza non è l’orientamento ai coetanei, ma la maturità psicologica che genera un forte senso di sé e la capacità di accogliere sentimenti ambivalenti. Il miglior modo per affrontare la timidezza è quello di coltivare legami e relazioni affettuose con gli adulti coinvolti nella cura e nell’educazione del bambino. Con l’attaccamento in mente, non dovrebbe essere la timidezza a preoccuparci tanto, quanto piuttosto la sua mancanza in molti bambini di oggi.

Lo stress del nido in assenza di attaccamento

La situazione corrente degli asili nido illustra come, involontariamente, si cerchi la concorrenza. Milioni di bambini in tutto il mondo trascorrono oggi alcune, se non la maggior parte, delle loro ore di veglia fuori di casa e lontano dalla famiglia. Secondo statistiche recenti, la maggior parte delle madri lavoratrici negli Stati Uniti torna al lavoro prima che il figlio abbia compiuto un anno d’età60. Gli asili nido, soprattutto nel modo in cui sono concepiti in America, sono una faccenda rischiosa. Studi recenti hanno dimostrato che i bambini nei nidi d’infanzia vivono una situazione di stress. I livelli di cortisolo, l’ormone dello stress, sono più elevati durante la permanenza al nido rispetto a quando sono a casa61. Gli effetti stressanti del nido si amplificano quando il bambino si mostra timido. Come abbiamo visto, la timidezza riflette una mancanza di connessione emotiva. Un bambino non si mostrerebbe tanto timido se si sentisse a casa con chi ha il compito di prendersene cura. In assenza di un affettuoso legame con chi lo accudisce, il bambino affronta il duplice stress della separazione dal genitore e dell’imposizione di persone estranee, che i suoi istinti naturali gli dicono di respingere.


Un’altra linea di ricerca ha mostrato che più tempo i bambini piccoli trascorrono gli uni con gli altri, più sono influenzati dai coetanei62. L’influenza è misurabile anche lungo un lasso di tempo di soli pochi mesi. I maschi sono molto più suscettibili delle femmine a orientarsi ai coetanei, una scoperta coerente con l’osservazione che gli attaccamenti dei bambini maschi ai genitori sono spesso meno sviluppati. Così, essi sono più inclini a sostituire i genitori con i coetanei. Molto significativa è la scoperta che più i maschi si identificano con i coetanei, più resistono al contatto con gli adulti responsabili.

Non solo i semi dell’orientamento ai coetanei vengono piantati nei nidi d’infanzia e nelle scuole materne, ma i loro frutti sono già evidenti verso il quinto anno d’età. Uno dei più vasti studi mai effettuati su questo argomento seguì più di mille bambini dalla nascita alla scuola materna63. Più tempo un bambino aveva trascorso al nido, maggiori erano le probabilità che manifestasse aggressività e disobbedienza, sia a casa che alla scuola materna. Come discusso nei capitoli precedenti, l’aggressione e la disobbedienza sono una conseguenza dell’orientamento ai coetanei. Più erano stati al nido, più questi bambini mostravano la controvolontà discutendo, mostrandosi evasivi, rispondendo male, e non seguendo le direttive. La loro elevata frustrazione si rivelava attraverso malumori e scenate, lotte, botte, crudeltà verso gli altri, e la distruzione delle proprie cose. Si trattava anche di bambini più accaniti nei loro comportamenti di attaccamento: propensi alla millanteria, al vanto, al parlare incessante, e allo sforzarsi di ottenere attenzione, come ci aspetteremmo quando gli attaccamenti non funzionano.


L’orientamento ai coetanei non è la sola causa degli attaccamenti disturbati, ma nel mondo di oggi è senz’altro quella principale. Osservate attraverso le lenti dell’attaccamento, le scoperte di queste tre linee di ricerca non potrebbero essere più chiare nel sottolineare il rischio di orientarsi ai coetanei che i bambini corrono nei nidi d’infanzia e nelle scuole materne. La soluzione più ovvia sarebbe quella di tenerli a casa, soprattutto i più timidi e vulnerabili, finché non saranno abbastanza maturi da poter sopportare lo stress della separazione dai genitori. In risposta alle scoperte di queste ricerche, un numero di esperti, tra cui Stanley Greenspan64 e Eleanor Maccoby65, hanno consigliato i genitori con sufficienti risorse economiche di fare esattamente questo. Per quanto, alla luce dei dati della ricerca, questa indicazione abbia molto senso, essa manca però il punto del problema. I bambini non hanno bisogno di stare a casa, ma hanno senz’altro bisogno di sentirsi assolutamente a casa con coloro che se ne prendono cura. La casa è una faccenda di attaccamento e l’attaccamento è qualcosa che possiamo creare. Essere legati da vincoli di parentela non è il problema del nido; essere connessi, invece, certamente lo è.

La timidezza del bambino in un particolare contesto dovrebbe essere per noi un segnale dal quale evincere che quel contesto non è ancora idoneo alla cura del bambino stesso. Trovo che ciò sia vero persino con i miei nipoti; la sfida principale è infatti quella di farli riavvicinare a me; una volta raccolti sotto la mia ala, ecco che la timidezza svanisce ed essi sono di nuovo ricettivi alle mie cure di nonno.


Il nido e la scuola materna non devono essere per forza ambienti rischiosi ma, per ridurre il rischio, è necessario essere consapevoli dell’attaccamento. Gli adulti coinvolti devono voler creare un contesto di connessione con i nostri figli. Nel frattempo, ci sono cose che possiamo fare in qualità di genitori, sia nel selezionare gli ambienti nei quali i nostri figli vivono, sia nel favorire, ad ogni occasione possibile, la connessione fra loro e gli adulti che li accudiscono. Certo, una soluzione potrebbe essere quella di tenere il bambino a casa finché non sia in grado di sentirsi emotivamente vicino a noi anche in caso di separazione fisica – o finchè non sia abbastanza maturo da funzionare indipendentemente, al di fuori degli attaccamenti. L’altra soluzione è di fare in modo che il bambino crei degli attaccamenti con gli insegnanti e le persone che hanno la responsabilità di accudirlo. Ciò proteggerà il bambino e gli adulti dallo stress, e impedirà a noi di essere prematuramente rimpiazzati. Nell’ultimo capitolo ci soffermeremo ancora sui modi per farlo.

Il saper stare con gli altri non nasce dal contatto con i coetanei

Un padre ricorda: “Quando mio figlio aveva tre anni sentivo che era molto importante coinvolgerlo in gruppi e situazioni dove avrebbe potuto incontrare altri bambini”, “meno riusciva a farsi degli amichetti e più ero ansioso di incoraggiare la sua interazione con altri bambini e di organizzare incontri in cui avrebbe avuto occasione di giocare con i coetanei e stabilire con loro delle relazioni”.


Molti genitori si sentono indotti a spingere i propri figli verso una precoce interazione con i coetanei. Persino coloro che istintivamente sono portati a restare più a lungo stretti ai propri figli prima di esporli all’influenza dei coetanei, potrebbero essere oggetto di pressioni spaventose da parte della famiglia, degli amici o degli esperti affinché “allentino la presa”.


La convinzione quasi universale è che i bambini debbano essere esposti precocemente all’interazione con i loro coetanei affinché possano imparare a stare insieme e ad andare d’accordo; molti genitori cercano gruppi di gioco per i loro piccoli ancora ai primi passi. Di solito, all’epoca della scuola materna, quest’ansia si è già trasformata in una vera ossessione. “Imparare ad essere amici è più importante di qualsiasi altra cosa, ed è essenziale che lo si apprenda prima dell’inizio della scuola”, ecco un’affermazione che simboleggia il tipico commento tante volte ascoltato da genitori di bambini in età prescolare. Il padre di un bambino di quattro anni asserisce convinto: “In quanto genitori, abbiamo il dovere di forzare i nostri figli a socializzare. Senza la scuola materna nostro figlio non frequenterebbe abbastanza altri bambini per poter imparare come ci si comporta con la gente”. Un educatore della prima infanzia mi informò che: “L’obiettivo principe della scuola materna è quello di aiutare i bambini nell’apprendimento delle abilità sociali. Se non hanno amici al momento dell’inserimento nella scuola materna, in seguito avranno ogni sorta di problemi, non solo dal punto di vista sociale, ma anche in relazione all’autostima e all’apprendimento.” Più i bambini hanno difficoltà di inserimento e di rapporti, più è probabile che per la risoluzione del problema venga prescritta l’interazione con i coetanei. Di regola, nella nostra società genitori e insegnanti si fanno in quattro per aiutare figli e studenti a socializzare fra loro.


La convinzione è che dal socializzare – cioè dal trascorrere tempo insieme – venga fuori la socializzazione: la capacità di relazioni mature e capaci con altri esseri umani. A dispetto del consenso generale, si tratta di un assunto per cui non esiste alcuna prova che ne dimostri la fondatezza. Se socializzare con i coetanei portasse al sapersi relazionare e ad essere membri responsabili della società, allora più tempo il bambino trascorre con i coetanei, e migliori dovrebbero rivelarsi le sue abilità in tal senso. Di fatto, più i bambini trascorrono del tempo fra loro, meno è probabile che sappiano andare d’accordo o riescano a inserirsi nella società civile. Se portassimo all’estremo l’assunto sulla socializzazione, applicandolo ai bambini negli orfanotrofi, ai bambini di strada e a quelli coinvolti in bande, il difetto nel ragionamento apparirebbe evidente. Se socializzare fosse la chiave per la socializzazione, i ragazzi di strada e i giovani appartenenti alle bande sarebbero cittadini modello.

Il Dr. Urie Bronfenbrenner e il suo gruppo di ricercatori della Cornell University di Ithaca, nello stato di New York, hanno messo a confronto bambini che durante il tempo libero gravitavano attorno ai coetanei con bambini che invece gravitavano attorno ai propri genitori. Dal loro studio è emerso che chi, tra questi bambini di 10-11 anni, preferiva trascorrere il tempo con i genitori mostrava molte più caratteristiche tipiche di una buona socialità. I bambini che trascorrono la maggior parte del tempo fra di loro sono quelli che hanno più probabilità di finire nei guai66.

Non sono scoperte sconcertanti, sono semplicemente ciò che ci si può aspettare una volta compreso l’ordine naturale dello sviluppo umano. L’attaccamento e l’individuazione sono necessari alla maturazione, e la maturazione è a sua volta necessaria alla socializzazione autentica. L’integrazione sociale è molto più che il semplice saper stare insieme o andare d’accordo; la vera integrazione sociale richiede non solo di sapersi unire agli altri, ma di saperlo fare senza perdere la propria individualità e la propria identità.


Senza dubbio, socializzare gioca il suo ruolo nel rendere il bambino capace di una vera integrazione sociale, ma solo come tocco finale. Il bambino deve prima di tutto essere in grado di restare ancorato a se stesso quando interagisce con gli altri, e di percepire gli altri come individui separati da sé. Non è un compito facile, neppure per gli adulti. Quando un bambino conosce le proprie intenzioni e le proprie idee, ed è in grado di dare valore alla separatezza della mente altrui, allora – e solo allora – sarà pronto per restare fedele alla coscienza del proprio essere, rispettando al contempo quello degli altri. Una volta raggiunta questa pietra miliare del processo evolutivo, l’interazione sociale affinerà l’individualità del bambino e le sue capacità di relazione.


La vera sfida è aiutare il bambino a crescere fino al punto in cui può beneficiare delle proprie esperienze di socializzazione. È necessaria una quantità minima di socializzazione per raffinare la materia grezza giunta a maturazione. È la materia prima ad essere tanto rara e preziosa, ossia una robusta individualità capace di sopravvivere, senza farsi stritolare, alle pressioni dell’interazione con i coetanei. Stare insieme in maniera indiscriminata e prematura, senza il coinvolgimento degli adulti in qualità di figure primarie di attaccamento, conduce i bambini al conflitto, poiché ognuno cercherà di dominare l’altro o dovrà resistere al tentativo di essere dominato, oppure li spinge alla clonazione, quando il senso del sé viene soppresso in nome dell’accettazione da parte degli altri. “Pensavamo che giocare con altri bambini fosse molto importante per i nostri figli quando erano ancora piccoli”, dice Robert, padre di due figli, ora adolescenti. “Frankie, il più grande, faceva diventare matti i compagni con le sue pretese di giocare come voleva lui. Faceva delle scene se non accettavano le sue disposizioni, finché alla fine divenne complicato riuscire a organizzare incontri di gioco per lui. Il più piccolo, Rickie, divenne un gregario. Non faceva che copiare quello che gli altri avevano intrapreso e non imparò mai ad essere un capo, né a giocare per conto proprio”.


Immagino che a questo punto molti lettori si chiederanno: “Ma l’importanza di imparare a stare insieme?” Non sto discutendo dei vantaggi dello stare insieme; ciò che sto dicendo è che se lo consideriamo una priorità, mettiamo il carro davanti ai buoi. Mettendo al primo posto il fatto di andare d’accordo e saper stare insieme, nel programma di individui immaturi, non stiamo facendo altro che spingerli alla compiacenza, all’imitazione e al conformismo. Se i bisogni di attaccamento del bambino sono forti e diretti verso i coetanei, egli potrebbe sminuire se stesso purché le cose funzionino; perderà, in questo modo, la propria individualità. Molti di noi corrono lo stesso rischio anche da adulti quando tentano disperatamente di far funzionare le cose con qualcuno: perdere se stessi con gli altri, arrendersi troppo in fretta, ritirarsi dal conflitto, evitare ogni litigio. I bambini hanno difficoltà ancora maggiori a restare ancorati a se stessi quando interagiscono con gli altri. Ciò che viene elogiato del saper stare insieme nei bambini, da adulti verrebbe chiamato compromettere se stessi, o prostituirsi, o non essere fedeli a se stessi.


Se fossimo davvero in armonia con il programma evolutivo, non ci preoccuperemmo tanto del far andare d’accordo i bambini. Assegneremmo, invece, un valore molto maggiore al fatto di diventare capaci di non perdere se stessi nell’interazione con gli altri. Non basterebbe tutta la socializzazione del mondo per portare un bambino a questo punto. Solo una relazione viva e piena con adulti amorevoli può dar vita alla vera indipendenza e all’individualità, qualità che noi tutti, come genitori, vorremmo grandemente veder sbocciare nei nostri figli. Solo in quel contesto può dispiegarsi una personalità pienamente sviluppata, un essere umano capace di rispettare se stesso e di dare valore all’individualità degli altri.

Non è di amici che i bambini hanno bisogno

Ma allora i bambini non hanno bisogni sociali? Una delle domande e delle preoccupazioni più pressanti dei genitori e degli educatori che ho avuto modo di incontrare aveva a che fare con la percezione che i bambini avessero bisogno di amici. “I bambini devono avere degli amici”, è forse la più comune delle argomentazioni che mi è capitato di sentire in favore dell’interazione precoce con i coetanei.


Il concetto stesso di amicizia è privo di senso se riferito a persone immature. Da adulti, non considereremmo qualcuno come un vero amico se non ci trattasse con considerazione, riconoscendo i nostri confini e rispettandoci come individui. Un vero amico è colui che sostiene il nostro sviluppo e la nostra crescita, senza badare a come questo possa influenzare la relazione. Questo concetto di amicizia si fonda su una solida base di mutuo rispetto e individualità. La vera amicizia non è possibile, pertanto, finché un certo livello di maturità non sia stato raggiunto e non si sia realizzata una capacità di integrazione sociale. Molti bambini non sono neanche lontanamente in grado di esprimere una tale amicizia.


Finché non sono capaci di vera amicizia, non è tanto di amici che hanno realmente bisogno, ma solo di attaccamenti. E gli unici attaccamenti di cui un bambino ha bisogno sono con la famiglia e con coloro che condividono la responsabilità della sua crescita. Ciò di cui egli ha realmente bisogno è di diventare capace di vera amicizia, un frutto della maturazione che si sviluppa solo in una relazione vitale con un adulto amorevole. Il nostro tempo sarebbe speso con molta maggior saggezza cercando di coltivare delle relazioni con gli adulti che ruotano attorno ai nostri figli, anziché essere ossessionati dai rapporti con i loro coetanei.


Naturalmente, quando un bambino rimpiazza i genitori con i coetanei, gli amici diventano più importanti della famiglia, e questo è prevedibile. Allora dichiariamo che questa evidentemente deve essere la normalità e poi facciamo un salto irrazionale presumendo che ciò debba anche essere naturale. Dopodiché, ci facciamo in quattro per assicurarci che i nostri figli abbiano degli “amici”, mettendo a repentaglio la relazione con la famiglia. I coetanei prendono il posto dei genitori ancora di più, e la spirale verso il basso si autoalimenta.


Un’ultima parola sull’amicizia. Da un punto di vista evolutivo, i bambini hanno molto più bisogno di una relazione con se stessi che di relazioni con i coetanei. Deve poter emergere una separazione fra il senso del sé e l’esperienza interiore (si veda il capitolo 9). Una persona deve conquistare la capacità di riflettere sui propri pensieri e sentimenti, una capacità che, ancora una volta, è un frutto della maturazione. Quando si ha una relazione con se stessi, si può apprezzare la propria compagnia, essere in accordo o in disaccordo con se stessi, approvare o disapprovare se stessi, e così via. Spesso le relazioni con gli altri usurpano la relazione con se stessi, oppure sono il tentativo di riempire il vuoto in cui avrebbe dovuto albergare una solida relazione con il proprio sé. Quando una persona non è a suo agio in compagnia di se stessa, è più probabile che cerchi la compagnia degli altri – o che sviluppi un attaccamento alla tecnologia di intrattenimento, come televisione e video giochi. Le relazioni orientate ai coetanei, così come il guardare troppa televisione, interferiscono con lo sviluppo di una relazione con se stessi. Finché il bambino non manifesta l’esistenza di una relazione con il proprio essere, non è pronto a sviluppare relazioni genuine con gli altri bambini. È molto meglio per lui trascorrere il tempo interagendo con adulti amorevoli o da solo, occupato nel gioco creativo.

I coetanei non sono la risposta alla noia

Nel nostro mondo ossessionato dai coetanei, questi sono diventati una sorta di panacea per qualunque cosa affligga il bambino. Sono spesso sbandierati come soluzione alla noia, alla stravaganza, e ai problemi di autostima. Ai genitori che hanno un solo figlio, può sembrare che i coetanei funzionino anche come sostituti di fratelli e sorelle. Ma anche in questo caso, non facciamo che andare in cerca di sabbia pensando che sia oro.


“Mi annoio!”, “Questa roba è una palla!”, sono ritornelli assai noti dell’infanzia; molti genitori si trovano a cercare di alleviare la noia esibita dai propri figli facilitando interazioni di un tipo o dell’altro con i coetanei. La soluzione potrebbe funzionare temporaneamente, ma non farebbe che esacerbare la dinamica sottostante, proprio come un bambino affamato lo sarà ancora di più se gli viene offerto solo un succhiotto, o un bevitore che tenti di affogare il proprio dolore nell’alcool sarà, alla fine, ancor più infelice. E il peggio è che, utilizzando i coetanei per alleviare la noia, non facciamo che promuovere l’orientamento verso i pari.


Quali sono le reali cause della noia? Il vuoto che si percepisce nella noia non è mancanza di stimolazione o di attività sociale, come in genere si è portati a credere. I bambini si annoiano quando i loro istinti di attaccamento non sono coinvolti a sufficienza e quando il senso del sé non emerge a riempire questo vuoto. È come essere in folle, in attesa, aspettando che la vita prenda l’avvio. I bambini che sono in grado di percepire le reali fattezze di una tale vacuità è più probabile che si esprimano in termini di sentimenti parlando di solitudine, mancanza e isolamento. In alternativa, le loro parole rivelano l’assenza di una creatività affiorante: “Non riesco a pensare a niente da fare”, “In questo momento non mi interessa nulla”, “Sono a corto di idee”, “Non mi sento molto creativo”. Quelli che non riescono a percepire questo vuoto in termini di vulnerabilità, si sentiranno svogliati e disconnessi e diranno di essere annoiati.


In altre parole, il vuoto che di solito viene vissuto come noia è il risultato di una duplice mancanza, relativa all’attaccamento e al sé emergente: il bambino non è con qualcuno con cui possa stabilire un legame e sentirsi a proprio agio, e, dall’altro lato, manca della curiosità e dell’immaginazione sufficienti a trascorrere il tempo da solo in modo creativo. Ad esempio, il bambino che si annoia in classe non è coinvolto nel far funzionare le cose per l’insegnante, e neppure è interessato a ciò che viene proposto. Mancano sia l’attaccamento all’insegnante, sia l’emergere di curiosità e meraviglia che abbiano una motivazione propria. Le difese psicologiche contro il senso di vulnerabilità impediscono al bambino di percepire la mancanza per quello che è: un senso di vuoto dentro se stesso. Egli crede che la noia scaturisca dall’esterno e sia una qualità o un attributo della situazione e delle circostanze, “La scuola è così noiosa!”, oppure, quando è a casa: “Sono così annoiato, non c’è niente da fare!”


Idealmente, un tale vuoto dovrebbe essere riempito dal sé emergente del bambino: iniziativa, interessi, gioco e solitudine creativa, idee originali, immaginazione, riflessioni, slanci di indipendenza. Quando ciò non avviene, c’è un impulso incalzante a riempire il vuoto con qualcos’altro. La noia è ciò che percepiscono adulti e bambini ignari del proprio vuoto interiore e delle sue cause reali. E poiché il vuoto viene percepito in modo tanto indiretto, la soluzione è altrettanto vaga. Anziché rivolgersi alle proprie risorse interiori, cerchiamo una soluzione che provenga dall’esterno – qualcosa da mangiare, qualcosa per distrarsi, qualcuno con cui vedersi. In genere è a questo punto che la mente del bambino approfitta degli appigli che gli vengono offerti da stimoli esterni e dall’attività sociale. La televisione, i giochi elettronici o le stimolazioni esterne possono coprire temporaneamente questo vuoto, ma non lo riempiranno mai. Appena cessano le attività di distrazione, la noia ritorna.


Questa dinamica diventa particolarmente acuta durante la prima adolescenza, soprattutto se l’attaccamento ai genitori non è diventato abbastanza profondo e il sé emergente non è sufficientemente sviluppato. Ma che il bambino abbia tre anni o tredici, è proprio all’interno di questo vuoto che noi genitori tendiamo a introdurre i suoi coetanei. Organizziamo magari per i più piccoli un incontro di gioco, o li incoraggiamo a cercare i compagni: “Perché non guardi se tizio o caio vogliono giocare?”. È proprio quando si sentono annoiati che i bambini sono ancor più suscettibili alla formazione di legami di attaccamento che siano in competizione con i nostri. In realtà è come se dicessimo: “Porta la tua fame di attaccamento dai tuoi amici e vedi se possono aiutarti”, o “Se non riesci a sopportare il tuo senso di solitudine, vai dai tuoi coetanei per avere una dose di attaccamento”, o ancora: “Perché non vedi se qualcun altro può sostituire il tuo senso del sé che ora ti manca?”. Se fossimo in grado di comprendere davvero le radici della noia, ciò rappresenterebbe un segnale per noi che il bambino non è ancora in grado di interagire con gli altri. Più sono inclini alla noia, più i nostri figli hanno bisogno di noi e più il loro sé ha bisogno di emergere. Più sono annoiati e meno sono pronti all’interazione con i coetanei; per bambini così, non è l’interazione con i coetanei che dovremmo facilitare, bensì la connessione con gli adulti o del tempo per se stessi.


L’orientamento ai coetanei non fa che esacerbare il problema della noia. Per i bambini che sono seriamente attaccati gli uni agli altri, la vita sembra assai noiosa se non sono insieme. Molti di loro, dopo aver trascorso insieme un lungo periodo di tempo, come una notte fuori casa o un campeggio estivo, al ritorno a casa proveranno un tedio tremendo e cercheranno immediatamente di riconnettersi ai loro coetanei. Arrestando il processo di maturazione e innescando la fuga dalla vulnerabilità, l’orientamento ai coetanei blocca anche l’emergere di un sé vitale, curioso, e impegnato. Se noi genitori abbiamo anche solo un briciolo di controllo sulla situazione, il momento della noia è il momento di prendere in mano le redini e guidare il bambino, riempiendo il vuoto di attaccamento con coloro a cui egli ha realmente bisogno di sentirsi legato: noi stessi.

Quand'è che il contatto con i coetanei è accettabile, e quanto bisogna consentire?

È possibile, nonostante i miei dinieghi nel corso del libro, che alcuni lettori abbiano avuto l’impressione che io sia contrario al fatto che i bambini, ancora immaturi, giochino fra loro o abbiano degli amici. Questo sarebbe impossibile e del tutto innaturale. I bambini hanno sempre avuto compagni di gioco della loro età, in tutte le società della storia, ma nella maggior parte di esse non esisteva il pericolo che il contatto fra coetanei si trasformasse in orientamento ai coetanei; le interazioni dei bambini avvenivano nel contesto di forti attaccamenti agli adulti. Non si può neppure pretendere che i genitori odierni isolino i propri figli dai coetanei, però devono essere consapevoli dei pericoli.


Quando e come dovremmo incoraggiare o permettere che i nostri figli frequentino altri bambini? Ci si deve per forza aspettare che i bambini siano in compagnia reciproca al nido, all’asilo, al parco giochi e a scuola. Ma se riusciamo a garantire un profondo attaccamento a noi, non dovremmo temere che trascorrano del tempo insieme, sebbene limitato e sotto la supervisione attenta di un adulto amorevole. Il punto non è che dovremmo proibire completamente l’interazione con i coetanei, ma che dovremmo avere modeste aspettative: giocare con gli altri bambini è divertente, e questo è tutto. Dopo ogni esperienza di gioco dovremmo assicurarci di richiamare a noi i nostri figli, e certamente, quando un bambino ha trascorso gran parte della settimana e gran parte della giornata in compagnia dei coetanei, non facciamo altro che fomentare la concorrenza se organizziamo anche incontri di gioco il pomeriggio dopo la scuola o nei fine settimana.


Quali tipi di amicizie fra bambini vanno bene? Sebbene, come ho già spiegato, “amicizia”, nel suo vero significato, è una parola che con difficoltà sceglierei per descrivere la maggior parte delle relazioni dell’infanzia, è più che naturale che i bambini desiderino avere degli amici. Le amicizie a cui possiamo dare il benvenuto sono quelle che non allontanano i figli da noi – idealmente, quelle con altri bambini i cui genitori condividono i nostri valori e riconoscono l’importanza degli attaccamenti agli adulti. È improbabile che questi bambini competano senza volerlo con noi. Inoltre, possiamo avere un ruolo attivo, ossia incoraggiare gli amici dei nostri figli ad avere una relazione con noi. Mi soffermerò di più su questo aspetto nel capitolo finale.


E quale tipo di gioco? Scoraggerei l’uso della tecnologia quando si tratta di giocare, perché sostituisce l’originalità e la creatività. Peraltro, non dobbiamo dire ai nostri figli come giocare: sanno già come farlo. Dobbiamo solo assicurarci che il loro attaccamento a noi sia abbastanza forte da consentire al loro sé emergente, curioso, motivato e immaginativo di non venir schiacciato dall’orientamento ai coetanei.


Infine, come continuo a rimarcare in questo capitolo, il problema della nostra società non è semplicemente che i nostri figli passino del tempo insieme ad altri bambini, quanto che noi incoraggiamo in modo estensivo il contatto con i coetanei, considerandolo una risposta ai problemi di noia e socializzazione o, come spiegherò fra breve, di autostima.

I coetanei non sono la risposta all' "eccentricità"

L’interazione con i coetanei viene di norma prescritta anche per un altro scopo: smussare le asperità di bambini un po’ troppo eccentrici per i nostri gusti. In Nord America sembra esista una vera ossessione per la “normalità” e l’andar d’accordo. Forse anche noi adulti ci siamo talmente orientati ai coetanei che anziché tentare di esprimere la nostra individualità, ci guardiamo l’un l’altro per sapere come dobbiamo essere e come ci dobbiamo comportare. Forse ricordiamo dai tempi della nostra infanzia la crudele insofferenza dei bambini nei confronti di coloro che sono differenti, e vogliamo mettere i nostri figli al riparo da questa sorte.


Forse ci sentiamo in qualche modo minacciati dall’espressione di individualità e indipendenza. Qualunque sia la ragione, l’individualità e l’eccentricità non incontrano il nostro favore. Essere “fichi” significa conformarsi a un numero ristrettissimo di modi accettabili di apparire e agire. Nell’evitare di distinguerci cerchiamo un riparo sicuro dalla vergogna, e non sorprende che anche i bambini la pensino allo stesso modo. Ciò che è deplorevole è che in qualità di adulti dovremmo addirittura conferire dignità a questa dinamica di uniformazione onorandola e sottomettendoci a essa.


Più un bambino dipende da adulti accoglienti, più ha spazio per poter sviluppare la propria unicità e individualità e per isolarsi contro l’intolleranza dei coetanei. Gettando i nostri figli fra le braccia dei compagni, facciamo perdere loro lo scudo protettivo rappresentato dall’attaccamento agli adulti. Essi diventano molto più vulnerabili all’intransigenza dei compagni. Più si staccano da noi, e più sono costretti ad adeguarsi ai loro coetanei, più cercheranno disperatamente di non mostrarsi diversi. Se in questo modo è possibile che perdano la propria “eccentricità”, ciò che a noi sembra un auspicato progresso evolutivo deriva, in realtà, da una devastante insicurezza.

Non fare affidamento sui coetanei per sostenere l'autostima del bambino

Un altro mito molto pervasivo – e pernicioso – è che le interazioni con i coetanei aumentino l’autostima. Vogliamo tutti che i nostri figli si sentano a loro agio con se stessi. Chi, tra noi, non vorrebbe che i figli avessero il senso del proprio valore e della propria importanza, che sentissero di essere voluti e apprezzati? La letteratura popolare ci porta a credere che i coetanei giochino un ruolo decisivo nel dar forma all’autostima del bambino. Il messaggio centrale sembra essere che i bambini hanno bisogno di una cerchia di amici che li apprezzino per poter avere un senso del proprio valore. Siamo anche avvisati del fatto che essere evitati o respinti dai compagni condanna un bambino a una tremenda sfiducia in se stesso. I resoconti dei media o gli articoli dei giornali popolari non mancano di illustrare il danno inflitto alle vite di quei bambini che non sono stati accettati dai coetanei. Una ex autrice di manuali di psicologia evolutiva aveva concluso tempo fa che l’autostima del bambino ha poco a che fare con il modo in cui i genitori vedono il bambino, e dipende interamente dal suo status all’interno del gruppo dei pari67.


Data l’importanza dell’autostima e il presunto rilievo dei coetanei nel forgiarla, sembrerebbe più che giusto fare qualsiasi cosa in nostro potere per aiutare i nostri figli a coltivare amicizie e a competere positivamente con i compagni, nonché a fare in modo che si apprezzino il più possibile gli uni con gli altri. I genitori oggi sono presi dalla paura che i loro figli siano ostracizzati. Molti di loro si ritrovano a comprare vestiti, sostenere attività, e favorire interazioni ritenendo che tutto ciò sia necessario affinché i figli possano farsi degli amici e tenerseli stretti. Sembrano approcci più che giusti, ma lo sembrano soltanto.


È vero che i coetanei giocano un ruolo decisivo nell’autostima dei bambini. Essere orientati ai coetanei vuol dire esattamente questo! Una parte cruciale del proprio orientamento nel mondo dipende dal senso del proprio valore e della propria importanza come persona. Se i coetanei sostituiscono i genitori, sono loro a influenzare nei bambini il senso di ciò che ha valore in se stessi e negli altri. Non dovrebbe sorprenderci, allora, scoprire che i coetanei influenzano l’autostima del bambino. Non è questo, però, il modo in cui sono sempre andate le cose, né quello in cui dovrebbero andare, o quello in cui è necessario che vadano. Neppure possiamo dire che il tipo di autostima che si fonda sull’interazione fra coetanei sia in alcun modo sano68.

Siamo di fronte, prima di tutto, a una comprensione superficiale del concetto stesso di autostima. Il tema cruciale in fatto di autostima non è quanto ci si senta bene in relazione a se stessi, bensì l’indipendenza delle proprie autovalutazioni rispetto al giudizio degli altri. La sfida è di dar valore alla propria esistenza anche quando non lo fanno gli altri, di credere in se stessi quando gli altri ne dubitano, di accettare se stessi quando siamo giudicati dagli altri. Un’autostima che valga a qualcosa è frutto della maturazione: è necessario avere una relazione con se stessi, essere in grado di provare sentimenti contrastanti, credere che qualcosa sia vero nonostante i sentimenti ambivalenti. Di fatto, al cuore di una sana autostima vi è un senso della propria vitalità e capacità come persona a se stante. Possiamo quasi vedere l’orgoglio che scaturisce in un bambino quando è capace di risolvere qualcosa da solo, di affermare se stesso, quando scopre di poter gestire qualcosa per conto proprio. Il vero problema dell’autostima, allora, implica un giudizio sulla validità e il valore delle proprie esperienze. La vera autostima richiede una maturità psicologica che può essere custodita e nutrita solo da una relazione di amore e di affetto con adulti responsabili.


Poiché i bambini orientati ai coetanei hanno difficoltà a crescere, è anche meno probabile che sviluppino un senso della propria indipendenza rispetto a ciò che gli altri pensano di loro. L’autostima non diventerà mai intrinseca, non sarà mai radicata in una valutazione auto-generata. Sarà invece condizionata, contingente al favore degli altri. Si fonderà su fattori esterni ed evanescenti come i riconoscimenti sociali, l’immagine o il reddito. Non è così che si misura l’autostima. La vera autostima non dice: io valgo perché posso fare questo o quello; essa proclama: io valgo, che sappia fare o meno questo o quello.


Se a qualcuno questa visione dell’autostima sembra strana, è solo perché viviamo in una cultura che ci ha indottrinati con l’idea che l’autostima si fondi sul modo in cui appariamo agli altri. Vogliamo tutti essere all’altezza dei vicini più ricchi, desideriamo tutti far sfoggio della nostra nuova auto o mostrare, come un trofeo, il nostro ragazzo o la nostra ragazza, o il coniuge; e tutti abbiamo un moto inebriante di orgoglio quando gli altri apprezzano o invidiano le nostre imprese. Ma abbiamo davvero stima del nostro sé? No, ciò che stimiamo è ciò che gli altri pensano di noi. È questo il genere di autostima che auspichiamo per i nostri figli?


L’assenza di un nucleo indipendente di autostima crea un vuoto che deve essere riempito dall’esterno. È inutile cercare di tamponare questo vuoto di autostima indipendente con materiale sostitutivo come affermazioni, status, o conseguimenti vari. Per quanto le esperienze possano essere positive, niente fa presa: maggiori sono le lodi che riceviamo, e più cresce la nostra brama di elogi; più si diventa famosi e più ci si sforza di esserlo; maggiori sono le nostre vittorie e più si diventa competitivi. Tutti lo sappiamo per intuito. La nostra sfida è di usare l’influenza che abbiamo sui figli per spezzare la loro dipendenza dalla notorietà, dall’apparenza, dai voti, o da qualunque altro conseguimento per determinare il modo in cui sentono e pensano a se stessi.


Solo un’autostima che sia svincolata da queste cose sarà davvero utile al bambino. Fare affidamento sui coetanei per una cosa tanto importante quanto il senso del proprio valore potrebbe essere distruttivo. Costruita su fondamenta tanto traballanti, maggiore sarà l’autostima del bambino, e più egli diventerà insicuro e ossessionato. I ragazzi sono notoriamente volubili nelle loro relazioni. Mancano di ogni senso di responsabilità che mitighi i loro umori, o di ogni dedizione al benessere dell’altro. Rendere un bambino dipendente da valutazioni tanto imprevedibili significa condannarlo a perpetua insicurezza. Solo l’amorevole e incondizionata accettazione che gli adulti possono offrire è in grado di liberarlo dall’ossessione dei segnali di apprezzamento e appartenenza.


Finché i figli non diventano capaci di apprezzare se stessi in modo indipendente, il nostro compito è di dare loro una tale formidabile affermazione che essi non saranno indotti a rivolgersi altrove. Sono affermazioni che vanno molto più in profondità delle frasi di amore e lode – devono emanare dal nostro essere più profondo e raggiungere il cuore del bambino, consentendogli di sapere che è amato, benvenuto, accolto con gioia, celebrato per il suo puro esistere, senza tener conto di quanto di “buono” o di “cattivo” egli ci riveli ad ogni istante. In nessun caso è interesse del bambino che si faccia uno sforzo per renderlo bene accetto ai compagni. L’unico modo per far sì che i coetanei contino meno è fare in modo di contare più noi.

I coetanei non sono sostituti dei fratelli

Esiste un’altra questione, percepita come un problema la cui soluzione prediletta restano sempre i coetanei: quella dei figli unici. Ha preso piede il mito che i bambini debbano avere attorno altri bambini per crescere bene. I genitori con un unico figlio molto spesso si affliggono per questa situazione e tentano di compensare quella che ritengono una privazione diventando molto attivi nel facilitare incontri di gioco e organizzare lo stare insieme con altri bambini. Come possono giocare senza compagni di gioco o a imparare a convivere senza amici? è ciò che i genitori pensano.


Prima di tutto, è necessario comprendere che gli amici non sono come dei fratelli, e i fratelli sono ben più che semplici compagni di gioco. I fratelli condividono la stessa bussola di riferimento. L’attaccamento unico tra fratelli è il prodotto naturale dell’attaccamento ai genitori. Sebbene esistano delle eccezioni, gli attaccamenti ai fratelli dovrebbero coesistere, senza conflitti intrinseci, con gli attaccamenti ai genitori. Le relazioni tra fratelli dovrebbero somigliare a quelle tra pianeti che ruotano attorno allo stesso sole; secondarie quindi, per loro natura, a quella di ogni pianeta con il sole. Sostituti più appropriati dei fratelli potrebbero essere i cugini, non gli altri coetanei. Se i cugini sono rari o inaccessibili, o hanno una cattiva influenza, sarebbe più appropriato coltivare il tipo di amicizie familiari in cui altri adulti desiderino assumersi il ruolo di zii succedanei. Le relazioni con gli adulti dovrebbero sempre rappresentare gli attaccamenti primari di un bambino.


Per chiarire ancora una volta, il problema non è che i bambini giochino fra loro, ma che siano lasciati a se stessi quando i loro bisogni fondamentali di attaccamento non sono stati soddisfatti dagli adulti responsabili. È in questi frangenti che i nostri figli corrono maggiormente il rischio di formare attaccamenti sostitutivi che entrano in competizione con noi. Più gli attaccamenti agli adulti sono solidi, e meno è necessario preoccuparsi di limitare il gioco sociale.


Ma i bambini non hanno bisogno di giocare insieme? È importante considerare la differenza fra ciò che i bambini vogliono e ciò di cui hanno bisogno. Il gioco di cui i bambini hanno bisogno per un sano sviluppo è quello che affiora nella solitudine creativa, non quello sociale. Il gioco creativo, o emergente, non implica l’interazione con gli altri. Per i più giovani, la vicinanza e il contatto con le persone cui sono attaccati devono essere sicuri a sufficienza da potersi dare per scontati; un tale senso di sicurezza permette al bambino di avventurarsi in un mondo di immaginazione e creatività. Se mai vi sono compagni di gioco, si tratta di creature che scaturiscono dall’immaginazione, come Hobbes per Calvin o Winnie the Pooh e i suoi amici per il piccolo Christopher Robin. Il genitore è sempre la scommessa migliore per questo tipo di gioco, in quanto ha la funzione di ancoraggio per l’attaccamento. Il genitore deve resistere, però, alla tentazione di interagire troppo con il bambino, per timore che il gioco creativo si deteriori in gioco sociale, molto meno benefico.


I bambini non sono in grado di svolgere la funzione reciproca di àncora di attaccamento, perciò il gioco creativo o emergente è quasi sempre soffocato dall’interazione sociale. A causa della grande enfasi posta sulla socializzazione con i coetanei, il gioco emergente – ossia quello che scaturisce dalla creatività, dall’immaginazione e dalla curiosità verso il mondo – è stato messo in pericolo.


Di nuovo, non sto dicendo che un po’ di gioco sociale di per sé nuocerà allo sviluppo del bambino, ma neppure che lo favorirà. Pertanto, lo ripeto, non è che i bambini non dovrebbero trascorrere del tempo insieme, ma non dobbiamo aspettarci che un gioco simile risponda ai loro bisogni più profondi. Solo gli adulti amorevoli possono farlo. Nella smania di far socializzare i nostri bambini, lasciamo loro ben poco tempo per stare con noi o per impegnarsi nel gioco solitario e creativo a cui ho dato il nome di gioco emergente. Riempiamo il loro tempo libero con appuntamenti e incontri, o con video, televisione, giochi elettronici. Dobbiamo lasciare molto più spazio all’emergere del sé.


E questo ci riconduce alla questione dei coetanei in qualità di sostituti per i fratelli. I bambini hanno bisogno di adulti molto più di quanto abbiano bisogno di altri bambini. I genitori non dovrebbero dispiacersi per i figli unici, né sentirsi obbligati a riempire il vuoto dei fratelli con i coetanei.


Se potessimo fin da subito sperimentare le vere conseguenze dell’orientamento ai coetanei – l’accresciuta controvolontà, la mancanza di rispetto e di considerazione per l’autorità, la prolungata immaturità, l’aumento dell’aggressività, l’indurimento emotivo, la mancanza di ricettività nei confronti dell’accudimento e dell’insegnamento – affronteremmo il problema senza mezzi termini. Non perderemmo tempo e ci metteremmo subito al lavoro per riprenderci il posto che ci spetta di diritto nella vita dei nostri figli. Ma poiché i primi frutti dell’orientamento ai coetanei sembrano così appetibili non abbiamo il minimo sospetto di ciò che ci attende, anzi crediamo che i coetanei siano la risposta a molti dei problemi che incontriamo nel crescere i figli. Ma pagheremo a caro prezzo questa illusione. Dobbiamo resistere alla tentazione di accogliere il cavallo di Troia dentro le nostre mura.

I vostri figli hanno bisogno di voi
I vostri figli hanno bisogno di voi
Gabor Maté, Gordon Neufeld
Perché i genitori oggi contano più che mai.La potente riscoperta del valore basilare dell’attaccamento tra genitori e figli. Più l’attaccamento è forte e sano e più i figli crescono sicuri. Il caos culturale dettato dal materialismo imperante e dalle infatuazioni tecnologiche dell’economia globalizzata minaccia la relazione con i propri figli: questi fattori appartenenti al nuovo mondo, infatti, allentano i legami di attaccamento fra i bambini e gli adulti che se ne prendono cura, distruggono il contesto appropriato perché i genitori possano svolgere il loro compito, menomando lo sviluppo umano e, inesorabilmente, erodendo le basi della trasmissione culturale e valoriale.Nel libro I vostri figli hanno bisogno di voi, un medico e uno psicologo uniscono le forze per trattare una delle tendenze più fraintese e allarmanti del nostro tempo: i coetanei (amici, cuginetti, compagni di scuola) che prendono il posto dei genitori nella vita dei figli.Questo fenomeno è definito come “orientamento ai coetanei”: tale termine si riferisce al fatto che, quando i bambini in età scolare e i giovani ragazzi hanno bisogno di un’indicazione, preferiscono rivolgersi ai coetanei anziché far riferimento al padre, alla madre e al rispetto dei valori naturali, al senso di ciò che è giusto o sbagliato, all’identità e ai normali codici di comportamento.Quando i coetanei sostituiscono i genitori, lo sviluppo dei bambini si arresta: non ci sono più sane figure educative di riferimento, l’orientamento ai pari crea una massa di giovani adulti immaturi, conformisti e inquieti, incapaci di integrarsi nella società corrente. Ora, questo continuo orientarsi ai coetanei non può che deteriorare la coesione familiare, impedendo uno sviluppo sano e equilibrato del bambino, avvelenando l’atmosfera scolastica e favorendo la crescita di una cultura giovanile aggressiva, ostile e prematuramente sessualizzata.Dal canto loro, i genitori sono a disagio, frustrati, e si acuisce la sensazione che lo sviluppo dei bambini sia sfuggito alla loro influenza. Perché si possa essere genitori efficaci, è necessario quindi che i bambini sviluppino la giusta relazione con i genitori.I ragazzi non stanno perdendo i genitori perché manca competenza o coinvolgimento, ma per mancanza di un attaccamento primario. La conservazione della cultura si basa proprio sui modelli di questo genere, e la conseguenza principale della loro perdita è la scomparsa del contesto appropriato per una sana crescita. L’attaccamento di un bambino ai genitori crea infatti un grembo psicologico necessario per dare vita alla personalità e all’individualità.Gli autori Gordon Neufeld e Gabor Maté aiutano i genitori, gli insegnanti e gli operatori sociali a comprendere questo fenomeno inquietante, fornendo soluzioni utili per ristabilire la giusta preminenza del legame che unisce i figli ai genitori e restituendo a questi ultimi il potere e la forza di essere una fonte vera di contatto, guida, calore e sicurezza. Un libro non finisce con l’ultima pagina!Questo titolo si arricchisce di contenuti “extra” digitali. Per consultarli è sufficiente utilizzare il QR code in quarta di copertina.