quarta parte

Come tenersi stretti i propri figli (o come riprenderseli)

capitolo xvi

Disciplina che non divide

Mettere ordine nel comportamento dei figli è una delle sfide più grandi per un genitore. Come controllare un figlio che non riesce a controllare se stesso? Come indurlo a fare qualcosa che non vuole? Come impedirgli di aggredire un fratello? Come fare se oppone resistenza alle nostre direttive?


Nella nostra cultura dai rimedi facili, concentrata solo sui risultati a breve termine, il principio e la fine di tutto è il comportamento in sé. Se otteniamo obbedienza, anche solo per un po’ di tempo, riteniamo che il metodo abbia avuto successo. Tuttavia, se teniamo conto dell’attaccamento e della vulnerabilità, vediamo che i metodi comportamentali – l’imposizione di sanzioni, le conseguenze punitive e la privazione di privilegi – sono controproducenti. I castighi sviluppano una relazione antagonistica e inducono un indurimento emotivo. Mettere un figlio in castigo per insegnargli una lezione, far uso dell’“amore duro” (tough love) per rimetterlo in riga, e contare fino a tre per essere obbediti, sono tattiche che mettono a dura prova la relazione. Quando ignoriamo un bambino che è stato preso da un accesso di stizza, o lo isoliamo perché si è comportato male, o gli neghiamo il nostro affetto, minacciamo il suo senso di sicurezza. Comandarlo di continuo fa scattare la controvolontà, così come corromperlo tramite ricompense. Tutte queste tecniche lo mettono a rischio di essere attirato nel vortice delle relazioni con i coetanei.


Quali approcci restano, allora, al genitore?

Restano parecchi modi innocui, naturali ed efficaci per modificare il comportamento. Alcuni di questi sorgono spontaneamente se ci preoccupiamo meno di cosa fare e più di ciò che conta nel lavoro di genitore; in altre parole, se restiamo sempre consapevoli dell’attaccamento. Quando invece ci concentriamo sul comportamento, rischiamo di indebolire le basi stesse del nostro potere, ossia la relazione con i figli.


Questo capitolo non è una guida esaustiva alla gestione dei problemi comportamentali; offre, però, delle alternative ai metodi irrispettosi della relazione e dei sentimenti, e introduce i princìpi fondamentali di una disciplina che non divide. Queste linee guida sono, per la gran parte, in totale opposizione rispetto alle pratiche correnti. È probabile che ci voglia del tempo per assimilarle e incorporarle. Per alcuni genitori questo metodo richiederà un mutamento significativo nel modo di pensare, mentre per altri non farà che convalidare ciò che hanno messo in pratica fino ad ora.

Cos'è la vera disciplina

Cominciamo estendendo il nostro concetto di disciplina. Nell’ambito del ruolo genitoriale, è tipico pensare alla disciplina come punizione. A uno sguardo più attento, tuttavia, vediamo che disciplina è in realtà una parola ricca di significati. Può riferirsi anche all’insegnamento, a un campo di studio, a un sistema di regole, e all’autocontrollo. In tal senso, è il genitore che per primo ha bisogno di acquisire una disciplina. Quando ci riferiamo ai bambini, utilizziamo il termine disciplina non nel suo significato ristretto di punizione, ma nei suoi significati più profondi di formare, riportare al controllo, mettere ordine. Non vi è dubbio che i bambini abbiano bisogno di disciplina, ma dobbiamo assicurarla in modi che non danneggino la relazione, non scatenino difese emotive menomanti, o favoriscano l’orientamento ai coetanei.


Nel corso di lunghi anni come consulente familiare, ho via via organizzato i miei pensieri attorno a questo tema in sette princìpi di disciplina naturale. Per naturale, intendo evolutivamente sana e sicura, e attenta all’attaccamento, ossia rispettosa della relazione genitore-figlio e della maturazione a lungo termine del bambino. Si tratta di princìpi, non di formule. Come si tradurranno in azione varierà caso per caso, da bambino a bambino, da un genitore a un altro e da una personalità all’altra, e dipenderà inoltre dai bisogni e dalle priorità di genitori e figli insieme.


La tendenza corrente della letteratura che affronta questi temi è di provvedere a soddisfare la domanda di abilità e strategie genitoriali. Non è questo quello di cui i genitori hanno bisogno. Le strategie sono di gran lunga troppo definite e limitanti per un compito complesso e sottile come quello del genitore. Sono un insulto all’intelligenza del genitore, e di solito anche a quella del bambino. Le strategie ci rendono dipendenti dagli esperti che le promuovono. Essere genitori è soprattutto una relazione, e le relazioni non si prestano alle strategie. Si basano, invece, sull’intuizione. Questi sette princìpi sono ideati per risvegliare o sostenere l’intuizione genitoriale che tutti possediamo. Non abbiamo bisogno di abilità o strategie, ma di compassione, di princìpi, e discernimento. Il resto verrà naturalmente, anche se non dico che verrà facilmente.


Mentre ci adoperiamo per mettere in pratica i valori dell’attaccamento, molti di noi potrebbero trovarsi a combattere con le proprie reazioni impulsive, la propria immaturità e i conflitti interiori. Soprattutto, potremmo dover combattere con sentimenti di futilità. Sono molto pochi i genitori già pronti all’uso. Il genitore nasce grazie all’attaccamento e all’adattamento. L’attaccamento, naturalmente, è quello dei figli verso di noi, quello che ci dà il potere e ci mette in grado di essere genitori. L’adattamento ha a che fare con il progredire della nostra evoluzione personale, mentre la futilità penetra in noi quando i tentativi che facciamo non funzionano. Non ci sono scorciatoie per questo processo che va avanti per tentativi ed errori; dobbiamo, comunque, lasciare che la tristezza e la delusione ci pervadano quando proviamo un senso di sconfitta. L’indurimento emotivo non farebbe che interrompere il nostro sviluppo come genitori, lasciandoci rigidi e inefficaci.


In breve, questi sette princìpi di disciplina naturale potrebbero anche essere chiamati sette discipline per genitori. Essi implicano la capacità di controllare se stessi e lavorare in modo sistematico verso il proprio obiettivo. La capacità di gestire il rapporto con un figlio in modo efficace è, in gran parte, il risultato della nostra capacità di gestire noi stessi. Dobbiamo avere per noi stessi la stessa compassione che vorremmo estendere ai figli. La risposta a una mancanza di autocontrollo da parte nostra, ad esempio, non è quella di punirci o di esortarci a essere buoni. Questi metodi non funzionano per noi più di quanto non funzionino per i bambini. La risposta è nell’accettare che anche noi siamo fallibili e che le nostre emozioni più oscure possono avere il sopravvento. A volte la rabbia può montare nonostante il nostro amore per i figli e la nostra dedizione al loro benessere. In determinate situazioni, se è possibile farlo senza essere irresponsabili, potremmo metterci in pausa come genitori finché i nostri impulsi amorevoli non riaffiorino in superficie. Potremmo, ad esempio, rimettere il nostro compito al nostro partner o ad altri adulti fidati mentre ci concediamo un respiro – non per punire il bambino, ma per ritrovare, in mezzo ai nostri sentimenti contrastanti, quelli di amore e di accettazione per lui. In mezzo a elementi tanto conflittuali, troviamo il controllo, l’equilibrio, il discernimento e la saggezza.


La disciplina non deve e non ha alcun bisogno di essere antagonistica. Non è colpa dei nostri figli se sono nati non civilizzati e immaturi; se vengono governati dagli impulsi o non sono all’altezza delle nostre aspettative. La disciplina, per un genitore, è quella di riuscire ad agire soltanto nel contesto della connessione. A volte, quando nella condizione protetta del mio studio un genitore frustrato critica con asprezza il figlio, suggerisco di fermarsi un istante per percepire la connessione emotiva con lui, e poi proseguire con l’esternazione delle proprie preoccupazioni. È sorprendente quanto le cose ci appaiano diverse se riusciamo a metterci dalla parte del bambino.


Così come abbiamo già scoperto con il processo di maturazione, abbiamo un alleato nella natura. Non dobbiamo fare tutto da soli: la disciplina è connaturata al disegno evolutivo. Esistono processi naturali che correggono spontaneamente un bambino. Parte del compito dei genitori è di lavorare con la natura, e non contro di essa. La più significativa di queste dinamiche è, naturalmente, l’attaccamento, ma esiste anche il processo emergente (la spinta innata del bambino alla padronanza di sé); il processo adattativo (la capacità di apprendere dai propri errori); e il processo integrativo (l’abilità di sopportare sentimenti e idee contrastanti). Ognuno di questi meccanismi di sviluppo naturale porta ordine nel comportamento e rende il bambino più adatto alla società. Le difficoltà sorgono quando questi processi sono bloccati o sviati – e, per ragioni che ho spiegato soprattutto nei capitoli 9 e 13, essi si bloccano nei bambini orientati ai coetanei. C’è ben poco con cui lavorare quando le dinamiche che dovrebbero condurre in modo naturale e spontaneo al sorgere della disciplina sono menomate o distorte.


Venendo ai sette princìpi, considereremo per primi quei metodi disciplinari che sono sostenuti dallo sviluppo naturale. Sono princìpi da non intendersi come prescrizioni immutabili. Sono valori a cui tendere, idee centrali alle quali tornare quando le inevitabili frustrazioni della genitorialità ci invogliano a utilizzare le tecniche controproducenti della “disciplina vecchia maniera”.

I sette principi della disciplina naturale

Usiamo la connessione, non la separazione, per rimettere in riga il bambino

La separazione è sempre stata la carta vincente per i genitori. Oggi è diventata di moda sotto la forma del Time-out56. Spogliati delle etichette eufemistiche, questi strumenti di modifica del comportamento sono forme riciclate di rifiuto: isolare, ignorare, trattare con freddezza, privare dell’affetto. Hanno sempre generato più problemi di quelli che hanno risolto. Oggi hanno uno svantaggio in più: aiutano a creare le condizioni che aumentano la suscettibilità dei bambini all’orientamento ai coetanei.

La privazione della vicinanza (o la minaccia della sua perdita) è un sistema molto efficace di controllo del comportamento perché scatena nel bambino la paura peggiore: quella di essere abbandonato. Se il contatto e la vicinanza non fossero tanto importanti per il bambino piccolo e quello più grandicello, la separazione da noi avrebbe un impatto minimo.


Quando spezziamo il contatto o laceriamo il legame (o quando il bambino teme che ciò possa accadere), mettiamo il cervello di attaccamento in uno stato di massima allerta. In tutti i casi, la risposta del bambino verrà da una condizione di ansia, e il modo in cui egli la manifesterà dipenderà dalla sua particolare modalità di attaccamento. Un bambino che è solito preservare il contatto con il genitore comportandosi “bene”, prometterà disperatamente di non trasgredire mai più. Il suo tentativo di riguadagnare la connessione si porterà dietro una scia di “mi dispiace”. Il bambino che alimenta il suo attaccamento attraverso gesti e parole affettuose, se sente che la sua vicinanza al genitore è minacciata dal genitore stesso, non smetterà di dirgli “ti voglio bene”, che è il suo modo particolare di ristabilire una prossimità. Se il contatto fisico è dominante, il bambino potrebbe diventare appiccicoso per qualche ora, non volendo perdere di vista il genitore. Il punto cruciale che un genitore deve comprendere, è che queste manifestazioni non rappresentano una presa di coscienza o un pentimento autentici, ma solo l’ansia del bambino nel tentativo di ristabilire la relazione con il genitore. È ingenuo credere che attraverso questi metodi si possa insegnare a un bambino una lezione o fargli considerare i propri errori.


Giocare la carta della separazione ha un costo molto alto: l’insicurezza. Il bambino disciplinato con il sistema della separazione può contare sul contatto e la vicinanza del genitore solo quando risponde alle aspettative di quest’ultimo. A queste condizioni, il bambino non ha mai tregua, non è mai libero dalla spinta all’attaccamento, perciò non ha spazio da dedicare all’emergere della propria indipendenza e della propria individualità. Il bambino sarà anche molto “bravo”, ma verrà privato dell’energia per emergere, e il suo sviluppo sarà sabotato.


La minaccia della separazione funziona solo perché il bambino è attaccato a noi, brama la nostra vicinanza, e non è ancora emotivamente difeso contro la vulnerabilità. In altre parole, egli è ancora capace di sentire il proprio desiderio ardente di attaccamento e il proprio dolore per la separazione. Se queste condizioni non esistono, la separazione si rivela inefficace come strumento di obbedienza. D’altro canto, ogni “successo” sarà solo temporaneo. Che si tratti di separazione fisica o privazione emotiva, è probabile che la sensibilità del bambino venga sopraffatta. Se noi adulti ci addoloriamo quando veniamo ignorati o trattati con freddezza, quanto più ne soffriranno i bambini? Un genitore che utilizzi il time-out con le migliori intenzioni può avere difficoltà ad accettare questa cosa, ma le conseguenze estreme di questa tecnica di separazione sono molto negative per il bambino che è così sensibile. Egli viene attaccato nel suo punto più vulnerabile – il suo bisogno di restare attaccato al genitore. Presto o tardi sarà costretto a proteggersi contro il dolore che prova a essere ferito in questo modo. Si chiuderà emotivamente, o meglio, sarà il suo cervello di attaccamento a farlo (si veda il capitolo 8 per una discussione sulla chiusura difensiva).


Strumentalizzando la relazione contro il bambino, induciamo il cervello di attaccamento a chiuderci fuori, lasciando aperto un vuoto di connessione. Di fatto, stiamo inducendo il bambino a cercare altrove la soddisfazione ai propri bisogni di attaccamento, e sappiamo già con quali risultati. Utilizzando i time-out e reagendo in modi che spezzano la connessione, stiamo di fatto gettando i nostri figli fra le braccia dei coetanei.


Il cervello del bambino può difendersi dalla vulnerabilità della separazione anche resistendo al contatto con il genitore. Un bambino così potrebbe nascondersi sotto il letto o nel ripostiglio e respingere le offerte di riconciliazione del genitore. O, presagendo guai, potrebbe scappare nella sua stanza e chiedere di essere lasciato solo. In un modo o nell’altro, l’esperienza della separazione farà scattare l’istinto del bambino a staccarsi da noi.


La separazione è dolorosa soprattutto se utilizzata in maniera punitiva per disciplinare l’aggressività. Come ho spiegato nel capitolo 10, ciò che alimenta l’aggressività è la frustrazione; il risultato finale dell’impiego della separazione non è una minore, bensì una maggiore aggressività. Qualunque remissività si ottenga da un bambino aggressivo usando time-out, amore duro, e altre tecniche di separazione, ha vita breve, poiché si fonda solo sulla sua paura momentanea. Una volta ristabilita la prossimità con il genitore, l’aggressività ritorna con forza maggiore, esacerbata dall’ulteriore frustrazione dell’attaccamento appena provocata da noi. I nostri tentativi insensati di stroncare l’aggressività sul nascere non fanno che accrescerla.


Sottoporre un bambino a esperienze di separazione non necessarie, anche se fatto con le migliori intenzioni, è un atteggiamento miope e un errore che la natura non perdona tanto facilmente. È stupido rischiare il nostro potere di domani per un briciolo di influenza in più oggi.


L’alternativa positiva e naturale alla separazione è il legame. Il legame è la fonte del nostro potere e della nostra influenza genitoriale, nonché del desiderio del bambino di essere buono per noi; il legame dovrebbe essere sia il nostro obiettivo a breve termine, sia lo scopo a lungo termine. Il segreto è di essere attenti alla connessione prima che si presenti un problema, invece di imporre la separazione dopo; prevenire i problemi futuri anziché reagire punitivamente dopo che il comportamento del bambino è deragliato.


La pratica di fondo che deriva da questo mutamento nel modo di pensare è ciò che chiamo “prima connetti, poi dirigi”. L’idea è di richiamare a sé i figli – coinvolgendo i loro istinti di attaccamento secondo le linee discusse nel capitolo 14 – per poter offrire una guida e indicare la direzione da seguire. Coltivando il legame, prima di tutto minimizziamo il rischio di resistenza e diminuiamo le occasioni di provocare le nostre stesse reazioni negative. Che si tratti di un bambino molto piccolo che non vuole cooperare, o di un adolescente recalcitrante, è necessario che il genitore lo porti vicino a sé, ristabilendo la vicinanza emotiva prima di aspettarsi ubbidienza.


Un solo esempio illustrerà questo semplice principio. Tyler, di undici anni, era nella piscina del suo giardino con la sorella e qualche amico. Si divertivano, finché Tyler non fu trascinato da un impulso e iniziò a picchiare i suoi amici con una fettuccia di plastica. La madre gli disse di smetterla, ma niente. Il padre si arrabbiò, lo sgridò per aver disobbedito alla madre, e gli ordinò di uscire dalla piscina. Lui si rifiutò di obbedire. Il padre alla fine saltò dentro, lo trascinò fuori e, pensando di dargli una lezione, lo spedì in camera sua a riflettere su ciò che aveva fatto. I genitori mi spiegarono che il comportamento di Tyler era assolutamente intollerabile e non doveva ripresentarsi mai più. Mi avevano comunque sentito parlare dei rischi legati all’utilizzo della separazione per rimettere in riga i figli e volevano sapere cosa avrebbero dovuto fare di diverso.


Una volta che la situazione si era dipanata in quel modo, i genitori avrebbero probabilmente avuto bisogno di prendersi una pausa prima di procedere. Quando la situazione è difficile, è meglio aumentare la vicinanza anziché diminuirla. Il genitore deve avere la volontà di connettersi prima di formulare una qualunque richiesta precisa al bambino. Quando la volontà di connettersi riemerge nel genitore, il primo passo è di ristabilire il legame. Fare una passeggiata insieme, andarsi a fare un giro in bici, giocare a palla – la connessione umana deve essere intatta prima di comunicare le nostre argomentazioni. In questo caso ciò che aveva portato il genitore a cominciare con il piede sbagliato era proprio ciò che mancava all’inizio dell’interazione. Tyler era completamente preso da quello che stava facendo. In questa disposizione mentale, non si stava orientando attraverso i genitori, né era sintonizzato sul desiderio di seguire i loro richiami. In simili circostanze riconnettersi con il bambino è imperativo prima di procedere. Un tentativo di connessione avrebbe potuto svolgersi così: “Tyler, ti stai proprio divertendo eh?”. In questo modo, è probabile che avremmo avuto in risposta un cenno di assenso e un sorriso. Una volta catturati gli occhi, il sorriso, e il cenno della testa, la mossa seguente è di condurre il figlio accanto a sé: “Tyler, ho bisogno di parlarti un minuto in privato, vieni da me”. Dopo aver richiamato a sé il figlio, il genitore si troverà in una posizione di potere e influenza. Potrebbe, a quel punto, offrirsi come guida per riportare la calma e far rispettare il divertimento di tutti. Oltre a ciò si sarebbe evitato il logorarsi dell’attaccamento di Tyler, un aspetto che desta, dal punto di vista evolutivo, molte più preoccupazioni che non il fatto di impartirgli una lezione. Invece di usare la separazione in coda agli eventi, i genitori di Tyler avrebbero dovuto avvalersi del legame al principio della storia.


Non è una danza complicata; di fatto, è sorprendentemente semplice. Il trucco è nel piccolo passo di attaccamento all’inizio. Il principio del prima connetti, poi dirigi, si applica a quasi tutto, che ci si informi sui compiti, che si chieda aiuto per apparecchiare la tavola, che si rammenti al bambino che deve appendere i vestiti, che gli si ricordi che è ora di spegnere la televisione, o che si discuta dell’interazione fra fratelli. Se la relazione di fondo è buona, si tratta di un processo che non richiede più di qualche secondo. Se l’attaccamento è debole o sulla difensiva, il tentativo di richiamare a noi il bambino ce lo rivelerà. È molto difficile mettere ordine nel comportamento di un figlio quando vi è un disordine sottostante relativo all’attaccamento. Non riuscire a richiamare un figlio dovrebbe essere un monito a mettere da parte la preoccupazione sulla condotta e a concentrare i nostri sforzi e la nostra attenzione sulla costruzione della relazione.


Quando per la prima volta utilizziamo questa pratica del prima connetti, poi dirigi, potrebbe sembrarci un po’ imbarazzante e artificiosa, ma appena diventa un’abitudine dovrebbe significativamente diminuire il logoramento della relazione. I genitori che la padroneggiano sollecitano spesso il sorriso e un cenno del capo prima di avanzare le loro richieste o chiedere di essere obbediti. I risultati possono essere sbalorditivi.

Quando sorge un problema, lavoriamo sulla relazione, non sull’incidente

Quando qualcosa non va per il verso giusto, la risposta abituale è di affrontare il comportamento in questione quanto prima. In psicologia viene denominato principio di immediatezza, che si fonda sulla nozione secondo cui se non si affronta il comportamento senza indugio, l’opportunità di apprendimento va persa. Il bambino la “passerà liscia” col cattivo comportamento. Questa preoccupazione è infondata.


Il principio di immediatezza affonda le sue radici negli studi sull’apprendimento animale dove non esiste una coscienza su cui lavorare, né alcuna capacità di comunicare con il soggetto. Trattare i nostri figli come se fossero creature senza coscienza comunica una grossa sfiducia nei loro confronti e disconosce la loro umanità. Come gli adulti, i bambini non sono inclini a restare affezionati a coloro che giudicano male le loro intenzioni e insultano le loro capacità, soprattutto quando attaccamenti sostitutivi sono a portata di mano.


Tentare di far progressi nel mezzo di un incidente che lascia tutti sconvolti non ha, comunque, molto senso anche per altre ragioni. Durante un litigio è probabile che il bambino sia fuori controllo. Scegliere un momento simile per correggere, indirizzare, o impartire una “lezione” è una perdita di tempo. Per ciò che ci riguarda, il comportamento inappropriato di nostro figlio spesso ci coglie di sorpresa, evocando intense reazioni emotive. Perciò è molto probabile che il nostro comportamento, proprio come quello dei nostri figli, non sarà pacato e libero dalla pressione del momento. Affrontare i problemi richiede una preparazione seria e ponderata. Nel bel mezzo di un incidente, quasi mai il bambino sarà al meglio della sua ricettività e noi al massimo della nostra accortezza e creatività.


Con la relazione in mente, gli obiettivi immediati sono quelli di fermare il comportamento se necessario, e di mantenere un attaccamento efficace. Possiamo sempre rivisitare l’incidente e il comportamento più tardi, dopo aver calmato i sentimenti intensi e ristabilito la connessione.


Alcuni comportamenti ci toccano sul vivo e mettono a dura prova la nostra capacità di mantenere l’attaccamento con i figli. In cima alla lista ci sono l’aggressività e la controvolontà. Se siamo i destinatari di un insulto, di espressioni di odio, o finanche di un’aggressione fisica, la sfida immediata è di sopravvivere all’attacco senza infliggere un danno alla relazione. Non è questo il momento di commentare la natura del comportamento o il suo impatto doloroso. E non è neppure il momento di lanciare minacce e stabilire sanzioni, o spedire il bambino in isolamento. Per prepararsi all’intervento successivo, i genitori devono mantenere la propria dignità. Dobbiamo evitare di esacerbare la situazione con manifestazioni emotive incontrollate. Se permettiamo ai nostri sentimenti di umiliazione di prendere il sopravvento, non possiamo più mantenere il ruolo di adulto responsabile.


Concentrarci sulla frustrazione, anziché prendere l’attacco in modo personale, spesso ci sarà d’aiuto: “Sei arrabbiato con me”, “Sei davvero frustrato!”, “Questo non ti piace, eh?”, “Volevi che dicessi di sì e invece ho detto no”, “Stai pensando a tutte le brutte parole che vorresti dirmi?”, “Quei sentimenti te l’hanno fatta di nuovo, eh?!”. La scelta delle parole non è fondamentale, conta invece il riconoscimento della frustrazione che si agita nel bambino e un tono di voce che indichi che ciò che è appena successo non ha spezzato l’unione. Per preservare una relazione efficace con il bambino, dobbiamo far capire in qualche modo che la relazione non è in pericolo.


A volte aiuta lanciare un messaggio di infrazione: “Così non va bene, più tardi ne riparliamo”. Di nuovo, le parole sono meno importanti del tono, che dovrebbe essere caldo e amichevole, non minaccioso. La connessione che prima di tutto deve essere salvaguardata è quella umana. Dobbiamo riportare la calma, in noi e nel bambino. Al momento opportuno, metteremo in atto la nostra promessa di chiarire le cose. Prima richiamiamo a noi il bambino, e solo dopo cerchiamo di trarre una lezione da quanto è accaduto.

Quando le cose vanno storte per il bambino, tiriamo fuori le sue lacrime anziché cercare di insegnargli una lezione

Un bambino ha molto da imparare: condividere la sua mamma, far spazio a un fratello, gestire la frustrazione e il disappunto, convivere con l’imperfezione, abbandonare le pretese, rinunciare a essere il centro dell’attenzione, accettare un no. Ricordate? Una delle radici semantiche di disciplina è “insegnare”. Una gran parte del nostro lavoro di genitori è perciò quella di insegnare ai figli ciò che hanno bisogno di sapere. Ma come?


Queste lezioni di vita sono molto meno il risultato di una correzione del pensiero quanto invece l’esito di un adattamento. La chiave dell’adattamento è nella penetrazione profonda del senso di futilità ogni volta che ci troviamo di fronte a qualcosa che non va ma che non possiamo cambiare. Quando il processo adattativo si dispiega come dovrebbe, le lezioni si imparano spontaneamente. I genitori non sono soli.


Il processo adattativo realizza il proprio compito di “disciplinare” i nostri figli in una gamma di modi naturali: chiudendo il corso di un’azione che non dà frutti; rendendo il bambino capace di accettare limiti e restrizioni; facilitando l’abbandono di richieste futili. Solo attraverso questo adattamento un bambino riesce ad adeguarsi alle circostanze che non possono essere mutate. Attraverso questo processo, un bambino scopre anche che può vivere con desideri insoddisfatti. L’adattamento lo rende capace di riaversi dai traumi e di trascendere le perdite. Sono lezioni che non possono essere insegnate direttamente, né attraverso la ragione, né tramite conseguenze. Sono in realtà quegli insegnamenti del cuore che solo l’esperienza piena della futilità può insegnare.


Il genitore dovrà essere un agente della futilità e l’angelo del conforto. È l’umano contrappunto al massimo della sfida e della delicatezza. Per facilitare l’adattamento, dovrà scegliere la danza che conduce il figlio alle lacrime, al lasciar andare, e al senso di pace che arriva sulla scia del lasciar andare.


La prima parte di questa danza di adattamento è quella di rappresentare al bambino un “muro di futilità”. A volte sarà per causa nostra, ma più spesso deriverà dalla realtà delle cose e dai limiti che si incontrano tutti i giorni: “Tua sorella ha detto di no”, “Così non funzionerà”, “Non posso lasciartelo fare”, “Non ce n’è abbastanza”, “Per oggi basta così”, “Non ti ha invitato”, “Non era interessata ad ascoltarti”, “Sally ha vinto il gioco”, “La nonna non può venire”. Queste realtà devono essere presentate con fermezza, così da non diventare il problema. Equivocare – ossia ragionare, spiegare, giustificare – significa non dare al bambino qualcosa a cui adattarsi. Se esiste anche una sola possibilità che la situazione cambi, non verrà innescato l’adattamento. Si tratta di far adattare il bambino alle cose come sono esattamente, e non a come lui, o persino noi, vorremmo che fossero.


Se non si riesce a essere fermi di fronte a qualcosa di immutabile, si induce il bambino a cercare delle scappatoie dalla realtà, impedendo il processo di adattamento. Ci sarà tempo per comunicare le proprie ragioni, ma solo dopo che l’impossibilità di cambiare le cose sia stata accettata.


Nella seconda parte della danza ci si mette al fianco dell’esperienza di frustrazione del bambino per dare conforto. Una volta che il muro della futilità sia stato ben piantato – in modo che sia fermo ma non aspro – è il momento di aiutare il bambino a trovare le lacrime che si celano dietro la frustrazione. Il proposito non dovrebbe essere quello di impartire una lezione, ma di muovere dalla frustrazione alla tristezza. La lezione sarà imparata spontaneamente una volta assolto questo compito. Si possono dire cose tipo “È tanto dura quando le cose non funzionano, vero?”, “So quanto volevi che succedesse”, “Speravi che avrei avuto una risposta diversa”, “Non è ciò che ti aspettavi”, “Avrei voluto che le cose andassero diversamente”. Ancora una volta, molto più importante delle parole è far percepire al bambino che siamo con lui, non contro di lui. Al momento giusto, mettere un po’ di tristezza nella nostra voce può preparare la venuta delle lacrime e della delusione. Ci vorrà un po’ di pratica per sentire quando è il momento; andare troppo di fretta o parlare troppo può essere controproducente. È una danza che non può essere coreografata; il genitore deve sentirla. Anche qui, si impara dai propri errori.


Può capitare che il genitore faccia tutte le mosse giuste e tuttavia fallisca miseramente nel predisporre il processo adattativo. Il problema potrebbe essere che il bambino non percepisce il genitore come una fonte sicura di conforto. Più spesso, le lacrime non scorrono perché il processo adattativo è bloccato: è la disgrazia del bambino che è diventato troppo difeso contro la vulnerabilità. La futilità non riesce a penetrare.


L’adattamento funziona a doppio senso. A volte siamo noi genitori a doverci adattare alla mancanza di adattabilità dei nostri figli. Quando il processo che incoraggia la disciplina naturale non è attivo in nostro figlio, dobbiamo ritrarci dal tentativo di spingere oltre. Sono i momenti in cui è necessario trovare la nostra personale tristezza e abbandonare le aspettative inutili. Lasciando andare ciò che non funziona, abbiamo più probabilità di incappare in ciò che funziona. Se i segni rivelatori dell’adattamento sono assenti – se gli occhi del bambino non si riempiono di lacrime quando le aspettative sono frustrate, se la perdita non evoca la tristezza, se la rabbia non lascia il posto al dispiacere – il genitore dovrà trovare un altro modo per creare ordine dal caos. Fortunatamente, altri modi esistono.

Sollecitiamo le buone intenzioni invece di pretendere i buoni comportamenti

Il quarto cambiamento nel modo di pensare richiede di spostare la concentrazione dal comportamento alle intenzioni. Le intenzioni sono estremamente sottovalutate. L’idea prevalente nella nostra società è che le intenzioni non siano sufficienti, e che solo i comportamenti appropriati vadano accettati ed elogiati. La strada che conduce all’inferno non è forse lastricata di buone intenzioni? Da una prospettiva evolutiva, niente potrebbe essere più lontano dalla verità. Le buone intenzioni sono oro: l’intenzione è il seme dei valori e il precursore di un senso di responsabilità. Prepara il terreno per i sentimenti eterogenei. Trascurare le intenzioni vuol dire lasciarsi sfuggire una delle risorse più preziose per l’esperienza del bambino.


Il nostro obiettivo, ovunque sia possibile, dovrebbe essere quello di esortare nel bambino le buone intenzioni. Il successo richiede, ancora una volta, che egli voglia essere buono per noi, che sia disposto a farsi influenzare da noi. Il primo passo, come sempre, deve essere quello di richiamarlo a noi, per coltivare il legame che ci dà potere.


Poi, utilizzeremo la nostra influenza per persuadere il bambino ad andare nella giusta direzione – o perlomeno in una direzione che sia incompatibile con i guai. Non basta che il bambino sappia ciò che vogliamo. L’intenzione di conformarsi deve partire da lui. Per un bambino piccolo che non voglia seguire la mamma, sarà necessario richiamarlo a noi e poi innescare un’intenzione che lo porterà nella direzione che desideriamo. “Credi che potresti abbracciare la nonna adesso e dirle ciao?”, “Ho bisogno di aiuto per trasportarlo alla macchina, credi di poterlo portare tu?”. Il segreto è di far mettere al piccolo le mani sul suo volante – proprio come al lunapark, dove molte giostre hanno i loro piccoli volanti che non comandano realmente il veicolo, ma permettono ai piccoli guidatori di credere che stanno guidando. Tuttavia è ancora meglio anticipare i problemi prima che si presentino, facendo appello nel bambino al senso della propria maestria. Ad esempio, se sapete che incontrerete resistenza al momento di uscire, richiamate a voi il bambino in anticipo e sollecitate l’intenzione di venire quando direte che è ora di andare: “Sarai pronto a metterti le scarpe quando ti dirò che dobbiamo andare?”. Riconoscere che può essere difficile per il bambino, ma chiedergli se pensa di potercela fare, dovrebbe metterlo fuori gioco.


Sollecitare le buone intenzioni nei bambini più grandi implica la condivisione con loro dei nostri valori, oppure trovare dentro di loro i semi dei nostri valori. Ad esempio, un genitore potrebbe condividere i suoi obiettivi personali nel gestire la frustrazione: “Sono sempre fiero di me quando riesco a sentirmi frustrato senza insultare nessuno. Credo che tu sia abbastanza grande da provarci. Che ne pensi? Ti andrebbe di lavorare su questo?”. Per i bambini che tendono a diventare prigionieri dell’intensità delle proprie emozioni potrebbe essere utile una piccola consultazione preventiva prima di impegnarsi in attività dove è probabile che sorgano problemi. “So che quando ti diverti a volte ti fai trascinare e dimentichi di fermarti quando qualcuno te lo chiede. Posso contare sul fatto che ci proverai? So che ti piace giocare con gli altri bambini e vorresti che durasse il più a lungo possibile”.


Non stiamo dicendo che sollecitare le buone intenzioni porterà automaticamente al comportamento auspicato. Persino per gli adulti, le buone intenzioni non si traducono sempre in azione. Ma bisogna pur cominciare da qualche parte, e puntare nella giusta direzione è il modo per farlo.


Nel sollecitare i buoni propositi, cerchiamo di attirare l’attenzione non sulla nostra volontà, ma su quella del bambino. Invece di “voglio che tu...”, “ho bisogno che tu...”, “è necessario che tu...”, “ti ho detto di...”, “devi...”, suscitare una dichiarazione di intenti o almeno un cenno affermativo della testa: “posso contare su di te per...?”, “ti va di provarci?”, “pensi di riuscirci?”, “sei pronto per...?”, “credi di potercela fare, ora?”, “cercherai di ricordarti?”. Ci sono volte, naturalmente, in cui è necessario imporre la nostra volontà. Per quanto possa essere necessario, non induce però di per sé alle buone intenzioni da parte del bambino. E imporre la nostra volontà è sempre controproducente se è fatto in modo coercitivo o al di fuori di un buon legame.


Sollecitare le buone intenzioni è una pratica genitoriale sicura e grandemente efficace. Trasforma i bambini da cima a fondo. Ciò che non si ottiene sollecitando le buone intenzioni è probabile che non si otterrà in nessun altro modo.


È essenziale riconoscere le intenzioni positive del bambino invece di identificarlo con i suoi impulsi, le sue azioni o i suoi fallimenti. Il genitore deve essere di sostegno e incoraggiare il più possibile: “So che non volevi che accadesse questo”, “Va bene, ce la farai”, “Sono felice di sapere che non era tua intenzione; è importante”. Se non leniamo il dolore degli inevitabili fallimenti, il bambino sarà tentato di arrendersi. Le intenzioni devono essere curate e nutrite con cura perché possano realizzarsi.


Se non riusciamo a ottenere un successo iniziale nel sollecitare le buone intenzioni, significa che o il bambino non è abbastanza maturo, o non siamo abbastanza persuasivi, oppure esistono problemi nella relazione di attaccamento. L’attaccamento del bambino potrebbe essere chiuso, sulla difensiva, o insufficientemente sviluppato. La nostra incapacità di sollecitare le buone intenzioni dovrebbe metterci sull’avviso che esistono problemi sottostanti e spingerci ad azioni di rimedio. Persino i nostri fallimenti a breve termine possono, in questo modo, servire a propositi di lungo termine. Insistere sempre sul “cattivo” comportamento quando non si riesce neppure a sollecitare un’intenzione affinché sia buona, significa mettere il carro davanti ai buoi.

Tiriamo fuori i sentimenti eterogenei invece che cercare di fermare il comportamento impulsivo

“Smettila di picchiarlo!”, “Non interrompere”, “Finiscila!”, “Lasciami in pace”, “Non fare il bambino piccolo!”, “Non essere maleducato!”, “Datti una calmata”, “Non essere così agitato!”, “Non fare lo sciocco”, “Smettila di darle fastidio!”, “Non essere così sgarbato!”. Tentare di fermare il comportamento impulsivo è come mettersi di fronte a un treno in corsa e ordinargli di fermarsi. Quando il comportamento del bambino è guidato dall’istinto e dalle emozioni, c’è poca possibilità di imporre l’ordine attraverso lo scontro o urlando dei comandi.


C’è stato un tempo, nella storia della psicologia, in cui la mente del bambino veniva percepita come una tabula rasa, un foglio bianco, libero da forze interne che lo obbligassero ad agire in un modo o in un altro. Se fosse stato vero, il comportamento di un bambino sarebbe stato relativamente facile da controllare, o attraverso direttive, o attraverso conseguenze. Sebbene molti genitori ed educatori operino ancora sotto l’influenza di questa illusione, la scienza moderna ha stabilito una prospettiva completamente diversa. I neuropsicologi che studiano il cervello umano stanno svelando le radici istintuali del comportamento. Molte delle risposte del bambino sono guidate dall’istinto e dalle emozioni che sorgono spontaneamente e in maniera automatica, non attraverso decisioni consapevoli. Nella maggior parte delle circostanze, i bambini (e altri esseri umani immaturi) sono già sotto l’influenza di ordini interiori a comportarsi in un certo modo. Il bambino timoroso seguirà istintivamente l’ordine a evitare, quello insicuro potrebbe sentirsi costretto ad aggrapparsi e attaccarsi. La frustrazione spesso induce il bambino a pretendere, piangere o aggredire. Il bambino timido è governato dall’ordine di nascondersi e celarsi. Quello tenace automaticamente contrasterà la volontà di un altro. Quando un bambino è impulsivo, gli impulsi dominano. Esiste un ordine nell’universo, ma non il tipo di ordine che piacerebbe a noi. Il cervello sta solo facendo il suo lavoro muovendo il bambino secondo le emozioni e gli istinti che sono stati attivati.


Esiste un’alternativa allo scontro. La chiave dell’autocontrollo non è la forza di volontà, come si pensava una volta, bensì i sentimenti contrastanti. È quando gli impulsi conflittuali si mescolano fra loro che gli ordini si cancellano l’un l’altro, mettendo, per così dire, il bambino alla guida. Un nuovo ordine emerge quando il comportamento è radicato nell’intenzione anziché nell’impulso. Un comportamento di questo genere ha una spinta molto minore ed è, pertanto, molto più facile da gestire. Il nostro lavoro è di aiutare a portare alla sua coscienza quei sentimenti e pensieri contrastanti che esistono dentro di lui. Si ricorderà, dal capitolo 9, che la radice del significato di ‘temperare, mitigare’ era mescolare insieme elementi diversi – ed è esattamente ciò che è necessario fare! Piuttosto che cercare di rivolgersi al comportamento, tiriamo fuori l’elemento temperante per moderare l’impulso che mette il bambino nei guai.


In un bambino pieno di impulsi ad aggredire, sarà, per esempio, il caso di risvegliare alla sua coscienza quei sentimenti, pensieri e impulsi che possano entrare in conflitto con l’impulso ad aggredire. Non è un obiettivo che si possa raggiungere con lo scontro. Nel migliore dei casi, con il conflitto si ottiene una vuota accondiscendenza o, all’opposto, un atteggiamento difensivo. Non ci vuole niente a sviluppare il controllo dell’impulso dall’interno. Gli elementi mitiganti potrebbero essere sentimenti di affetto, di attenzione, di pericolo. Il bambino potrebbe sentire la preoccupazione di far male a qualcuno o l’ansia di finire nei guai. Se egli è mosso da impulsi di controvolontà, sarà il caso di far affiorare alla sua coscienza forti sentimenti di attaccamento, di voler piacere, o il desiderio di essere all’altezza. Il segreto è di portare alla coscienza i sentimenti contrastanti nello stesso tempo.


Quando spingiamo i sentimenti contrastanti ad affiorare, dobbiamo uscire dall’incidente che ha causato i problemi ed entrare nella relazione in cui possiamo passare alla guida. Dovremmo tentare di farlo solo quando l’intensità dei sentimenti si è un po’ placata.


È sempre più saggio ricordare prima al bambino gli impulsi mitiganti e poi le emozioni incontrollate che lo hanno trascinato in una situazione difficile. Una volta che egli si senta ben disposto e affettuoso, possiamo raccontare la frustrazione provata in precedenza. “Ora stiamo molto bene insieme. Mi ricordo stamattina che non eri molto contento con me. Anzi, eri così arrabbiato che hai fatto il diavolo a quattro!” Dobbiamo far spazio a questi sentimenti contrastanti. “È incredibile come si possa essere tanto arrabbiati con le persone che a cui si vuol bene”. Lo stesso vale per la controvolontà: “Mi sembra che ora sia facile per te fare quello che ti chiedo, ma un paio d’ore fa ti è parso che ti volessi comandare a bacchetta”.


Affrontare i problemi di comportamento tirando fuori gli elementi mitiganti non danneggia l’attaccamento. Come genitori, ci mettiamo alla guida mettendo in risalto sia “questo” sia “quello” nel bambino. Invitiamo gli elementi eterogenei ad esistere e a comunicare l’accettazione di ciò che è dentro di lui. Una disciplina siffatta non allontana i nostri figli, ma li spinge accanto a noi.


Diciamo spesso ai bambini di darci un taglio – come se potessero praticare una chirurgia psichica su se stessi! Non possiamo tagliar via dal loro repertorio comportamentale ciò che è profondamente radicato nell’istinto e nelle emozioni. Gli impulsi restano con noi per tutta la vita. A meno di non istupidirci, dovremmo tutti provare gli impulsi associati alla vergogna, all’insicurezza, alla gelosia, alla possessività, alla paura, alla frustrazione, alla colpa, alla controvolontà, al terrore e alla rabbia. La risposta della natura non è di tagliar via qualcosa, bensì di aggiungere qualcosa alla coscienza che, se necessario, tenga l’impulso in questione sotto controllo.

Quando si ha a che fare con un bambino impulsivo, orchestriamo il comportamento desiderato anziché pretendere maturità

Non tutti i bambini sono pronti per le modalità più avanzate di incoraggiamento e insegnamento della disciplina che sono state fin qui descritte. Ad esempio, i bambini che non hanno ancora sviluppato sentimenti eterogenei sono incapaci di mitigare le proprie esperienze, e non conta quanto sia abile e diligente il genitore.


I bambini che hanno problemi di autocontrollo mancano anche dell’abilità di riconoscere l’impatto del proprio comportamento o di anticiparne le conseguenze. Sono incapaci di pensare due volte prima di agire o di capire come le loro azioni si ripercuotano sulle altre persone. Mancano della capacità di considerare il punto di vista di chiunque altro contemporaneamente al proprio. Sono bambini giudicati spesso insensibili, egoisti, non collaborativi, maleducati, e persino noncuranti. Percepirli in questo modo, però, significa solo predisporci a farci irritare dalla loro condotta e ad avanzare richieste che non potranno mai venir soddisfatte. I bambini la cui consapevolezza è limitata ad una sola dimensione non sono in grado di rispondere neppure a richieste minime come: stai buono, non essere sgarbato, non interrompere, sii gentile, sii generoso, non essere maleducato, abbi pazienza, non fare scene, cerca di fare da solo – o a una miriade di altri ordini che possiamo urlare. Non possiamo costringere i nostri figli ad essere più maturi di quello che sono, neppure dicendogli all’infinito che “devono crescere”. Aspettarci da loro l’impossibile è frustrante e, ancor peggio, suggerisce che ci sia qualcosa di sbagliato in loro. I bambini non possono sopportare un tale senso di vergogna senza mettersi sulla difensiva. Per preservare la nostra relazione con un bambino che non è ancora capace di funzionare in modo maturo, dobbiamo disfarci delle aspettative e delle richieste irrealistiche.


C’è un altro modo per trattare con bambini immaturi: anziché pretendere che esibiscano spontaneamente un comportamento maturo, potremmo coreografare noi il comportamento desiderato. Seguire le nostre indicazioni non renderà il bambino più maturo, ma lo metterà in grado di comportarsi in situazioni sociali per le quali altrimenti egli non sarebbe evolutivamente pronto.


Coreografare il comportamento di un bambino significa dare tutte le indicazioni su cosa fare e come farlo. Quando i bambini non sono ancora capaci di cavarsela da soli in modo spontaneo, le loro azioni devono essere orchestrate da qualcuno da cui siano pronti a prendere le mosse: “Ecco, è così che si tiene il neonato”, “Ora è il turno di Mattew”, “Se hai un abbraccio per la nonna, ora sarebbe proprio il momento di darglielo!”, “Ecco, il gattino si accarezza così”, “Ora tocca a papà parlare”, “Questo è il momento di usare la tua voce tranquilla”.


Un’orchestrazione di successo richiede che l’adulto si metta nella posizione di suggeritore. Ancora una volta, si comincerà dalle basi: prima richiamare a sé il bambino per poter lavorare dall’interno della relazione. Un po’ come fa mamma oca con i suoi piccoli; mettere in riga la prole prima di sistemare il comportamento. Una volta che il bambino ci abbia seguiti, saremo liberi di passare alla guida. Certo, la nostra abilità nel prescrivere un comportamento sarà proporzionale all’attaccamento del bambino nei nostri confronti. Non deve essere particolarmente profondo o vulnerabile, solo abbastanza forte da evocare l’istinto all’emulazione e all’imitazione.


Per una regìa di successo, le indicazioni su cosa fare e come farlo devono essere date in modi che il bambino le possa seguire. Dare istruzioni negative non funziona perché non dice realmente al bambino ciò che deve fare. Di fatto, per bambini immaturi o gravemente bloccati, ciò che viene registrato è spesso solo la parte del comando relativa all’azione. Il “non” viene spesso cancellato, non ne resta traccia nella consapevolezza e il comportamento diventa esattamente l’opposto di quello desiderato. Dobbiamo distogliere l’attenzione dal comportamento che causa problemi e concentrarci sulle possibili azioni desiderabili. Dare l’esempio del comportamento che vogliamo far seguire al bambino è ancora più efficace. Come un regista con gli attori o un coreografo con i ballerini, il risultato finale prende vita prima nella mente dell’adulto.


Un esempio di orchestrazione per ottenere il comportamento desiderato – dalla comprensione quasi certamente intuitiva – è quello dell’insegnamento dello sci. In questo caso, siamo piuttosto consapevoli del fatto che è inutile dire a un bambino “Stai in equilibrio”, “Non cadere”, “Frena”, “Controlla gli sci”, “Fai le curve”. Questi saranno i risultati di un comportamento opportunamente guidato, ma non saranno ciò che chiediamo almeno finché il bambino abbia imparato a sciare. Invece, dovremo mostrargli come si fa a fare lo spazzaneve con gli sci, e poi dargli indicazioni che possa seguire, come: “Fai lo spazzaneve”, “Scendi alla tua destra”, “Tocca le ginocchia”, e così via. Il risultato finale saranno l’equilibrio, le frenate, e le curve. Sembrerà che lo sciatore novello sappia come si scia, ma in realtà il bambino sta solo seguendo delle indicazioni finché le azioni non verranno assimilate e diventeranno automatiche. Diversamente dallo sci, nell’interazione umana non acquisiamo la capacità di generare dall’interno le azioni e le risposte appropriate fino alla maturità.


Quando si tratta del comportamento sociale, non dobbiamo concentrarci sulla relazione fra i bambini. Questa regìa riguarda il bambino che segue l’adulto. L’orchestrazione non è volta a insegnare al bambino le abilità sociali – generalmente un esercizio di futilità – ma a dirigere l’interazione sociale finché non emergeranno la maturità e una socializzazione autentica. Ecco perché l’attenzione non è sulla relazione fra i bambini, bensì sul seguire le indicazioni dell’adulto.


La storia seguente mi fu raccontata da una cara amica il cui lavoro comportava la supervisione degli insegnanti. L’incidente avvenne mentre osservava una maestra di seconda elementare che aveva una reputazione straordinaria per i suoi modi carismatici con gli studenti. Uno studente disabile aveva chiesto di lasciare la stanza per andare in bagno. Al suo rientro in classe, esclamò che stavolta ce l’aveva fatta da solo. Era assolutamente ignaro di avere ancora pantaloni e mutande all’altezza delle caviglie. Ciò che accadde dopo fu straordinario. Invece delle risate che ci si sarebbe aspettati in un’occasione del genere, gli studenti si girarono di scatto per guardare la maestra, lei applaudì in segno di elogio e tutti gli studenti fecero lo stesso.


L’interazione era stata meravigliosamente civile e sorprendentemente gentile. Per percepire la vulnerabilità dell’altro e fare qualcosa per proteggerla ci vogliono maturità e capacità. La maturità e la capacità tuttavia erano dell’insegnante, non degli studenti. Nel loro caso, ciò che appariva come competenza sociale era semplicemente seguire le indicazioni. La risposta non era nelle relazioni fra gli studenti, ma nella relazione di ogni studente con la propria insegnante. Gli esseri immaturi non dovrebbero essere lasciati a se stessi nell’interazione sociale.


Molti tipi di comportamento possono essere modellati: l’equità, l’aiuto, la condivisione, la cooperazione, la conversazione, la gentilezza, la considerazione, l’andare d’accordo. Sebbene far sì che i bambini agiscano in modo maturo non li renderà più maturi, li terrà però fuori dai guai finché non si potrà lavorare sugli impedimenti di fondo della maturazione e quest’ultima non sopraggiungerà. Aiutare i bambini a tenersi lontano dai guai attraverso questo tipo di orchestrazione salvaguarda l’attaccamento e funziona a doppio senso: aiuta il loro attaccamento verso di noi e il nostro verso di loro.

Se non si può cambiare il bambino, cerchiamo di cambiare il suo mondo

Meno i bambini avranno bisogno di disciplina, più ogni metodo sarà efficace. L’inverso è altrettanto vero: più un bambino ha bisogno di essere disciplinato, meno efficaci saranno le tecniche comunemente note.


Ciò che rende un bambino difficile da disciplinare è l’assenza di quei fattori che sono alla base dei nostri princìpi naturali di imposizione dell’ordine sul comportamento. È difficile disciplinare un bambino che non si fa indurre facilmente a considerare i pensieri e i sentimenti che terrebbero a bada gli impulsi di disturbo, che non può essere indotto a formare buone intenzioni, che è incapace di sentire la futilità del corso di un’azione, e manca della motivazione a essere buono per coloro che ne sono responsabili. Con questo tipo di bambini la nostra tentazione diventa quella di calcare la mano. Purtroppo, aggiungere forza di solito è controproducente per gli stessi motivi per cui il bambino era più difficile da disciplinare sin dall’inizio: la coercizione provoca la controvolontà, le punizioni provocano vendette, gridare fa smettere di ascoltare, le sanzioni suscitano l’aggressività, i castighi portano al distacco emotivo. Quando tentativi ragionevoli di disciplinare il comportamento non funzionano, la risposta non è una disciplina più severa, ma una disciplina diversa.


Poiché le tecniche coercitive sono in ultima analisi controproducenti, veniamo ora all’ultimo, ma non meno importante, degli strumenti che appartengono alle tecniche di disciplina naturale: mettere ordine nell’ambiente in cui vive il bambino. L’intento, qui, non è quello di modificare o estirpare il comportamento “cattivo”, ma di alterare le esperienze che lo fanno sorgere. In questi casi, anziché cercare di cambiare il bambino sarebbe molto più fruttuoso, se possibile, modificare le situazioni e le circostanze che scatenano il problema comportamentale.


Questo approccio alla disciplina richiede tre cose da parte del genitore: (1) l’abilità di percepire l’inutilità di altri sistemi disciplinari e di abbandonare ciò che non funziona, (2) discernimento su quali siano i fattori ambientali che scatenano la reazione problematica, e (3) una certa capacità di modificare o controllare questi fattori avversi. È necessario essere genitori veramente adattabili per percepire la futilità di insistere sul comportamento e smettere di inveire contro ciò che non si può cambiare: in questo caso, il comportamento impulsivo del bambino. Ci vuole saggezza per concentrarsi su ciò che scatena le reazioni del bambino: le circostanze e le situazioni che lo circondano. In altre parole, un genitore deve prima di tutto smettere di voler cambiare il bambino.


La chiave di tutto è il discernimento. Superare il problema del comportamento per vedere cos’è che fa reagire il bambino. Il modo in cui percepiamo il problema determinerà infine il rimedio che adotteremo. Se ciò che percepiamo è che il bambino è ostinato e testardo, saremo inclini – in una prospettiva limitata – a focalizzarci sul tentativo di sistemare il comportamento, che disapproviamo e che ci irrita. Se, invece, riconoscessimo che il bambino si lascia semplicemente trascinare dai propri impulsi, saremmo più inclini a modificare la situazione che li ha scatenati. Se tutto ciò che vediamo è che un bambino fa una scenata o picchia qualcuno, è probabile che ci focalizzeremo sull’aggressione. Se, d’altro canto, riconoscessimo che un bambino è incapace di gestire la frustrazione che prova, tenteremmo di modificare le circostanze che lo rendono frustrato. Se ciò che vediamo è un bambino che resiste alla nostra richiesta di restare a dormire in camera sua, potremmo trattarlo come un caso di disobbedienza. Ma se, al contrario, percepissimo un piccolo sopraffatto dalla paura della separazione o del buio, faremmo tutto ciò che possiamo per rendere il momento di andare a dormire meno minaccioso. Se vediamo un bambino che si rifiuta di fare ciò che gli viene chiesto, desideriamo sradicare la sua resistenza. Ma se vedessimo, invece, che le sue corde della controvolontà sono state stimolate dalla pressione che sente gravare su sé, ridurremmo la pressione che stiamo esercitando. Potremmo affrontare un bambino a causa delle sue “brutte” maniere se lo vedessimo soltanto come un maleducato, nel caso in cui rifiutasse di comunicare con un adulto. Ma se riconoscessimo che è solo la sua innata timidezza a inibirlo nell’interazione con persone che non conosce, faremmo il possibile per metterlo a suo agio. Se considerassimo bugiardo un bambino, forse affronteremmo le sue bugie con modi giudicanti e severi; ma se avessimo la saggezza di riconoscere che un bambino cancella la verità solo perché è troppo insicuro del nostro amore per rischiare la nostra ira o il nostro disappunto, faremmo tutto quanto è in nostro potere per ristabilire in lui un senso di assoluta sicurezza. “Chi è il solo ad avere una buona ragione per cavarsela mentendo?”, scrisse Friedrich Nietzsche. “Colui che soffre a causa della realtà”.


In tutte queste situazioni, il nostro intervento sarà tanto efficace quanto integro sarà il nostro discernimento. Ma quando l’ambiente del bambino influisce negativamente sul suo comportamento e né il bambino né noi possiamo esercitare un controllo, l’unica cosa sensata è focalizzarci non sul comportamento ma su ciò che lo provoca.


Ma se alteriamo di continuo la situazione del bambino per ridurne la frustrazione o la pressione esercitata dall’ambiente, non rischiamo di indebolire l’adattamento del bambino al suo mondo? Non favoriamo forse una morbosa dipendenza da noi? Proprio così. Nella mia pratica di consulenza familiare, incontro molti genitori sensibili e attenti che interferiscono involontariamente con l’adattamento dei propri figli utilizzando questo metodo fino all’estremo. Non dovrebbe mai essere impiegato a spese di altri metodi di disciplina, come ad esempio suscitare sentimenti di inutilità nei confronti di cose che non possono o non debbono essere cambiate. Non dobbiamo mai far mancare il nostro aiuto nel traghettare il bambino dalla frustrazione alla futilità ogni volta che ciò sia possibile, nel coltivare sentimenti eterogenei o nel sollecitare le buone intenzioni. Se riusciamo a incoraggiare un cambiamento positivo nel bambino, non dovremmo provare a cambiare il mondo che lo circonda.


Torniamo in breve all’argomento delle consuetudini, affrontato nel capitolo precedente. L’uso di consuetudini e routine è formidabile per mettere ordine nell’ambiente del bambino, e così anche nel suo comportamento. Meno egli è ricettivo verso altri metodi di disciplina, più abbiamo bisogno di compensare strutturando la sua vita. Le abitudini creano una prevedibilità, imponendo alcune assuefazioni e rituali necessari. Questa è stata una delle funzioni tradizionali della cultura, ma poiché i costumi e le tradizioni si sono erose, la vita è diventata meno strutturata, e più caotica. In una simile atmosfera, i bambini evolutivamente immaturi impazziscono. I genitori reagiscono diventando più prescrittivi e autoritari. La combinazione è disastrosa.


È necessario creare abitudini per i pasti e il momento di andare a dormire, per le separazioni e i momenti di ricongiunzione, per l’igiene e per mettere le cose al loro posto, per l’interazione familiare e l’intimità, per l’esercizio fisico e i compiti, per il gioco spontaneo e libero, e per la solitudine creativa. Le buone abitudini non attirano l’attenzione su se stesse o sull’organizzazione programmatica che le sottende, e minimizzano la coercizione e il bisogno di comandare. Le buone strutture non sono fatte solo di restrizioni, ma sono creative. Un’abitudine molto importante, ad esempio, è di avere un luogo e un tempo per la lettura ai bambini. Il suo scopo principale è di creare l’opportunità per una vicinanza e un’intimità a tu per tu, e anche per avvicinare il bambino alla buona letteratura senza costrizioni.


Più un bambino è bloccato, più le consuetudini contano. Esse offrono familiarità, qualcosa che i bambini bloccati bramano istintivamente; creano delle buone abitudini e, ciò che è più importante, fanno diminuire il bisogno di comandi e costrizioni da parte degli adulti, prevenendo inutili conflitti.


In questo capitolo, abbiamo evitato metodi che avrebbero spinto i bambini ad allontanarsi da noi. I genitori di una volta possono essersela cavata utilizzandole, ma se lo hanno fatto è stato solo perché non avevano motivo di temere gli attaccamenti competitivi con i quali i genitori di oggi devono confrontarsi. Non esisteva orientamento ai coetanei che attirasse i bambini al di fuori della cerchia familiare. Oggi non abbiamo scelte ragionevoli se non quella di utilizzare una disciplina che preservi il nostro legame con il bambino e ne promuova la maturazione. La maturazione – la soluzione definitiva ai problemi di disciplina – non si raggiunge nello spazio di un giorno, ma la nostra pazienza sarà ben ricompensata. E persino nel breve termine, noi genitori avremo sicuramente molte cose a cui pensare anche senza dover provocare i nostri figli.

I vostri figli hanno bisogno di voi
I vostri figli hanno bisogno di voi
Gabor Maté, Gordon Neufeld
Perché i genitori oggi contano più che mai.La potente riscoperta del valore basilare dell’attaccamento tra genitori e figli. Più l’attaccamento è forte e sano e più i figli crescono sicuri. Il caos culturale dettato dal materialismo imperante e dalle infatuazioni tecnologiche dell’economia globalizzata minaccia la relazione con i propri figli: questi fattori appartenenti al nuovo mondo, infatti, allentano i legami di attaccamento fra i bambini e gli adulti che se ne prendono cura, distruggono il contesto appropriato perché i genitori possano svolgere il loro compito, menomando lo sviluppo umano e, inesorabilmente, erodendo le basi della trasmissione culturale e valoriale.Nel libro I vostri figli hanno bisogno di voi, un medico e uno psicologo uniscono le forze per trattare una delle tendenze più fraintese e allarmanti del nostro tempo: i coetanei (amici, cuginetti, compagni di scuola) che prendono il posto dei genitori nella vita dei figli.Questo fenomeno è definito come “orientamento ai coetanei”: tale termine si riferisce al fatto che, quando i bambini in età scolare e i giovani ragazzi hanno bisogno di un’indicazione, preferiscono rivolgersi ai coetanei anziché far riferimento al padre, alla madre e al rispetto dei valori naturali, al senso di ciò che è giusto o sbagliato, all’identità e ai normali codici di comportamento.Quando i coetanei sostituiscono i genitori, lo sviluppo dei bambini si arresta: non ci sono più sane figure educative di riferimento, l’orientamento ai pari crea una massa di giovani adulti immaturi, conformisti e inquieti, incapaci di integrarsi nella società corrente. Ora, questo continuo orientarsi ai coetanei non può che deteriorare la coesione familiare, impedendo uno sviluppo sano e equilibrato del bambino, avvelenando l’atmosfera scolastica e favorendo la crescita di una cultura giovanile aggressiva, ostile e prematuramente sessualizzata.Dal canto loro, i genitori sono a disagio, frustrati, e si acuisce la sensazione che lo sviluppo dei bambini sia sfuggito alla loro influenza. Perché si possa essere genitori efficaci, è necessario quindi che i bambini sviluppino la giusta relazione con i genitori.I ragazzi non stanno perdendo i genitori perché manca competenza o coinvolgimento, ma per mancanza di un attaccamento primario. La conservazione della cultura si basa proprio sui modelli di questo genere, e la conseguenza principale della loro perdita è la scomparsa del contesto appropriato per una sana crescita. L’attaccamento di un bambino ai genitori crea infatti un grembo psicologico necessario per dare vita alla personalità e all’individualità.Gli autori Gordon Neufeld e Gabor Maté aiutano i genitori, gli insegnanti e gli operatori sociali a comprendere questo fenomeno inquietante, fornendo soluzioni utili per ristabilire la giusta preminenza del legame che unisce i figli ai genitori e restituendo a questi ultimi il potere e la forza di essere una fonte vera di contatto, guida, calore e sicurezza. Un libro non finisce con l’ultima pagina!Questo titolo si arricchisce di contenuti “extra” digitali. Per consultarli è sufficiente utilizzare il QR code in quarta di copertina.