La privazione della vicinanza (o la minaccia della sua perdita) è un sistema molto efficace di controllo del comportamento perché scatena nel bambino la paura peggiore: quella di essere abbandonato. Se il contatto e la vicinanza non fossero tanto importanti per il bambino piccolo e quello più grandicello, la separazione da noi avrebbe un impatto minimo.
Quando spezziamo il contatto o laceriamo il legame (o quando il bambino teme che ciò possa accadere), mettiamo il cervello di attaccamento in uno stato di massima allerta. In tutti i casi, la risposta del bambino verrà da una condizione di ansia, e il modo in cui egli la manifesterà dipenderà dalla sua particolare modalità di attaccamento. Un bambino che è solito preservare il contatto con il genitore comportandosi “bene”, prometterà disperatamente di non trasgredire mai più. Il suo tentativo di riguadagnare la connessione si porterà dietro una scia di “mi dispiace”. Il bambino che alimenta il suo attaccamento attraverso gesti e parole affettuose, se sente che la sua vicinanza al genitore è minacciata dal genitore stesso, non smetterà di dirgli “ti voglio bene”, che è il suo modo particolare di ristabilire una prossimità. Se il contatto fisico è dominante, il bambino potrebbe diventare appiccicoso per qualche ora, non volendo perdere di vista il genitore. Il punto cruciale che un genitore deve comprendere, è che queste manifestazioni non rappresentano una presa di coscienza o un pentimento autentici, ma solo l’ansia del bambino nel tentativo di ristabilire la relazione con il genitore. È ingenuo credere che attraverso questi metodi si possa insegnare a un bambino una lezione o fargli considerare i propri errori.
Giocare la carta della separazione ha un costo molto alto: l’insicurezza. Il bambino disciplinato con il sistema della separazione può contare sul contatto e la vicinanza del genitore solo quando risponde alle aspettative di quest’ultimo. A queste condizioni, il bambino non ha mai tregua, non è mai libero dalla spinta all’attaccamento, perciò non ha spazio da dedicare all’emergere della propria indipendenza e della propria individualità. Il bambino sarà anche molto “bravo”, ma verrà privato dell’energia per emergere, e il suo sviluppo sarà sabotato.
La minaccia della separazione funziona solo perché il bambino è attaccato a noi, brama la nostra vicinanza, e non è ancora emotivamente difeso contro la vulnerabilità. In altre parole, egli è ancora capace di sentire il proprio desiderio ardente di attaccamento e il proprio dolore per la separazione. Se queste condizioni non esistono, la separazione si rivela inefficace come strumento di obbedienza. D’altro canto, ogni “successo” sarà solo temporaneo. Che si tratti di separazione fisica o privazione emotiva, è probabile che la sensibilità del bambino venga sopraffatta. Se noi adulti ci addoloriamo quando veniamo ignorati o trattati con freddezza, quanto più ne soffriranno i bambini? Un genitore che utilizzi il time-out con le migliori intenzioni può avere difficoltà ad accettare questa cosa, ma le conseguenze estreme di questa tecnica di separazione sono molto negative per il bambino che è così sensibile. Egli viene attaccato nel suo punto più vulnerabile – il suo bisogno di restare attaccato al genitore. Presto o tardi sarà costretto a proteggersi contro il dolore che prova a essere ferito in questo modo. Si chiuderà emotivamente, o meglio, sarà il suo cervello di attaccamento a farlo (si veda il capitolo 8 per una discussione sulla chiusura difensiva).
Strumentalizzando la relazione contro il bambino, induciamo il cervello di attaccamento a chiuderci fuori, lasciando aperto un vuoto di connessione. Di fatto, stiamo inducendo il bambino a cercare altrove la soddisfazione ai propri bisogni di attaccamento, e sappiamo già con quali risultati. Utilizzando i time-out e reagendo in modi che spezzano la connessione, stiamo di fatto gettando i nostri figli fra le braccia dei coetanei.
Il cervello del bambino può difendersi dalla vulnerabilità della separazione anche resistendo al contatto con il genitore. Un bambino così potrebbe nascondersi sotto il letto o nel ripostiglio e respingere le offerte di riconciliazione del genitore. O, presagendo guai, potrebbe scappare nella sua stanza e chiedere di essere lasciato solo. In un modo o nell’altro, l’esperienza della separazione farà scattare l’istinto del bambino a staccarsi da noi.
La separazione è dolorosa soprattutto se utilizzata in maniera punitiva per disciplinare l’aggressività. Come ho spiegato nel capitolo 10, ciò che alimenta l’aggressività è la frustrazione; il risultato finale dell’impiego della separazione non è una minore, bensì una maggiore aggressività. Qualunque remissività si ottenga da un bambino aggressivo usando time-out, amore duro, e altre tecniche di separazione, ha vita breve, poiché si fonda solo sulla sua paura momentanea. Una volta ristabilita la prossimità con il genitore, l’aggressività ritorna con forza maggiore, esacerbata dall’ulteriore frustrazione dell’attaccamento appena provocata da noi. I nostri tentativi insensati di stroncare l’aggressività sul nascere non fanno che accrescerla.
Sottoporre un bambino a esperienze di separazione non necessarie, anche se fatto con le migliori intenzioni, è un atteggiamento miope e un errore che la natura non perdona tanto facilmente. È stupido rischiare il nostro potere di domani per un briciolo di influenza in più oggi.
L’alternativa positiva e naturale alla separazione è il legame. Il legame è la fonte del nostro potere e della nostra influenza genitoriale, nonché del desiderio del bambino di essere buono per noi; il legame dovrebbe essere sia il nostro obiettivo a breve termine, sia lo scopo a lungo termine. Il segreto è di essere attenti alla connessione prima che si presenti un problema, invece di imporre la separazione dopo; prevenire i problemi futuri anziché reagire punitivamente dopo che il comportamento del bambino è deragliato.
La pratica di fondo che deriva da questo mutamento nel modo di pensare è ciò che chiamo “prima connetti, poi dirigi”. L’idea è di richiamare a sé i figli – coinvolgendo i loro istinti di attaccamento secondo le linee discusse nel capitolo 14 – per poter offrire una guida e indicare la direzione da seguire. Coltivando il legame, prima di tutto minimizziamo il rischio di resistenza e diminuiamo le occasioni di provocare le nostre stesse reazioni negative. Che si tratti di un bambino molto piccolo che non vuole cooperare, o di un adolescente recalcitrante, è necessario che il genitore lo porti vicino a sé, ristabilendo la vicinanza emotiva prima di aspettarsi ubbidienza.
Un solo esempio illustrerà questo semplice principio. Tyler, di undici anni, era nella piscina del suo giardino con la sorella e qualche amico. Si divertivano, finché Tyler non fu trascinato da un impulso e iniziò a picchiare i suoi amici con una fettuccia di plastica. La madre gli disse di smetterla, ma niente. Il padre si arrabbiò, lo sgridò per aver disobbedito alla madre, e gli ordinò di uscire dalla piscina. Lui si rifiutò di obbedire. Il padre alla fine saltò dentro, lo trascinò fuori e, pensando di dargli una lezione, lo spedì in camera sua a riflettere su ciò che aveva fatto. I genitori mi spiegarono che il comportamento di Tyler era assolutamente intollerabile e non doveva ripresentarsi mai più. Mi avevano comunque sentito parlare dei rischi legati all’utilizzo della separazione per rimettere in riga i figli e volevano sapere cosa avrebbero dovuto fare di diverso.
Una volta che la situazione si era dipanata in quel modo, i genitori avrebbero probabilmente avuto bisogno di prendersi una pausa prima di procedere. Quando la situazione è difficile, è meglio aumentare la vicinanza anziché diminuirla. Il genitore deve avere la volontà di connettersi prima di formulare una qualunque richiesta precisa al bambino. Quando la volontà di connettersi riemerge nel genitore, il primo passo è di ristabilire il legame. Fare una passeggiata insieme, andarsi a fare un giro in bici, giocare a palla – la connessione umana deve essere intatta prima di comunicare le nostre argomentazioni. In questo caso ciò che aveva portato il genitore a cominciare con il piede sbagliato era proprio ciò che mancava all’inizio dell’interazione. Tyler era completamente preso da quello che stava facendo. In questa disposizione mentale, non si stava orientando attraverso i genitori, né era sintonizzato sul desiderio di seguire i loro richiami. In simili circostanze riconnettersi con il bambino è imperativo prima di procedere. Un tentativo di connessione avrebbe potuto svolgersi così: “Tyler, ti stai proprio divertendo eh?”. In questo modo, è probabile che avremmo avuto in risposta un cenno di assenso e un sorriso. Una volta catturati gli occhi, il sorriso, e il cenno della testa, la mossa seguente è di condurre il figlio accanto a sé: “Tyler, ho bisogno di parlarti un minuto in privato, vieni da me”. Dopo aver richiamato a sé il figlio, il genitore si troverà in una posizione di potere e influenza. Potrebbe, a quel punto, offrirsi come guida per riportare la calma e far rispettare il divertimento di tutti. Oltre a ciò si sarebbe evitato il logorarsi dell’attaccamento di Tyler, un aspetto che desta, dal punto di vista evolutivo, molte più preoccupazioni che non il fatto di impartirgli una lezione. Invece di usare la separazione in coda agli eventi, i genitori di Tyler avrebbero dovuto avvalersi del legame al principio della storia.
Non è una danza complicata; di fatto, è sorprendentemente semplice. Il trucco è nel piccolo passo di attaccamento all’inizio. Il principio del prima connetti, poi dirigi, si applica a quasi tutto, che ci si informi sui compiti, che si chieda aiuto per apparecchiare la tavola, che si rammenti al bambino che deve appendere i vestiti, che gli si ricordi che è ora di spegnere la televisione, o che si discuta dell’interazione fra fratelli. Se la relazione di fondo è buona, si tratta di un processo che non richiede più di qualche secondo. Se l’attaccamento è debole o sulla difensiva, il tentativo di richiamare a noi il bambino ce lo rivelerà. È molto difficile mettere ordine nel comportamento di un figlio quando vi è un disordine sottostante relativo all’attaccamento. Non riuscire a richiamare un figlio dovrebbe essere un monito a mettere da parte la preoccupazione sulla condotta e a concentrare i nostri sforzi e la nostra attenzione sulla costruzione della relazione.
Quando per la prima volta utilizziamo questa pratica del prima connetti, poi dirigi, potrebbe sembrarci un po’ imbarazzante e artificiosa, ma appena diventa un’abitudine dovrebbe significativamente diminuire il logoramento della relazione. I genitori che la padroneggiano sollecitano spesso il sorriso e un cenno del capo prima di avanzare le loro richieste o chiedere di essere obbediti. I risultati possono essere sbalorditivi.