quarta parte

Come tenersi stretti i propri figli (o come riprenderseli)

capitolo xiv

La danza del richiamo

Finora, in questo libro, abbiamo mostrato come la nostra società abbia perduto il contatto con i suoi istinti di cura della prole. I nostri figli creano legami gli uni con gli altri – con creature immature che non potranno mai condurli verso la maturità. Guardiamo adesso alle soluzioni. Come possiamo riappropriarci del ruolo assegnatoci dalla natura come mèntori e custodi dei nostri piccoli, modelli e guide alle quali essi si rivolgeranno per farsi condurre?


Nel primo capitolo, ho affermato che per essere genitori efficaci è necessaria l’esistenza di un contesto, ossia di una relazione di attaccamento. Sia in quanto cultura, sia come individui, abbiamo consentito involontariamente che l’orientamento ai coetanei erodesse tale contesto. È venuto il momento di ripristinarlo. In cima alle nostre preoccupazioni dobbiamo mettere il compito di richiamare a noi i nostri figli – ricondurli sotto la nostra ala protettrice, facendo in modo che desiderino stare con noi e appartenerci. Non possiamo più dare per scontato, come avveniva in passato, che un forte legame iniziale fra noi e i nostri bambini duri fino a che ne avremo bisogno. Per quanto possa essere grande il nostro amore e ottime le nostre intenzioni di essere dei bravi genitori, date le circostanze attuali abbiamo un margine di errore minore rispetto a quanto i genitori hanno mai avuto in passato. Dobbiamo far fronte a una competizione troppo forte. Per compensare il caos culturale dei nostri giorni, è necessario che tutti i giorni, e ripetutamente, i nostri figli sentano il nostro richiamo. Dovrà diventare un’abitudine, finché non saranno abbastanza grandi da funzionare come esseri indipendenti. La buona notizia è che la natura – la nostra natura – ci dirà come fare.


Come le api e gli uccelli, e molte altre creature, noi esseri umani utilizziamo dei comportamenti istintivi per suscitare risposte di attaccamento reciproche. Possediamo anche una speciale danza di corteggiamento il cui scopo è di attirare altre persone e formare dei legami con loro. Senza dubbio, la funzione più essenziale di questa danza, al pari con la procreazione, è il richiamo dei piccoli. Quando gli adulti si trovano attorno dei bambini, anche se non sono i loro, questi istinti di corteggiamento si ravvivano quasi automaticamente – i sorrisi, i cenni del capo, gli occhi sgranati, il tubare dei suoni. Mi piace chiamare questo tipo di comportamento istintivo la danza di attaccamento, o danza del richiamo.


Si penserà che se la danza di attaccamento fa parte della nostra natura, non dovremmo avere problemi a lanciare un richiamo ai nostri figli ogni volta che ne abbiamo bisogno. Per disgrazia, non funziona così. Sebbene i vari passi siano innati in ognuno di noi, non li compiremo se avremo perduto il contatto con la nostra intuizione. Per molti adulti, gli istinti di richiamo dei figli non scattano più quando i bambini superano la prima infanzia – e specialmente se si tratta di bambini che, diversamente dai teneri e graziosi neonati, potrebbero aver smesso di tentare attivamente di creare un attaccamento con noi. Se dobbiamo radunare i figli sotto la nostra ala nel mezzo delle molteplici distrazioni e seduzioni della cultura odierna, ecco che sarà necessario risvegliare alla coscienza i nostri istinti di richiamo. Dobbiamo concentraci su di essi con consapevolezza. Utilizzarli intenzionalmente come genitori e insegnanti, in modo risoluto, proprio come se dovessimo far uso di tutte le nostre attrattive per corteggiare un altro adulto desiderabile con il quale volessimo iniziare una relazione amorosa.


Quando osservo gli adulti interagire con i bambini molto piccoli, noto che la danza di attaccamento segue quattro fasi distinte. Esse si succedono in un ordine specifico, dando vita a un modello di base, che è valido per tutte le forme di corteggiamento umano. Le quattro fasi ci forniscono la sequenza di cui abbiamo bisogno per richiamare i nostri figli, da quando sono piccolissimi fino all’adolescenza e oltre.

Entrare nello spazio visivo del bambino con atteggiamento amichevole

L’obiettivo di questo primo passo è catturare lo sguardo del bambino, provocare un sorriso e, se possibile, anche un cenno della testa. Con i più piccoli, di solito, le nostre intenzioni sono sfacciatamente evidenti – arriviamo alle contorsioni per ottenere l’effetto desiderato. Quando i bambini si fanno più grandi, le nostre intenzioni dovrebbero essere meno ovvie, per non rischiare che si allontanino. Molti di noi, ad esempio, si sentono infastiditi da quei commessi che si spingono troppo oltre con i modi accattivanti e assumono con facilità una familiarità eccessiva con il potenziale cliente.


Con i piccolissimi, questo corteggiamento spesso è fine a se stesso, intrinsecamente appagante per il genitore quando ha successo e assolutamente frustrante in caso contrario. Dietro non vi è alcun proposito, non vogliamo che il piccolo “faccia” nulla. Il consolidamento della relazione è un obiettivo di per sé, e dovrebbe essere così per tutta l’infanzia. Con l’enfasi odierna sulle strategie genitoriali, spesso ci concentriamo su cosa fare anziché su dove arrivare. Il punto di partenza, e l’obiettivo principale di tutti i nostri contatti con il bambino, dovrebbe essere la relazione di per sé, non la condotta o il comportamento.

Più il bambino cresce, più è probabile che ci si ponga di fronte a lui solo quando c’è qualcosa che non va. È una tendenza che compare già quando il bambino inizia ad essere attivo e a muoversi in modo autonomo, nel momento in cui il genitore deve proteggerlo sempre più dal pericolo. Secondo uno studio, appena all’inizio di questa fase di esplorazione mobile e incessante, il 90 per cento del comportamento materno consiste nell’affetto, nel gioco, e nell’accudimento, con solo il 5 per cento rivolto a proibire al piccolo l’attività in corso. Nei mesi che seguono, vi è un mutamento radicale. L’accresciuta curiosità e l’impulsività del piccolo lo mettono in situazioni in cui il genitore deve ricorrere sovente alla sua influenza inibitrice. Tra gli undici e i diciassette mesi, il bambino medio sperimenta una proibizione ogni nove minuti52.

Lo scopo di questi incontri non è quello di offrire un richiamo emotivo al bambino, bensì di correggerlo o indirizzarlo. Più o meno attorno a quest’epoca, o anche un po’ più tardi, mettiamo a riposo i nostri istinti di richiamo. Allo stesso modo il corteggiamento fra adulti spesso sparisce una volta che la relazione si è cementata. Iniziamo a dare per scontata la nostra relazione. Se nell’attaccamento fra adulti può essere un’omissione sbagliata e fuori luogo, essa è assolutamente disastrosa nel caso dei bambini. Per quanto sia necessario tutelare l’incolumità e il benessere dei nostri figli, dobbiamo continuare a incontrare il loro sguardo con modi affettuosi e invitanti; questo consente di rendere attraente il proseguimento della relazione con noi.


Quando i bambini crescono o iniziano a resistere al contatto, le sfide cambiano, e anziché metterci direttamente di fronte a lui, baderemo a entrare nel suo spazio in modo amichevole. Sebbene il compito sia più difficile, dobbiamo sempre concentrarci sull’obiettivo del richiamo. “È vero”, ammise David, padre di una ragazza di quattordici anni: “quando osservo il modo in cui parlo con mia figlia, la maggior parte del tempo è perché voglio che faccia qualcosa, o per insegnarle qualcosa, o per tentare comunque di modificare il suo comportamento. Quasi mai è per stare semplicemente insieme a lei e godere della sua compagnia”.


La danza del richiamo non può evolversi se inseguiamo solo obiettivi comportamentali a breve scadenza. Ma spostando la concentrazione sul lungo periodo, e considerando come obiettivo una relazione di cura e accudimento, dovremmo scoprire nel nostro intimo quali sono i passi che ci condurranno fin lì. Possiamo farci coraggio pensando che abbiamo dalla nostra parte gli istinti e le intuizioni, anche se sono rimasti dormienti per un po’. Concedetevi di sperimentare ed esplorare; si tratta di procedere per tentativi ed errori, non esistono ricette o comportamenti prestabiliti. Con ogni bambino emergerà una danza diversa.


È importante soprattutto riportarli sotto la nostra ala dopo ogni separazione. I rituali di attaccamento, alimentati da questo istinto di richiamo, esistono in molte culture. Il più comune è il saluto, prerequisito di ogni interazione soddisfacente. Se pienamente onorato, un saluto dovrebbe sempre catturare gli occhi e suscitare un sorriso e un cenno del capo. Ignorare questo primo passo è un grave errore. In alcune culture, come in Provenza e in alcuni Paesi latini, salutare i bambini è ancora un’abitudine imprescindibile. Nella nostra società spesso non salutiamo più neppure i nostri figli, figuriamoci quelli degli altri. Se i bambini perdono l’iniziativa di ristabilire un contatto con noi dopo un periodo di separazione, potrebbe sembrarci meno necessario trovare un modo per farlo noi. Niente potrebbe essere più lontano dalla verità. Dobbiamo compensare con il nostro entusiasmo e la nostra iniziativa.


Le separazioni più ovvie sono quelle causate dalla scuola e dal lavoro, ma anche molte altre esperienze possono essere motivo di separazione, per esempio quando il bambino viene assorbito dalla televisione, dal gioco, dalla lettura o dai compiti. La prima interazione dovrebbe essere finalizzata a ristabilire il legame. Se prima non riusciamo a richiamare a noi il bambino, il resto non andrà come si deve. È inutile e frustrante, per esempio, dargli delle direttive quando è completamente concentrato sulla televisione. In un momento del genere, prima di chiamarlo per la cena, sarà meglio sedere accanto a lui e, posandogli una mano sulla spalla, coinvolgerlo nell’interazione. È necessario includere anche il contatto visivo. “Ciao. Bel programma? Sembra interessante. Peccato però che è ora di cena”.


È importante ristabilire un contatto anche dopo la separazione causata dal sonno. La mattina potrebbe essere molto diversa in tante famiglie se i genitori non insistessero nell’esercitare il loro ruolo prima di aver richiamato a sé i figli in modo appropriato. Una delle nostre abitudini più fruttuose quando i nostri due maschi erano piccoli, fu di creare quello che chiamavamo il riscaldamento mattutino. Scegliemmo due comode sedie, che divennero le sedie del riscaldamento. Subito dopo il risveglio, io e mia moglie Joy li tenevamo in braccio, li stringevamo, giocavamo e scherzavamo con loro finché gli occhi non si incontravano, i sorrisi erano pronti e i cenni del capo si attivavano. Dopo questo, tutto filava molto più liscio. Valeva bene l’investimento di alzarsi dieci minuti prima per poter effettuare questo rituale di richiamo, anziché partire subito in quarta. I bambini sono fatti per partire in prima, non importa quanto siano grandi o maturi.


In breve, è necessario creare dei rituali di richiamo da utilizzare nel corso della giornata. Inoltre è importante soprattutto riconnettersi con i bambini dopo ogni genere di separazione emotiva. Il senso di connessione può essere infranto, per esempio, dopo un conflitto o una discussione, a causa di freddezza, incomprensioni o rabbia. Il giusto contesto per fare i genitori è perduto fino a quando non ricostruiamo quello che lo psicologo Gershon Kaufman ha definito il “ponte interpersonale”. E ricostruire questo ponte è sempre responsabilità del genitore, non possiamo aspettarci che sia il bambino a farlo – non è abbastanza maturo per comprenderne la necessità.


Per gli insegnanti, o altri adulti che si occupino di bambini non loro, il rituale di richiamo è sempre la prima cosa a cui pensare. Se si tenta di accudirli o di dar loro istruzioni senza prima averli richiamati a sé, si andrà contro il loro naturale istinto di opporre resistenza alle richieste e alle istruzioni degli estranei.


È senza dubbio questo atto di richiamo che pone l’insegnante davvero bravo al di sopra di tutti gli altri. Non dimenticherò mai l’esperienza che ebbi con la mia primissima insegnante, la signora Ackerberg. Dopo che mia madre mi ebbe lasciato sulla soglia della classe, e prima che avessi il tempo di essere distratto da qualche altro bambino, questa meravigliosa donna sorridente attraversò rapida e leggera la stanza e venne verso di me, coinvolgendomi nel più amichevole dei modi, chiamandomi per nome, dicendomi quanto fosse felice che io mi trovassi nella sua classe, e assicurandomi che avremmo trascorso insieme un anno meraviglioso. Sono certo che le ci volle davvero poco per esercitare il suo richiamo su di me. Dopo questo, fui completamente suo e alquanto immune da altri attaccamenti. Non ne avevo bisogno, ero già preso. Nessun insegnante mi richiamò più a sé fino alla quinta elementare e, almeno nel contesto della mia istruzione, quegli anni furono segnati dalla desolazione.

Offrire al bambino qualcosa a cui tenersi stretto

Il principio dietro al prossimo passo è semplice: dare al bambino qualcosa a cui possa attaccarsi, al fine di coinvolgere i suoi istinti di attaccamento. Con i neonati, questo implica spesso mettere un dito nel palmo della mano. Se il cervello di attaccamento del bambino è ricettivo, afferrerà il dito, altrimenti tirerà via la mano. Non si tratta di un riflesso muscolare involontario, come quello indotto dai colpetti sotto al ginocchio, bensì di un riflesso di attaccamento, uno dei molti presenti dalla nascita, e che rendono possibili alcune attività come nutrire e coccolare il piccolo. Indica che gli istinti di attaccamento si sono attivati e il bambino ora è pronto per farsi accudire.


Né l’adulto, né il bambino si rendono conto o apprezzano ciò che sta avvenendo. Questo semplice gesto di afferrare il dito è un’interazione completamente inconscia, il cui obiettivo è quello di innescare gli istinti di attaccamento, e far sì che il bambino si tenga stretto. In questo caso il bambino si aggrappa fisicamente, ma il proposito di fondo è quello di stabilire una connessione emotiva. Mettendo il dito nel palmo della mano, invitiamo il bambino a legarsi a noi. Iniziamo così la nostra danza attraverso un invito.


Man mano che i bambini crescono, l’obiettivo della danza non sarà più quello di una stretta fisica, bensì di un aggrapparsi simbolico. Dobbiamo offrire ai bambini qualcosa da stringere, qualcosa a cui tengano, qualcosa che gli stia tanto a cuore da non volerla lasciar andare. Dev’essere qualcosa che proviene da noi, una cosa nostra che possiamo donare e, qualsiasi cosa sia, la chiave è che tenendola stretta, si terranno stretti a noi.


L’attenzione e l’interesse sono formidabili nel suscitare la connessione, e i segni di affetto sono straordinari in questo. I ricercatori hanno identificato il calore, la gioia e il piacere ai primi posti come efficaci attivatori dell’attaccamento. Se ci avviciniamo con una luce negli occhi e il calore nella voce, per la maggior parte dei bambini sarà un invito al contatto che non potranno declinare. Quando diamo ai bambini il segnale di quanto siano importanti per noi, molti vorranno aggrapparsi alla consapevolezza di essere speciali e apprezzati.


Per i propri figli, in particolare, la componente fisica è determinante. Strette e abbracci sono stati creati apposta per permettere ai bambini di restare aggrappati a noi, e possono continuare a scaldare anche molto tempo dopo che l’abbraccio è terminato. Non sorprende che molti adulti in terapia sentano ancora il dolore dovuto al poco calore fisico ricevuto dai genitori durante l’infanzia.


Mi viene chiesto spesso dagli insegnanti come possono coltivare un legame al giorno d’oggi, dove il contatto fisico è un tema tanto controverso. Il tatto è solo un dei cinque sensi e i sensi sono solo una delle sei modalità di connessione (si veda il capitolo 2). Sebbene il tatto sia importante, dobbiamo tenere a mente che non è certo il solo modo in cui stabilire una connessione con i bambini.


Per i bambini che sono emotivamente difesi contro la possibilità di connettersi attraverso una delle modalità più vulnerabili, ci si può concentrare su offerte di minor vulnerabilità – come creare un senso di somiglianza con il giovane o dimostrare lealtà mettendosi dalla sua parte. Nel mio lavoro con i giovani fuorilegge, iniziavo quasi sempre così. A volte era qualcosa di semplice come notare che entrambi avevamo gli occhi azzurri o che condividevamo uno stesso interesse e avevamo qualcosa in comune. Sopratutto, è l’adulto che deve dare qualcosa prima che il giovane vi si possa aggrappare.


Il dono più grande è di far sentire il bambino accolto e invitato ad esistere accanto a noi proprio così com’è, esprimendo la nostra gioia per il suo vero essere. Ci sono mille modi per comunicare un simile invito: con i gesti, con le parole, simbolicamente o attraverso le azioni. Il bambino deve sapere di essere voluto, deve sentire quanto è speciale, prezioso, apprezzato, quanto si senta la sua mancanza e si goda della sua presenza. Affinché il bambino possa pienamente far suo questo invito – crederci e potercisi aggrappare anche quando si è lontani fisicamente – è necessario che esso sia genuino e incondizionato. Nel capitolo 17, quando parleremo della disciplina efficace, vedremo quanto è dannoso utilizzare la separazione dal genitore in modo punitivo contro il bambino. Cimentarsi in questa tecnica, molto consigliata ma anche estremamente dannosa, significa, di fatto, invitare il bambino ad esistere accanto a noi solo quando è all’altezza delle nostre aspettative e dei nostri valori. In altre parole, significa che la nostra relazione con lui è condizionata. La nostra sfida di genitori è di offrire un invito che sia troppo desiderabile e importante per il bambino perché possa rifiutarlo, un’accettazione amorevole che nessun coetaneo possa mai offrire. Nel tenersi stretto al nostro dono di amore incondizionato, il bambino si terrà stretto a noi emotivamente – proprio come il neonato stringeva col pugno il dito del genitore.


Perché il legame possa funzionare, il bambino deve percepire che la nostra offerta è spontanea. Potrebbe sembrare contrario al buon senso – e spiegherò brevemente le mie ragioni – ma non possiamo richiamare a noi un bambino dandogli ciò che egli si aspetta, come nel caso di un rituale o di un regalo di compleanno, o di una ricompensa per aver eseguito un qualche compito. Possiamo esagerare e fare tutta la scena che vogliamo, ma ciò che viene donato in tali circostanze sarà associato alla situazione o all’evento, non alla relazione stessa. Sono doni che non soddisfano mai. Un bambino può apprezzare i regali attesi, siano essi materiali o emotivi, ma i suoi bisogni di attaccamento non verranno saziati da essi.


Non possiamo coltivare la connessione indulgendo alle richieste del bambino, né di attenzione, né di affetto, né di riconoscimento o di importanza. Sebbene si rischi di danneggiare la relazione negandosi a lui quando esprime un bisogno genuino, andare incontro ai bisogni su richiesta non deve essere confuso con l’arricchimento della relazione. Nel richiamare a sé un bambino, l’elemento della sorpresa e dell’iniziativa è cruciale. Fornire qualcosa a cui aggrapparsi riesce al meglio se avviene quando uno meno se lo aspetta. Se ciò che abbiamo da offrire può essere guadagnato, o è visto come una sorta di ricompensa, non servirà a nutrire e accrescere il legame. Le nostre offerte di connessione devono fluire attraverso l’invito di fondo che stiamo estendendo al bambino. Questo passo della danza non è in risposta al bambino; è invece l’atto di concepimento della relazione, continuamente rinnovato. È un invito a danzare la madre di tutte le danze: la danza dell’attaccamento. Di nuovo, si tratta di comunicare una gioia spontanea di fronte al vero essere del bambino – non quando lui chiede qualcosa, ma proprio quando non lo fa. Esprimiamo il nostro piacere nei confronti della sua esistenza attraverso i gesti, i sorrisi, il tono della voce, un abbraccio, un riso divertito, suggerendo un’attività da fare insieme, o semplicemente con un lampo di luce nei nostri occhi.


Un convincimento assai diffuso, a tale proposito, è che cedere alle richieste del bambino significhi “viziarlo”. È un timore che non contiene più di un briciolo di verità. Alcuni genitori compensano l’attenzione, la sintonia, la connessione e il contatto che non offrono ai propri figli facendo concessioni indiscriminate alle loro richieste. Quando viziamo o roviniamo qualcosa, è perché le neghiamo le condizioni di cui ha bisogno. Ad esempio, roviniamo la carne se la lasciamo fuori dal frigorifero. Viziare davvero un bambino non significa indulgere alle sue richieste o offrirgli dei regali, bensì ignorare i suoi veri bisogni. Alla nipote del mio coautore, neomamma, fu detto da un’ostetrica dell’ospedale di non tenere tanto in braccio il suo bambino per non viziarlo. Al contrario, il vizio consiste nel negare al neonato il contatto e la vicinanza di cui ha bisogno. Saggiamente, la mamma ignorò il consiglio “dell’esperto”. Un neonato e un bambino a cui venga garantito un generoso contatto con i genitori, non sarà indotto a richieste eccessive quando diventerà più grande.


È vero che un bambino molto insicuro può richiedere tempo e attenzione, tanto da logorare e far desiderare al genitore un po’ di tregua e di respiro. Il punto è che l’attenzione offerta seguendo le richieste del bambino non è mai soddisfacente: lascia nell’incertezza che il genitore stia solo rispondendo a una richiesta, anziché offrendo per libera scelta qualcosa di sé al figlio.


In questo modo le richieste non fanno che aumentare, senza che il bisogno emotivo sottostante sia mai appagato. La soluzione è quella di cogliere il momento giusto, e invitare al contatto proprio quando il bambino non lo sta chiedendo. O, nel caso in cui si risponda a una sua richiesta, il genitore può prendere l’iniziativa ed esprimere maggior desiderio ed entusiasmo di quello anticipato dal bambino stesso: “Oh, ma è un’idea meravigliosa! Stavo giusto pensando a come passare un po’ di tempo insieme! È bello che tu ci abbia pensato!” Lo prendiamo di sorpresa, facendolo sentire come se fosse lui a ricevere l’invito.


Né si può richiamare a sé un bambino, o offrirgli qualcosa a cui aggrapparsi, sommergendolo di elogi e approvazione. La lode riguarda in generale qualcosa che il bambino ha fatto e, come tale, non è né un dono né è spontanea. La lode trae origine non dall’adulto, bensì dai conseguimenti del bambino. Egli non può aggrapparsi alla lode, perché questa può essere cancellata ad ogni insuccesso. E anche se potesse tenersela stretta, non sarebbe un legame con colui che l’ha espressa, ma con il conseguimento che l’ha prodotta. Non meraviglia che la lode sia controproducente in alcuni bambini, dando luogo a un comportamento che è il contrario di ciò che è stato lodato, o causando l’allontanamento dalla relazione per il timore di non essere all’altezza.


Stiamo dicendo che i bambini non dovrebbero mai essere lodati? Al contrario, offrire agli altri il proprio riconoscimento per qualcosa di speciale che hanno fatto o per l’energia e gli sforzi che hanno profuso nel far sì che qualcosa si realizzasse, è utile, esprime la propria partecipazione emotiva, ed è una buona cosa per la relazione – qualunque relazione. Stiamo invece dicendo che non bisognerebbe mai abusare della lode, stando bene attenti a non far dipendere la motivazione del bambino dall’ammirazione o dalla buona opinione altrui. L’immagine che il bambino ha di sé non dovrebbe riposare sulla capacità o incapacità di suscitare la nostra approvazione attraverso conseguimenti o comportamenti compiacenti. Il vero fondamento dell’autostima nel bambino è il senso di accettazione, amore e gioia che il genitore prova per lui esattamente così com’è.

Invitare alla dipendenza

Se il bambino piccolo è abbastanza grande, lo inviteremo alla dipendenza aprendo le braccia come per prenderlo, e poi attendendo una risposta prima di procedere. Se i suoi istinti di attaccamento sono sufficientemente coinvolti, egli risponderà alzando le braccia e manifestando così il proprio desiderio di vicinanza e il suo essere pronto a dipendere. I ruoli reciproci del genitore e del bambino in questa coreografia di attaccamento sono intuitivi.


Invitare alla dipendenza il bambino piccolo, in effetti, è come dire: “Vieni, lasciati portare. Io sarò le tue gambe, puoi affidarti a me, ti terrò al sicuro”. Invitare un bambino più grande a dipendere da noi significa comunicargli che può fidarsi, contare su di noi, appoggiarsi a noi e essere accudito. Può venire da noi per essere assistito e aspettarsi il nostro aiuto. Gli stiamo dicendo che siamo lì per lui e che va bene aver bisogno di noi. Ma procedere senza prima aver conquistato la fiducia del bambino significa andare a caccia di guai. Questo è vero per il genitore quanto per l’operatore dell’asilo nido, la babysitter, l’insegnante, il genitore acquisito o affidatario, o il terapeuta.


E qui la nostra preoccupazione occidentale per l’indipendenza ci intralcia. Non abbiamo problemi a invitare alla dipendenza i bambini molto piccoli, ma passata la prima infanzia, l’indipendenza diventa la nostra principale preoccupazione. Che si tratti di vestirsi da soli, mangiare da soli, calmarsi da soli, intrattenersi da soli, pensare a se stessi o risolvere i propri problemi, la storia è sempre la stessa: siamo i sostenitori dell’indipendenza, o almeno di ciò che crediamo sia indipendenza. Temiamo che invitare alla dipendenza voglia dire regressione anziché sviluppo, che se le offriamo un dito, essa si prenderà tutto il braccio. Ma ciò che incoraggiamo in effetti con il nostro atteggiamento non è vera indipendenza, è solo indipendenza da noi. La dipendenza sarà trasferita al gruppo dei coetanei.


In migliaia di piccoli modi, spingiamo e tiriamo i nostri figli affinché crescano, mettendogli addosso una gran fretta anziché invitandoli al riposo. Li spingiamo via da noi invece di avvicinarli. Fra adulti non potremmo mai corteggiarci se ci opponessimo alla dipendenza. Potete immaginare l’effetto di un corteggiamento se il messaggio fosse: “non aspettarti da me alcun aiuto in tutto quello che ritengo tu sappia o debba fare da solo”? Dubito che la relazione riuscirebbe mai a cementarsi. Durante il corteggiamento non facciamo altro che inviare messaggi del tipo “Ecco, fatti dare una mano”, “Ti aiuto io!”, “È un piacere per me!”, “I tuoi problemi sono i miei problemi”. Se possiamo farlo fra adulti, non dovremmo poter invitare alla dipendenza anche i bambini, che hanno veramente bisogno di qualcuno a cui appoggiarsi?


Forse ci sentiamo liberi di invitare alla dipendenza gli adulti perché non siamo responsabili della loro crescita e della loro maturità. Non dobbiamo sostenere il fardello di renderli indipendenti. Ecco il nocciolo del problema: ci assumiamo troppa responsabilità per la maturazione dei nostri figli. Abbiamo dimenticato che non siamo soli: la natura è nostra alleata. L’indipendenza è un frutto della maturazione; il nostro compito nel crescere i figli è quello di stare attenti ai loro bisogni di dipendenza. Quando svolgiamo il nostro ruolo e appaghiamo i veri bisogni di dipendenza, la natura è libera di fare il suo lavoro e promuovere la maturità. Allo stesso modo, non siamo noi a dover far diventare più alti i nostri figli, dobbiamo solo pensare a dar loro da mangiare. Se dimentichiamo che la crescita, lo sviluppo e la maturazione sono processi naturali, perdiamo di vista la prospettiva. Iniziamo a temere che i nostri figli restino bloccati e non crescano mai. Forse pensiamo che senza spingere un pochino non lasceranno mai il nido. Gli esseri umani non sono come gli uccelli: più i bambini si sentono spinti, più la loro presa si rinsalda; oppure, se non ci riescono, fanno il nido con qualcun altro.


La vita ha le sue stagioni. Non possiamo arrivare alla primavera opponendoci all’inverno; durante l’inverno le piante sono dormienti – sbocceranno a primavera. Non possiamo giungere all’indipendenza se resistiamo alla dipendenza. Solo quando i bisogni di dipendenza saranno soddisfatti potrà avere inizio la ricerca della vera indipendenza. Resistendo alla dipendenza, ostacoliamo il movimento verso l’indipendenza e ritardiamo la sua realizzazione. Sembriamo aver perso il contatto con i princìpi più fondamentali della crescita. Se tentassimo di far maturare le piante tirandole, rischieremmo di rovinare le loro radici e la loro fecondità. Spezzare le radici di attaccamento del bambino non fa che indurlo a trapiantarsi in altre relazioni. Il nostro rifiuto di invitare i bambini a dipendere da noi li getta nelle braccia gli uni degli altri.


Spingerli a gestire una separazione prima che siano pronti, che sia per uscire di casa o andare a letto da soli, all’inizio vuol dire evocare il panico e una stretta a noi maggiore, non minore. Coloro che non riescono a tenere il genitore accanto a sé potrebbero rimpiazzarlo con un sostituto. Questo trasferimento di dipendenza è spesso confuso con la vera indipendenza. Incoraggiando questa falsa indipendenza – o indipendenza che i nostri figli non sono ancora abbastanza maturi da poter gestire – non facciamo che favorire e incoraggiare l’orientamento ai coetanei.


Anche gli insegnanti dovrebbero invitare alla dipendenza. Di fatto, sono proprio quegli insegnanti che incoraggiano i propri studenti a dipendere da loro che hanno più probabilità alla fine di favorire una reale indipendenza. Un bravo insegnante, anziché spingere gli alunni all’indipendenza, li colmerà di generose offerte di assistenza. Un bravo insegnante vuole che i suoi studenti pensino con la propria testa, ma sa che non riusciranno a farlo se oppone resistenza alla loro dipendenza, o se li rimprovera per la loro mancanza di maturità. Gli studenti sono liberi di appoggiarsi al maestro senza alcun senso di vergogna per il proprio bisogno.


Non esistono scorciatoie per la vera indipendenza. Il solo modo di arrivarci è attraverso la dipendenza. Se riposeremo sulla fiducia che condurre i bambini fin dove saranno creature pienamente vitali come esseri a se stanti non dipende solo da noi – bensì è il compito della natura – saremo liberi di procedere con la nostra parte di lavoro, che è appunto quella di invitarli alla dipendenza.

Agire come bussola di riferimento

Un quarto modo di coinvolgere gli istinti di attaccamento è quello di orientare il bambino. Questa parte della danza inizia quando è ancora nelle nostre braccia. Poiché i bambini dipendono da noi per trovare l’orientamento, dobbiamo comportarci da bussole e fare da guida. Noi adulti assumiamo questa funzione in modo automatico, senza neppure esserne consci. Indichiamo questo e quello, diamo i nomi a ogni cosa, e aiutiamo il bambino a familiarizzare con il suo ambiente.


A scuola, a questo punto della danza, l’insegnante intuitivo procederà a orientare il bambino su dove si trova, chi è chi, cosa è cosa, e quando questo o quello staranno per succedere: “Qui è dove metterai il cappotto”, “Lei si chiama Diana”, “Più tardi vi mostrerò e vi parlerò di alcune cose, adesso potete dare un’occhiata a questi libri”.


Le variazioni su questo tema del richiamo sono miriadi e determinate dal contesto e dai bisogni del bambino. Mentre siamo ampiamente intuitivi con i più giovani, con i bambini più grandi molti di noi perdono l’istinto a orientare. Non ci preoccupiamo più di presentarli a coloro che li circondano, di farli familiarizzare con il mondo attorno a loro, di informarli su cosa sta per accadere, e di interpretare il significato delle cose. In breve, non ci comportiamo da guide con coloro che ancora dovrebbero dipendere da noi.


I bambini sono naturalmente inclini a tenersi vicini alla propria bussola di riferimento. Se comprendessimo davvero la potenza di questa funzione nella vita dei nostri figli, sapremmo che è un ruolo troppo rilevante per lasciarlo in mano ad altri.


Per intuito, tutti noi sperimentiamo il potere dell’orientamento come base per l’attaccamento. Immaginate di essere in una città straniera, sperduti e confusi, separati dai vostri effetti personali, incapaci di parlare o comprendere la lingua, e con un senso di scoramento e impotenza nei confronti della situazione in cui vi trovate. Immaginate qualcuno che si avvicini e vi offra il suo aiuto nella vostra lingua. Dopo che vi abbia aiutati a orientarvi sulle persone da contattare e i luoghi in cui andare, ogni istinto dentro di voi sarebbe sollecitato a mantenere il contatto con la vostra guida. Quando si voltasse per andarsene, cerchereste senz’altro di prolungare la conversazione, di arrampicarvi sugli specchi pur di restarle accanto. Se questo è vero per gli adulti, tanto più lo sarà per creature di attaccamento immature che dipendono del tutto dagli altri per trovare il proprio orientamento.


Parte del problema legato alla perdita di contatto con questo istinto a orientare è che non ci sentiamo più degli esperti nel mondo dove si trovano i nostri figli. Le cose sono cambiate troppo perché possiamo fare da guida. Non ci vuole molto tempo perché i bambini ne sappiano più di noi sul mondo di Internet e dei computer, sui loro giochi e passatempi. L’orientamento ai coetanei ha creato una cultura che ci è tanto estranea quanto lo sarebbe la nostra cultura per dei nuovi immigrati. Proprio come immigrati disorientati in un paese straniero, perdiamo la nostra posizione di guida con i nostri figli. Il linguaggio è talmente diverso, la musica lo è altrettanto, la cultura scolastica è mutata, persino i programmi non sono più gli stessi. Ognuno di questi mutamenti contribuisce a un’erosione della nostra sicurezza, fino al punto che siamo noi a percepirci bisognosi di orientamento! Ci sentiamo sempre più incapaci di orientare i nostri figli nel loro mondo.


Un’altra parte del problema è che l’orientamento ai coetanei ha derubato i nostri figli di quel fattore scatenante che, in circostanze normali, avrebbe attivato il nostro istinto a orientarli: l’aria confusa e sperduta. Chi mostra questo aspetto, persino da adulto, può suscitare risposte di orientamento anche in perfetti estranei. (Il mio coautore, Gabor, che è medico, sostiene di aver affinato alla perfezione l’aria sperduta e disorientata, specialmente negli ospedali, in prossimità della sala delle infermiere). Per quanto i bambini orientati ai coetanei, ancor più di chiunque altro, non abbiano la più pallida idea di chi sono e di dove stanno andando, l’effetto dell’orientamento ai pari è di portar via quel senso di confusione e smarrimento. Il bambino immerso nella cultura dei “fichi” non sembra vulnerabile, bisognoso d’aiuto e assistenza per orientarsi. La vicinanza ai coetanei è tutto ciò che conta. Questa è una delle ragioni per cui questi bambini spesso appaiono tanto più sicuri di sé e sofisticati, quando in realtà non sono altro che ciechi che guidano altri ciechi. L’effetto finale di non mostrare la propria confusione in volto è che i nostri istinti a guidarli restano dormienti e la nostra abilità di richiamarli a noi diminuisce.


Nonostante il fatto che il nostro mondo sia mutato – o, più correttamente, proprio a causa di ciò – è più importante che mai chiamare a raccolta tutta la nostra sicurezza e assumere la posizione di guida e di bussola di riferimento nella vita dei nostri figli. Il mondo sarà pure cambiato, ma la danza del richiamo rimane la stessa. Siamo molto bravi nel guidare i piccini dalla nascita fin verso i cinque/sei anni, forse perché diamo per scontato che senza di noi sarebbero perduti. Li informiamo di continuo su ciò che sta succedendo, dove andremo, cosa faranno, chi è quella persona, cosa significa quella cosa. È dopo questa fase che tendiamo a perdere sicurezza e questo cruciale istinto di richiamo si affievolisce.


Dobbiamo ricordarci che i bambini hanno bisogno di essere orientati, e per farlo siamo noi la loro risorsa migliore, che lo sappiano oppure no. Più li orientiamo nel tempo e nello spazio, sulle persone e su ciò che accade, sui significati e le circostanze, più saranno inclini a tenersi stretti a noi. Non dobbiamo attendere gli sguardi confusi, ma assumere in modo deciso e sicuro il nostro ruolo di interpreti e di guide nella loro vita. Persino un po’ di orientamento all’inizio della giornata può fare molto per tenerceli accanto: “Ecco cosa faremo oggi”, “Io sarò lì, oggi è un giorno speciale perché...”, “Quello che ho in mente per stasera è...”, “Vorrei che tu incontrassi questo e quello”, “Ti mostro come funziona questo”, “Questa signora si prenderà cura di te”, “Puoi chiedere a lui se hai bisogno di aiuto”, “Mancano solo tre giorni e poi...”. E naturalmente orientarli sulla loro identità e sulla loro importanza: “Hai un modo speciale di...”, Sei il tipo di ragazza che...”, “Hai tutto ciò che serve per essere un pensatore originale”, “Hai un vero dono per...”, “Hai ciò che ci vuole per...”, “So che andrai lontano con...”. Agire come bussola di riferimento coinvolge gli istinti di attaccamento ed è una tremenda responsabilità.


Con un figlio nostro, orientare riattiva gli istinti del bambino a tenerci stretti. Quando invece richiamiamo i figli altrui, orientare è un passo essenziale per coltivare un legame. Il segreto per l’adulto, sia esso un insegnante o un genitore acquisito, è di trarre vantaggio da ogni vuoto di orientamento vissuto dal bambino e di offrirsi come guida. E se si riescono a organizzare situazioni in cui il figlio o lo studente dipendano da noi per orientarsi, tanto meglio: sarà ottimo per innescare un attaccamento.

Riportare a sé i bambini orientati ai coetanei

Questi quattro passi della danza di richiamo ci danno il potere di suscitare gli istinti di attaccamento dei bambini e ne coinvolgeranno la maggior parte in una relazione con l’adulto che li accudisce. Ma ci saranno bambini troppo schermati a causa dell’orientamento ai coetanei perché questo scenario di base possa funzionare. “Cosa posso fare se mio figlio si è già ‘perduto’ nel mondo dei coetanei?”, domanderanno alcuni genitori, “C’è un modo per farlo tornare indietro?”


Vale la pena di ripetere il mio messaggio di chiusura al primo capitolo: c’è sempre qualcosa che possiamo fare. Anche se non esiste un approccio che sia infallibile in ogni circostanza, possiamo avere fiducia nel successo a lungo termine se comprendiamo dove dirigere i nostri sforzi. Si applicano gli stessi passi e gli stessi princìpi, anche se l’iniziale resistenza del bambino a farsi corteggiare può essere piuttosto forte e scoraggiante. In definitiva, una relazione non è qualcosa che possiamo determinare, ma solo invitare e attirare. Possiamo rendere il più semplice possibile ai bambini “perduti” di ritornare, e il più difficile possibile alla concorrenza di restare aggrappata a loro. Come si può realizzare tutto ciò?


In molti modi, l’orientamento ai coetanei è come una setta, e le sfide per reclamare i nostri figli sono simili a quelle che porrebbe la seduzione da parte di una setta. La vera sfida è la riconquista dei loro cuori e delle loro menti, non solo il riavere i loro corpi sotto il nostro tetto e alla nostra tavola.


Quando cerchiamo di richiamare i nostri figli dobbiamo sempre tenere a mente che essi hanno bisogno di noi, anche se non lo sanno. Persino il più alienato e ostile fra gli adolescenti ha bisogno di un genitore premuroso. A dispetto degli istinti sviati e della chiusura emotiva, questa consapevolezza è ancora radicata nella loro psiche e potrebbe uscir fuori nell’intimità di un colloquio con un adulto che abbia a cuore la cosa, o con un terapeuta. “Facevamo sempre in modo che gli amici dei nostri figli si sentissero a loro agio a casa nostra”, dice Marion, madre di due adolescenti. “Sembrava quasi che si trovassero meglio qui che a casa propria. Questi ragazzoni, dall’aria “dura”, si sedevano attorno al tavolo della cucina e avevano con mio marito e con me delle conversazioni che, come confessavano in seguito ai nostri ragazzi, non avrebbero mai avuto con i loro genitori”.


Dobbiamo richiamare i nostri ragazzi con atteggiamento sicuro, senza lasciarci scoraggiare o distrarre dalla nostra missione. Più i ragazzi si mostrano insolenti e impossibili, più hanno bisogno di essere reclamati.

Riconquistarli è importante, non solo perché così possiamo portare a compimento il nostro lavoro di genitori, ma per dar loro una possibilità di crescita. I bambini che hanno lasciato prematuramente il grembo dell’attaccamento genitoriale devono essere attirati un’altra volta per continuare il processo di maturazione. “A prescindere dall’età”, scrive il noto psichiatra infantile Stanley Greenspan, “i giovani possono iniziare a lavorare su quei livelli evolutivi che non sono stati in grado di padroneggiare, ma lo possono fare solo nel contesto di una relazione intima e personale con un adulto affezionato”53. Corteggiare il bambino, fino a farlo tornare in un forte legame di attaccamento e tenercelo, è la base per qualunque altra cosa si tenti di fare con lui e per lui.

La chiave per rivendicare un figlio è quella di rovesciare le condizioni che hanno provocato l’orientamento ai coetanei. Dobbiamo creare un vuoto di attaccamento separando il bambino dai coetanei, e poi collocarci in quel vuoto come sostituti. È importante ricordare che questi giovani hanno grandi bisogni di attaccamento, altrimenti non sarebbero orientati ai compagni. La mancanza di prossimità con i coetanei è probabile che sia tanto insopportabile quanto all’inizio lo erano i vuoti di attaccamento con i genitori.


Spesso, soprattutto se l’orientamento ai coetanei non è troppo avanzato, un rovesciamento dolce può realizzarsi imponendo alcune restrizioni all’interazione con i coetanei, e nel contempo far diventare una priorità richiamare a sé il ragazzo ogni volta che sia possibile. È importante non rivelare i propri intenti, poiché può essere controproducente. La parte più difficile per la maggior parte dei genitori è spostare l’attenzione dal comportamento alla relazione. Una volta che la relazione si sia deteriorata, il comportamento può diventare sempre più offensivo e preoccupante. In tali circostanze, è difficile smettere di inveire, blandire o criticare. Per spostare il fuoco dell’attenzione, dobbiamo prima rassegnarci al fatto che è inutile rivolgerci al comportamento, per poi indirizzarci a ristabilire la relazione. Se lo spostamento non sarà autentico, non avremo abbastanza pazienza per portare avanti il nostro compito. Molti di noi sanno istintivamente come corteggiare; dobbiamo solo essere consci che non ci sia altro modo per arrivare dove vogliamo, e che prima è meglio è.


Indicherò delle tattiche specifiche, come la creazione di rituali e modalità per strutturare il tempo, nonché l’imposizione di restrizioni (si veda il cap.17), ma qui vorrei intanto spendere due parole sul mettere in castigo. Si tratta di uno strumento di disciplina ancora molto usato con i giovani adolescenti che infrangono qualche regola o commettono delle trasgressioni. Dipende da come lo si usa: come una punizione o come un’opportunità. Non uscire di casa di regola restringe il contatto con i coetanei e può quindi servire a creare un vuoto di attaccamento da cui potremmo trarre vantaggio. Se i genitori lo considerassero come un momento in cui porsi di fronte ai figli in modo amichevole e offrire loro qualcosa a cui aggrapparsi, il risultato potrebbe essere benefico. Il castigo in sé non serve allo scopo. Ostacolare l’interazione con i coetanei potrebbe semplicemente accrescere la foga del ragazzo nel perseguirla. Il confino a casa dovrebbe essere evitato anche nel caso in cui i genitori non sentano di avere il potere naturale dell’attaccamento e la sicurezza interiore di farcela. Come molti approcci comportamentali, il confino a casa funziona meglio con chi ne ha meno bisogno, ed è meno efficace con chi ne avrebbe più bisogno. Ma, indipendentemente dalle circostanze, se proprio non se ne può fare a meno, esso funziona meglio se i genitori lo considerano come un’opportunità per ristabilire la propria relazione con i figli. E questo vuol dire tener fuori dall’interazione tutti i toni e le emozioni punitive.


A volte misure più radicali si rivelano necessarie, in specie se i tentativi di richiamare a sé i figli sono stati inutili e ogni sforzo per produrre anche un minimo allontanamento dai coetanei è stato vano. Esiste un ampio raggio di interventi a cui si può far riscorso, a seconda delle risorse della famiglia e della serietà della situazione: dalle escursioni nel fine settimana, da soli con lui, fino ai viaggi con tutta la famiglia, passando per le sfumature intermedie. Sono i momenti in cui, per chi può permetterselo, una casa per le vacanze torna molto utile. Parenti che vivono in campagna e hanno un cuore aperto e buoni istinti di richiamo sono impagabili. Passare l’estate lontano da casa e in famiglia, anche se la famiglia non è la propria, è spesso un antidoto all’intensificarsi del coinvolgimento con i coetanei. Diverse famiglie che conosco hanno deciso di trasferirsi per creare un vuoto di attaccamento con i coetanei e, per buona sorte, i risultati di una soluzione così radicale sono stati positivi. Ma creare un tale vuoto significa trovarsi solo a metà della soluzione. Richiamare a sé il bambino o il ragazzo è la metà più importante.


L’interazione da solo a solo è la più efficace nel tentare di richiamare a sé un figlio. Quando c’è più di un adulto, il bambino può ancora sfuggire a un contatto personale. E con altri bambini presenti, il vuoto di attaccamento non è mai grande abbastanza da costringerlo nelle nostre braccia.


È impossibile danzare con un bambino orientato ai coetanei – dobbiamo chiamare a raccolta ogni minima iniziativa e inventiva cui possiamo far ricorso. Per Tamara e Tasha, le mie figlie adolescenti, la svolta decisiva nel loro orientamento ai coetanei sopraggiunse durante due viaggi, programmati con il proposito di riconquistarle. Per Tasha, l’esca fu di prendersi qualche giorno di vacanza da scuola e andare in un posto che sapevo le piaceva molto. Anche così, iniziò a star male all’idea di perdere la scuola; non certo per le lezioni perse, ma perché era a scuola che stavano i suoi amici. Per fortuna, in quel momento eravamo già sul traghetto, oltre il punto di non ritorno. Quando arrivammo al cottage sul mare che avevo preso in affitto, annunciò che si sarebbe annoiata perché non c’era nessuno. Ecco quello che accade con l’orientamento ai coetanei: i genitori sono retrocessi al rango di “nessuno”. “Tutti” è il nome che si dà a coloro cui si è legati, tutti gli altri sono “nessuno”.


Dovevo rammentare a me stesso di non lasciarmi allontanare e non combattere contro i sintomi. All’inizio le cose procedettero a rilento, ma avevo preso diversi giorni di ferie, e decisi di attendere finché il vuoto di attaccamento non fosse stato abbastanza intollerabile da costringere Tasha a cercare una vicinanza con me. Facevo attenzione a entrare nel suo spazio in modo amichevole, senza esagerare. La sua espressione imbronciata era così lontana dagli occhi che una volta si illuminavano e il sorriso che splendeva in risposta alla mia presenza. In questa occasione, per prima cosa mi riscoprì come compagno di camminate e giri in canoa. Poi fecero la loro comparsa alcuni sorrisi; un po’ di calore entrò nella sua voce. Finalmente, arrivarono le chiacchierate e la disponibilità agli abbracci. Con il ricongiungimento, cosa piuttosto interessante, arrivò anche il desiderio di cucinare e mangiare insieme. Quando fu ora di partire, nessuno di noi due era entusiasta all’idea di tornare a casa. Sulla strada del ritorno, Tasha e io decidemmo di fissare qualche accordo per preservare la nostra relazione: una volta a settimana avremmo fatto una passeggiata insieme o bevuto una tazza di cioccolata in un caffè. Promisi a me stesso di non “ammaestrarla” durante questi incontri speciali. Erano occasioni speciali organizzate al solo scopo di preservare il contesto di attaccamento – avrei potuto svolgere gli altri miei compiti di genitore, guidandola e istruendola, nel resto del tempo.


Tasha mi chiese perché all’inizio l’avessi abbandonata. Iniziai con l’argomentare che, tutto al contrario, era stata lei, quando d’un tratto capii che aveva ragione. È responsabilità del genitore tener stretti a sé i figli. Mia figlia non era certo da biasimare per lo stato in cui si trova la nostra cultura. Nel perseguire la vicinanza con i coetanei ella non faceva altro che seguire i suoi istinti sviati. Sebbene non fosse colpa mia se la cultura ci è venuta meno, era tuttavia una mia precisa responsabilità quella di tener stretta mia figlia finché non avesse più avuto bisogno di me. L’avevo inconsapevolmente e involontariamente lasciata andare prima che il mio compito di genitore fosse concluso. Tremo al ricordo di quanto fossi preoccupato, a quel tempo, all’idea di prendermi una settimana di ferie. Ripensandoci adesso, so che è stata una delle decisioni migliori che abbia mai preso.


Con Tamara, furono pochi giorni di escursioni e campeggio soli nella natura a ristabilire la nostra relazione. L’esca era rappresentata dal suo amore per le escursioni, la pesca e l’aria aperta. Il suo orientamento ai coetanei si manifestò all’inizio con il rifiuto di farsi aiutare, con il camminare sempre dietro o avanti a me, e la nostra interazione ridotta al minimo. La sua faccia depressa mi rammentava che non ero io la compagnia che avrebbe desiderato. Scelsi dei luoghi selvaggi, che conoscevo bene, così potei fare da bussola in tutti i sensi. Ci vollero un po’ di giorni. Sebbene, ancora una volta, dovessi ricordare a me stesso di essere paziente e mantenere un atteggiamento amichevole, per la fine della vacanza mia figlia camminava al mio fianco e accoglieva il mio aiuto. Come ai bei tempi, era piena di cose che voleva mostrarmi e descrivermi e mi parlava senza sosta. Ciò che mi sorprese fu la rapidità e la profondità con cui il suo caldo sorriso toccava il mio cuore. Nel periodo che aveva seguito il suo orientamento ai coetanei, avevo completamente dimenticato la gioia che un tempo la nostra relazione mi aveva procurato.

I vostri figli hanno bisogno di voi
I vostri figli hanno bisogno di voi
Gabor Maté, Gordon Neufeld
Perché i genitori oggi contano più che mai.La potente riscoperta del valore basilare dell’attaccamento tra genitori e figli. Più l’attaccamento è forte e sano e più i figli crescono sicuri. Il caos culturale dettato dal materialismo imperante e dalle infatuazioni tecnologiche dell’economia globalizzata minaccia la relazione con i propri figli: questi fattori appartenenti al nuovo mondo, infatti, allentano i legami di attaccamento fra i bambini e gli adulti che se ne prendono cura, distruggono il contesto appropriato perché i genitori possano svolgere il loro compito, menomando lo sviluppo umano e, inesorabilmente, erodendo le basi della trasmissione culturale e valoriale.Nel libro I vostri figli hanno bisogno di voi, un medico e uno psicologo uniscono le forze per trattare una delle tendenze più fraintese e allarmanti del nostro tempo: i coetanei (amici, cuginetti, compagni di scuola) che prendono il posto dei genitori nella vita dei figli.Questo fenomeno è definito come “orientamento ai coetanei”: tale termine si riferisce al fatto che, quando i bambini in età scolare e i giovani ragazzi hanno bisogno di un’indicazione, preferiscono rivolgersi ai coetanei anziché far riferimento al padre, alla madre e al rispetto dei valori naturali, al senso di ciò che è giusto o sbagliato, all’identità e ai normali codici di comportamento.Quando i coetanei sostituiscono i genitori, lo sviluppo dei bambini si arresta: non ci sono più sane figure educative di riferimento, l’orientamento ai pari crea una massa di giovani adulti immaturi, conformisti e inquieti, incapaci di integrarsi nella società corrente. Ora, questo continuo orientarsi ai coetanei non può che deteriorare la coesione familiare, impedendo uno sviluppo sano e equilibrato del bambino, avvelenando l’atmosfera scolastica e favorendo la crescita di una cultura giovanile aggressiva, ostile e prematuramente sessualizzata.Dal canto loro, i genitori sono a disagio, frustrati, e si acuisce la sensazione che lo sviluppo dei bambini sia sfuggito alla loro influenza. Perché si possa essere genitori efficaci, è necessario quindi che i bambini sviluppino la giusta relazione con i genitori.I ragazzi non stanno perdendo i genitori perché manca competenza o coinvolgimento, ma per mancanza di un attaccamento primario. La conservazione della cultura si basa proprio sui modelli di questo genere, e la conseguenza principale della loro perdita è la scomparsa del contesto appropriato per una sana crescita. L’attaccamento di un bambino ai genitori crea infatti un grembo psicologico necessario per dare vita alla personalità e all’individualità.Gli autori Gordon Neufeld e Gabor Maté aiutano i genitori, gli insegnanti e gli operatori sociali a comprendere questo fenomeno inquietante, fornendo soluzioni utili per ristabilire la giusta preminenza del legame che unisce i figli ai genitori e restituendo a questi ultimi il potere e la forza di essere una fonte vera di contatto, guida, calore e sicurezza. Un libro non finisce con l’ultima pagina!Questo titolo si arricchisce di contenuti “extra” digitali. Per consultarli è sufficiente utilizzare il QR code in quarta di copertina.