terza parte

Confinati nell’immaturità: come l’orientamento ai coetanei impedisce il sano sviluppo dell’individuo

capitolo x

L'aggressività

Helen, una bambina di nove anni, in piedi di fronte allo specchio, infieriva con le forbici sui suoi riccioli scuri, finché la sua fronte non fu quasi senza capelli. Quando sua madre le domandò, sbalordita e preoccupata, il motivo di quel comportamento, la figlia la insultò urlando e puntandole contro le forbici affilate.


La madre di Emily, una ragazza di quindici anni, la mandò da me per un consulto perché si provocava tagli e ferite. I suoi impulsi aggressivi non erano diretti solo contro se stessa: niente e nessuno sfuggiva al suo sarcasmo furibondo e alla sua ostilità, tranne i suoi amici. Derise persino alcuni titoli della mia libreria e, per quanto trovassi piacevole la sua arguzia e straordinaria la sua intelligenza, era difficile non farsi nauseare dal modo in cui maltrattava i genitori e il fratello più piccolo. Ferocemente critica, sparlava di loro di continuo; la sua ostilità era implacabile.


I genitori di Helen sono miei amici. Negli anni precedenti a questi inattesi scoppi di aggressività della figlia, avevano passato un periodo molto difficile per la loro vita di coppia. Tempo ed energie erano stati assorbiti dai problemi matrimoniali, lasciando che Helen andasse in cerca di contatto emotivo dai coetanei, dove però non ebbe successo.


Come illustra l’esperienza di Emily, anche se Helen avesse raggiunto il suo obiettivo facendosi accettare dai compagni, i suoi bisogni emotivi sarebbero comunque rimasti insoddisfatti. A dieci anni, Emily si era orientata molto ai coetanei come conseguenza della lotta contro il cancro che sua madre aveva dovuto sostenere. Incapace di tollerare la vulnerabilità evocata dalla possibilità di perderla, Emily aveva reagito allontanando da sé la madre. Il vuoto creato dal ritrarsi del suo attaccamento materno era stato riempito con i coetanei, ed essi ora significavano tutto per lei. L’avversione espressa dalle sue azioni, parole e atteggiamenti ne era una conseguenza. Aggredire i membri della famiglia è infatti anch’esso molto tipico dei bambini orientati ai coetanei, e questo ferisce molto genitori e fratelli. In gran parte gli attacchi non sono di natura fisica, ma la violenza verbale e l’ostilità emotiva possono essere estremamente logoranti, dolorose e alienanti.


Oggigiorno l’aggressività è una delle più comuni lamentele da parte di genitori e insegnanti. Era la preoccupazione maggiore dei genitori di Kirsten, Melanie e Sean. Anche se l’aggressività non è sempre in relazione con l’orientamento ai coetanei, più un bambino è orientato ai pari, più è probabile che l’aggressività faccia parte del quadro generale.

L’aumento dell’orientamento ai coetanei nella nostra società comporta anche un aumento dell’aggressività minorile. Il comitato scolastico della città di New York registrò seimila incidenti di natura violenta nel 1993, rispetto ad un solo incidente del 196129.


Il numero delle aggressioni gravi fra la gioventù canadese è quintuplicato negli ultimi cinquanta anni, mentre negli Stati Uniti è aumentato di ben sette volte30. Il maltrattamento crescente dei genitori da parte dei figli è stato oggetto della relazione Cottrell per l’Health Canada31. In un’indagine quattro insegnanti su cinque dichiararono di essere stati assaliti da studenti, se non fisicamente, come minimo con minacce, intimidazioni e violenza verbale32. Se la definizione di aggressione è estesa alla violenza contro se stessi, le statistiche sui suicidi diventano inquietanti. I tentativi con esito letale sono triplicati tra i minori negli ultimi cinquanta anni e il tasso dei suicidi tra i minori nella fascia da dieci a quattordici anni è quello che ha avuto l’incremento maggiore33.


Molti adulti, oggi, esitano ad affrontare gruppi di giovani che non conoscono, per timore di essere assaliti. Una o due generazioni fa una paura del genere era praticamente sconosciuta; quelli fra noi che sono un po’ più avanti con l’età riescono a percepire la differenza che si è prodotta in pochi decenni.


I media riferiscono che le aggressioni fra i minori abbondano: “Adolescente respinto torna alla festa armato. Tre morti.”, “Ragazzo travolto da folla di adolescenti, versa in gravi condizioni”, “Banda di ragazzini dai 10 ai 13 anni coinvolta in crimini violenti”, “Studente bocciato torna a scuola e uccide l’insegnante”. Nell’ottobre 2002, l’Associated Press rilasciò un comunicato sulla fatale aggressione, a Chicago, di un uomo di trentasette anni da parte di un gruppo di giovani dai dieci ai diciotto anni; secondo un testimone “lo colpivano (con rastrelli, cartoni del latte e mazze) urlando e dicendo ‘ehi, fammelo usare...’, sembrava che fosse un gioco per loro”. A distanza di poche settimane da questo evento sanguinoso, due omicidi a opera di adolescenti nella provincia limitrofa, a occidente della città, sconvolsero il pubblico canadese. Il corpo di una donna di trentanove anni, madre di tre figli, fu ritrovato fra i resti di un incendio appiccato tra le mura domestiche a Maple Ridge, nella British Columbia. Poche ore dopo, la polizia accostava un quindicenne nell’auto della donna deceduta: “era al volante e fumava, altri cinque giovani si trovavano nell’auto”. L’adolescente fu accusato di omicidio di primo grado. Degna di nota, nel resoconto, è l’apparente nonchalance di questo assassino ragazzino in compagnia dei suoi coetanei34.

Atrocità e violenze commesse dagli adolescenti gli uni verso gli altri sono ormai materia per i titoli di giornali: alla Columbine High School, in Colorado; a Tabor, in Canada, nello Stato di Alberta; a Liverpool, in Inghilterra. Ma focalizzarsi sulle statistiche lugubri e sulle storie di sanguinosa violenza riportate dai giornali significa non comprendere appieno l’impatto che l’aggressività minorile ha sulla nostra società. I segni più espressivi delle ondate di aggressione e violenza non sono nei titoli dei giornali quanto nella cultura dei pari – il linguaggio, la musica, i giochi, l’arte, le scelte di intrattenimento. Una cultura riflette le dinamiche dei suoi partecipanti, e la cultura dei ragazzi orientati ai coetanei è sempre di più una cultura di aggressività e violenza. La smania di violenza è riflessa nel godimento indiretto che procura, non solo attraverso la musica o i film, ma anche nei cortili e nei corridoi scolastici. I ragazzi fomentano l’ostilità fra i loro compagni anziché disinnescarla e incoraggiano gli altri a combattere anziché dissuaderli dalla violenza. Coloro che eseguono materialmente i crimini sono solo la punta dell’iceberg. In uno studio all’interno dell’istituzione scolastica, i ricercatori scoprirono che la maggior parte degli studenti avrebbe sostenuto in modo passivo o incoraggiato attivamente atti di bullismo e violenza; meno di uno su otto avrebbe tentato di intervenire. La cultura e la psicologia della violenza sono a tal punto radicate che i ragazzi in generale mostravano maggior rispetto e apprezzamento per i bulli che per le vittime35.

Le forme prevalenti di aggressività tra bambini e adolescenti non sono le risse e le violenze oggetto di studi e statistiche, bensì i gesti violenti, le parole e le azioni che scandiscono ogni giorno le interazioni fra i ragazzi orientati ai coetanei. Gli attacchi possono essere di natura emotiva, e sfogano in ostilità, antagonismo e disprezzo. Possono essere espressi con gesti scortesi o alzando gli occhi al cielo, attraverso insulti e parole umilianti. L’attacco può essere nel tono della voce, nei gesti di scherno, nello sguardo, nella postura, nel sarcasmo di un commento o nella freddezza di una risposta. L’aggressività può essere diretta verso gli altri o espressa attraverso accessi d’ira e scenate. Può anche essere diretta verso se stessi con espressioni di disapprovazione come “Sono uno stupido!”, o di ostilità come “Mi odio!”, oppure sbattendo la testa, facendosi del male e nutrendo pensieri e impulsi suicidi. Gli attacchi possono essere diretti contro l’esistenza stessa: “Ti uccido!” o “Voglio ammazzarmi!”. Gli attacchi all’esistenza possono essere anche di natura psicologica, come nell’ostracismo, nel fingere che gli altri non esistano o rifiutando di riconoscere la presenza di qualcuno. La lista è infinita. In altre parole, l’essenza dell’aggressività trascende le forme di violenza plateale e chiassosa che sono diventate oggetto delle politiche diffuse ma inutili di “tolleranza zero”, attualmente adottate nelle scuole e in altre istituzioni che hanno a che fare con un gran numero di ragazzi e bambini. Vista la natura pervasiva dell’aggressività, la tolleranza zero ha poca consistenza concettuale ed è impossibile da mettere in pratica.


L’aggressività, come l’amore, è nella natura delle motivazioni sottostanti che ci muovono. Nel caso dell’aggressività, ciò che ci muove è l’impulso ad attaccare. Da dove proviene tutta questa aggressività? Cos’è che spinge l’aggressività minorile fino a vette tanto alte? Perché i ragazzi orientati ai coetanei sono tanto inclini alla violenza? Le risposte non sono nelle statistiche bensì nella comprensione di quali siano le radici dell’aggressività e come queste vengano fomentate dall’orientamento ai coetanei. Solo comprendendo il significato dell’aggressività potremo capire anche il senso della sua intensificazione nel mondo dei nostri figli.


L’orientamento ai coetanei non è alla radice dell’aggressività. I bambini molto piccoli e quelli in età prescolare, nonché bambini che non siano affatto orientati ai coetanei, possono essere aggressivi. L’aggressività e la violenza fanno parte della storia umana sin dalla notte dei tempi. L’aggressività è una delle sfide più antiche e problematiche del genere umano; l’orientamento ai coetanei è relativamente nuovo. Ma l’orientamento ai coetanei alimenta con forza il fuoco dell’aggressività e ne fomenta la violenza.

La frustrazione come forza propulsiva dell'aggressività

Cosa spinge una persona all’attacco? La frustrazione. Questa è il combustibile dell’aggressività. Certo, la frustrazione non conduce automaticamente all’aggressione più di quanto una riserva d’ossigeno non faccia scoppiare automaticamente un incendio. Come vedremo, può portare anche ad altri tipi di reazione, alquanto diverse dall’aggressività. Solo in assenza di soluzioni più civili si arriva all’aggressione. L’orientamento ai coetanei non solo accresce la frustrazione, ma diminuisce anche la probabilità di trovare alternative pacifiche all’aggressività.


La frustrazione è l’emozione che proviamo quando qualcosa non va per il verso giusto. Quello che non va può essere un giocattolo, il lavoro, il proprio corpo, una conversazione, una richiesta, una relazione, la macchinetta del caffè o le forbici. Qualunque cosa sia, più ci sta a cuore il fatto che funzioni, più ci sentiamo provocati se non lo fa. La frustrazione è un’emozione profonda e primitiva, così primitiva che la troviamo anche in altri animali, e non è qualcosa di cui si debba essere per forza consapevoli, ma come ogni altra emozione, non mancherà di muoverci.


Molti sono gli elementi scatenanti della frustrazione, ma poiché ciò che conta più di tutto per i bambini – e per molti adulti – è l’attaccamento, la più grande fonte di frustrazione sono gli attaccamenti che non funzionano: perdita di contatto, connessioni contrastate, troppa separazione, sentirsi rifiutati, perdere la persona amata, mancanza di appartenenza o di comprensione. Poiché siamo di solito inconsapevoli dell’attaccamento, siamo anche spesso ignari del nesso che lega la nostra frustrazione agli attaccamenti che non funzionano.


Lo stretto legame fra attaccamento frustrato e aggressività mi fu chiaro all’istante quando mio figlio Shay aveva tre anni. Shay era molto attaccato a me ed eravamo stati separati per periodi relativamente brevi fino al giorno in cui accettai un invito a tenere un corso di formazione di cinque giorni dall’altra parte del continente. Al mio ritorno, l’aggressività di Shy si era intensificata, passando dai due o tre incidenti al giorno – normali per la sua età – a molti di più, tra i venti e i trenta. Non c’era bisogno di chiedergli perché avesse delle crisi, mordesse, picchiasse o lanciasse oggetti – guarda caso l’argomento del mio seminario rivolto agli educatori era sulle radici della violenza e dell’aggressività. Né avrebbe potuto dirmelo lui. Era attaccamento frustrato puro e semplice, che scaturiva dal profondo. La madre di Helen, la bambina menzionata all’inizio di questo capitolo, aveva sofferto di una grave depressione quando Helen aveva tre anni. Lei e suo marito erano diventati meno disponibili per la figlia durante i lunghi mesi bui del suo disturbo dell’umore. Poi all’improvviso, senza motivo apparente, Helen aveva iniziato a colpire gli altri bambini al parco, bambini che neppure conosceva. Era il suo attaccamento frustrato che erompeva in comportamenti aggressivi.


Quando i coetanei sostituiscono i genitori, muta anche la sorgente della frustrazione che, in molti casi, aumenta anziché diminuire. I bambini che rivolgono i propri attaccamenti gli uni verso gli altri sono frustrati perché faticano molto a preservare l’intimità e la vicinanza. Non vivono insieme, perciò soffrono di continuo la separazione. Non c’è mai la certezza di incontrare il favore dei compagni; essere scelti oggi non è una garanzia che si verrà scelti anche domani. Se essere importanti per i coetanei è ciò che conta di più, la frustrazione sarà sempre dietro l’angolo: chiamate non ricambiate, essere trascurati o ignorati, essere rimpiazzati da altri, disprezzati o umiliati. Un bambino non può mai cullarsi nella certezza di essere accettato e considerato speciale dai coetanei. Inoltre, le relazioni fra coetanei di rado riescono a sostenere il vero peso psicologico del bambino. Egli deve senza sosta controllare se stesso, stare attento a non rivelare differenze o un disaccordo troppo intenso. La rabbia e il risentimento devono essere ingoiate se si vuole preservare il contatto e la vicinanza. Non esiste nessun rifugio sicuro, nessuna difesa contro lo stress, nessun affetto indulgente, nessuna dedizione su cui fare affidamento, nessun senso dell’intima conoscenza nelle relazioni fra coetanei. In un contesto del genere la frustrazione è intensa, anche quando tutto procede abbastanza bene. Si aggiunga un po’ di rifiuto e dell’ostracismo, e la frustrazione supera il limite. Nessuna meraviglia che il linguaggio dei ragazzi orientati ai coetanei diventi osceno e i temi della loro musica e dei loro intrattenimenti prendano una piega aggressiva. C’è anche poco da stupirsi che molti di questi ragazzi rivolgano l’aggressività verso se stessi, mutilando il proprio corpo o contemplando il suicidio. Meno ovvio, ma molto più pervasivo, è il fatto che moltissimi di loro siano a disagio con se stessi. Più o meno in modo consapevole, essi sono assai critici verso le proprie caratteristiche e aspetti distintivi; anche questa è una forma di aggressività verso se stessi.


I bambini afflitti dalla frustrazione cercano occasioni per attaccare e sono fortemente attratti da temi di natura aggressiva nella musica, nella letteratura e nel divertimento. Il mio coautore ricorda di essere rimasto impressionato quando uno dei suoi figli, allora prossimo all’adolescenza, iniziò a guardare alla televisione i programmi violenti del wrestling e prese a indossare costumi che evocavano il protagonista di un film horror, il Freddie Kruger dalle letali unghie affilate. Si trattava di un ragazzo a cui, a un certo punto della sua vita, era venuto a mancare un attaccamento saldo a sufficienza con i genitori e aveva finito per restare intrappolato in relazioni molto frustranti con i coetanei.


Come molti genitori hanno dolorosamente constatato, una volta che il cervello di attaccamento del bambino si sia rivolto ai coetanei, qualunque tentativo di contrastare questo orientamento genera a sua volta un’intensa frustrazione. Le limitazioni e restrizioni imposte dai genitori possono scatenare un torrente di parole aggressive, e comportamenti assai penosi. Mattew, di undici anni, ne è un esempio significativo. Aveva sostituito i genitori con un unico compagno, Jason, e i due erano inseparabili. Mattew aveva chiesto il permesso di andare a una festa la notte di Halloween a casa di Jason. Quando i genitori dissero di no, Mattew esplose con una tale ostilità emotiva e aggressività verbale che i suoi genitori ebbero paura di ciò che potesse fare. Fu allora che mi consultarono e scoprirono il suo sotterraneo orientamento ai coetanei. Un biglietto angosciato che Mattew scrisse ai genitori rivela un po’ della sua frustrazione e della conseguente aggressività.

Cercate di pensare per un momento alla mia situazione. Mettiamo che Jason voglia fare qualcosa con qualcuno, di solito chiamerebbe me. Ma ora non ci proverà nemmeno perché voi non mi lasciate andare. E così farà conoscenza con altra gente, che normalmente sarebbe okay, ma ora invece non sarà più mio amico. E questo mi fa davvero incazzare!!!!!!!!!! Sono così furioso che vorrei prendere a botte qualcuno, manderei tutti a fanculo... giuro su dio che il vostro amatissimo bambino non ci sarà più. Mi ucciderò se è necessario! Forse mi taglierò le vene... SE NON HO PIÙ AMICI, NON HO PIÙ VITA.

Non si esaurisce mai il combustibile che alimenta il fuoco dell’aggressione nei ragazzi orientati ai coetanei.


Non è scontato che la frustrazione porti all’aggressività; la risposta sana alla frustrazione è il tentativo di cambiare le cose. Se ciò si dimostra impossibile, si possono accettare le cose così come sono e adattarsi creativamente a una situazione che non può essere mutata. Se tale adattamento non si realizza, gli impulsi ad aggredire possono ancora essere tenuti a bada da pensieri e sentimenti più miti – in altre parole, da una matura autoregolazione. È anche possibile sentirsi intensamente frustrati e non essere trascinati ad aggredire. Nei ragazzi orientati ai coetanei è probabile che le reazioni accettabili alla frustrazione vengano ostacolate in modi che ora spiegherò; essi diventano aggressivi per forza di cose.


Sono tre le carenze principali nelle relazioni fra coetanei che portano la frustrazione ad essere repressa finché non esplode in aggressività.

Come l'orientamento ai coetanei fomenta l'aggressività

I bambini orientati ai coetanei sono meno capaci di determinare un cambiamento

Quando ci sentiamo frustrati, il nostro primo istinto è quello di cambiare ciò che non funziona. Possiamo provarci facendo agli altri delle richieste, oppure cercando di modificare il nostro comportamento, o con una varietà di altri modi. Spingendoci all’azione, la frustrazione avrà assolto al suo compito.


Il problema è che la vita porta con sé molte frustrazioni che vanno oltre le nostre possibilità: non possiamo alterare il tempo, cambiare il passato o disfare ciò che abbiamo fatto. Non possiamo evitare la morte, far durare le esperienze piacevoli, ingannare la realtà, far funzionare qualcosa per forza, o indurre qualcuno a cooperare senza che lo desideri. Non siamo in grado di fare sempre le cose nel modo giusto o di garantire la nostra sicurezza e quella degli altri. Di tutte queste inevitabili frustrazioni, la più minacciosa per i bambini è che non riescano a sentirsi psicologicamente ed emotivamente al sicuro. Queste esigenze assai importanti – essere voluti, accolti, apprezzati, amati e considerati speciali – sono fuori dal loro controllo.


Finché noi genitori siamo in grado di tenerci stretti i nostri figli, essi non sono costretti a misurarsi con questo profondo senso di futilità, essenziale per l’esistenza umana. Non è che possiamo sempre proteggerli dalla realtà, ma i bambini non dovrebbero essere costretti ad affrontare sfide per le quali non sono pronti. I bambini orientati ai coetanei non sono altrettanto fortunati. A causa del grado di frustrazione che sperimentano, disperano di poter cambiare le cose per tentare in qualche modo di rendere sicuri i propri attaccamenti. Alcuni diventano esigenti in modo compulsivo nelle loro relazioni reciproche; altri si preoccupano di rendersi più attraenti agli occhi dei coetanei – da qui il largo aumento nella domanda di chirurgia estetica fra i giovani, e da qui anche l’ossessione ad essere alla moda a un’età sempre più precoce. Alcuni spadroneggiano, altri si rendono affascinanti o divertenti. Alcuni si fanno in quattro, contorcendosi mentalmente per preservare un senso di vicinanza con i coetanei. Eternamente insoddisfatti, questi bambini hanno perso contatto con la fonte del loro scontento e inveiscono contro una realtà su cui non hanno alcun controllo. Naturalmente, le stesse dinamiche potrebbero presentarsi anche nelle relazioni che i più giovani hanno con gli adulti – e troppo spesso ciò accade – ma è assolutamente certa la loro presenza nei rapporti orientati ai coetanei.


Per quanto cerchi di cambiare le cose esprimendo delle richieste, trasformando il proprio aspetto, facendo funzionare le cose per gli altri; per quanto addolcisca la sua vera personalità o comprometta se stesso, il bambino orientato ai coetanei non troverà che un fugace sollievo. Non avrà un conforto duraturo dall’inesorabile frustrazione dell’attaccamento, e a ciò si aggiungerà la frustrazione dello sbattere senza sosta contro questo muro di impossibilità. La sua frustrazione, anziché trovare sbocco, farà un altro passo avanti verso l’aggressività, come nel caso di Helen e Emily, menzionate all’inizio del capitolo.

I bambini orientati ai coetanei hanno minori capacità di adattamento

La frustrazione che deriva da ostacoli insormontabili dovrebbe dissolversi in sentimenti di futilità. Così facendo la frustrazione determina un adattamento, permettendoci di modificare noi stessi se non siamo in grado di mutare le circostanze che ci ostacolano. Un bambino spinto ad adattarsi non aggredisce: l’adattamento e l’aggressività, entrambi possibili esiti della frustrazione, sono incompatibili.


Questa dinamica che conduce dalla frustrazione al senso di futilità è ben visibile nei bambini piccoli. Un bambino fa una richiesta che i genitori, di solito per validi motivi, non vogliono o non possono soddisfare; dopo alcuni tentativi infruttuosi, il piccolino dovrebbe essere spinto alle lacrime di futilità. E questa risposta è un’ottima cosa. L’energia si trasforma e viene impiegata per lasciar andare le cose, anziché cambiarle. Se una parte della frustrazione è già esplosa in un attacco, anche quei sentimenti passano dalla rabbia alla tristezza. Non appena avviene la trasformazione dei sentimenti e compare il senso di futilità, il bambino si tranquillizza. Quando la frustrazione non viene trasformata attraverso questo processo, il bambino non smetterà di insistere. A meno che non sia distratto o accontentato, il piccolo probabilmente continuerà a lottare contro la futilità e la sua aggressività esploderà in attacchi fino allo stremo delle forze. Solo i sentimenti di futilità permettono di abbandonare il corso delle proprie azioni quando queste non funzionano, e ne dissolvono la frustrazione.


Il cervello deve registrare che qualcosa non funziona. Non basta pensare che qualcosa non va – lo si deve sentire. Tutti abbiamo fatto l’esperienza di sapere che qualcosa non funziona, ma di continuare a ripetere la stessa azione più e più volte. Molti di noi, ad esempio, in qualità di genitori, hanno detto a un figlio: “Te l’ho detto mille volte...”. Se, invece, avessimo permesso al nostro senso di futilità di penetrare a fondo, non avremmo continuato con comportamenti di cui sappiamo che non funzionano e non funzioneranno mai, per quanto ripetuti all’infinito.


L’adattamento è un processo profondamente inconscio ed emotivo, orchestrato non dalla parte pensante della corteccia cerebrale, bensì dal sistema limbico, che è l’apparato emotivo del cervello umano. Ad esempio, se abbiamo perduto una persona amata, perché è morta o più semplicemente per la fine di una relazione, non basta sapere che essa non c’è più per potersi adattare. Dobbiamo riuscire a fare i conti con questo emotivamente, dopo essere stati sommersi da ondate su ondate del sentimento di futilità. Solo quando la futilità penetra a fondo e noi sappiamo con la parte più emotiva di noi stessi che è impossibile preservare il contatto fisico ed emotivo con qualcuno che ci ha lasciati per sempre, allora arrivano le lacrime e l’adattamento ha inizio. È un processo che può durare anni. Quando, per un bambino piccolo, il muro della futilità viene eretto contro uno spuntino prima di cena, l’adattamento dovrebbe richiedere solo pochi istanti – ossia, la rabbia dovrebbe trasformarsi in tristezza molto velocemente. Nel caso in cui si debba condividere la mamma con un fratello, un tale adattamento potrebbe richiedere un po’ più tempo. Ma se le lacrime di futilità non arrivano mai, anche l’adattamento non avrà luogo. Anche se il pianto non fa la sua comparsa, i sentimenti più comuni legati alla futilità sono la tristezza, la delusione e il dolore. Per buona sorte, anche quando si impara a sopprimere il pianto, la tristezza e il disappunto sono ancora in grado di compiere il proprio lavoro nel facilitare l’adattamento, se si è in grado di percepire la futilità nel proprio intimo. Il dilemma dei bambini orientati ai coetanei è che i sentimenti di futilità implicano la vulnerabilità: sentire la futilità significa fare i conti con i limiti del nostro potere e del nostro controllo. Nella fuga dalla vulnerabilità del bambino orientato ai coetanei i sentimenti di futilità sono i primi a venir soppressi. In una cultura dei “fichi”, le lacrime di futilità sono fonte di vergogna; di conseguenza questi ragazzi, mancando dei sentimenti di futilità, sono più inclini all’aggressività.


L’orientamento ai coetanei, oltre ad aumentare la frustrazione, porta anche via le lacrime che le farebbero da antidoto. Helen, ad esempio, aveva perso le sue lacrime e ora era piena di ostilità verso la madre. Emily non aveva mai versato una lacrima sul cancro di sua madre; invece delle lacrime di futilità, aveva versato gocce del suo sangue facendosi dei tagli. Al posto della tristezza e del disappunto, c’era solo sarcasmo e disprezzo. Aveva scelto la violenza dell’heavy metal anziché un genere musicale melanconico, che avrebbe potuto riflettere e lenire la sua angoscia. Sempre più bambini si trovano a confrontarsi con l’impossibilità di far funzionare le cose nelle relazioni con i compagni ma, troppo induriti per permettere al senso di futilità di penetrare a fondo, finiscono per aggredire se stessi e gli altri.


Quando il senso di futilità non va a segno, non si riesce neppure a lasciar andare le cose e ad accettare i limiti. Senza adattamento non vi è capacità di recupero di fronte alle avversità, nessuna intraprendenza in assenza di direzione, e nessuna capacità di guarire dai traumi del passato.


I bambini orientati ai coetanei sono come presi fra i ghiacci, da un lato gli iceberg delle cose che non possono cambiare, dall’altro la gelida pietra che è nei loro cuori.

I bambini orientati ai coetanei hanno meno sentimenti contrastanti sull’aggressività

Si può impedire alla frustrazione di trasformarsi in aggressività se gli impulsi ad aggredire sono tenuti a freno da impulsi, pensieri, intenzioni e sentimenti di natura opposta. Quando si arriva all’aggressività, l’ambivalenza è una gran bella cosa. I ragazzi orientati ai coetanei hanno molte meno probabilità di sentirsi ambivalenti.


In genere, a tenere a freno l’impulso ad aggredire è la volontà di non fare del male, il desiderio di essere buoni, il timore di rappresaglie, o la preoccupazione delle conseguenze. Ciò che mitiga l’aggressività è anche la paura di alienarsi coloro a cui si è attaccati, i sentimenti di affetto e persino il desiderio di autocontrollo. Quando cresce l’impulso ad aggredire, ciò che fa mantenere un comportamento civile è il fatto di essere mossi in direzioni opposte. Le motivazioni conflittuali innescano una scintilla di coscienza di civiltà che attiva l’autocontrollo. Se l’ambivalenza manca e il bisogno di aggredire è urgente, non c’è nulla che possa fermare le azioni stimolate da impulsi inappropriati.


Per quale motivo è molto più improbabile che i bambini e i ragazzi orientati ai coetanei nutrano sentimenti ambivalenti rispetto all’aggressività? Innanzitutto, a causa dell’arresto nel loro sviluppo, è verosimile che la loro natura sia ribelle ai sentimenti eterogenei e agli impulsi conflittuali. Si tratta della sindrome prescolare discussa nel capitolo 9, l’impulsività che scaturisce dall’immaturità psicologica. Non conta quello che un bambino immaturo sa, quanto siano buone le sue intenzioni, quante prediche gli siano state fatte, né quanto fossero punitive le conseguenze; non appena avrà accumulato frustrazione a sufficienza, tutto questo verrà eclissato dal suo bisogno di aggredire.



La seconda ragione è l’assenza della forza mitigatrice dell’attaccamento. Come spiegato nel capitolo 2, la natura bipolare dell’attaccamento primitivo ci porta a provare repulsione per coloro da cui non siamo attratti. Quando, per soddisfare la fame di attaccamento del bambino, la connessione e l’intimità vengono cercate nei coetanei, tutti gli altri sono virtualmente esposti a possibili attacchi – fratelli, genitori e insegnanti.


Soggetti agli attacchi sono anche quei compagni con cui il bambino non è interessato a stabilire un attaccamento. Ancora una volta, l’aggressività può prendere varie forme, diverse dall’attacco fisico: sparlare, deridere, ignorare, calunniare, essere ostili, dare soprannomi, umiliare, rivaleggiare, disprezzare.


Così l’orientamento ai compagni fa scattare l’impulso ad aggredire e, allo stesso tempo, rimuove la naturale immunità per i membri della famiglia e per gli altri adulti responsabili del bambino. Da qui la crescente prepotenza dei figli verso i genitori e degli studenti verso gli insegnanti.


Un’altra influenza molto mitigatrice è la paura psichica. Una significativa porzione del cervello è dedicata a un elaborato sistema di allarme. L’ansia è un campanello d’allarme emotivo che ci avverte del pericolo, che sia una minaccia di aggressione o il timore di essere separati da coloro che sono importanti per noi. La paura di finire nei guai, di farsi male, la preoccupazione per le conseguenze, l’ansia di allontanare coloro che si amano, sono tutti meccanismi atti a far procedere il bambino con cautela. Aggredire è una faccenda rischiosa e il suo solo pensiero, in un bambino capace di emozioni eterogenee, dovrebbe evocare sentimenti di allarme che aiutano a tenere l’aggressività sotto controllo.


La difficoltà legata ai sentimenti di allarme è che ci fanno sentire vulnerabili. Di fatto, comprendere che avrebbe potuto accaderci qualcosa di brutto è l’essenza stessa della vulnerabilità; proprio a causa della loro fuga dalla vulnerabilità, molti bambini orientati ai coetanei perdono i loro sentimenti di paura. A livello psicologico possono ancora essere allarmati, ma a livello conscio non riescono più a sentire la paura o la vulnerabilità che ne conseguono. Non dicono più di essere impauriti, nervosi o spaventati.


Una volta che i sentimenti di allarme siano paralizzati, la chimica del pericolo – la scarica di adrenalina – può rivelarsi piacevole e persino creare dipendenza. I ragazzi le cui emozioni sono soffocate come conseguenza delle loro difese contro la vulnerabilità possono andare in cerca del pericolo per la scarica di adrenalina che questo provoca – da qui, non v’è dubbio, deriva la crescente popolarità degli “sport estremi”.


Più intenso è l’orientamento ai coetanei e minore è la probabilità di essere prudenti e apprensivi. Studi sul cervello rivelano che fino a un terzo dei delinquenti adolescenti non possiedono più una normale attività cerebrale nella regione dove dovrebbe registrarsi il senso di allarme. Senza un campanello d’allarme che funzioni in maniera corretta nel cervello, gli impulsi aggressivi rischiano di prorompere in forme violente.

L’impatto dell’alcol illustra bene questa relazione. Il senso di apprensione che mantiene sotto controllo gli impulsi aggressivi è offuscato dall’alcol, sia che si tratti del timore di farsi del male o di mettersi nei guai, sia che si tema di provocare l’allontanamento di qualcuno che ci è caro. Quando una persona ingerisce dell’alcol, le parti del suo cervello che di solito inibiscono l’aggressività vengono soppresse. Non dovrebbe sorprendere che l’alcol sia legato a un’alta percentuale di crimini violenti36. I ragazzi pensano che l’alcol li faccia essere tipi con “le palle”; in realtà, porta solo via la loro paura. Il cervello, comunque, è perfettamente in grado di soffocare i sentimenti di allarme senza ricorrere all’ausilio dell’alcol o di altre droghe, e lo fa se le circostanze diventano insostenibili. L’auto-offuscamento emotivo è l’obiettivo di troppi dei nostri figli orientati ai coetanei. Naturalmente, una volta raggiunta l’adolescenza, è ancor più probabile che bevano, aumentando la possibilità di essere aggressivi.


Cercare di spegnere il fuoco dell’aggressività nei ragazzi orientati ai coetanei è esso stesso un esercizio di futilità. In ogni modo, finché questa inutilità non sia penetrata a fondo, facendoci assaporare tutto il nostro sconforto per questo stato di cose, è difficile cambiare i nostri modi. Siamo in una situazione spaventosa, e più i nostri figli si orientano ai coetanei e più saranno inclini ad aggredire, ma risponderanno anche meno alla nostra disciplina. Più saranno aggressivi e più diventeremo lontani e assenti, lasciando che un vuoto ancora maggiore venga riempito dai coetanei. La tendenza automatica, in determinate circostanze, è di focalizzare la nostra attenzione e i nostri sforzi sull’aggressività anziché sul problema sottostante degli attaccamenti sviati. Per quanto l’aggressività possa alienarci e sconvolgerci, non possiamo permetterci di focalizzarci solo su di essa. L’unica speranza di capovolgere la situazione è di reclamare i nostri figli e ripristinare il loro attaccamento a noi.

I vostri figli hanno bisogno di voi
I vostri figli hanno bisogno di voi
Gabor Maté, Gordon Neufeld
Perché i genitori oggi contano più che mai.La potente riscoperta del valore basilare dell’attaccamento tra genitori e figli. Più l’attaccamento è forte e sano e più i figli crescono sicuri. Il caos culturale dettato dal materialismo imperante e dalle infatuazioni tecnologiche dell’economia globalizzata minaccia la relazione con i propri figli: questi fattori appartenenti al nuovo mondo, infatti, allentano i legami di attaccamento fra i bambini e gli adulti che se ne prendono cura, distruggono il contesto appropriato perché i genitori possano svolgere il loro compito, menomando lo sviluppo umano e, inesorabilmente, erodendo le basi della trasmissione culturale e valoriale.Nel libro I vostri figli hanno bisogno di voi, un medico e uno psicologo uniscono le forze per trattare una delle tendenze più fraintese e allarmanti del nostro tempo: i coetanei (amici, cuginetti, compagni di scuola) che prendono il posto dei genitori nella vita dei figli.Questo fenomeno è definito come “orientamento ai coetanei”: tale termine si riferisce al fatto che, quando i bambini in età scolare e i giovani ragazzi hanno bisogno di un’indicazione, preferiscono rivolgersi ai coetanei anziché far riferimento al padre, alla madre e al rispetto dei valori naturali, al senso di ciò che è giusto o sbagliato, all’identità e ai normali codici di comportamento.Quando i coetanei sostituiscono i genitori, lo sviluppo dei bambini si arresta: non ci sono più sane figure educative di riferimento, l’orientamento ai pari crea una massa di giovani adulti immaturi, conformisti e inquieti, incapaci di integrarsi nella società corrente. Ora, questo continuo orientarsi ai coetanei non può che deteriorare la coesione familiare, impedendo uno sviluppo sano e equilibrato del bambino, avvelenando l’atmosfera scolastica e favorendo la crescita di una cultura giovanile aggressiva, ostile e prematuramente sessualizzata.Dal canto loro, i genitori sono a disagio, frustrati, e si acuisce la sensazione che lo sviluppo dei bambini sia sfuggito alla loro influenza. Perché si possa essere genitori efficaci, è necessario quindi che i bambini sviluppino la giusta relazione con i genitori.I ragazzi non stanno perdendo i genitori perché manca competenza o coinvolgimento, ma per mancanza di un attaccamento primario. La conservazione della cultura si basa proprio sui modelli di questo genere, e la conseguenza principale della loro perdita è la scomparsa del contesto appropriato per una sana crescita. L’attaccamento di un bambino ai genitori crea infatti un grembo psicologico necessario per dare vita alla personalità e all’individualità.Gli autori Gordon Neufeld e Gabor Maté aiutano i genitori, gli insegnanti e gli operatori sociali a comprendere questo fenomeno inquietante, fornendo soluzioni utili per ristabilire la giusta preminenza del legame che unisce i figli ai genitori e restituendo a questi ultimi il potere e la forza di essere una fonte vera di contatto, guida, calore e sicurezza. Un libro non finisce con l’ultima pagina!Questo titolo si arricchisce di contenuti “extra” digitali. Per consultarli è sufficiente utilizzare il QR code in quarta di copertina.