terza parte

Confinati nell’immaturità: come l’orientamento ai coetanei impedisce il sano sviluppo dell’individuo

capitolo ix

Prigionieri nell'immaturità

Non ne posso più!”, disse la madre di Sarah, stanca dell’incoerenza e imprevedibilità della figlia, “non riesce a impegnarsi e a portare avanti niente, e noi facciamo di tutto per aiutarla!”. I genitori di Sarah erano disturbati in modo particolare da una situazione ricorrente: si prodigavano per esaudire alcuni desideri espressi con entusiasmo dalla bambina, ma al primo segno di fallimento o frustrazione, ella abbandonava tutto. Aveva abbandonato il pattinaggio artistico alla fine della seconda lezione, dopo che i genitori avevano con pazienza risparmiato i soldi necessari e riorganizzato i propri impegni per accompagnarla. Sarah era anche molto impulsiva, impaziente, e andava facilmente in collera. Continuava a promettere che sarebbe stata buona, ma spesso non riusciva a mantenere la promessa.


Anche il padre e la madre di Peter erano preoccupati: il loro figlio era cronicamente impaziente e irritabile, a volte diventava piuttosto antipatico con la sorella e con i genitori. “Sembra proprio non rendersi conto”, mi disse suo padre, “che ciò che dice o fa si ripercuote sul resto della famiglia”. Peter era anche polemico e oppositivo. Mancava completamente di aspirazioni a lungo termine e non si appassionava a nulla, fatta eccezione che per i giochini elettronici e i giochi al computer. L’idea di lavoro sembrava non avere significato per lui, che fosse l’impegno a scuola, i compiti a casa o l’aiuto domestico. “Ciò che mi preoccupa maggiormente”, disse il padre, “è che Peter non sembra affatto preoccupato”. Il ragazzo non mostrava alcuna ansia per la propria mancanza di indirizzo e di obiettivi significativi.


In modi diversi, Peter e Sarah mostravano una costellazione analoga di tratti caratteriali. Erano entrambi impulsivi, facevano mostra di sapere come ci si dovesse comportare, ma poi in pratica non agivano in accordo con quello che sapevano. Erano sconsiderati, non pensavano prima di agire, e le loro reazioni erano mutevoli e fluttuanti. Le due coppie di genitori volevano sapere se era il caso di preoccuparsi. Per i genitori di Sarah, la mia risposta fu che probabilmente non c’era motivo di allarme: ella aveva solo quattro anni, quei tratti comportamentali erano tipici dell’età. Se tutto fosse andato per il verso giusto, negli anni che avrebbero seguito lo sviluppo di Sarah avrebbe portato a differenze significative nel suo comportamento e nei suoi atteggiamenti. I genitori di Peter, invece, avevano senz’altro motivo di sentirsi a disagio: egli aveva già quattordici anni e, almeno da questo punto di vista, la sua personalità era rimasta immutata sin da quando era in età prescolare.


Sarah e Peter manifestavano quella che ho denominato sindrome prescolare, con comportamenti che si addicono a bambini in età prescolare. In questo stadio di sviluppo un numero di funzioni psichiche non sono ancora integrate nel bambino; vi è un’assenza di funzionamento integrato che rappresenta un segnale chiaro di immaturità psicologica. Gli unici, naturalmente, ad avere pieno “diritto” – dal punto di vista evolutivo – ad agire come bambini in età prescolare sono appunto i bambini in età prescolare. Nei bambini più grandi, o negli adulti, una tale mancanza di integrazione indica un’immaturità che non è consona all’età.

La crescita fisica e lo sviluppo della fisiologia adulta non sono automaticamente accompagnati dalla maturazione psichica ed emotiva. Robert Bly, nel suo libro La società degli eterni adolescenti, afferma che l’immaturità è endemica nella nostra società. Egli scrive: “Alla gente non interessa crescere, e siamo come tanti pesci che nuotano in una vasca di semiadulti”26. Molti adulti non hanno raggiunto la maturità, faticano ad essere indipendenti, ad avere motivazioni proprie e a soddisfare i propri bisogni emotivi rispettando quelli degli altri.

Tra le diverse ragioni per cui oggi la maturità è sempre più assente, l’orientamento ai coetanei è probabilmente il principale imputato; l’immaturità e l’orientamento ai pari vanno di pari passo. Quanto più precoce e intenso è l’instaurarsi di un orientamento ai compagni, tanto è maggiore la probabilità di essere destinati a un eterno infantilismo.


Peter era molto orientato ai coetanei; non si capiva cosa fosse venuto prima: era la sua immaturità ad averlo reso tanto suscettibile a un nuovo orientamento, oppure era stato il precoce orientamento ai compagni la causa dell’arresto nel suo sviluppo? Il nesso causale può procedere in entrambe le direzioni ma, una volta instaurato, l’orientamento ai coetanei blocca la risoluzione del problema. In entrambi i casi, i bambini orientati ai coetanei non riescono a crescere.

Cosa vuol dire essere immaturi

Mentre cresciamo e maturiamo, il nostro cervello sviluppa la capacità di mescolare insieme le cose, di trattenere nello stesso istante percezioni diverse, sensazioni, pensieri, sentimenti e impulsi eterogenei senza generare confusione di pensiero o paralisi nell’azione. È questa la capacità che ho chiamato “funzionamento integrato” quando, poco sopra, menzionavo la sindrome prescolare. Raggiungere questo stadio di sviluppo ha uno straordinario effetto di trasformazione e civilizzazione sulla personalità e sul comportamento. Gli attributi tipici dell’infantilismo, come l’impulsività e l’egocentrismo, svaniscono per lasciar emergere una personalità molto più equilibrata. Nessuno può insegnare al cervello a fare questo; la capacità di integrazione deve essere sviluppata, deve evolversi attraverso un processo di crescita. Gli antichi romani avevano una parola per questo genere di mescolanza: temperare. Il verbo inglese “to temper” che ne trae origine oggi significa “regolare” o “temperare, mitigare”, ma in principio si riferiva alla mescolanza nella giusta misura di ingredienti diversi per fare l’argilla. Sarah e Peter erano “intemperanti” nelle espressioni e nella pratica. Essere intemperanti, ossia incapaci di tollerare sentimenti diversi allo stesso tempo, è il marchio di riconoscimento dell’immaturo.


Sarah, ad esempio, era molto affettuosa con i genitori ma di tanto in tanto, come la maggior parte dei bambini, si sentiva frustrata. In queste occasioni faceva scenate fino al punto di dire “ti odio” a sua madre. I momenti di frustrazione che Sarah aveva con la madre, alla sua età non erano mai temperati dall’affetto, proprio come la sua frustrazione per le cadute sul ghiaccio non era mitigata e controbilanciata dal desiderio di diventare una pattinatrice. Da qui la sua impulsività. Allo stesso modo, quando Peter esplodeva, lo faceva con insulti e offese. Per quanto spesso e prevedibilmente si mettesse nei guai, il suo timore per le conseguenze negative era eclissato dall’intensità, qualunque essa fosse, della frustrazione che egli provava in quel momento. Di nuovo, i sentimenti non riuscivano a integrarsi. Entrambi questi bambini perdevano il controllo nel vero senso del termine, e, di conseguenza, le loro reazioni erano stridenti, insolenti e squilibrate.


Sempre seguendo questo ragionamento, Peter non riusciva ad assimilare l’idea di lavoro perché si tratta di un concetto che richiede una mescolanza di sentimenti. Il lavoro spesso non è molto attraente, ma in genere lo si fa perché si riesce a unire il sentimento di resistenza del momento presente con una dedizione o un proposito che abbiamo in mente per il lungo periodo. Troppo immaturo per perseverare e restare fedele a un obiettivo al di là della soddisfazione immediata, Peter lavorava solo quando gli andava, e ciò non accadeva molto spesso. Non riusciva ad avere coscienza di più di un sentimento alla volta. In tal senso, non era diverso da un qualunque bambino in età prescolare. L’impossibilità di sostenere pensieri conflittuali, sentimenti e propositi divergenti all’interno della sua coscienza, era un retaggio del suo orientamento ai coetanei.

Il disegno della natura per la crescita

Nella nostra abituale corsa a capofitto per decidere cosa fare in merito a questo o quel problema, spesso ignoriamo il primo e fondamentale passo dell’osservare, riflettere e comprendere. Non possiamo certo permetterci di ometterlo quando si tratta di allevare figli nel mondo caotico di oggi. Dobbiamo sapere come funzionano le cose per poter capire cos’è che potrebbe andare storto; si tratta di una necessità sia per la prevenzione, sia, eventualmente, per l’applicazione di un rimedio. Ciò che segue è una descrizione concisa del processo di maturazione, processo di cui ogni genitore e insegnante dovrebbe avere una conoscenza precisa ed efficace. Per molti si tratterà solo di una conferma di ciò che hanno già colto per intuito.


Come inizia la maturazione di un giovane essere umano? Una delle svolte più significative nella teoria evolutiva avvenne negli anni ’50, quando gli studiosi scoprirono un ordine costante e prevedibile nel processo di maturazione, comunque e ovunque esso si realizzasse. La prima fase implica un tipo di scissione, o differenziazione, che viene seguita da una seconda fase nella quale si realizza una crescente integrazione degli elementi separati. Questa sequenza resta invariata che si tratti di un organismo animale o vegetale, che il campo di applicazione sia biologico o psicologico, e che l’entità interessata sia una singola cellula o la complessa realtà che chiamiamo sé.

La maturazione si realizza all’inizio attraverso un processo di divisione, che separa finché i vari elementi non siano distinti e indipendenti. Solo allora lo sviluppo mescolerà insieme questi stessi elementi separati e distinti. È semplice e, allo stesso tempo, profondo – è un processo che possiamo osservare sin dal livello più elementare. L’embrione prima cresce dividendosi in cellule separate, ognuna con il proprio nucleo e i propri confini, poi, una volta che le singole cellule siano distinte quanto basta in modo che non esista il pericolo di fondersi, l’obiettivo dello sviluppo diventa l’interazione fra di esse. Gruppi di cellule vengono integrati all’interno degli organi per il buon funzionamento degli stessi. A loro volta, i diversi organi si sviluppano separatamente e poi vengono organizzati e integrati nei vari sistemi dell’organismo – il cuore e i vasi sanguigni, ad esempio, formano il sistema cardiovascolare. Lo stesso schema viene seguito con i due emisferi del cervello. Le regioni del cervello che si stanno evolvendo, in principio funzionano in modo del tutto indipendente l’una dall’altra, sia fisiologicamente sia elettricamente, ma in seguito vengono a poco a poco integrate. Non appena ciò avviene, i bambini mostrano nuove abilità e nuovi comportamenti27. Questo processo continua senz’altro fino agli anni dell’adolescenza e anche oltre.

La maturazione in ambito psichico implica la differenziazione degli elementi della coscienza – pensieri, sentimenti, impulsi, valori, opinioni, preferenze, interessi, intenzioni, aspirazioni. La differenziazione deve avvenire prima che questi elementi della coscienza possano essere mescolati per produrre esperienze ed espressioni temperate. Lo stesso avviene nell’ambito delle relazioni: la maturazione richiede che il bambino divenga in primo luogo un individuo unico e separato dagli altri. Più riesce a differenziarsi, più sarà in grado di mescolarsi agli altri senza perdere se stesso e il senso del proprio essere.


Detto in termini ancor più essenziali, il senso del sé deve in primo luogo separarsi dalle esperienze interiori, una capacità assolutamente assente nei bambini più piccoli. Il bambino deve essere in grado di sapere che il proprio sé non si identifica con i sentimenti che prendono piede dentro di lui in un determinato momento. Può percepire un sentimento senza che le sue azioni ne siano per forza dominate. Può essere cosciente di altri sentimenti divergenti, di pensieri, valori, impegni che potrebbero opporsi al sentimento del momento. È libero di scegliere.


Peter e Sarah non avevano una relazione con se stessi perché questa scissione primaria non era ancora avvenuta. Non potevano riflettere sulle loro esperienze interiori, essere d’accordo o in disaccordo con se stessi, approvare o disapprovare ciò che osservavano dentro di sé. Poiché i loro pensieri e sentimenti non erano abbastanza differenziati da sopportare la mescolanza, essi erano in grado di esprimere un solo sentimento o impulso alla volta. Nessuno dei due poteva fare considerazioni del tipo: “una parte di me sente in questo modo e una parte in quest’altro”. Nessuno dei due avrebbe potuto valutare i diversi aspetti di una situazione, né sentire ambivalenza quando esplodeva per la frustrazione o eludeva certe cose. Senza la capacità di riflettere, erano definiti dall’esperienza interiore del momento. Qualsiasi emozione sorgesse dentro di loro veniva immediatamente manifestata. Potevano essere la loro emozione interiore, ma non potevano osservarla, ed era questa incapacità a renderli impulsivi, egocentrici, reattivi e impazienti. Poiché la frustrazione non si mescolava all’altruismo, essi non avevano pazienza. Poiché la rabbia non si mescolava all’amore, non sapevano perdonare. Poiché la frustrazione non si mescolava alla paura o all’affetto, avevano scoppi d’ira. In breve, mancavano di maturità.


Sarebbe stato irragionevole aspettarsi da Sarah che fosse in grado di provare sentimenti eterogenei o che riuscisse a non essere intemperante in tutte le sue manifestazioni. Era troppo piccola. Invece, sarebbe stato senz’altro ragionevole aspettarsi da Peter capacità di riflessione su se stesso e una certa tolleranza alla coesistenza di impulsi ed emozioni divergenti, ma era altrettanto irrealistico. Egli non era affatto più maturo di Sarah.


Ero tranquillo nel rassicurare i genitori di Sarah che tutti gli elementi dimostravano l’esistenza in lei di un processo molto attivo di maturazione. Mostrava segni incoraggianti del processo di differenziazione all’opera: era desiderosa di fare le cose da sola e di risolvere i problemi per conto proprio. Voleva senz’altro essere se stessa e avere idee e pensieri propri, nonché motivi per fare le cose. Aveva, inoltre, una meravigliosa energia che la spingeva alla scoperta del mondo, curiosità per le cose che non le erano familiari o a cui non era legata, un desiderio ardente di esplorare l’ignoto, ed era incantata da ogni cosa nuova e insolita. Inoltre si lasciava prendere dal gioco solitario che era immaginativo, creativo e del tutto appagante. Questi segnali, rivelatori del processo di maturazione, mettevano a tacere ogni preoccupazione sul fatto che Sarah non stesse crescendo. La sua personalità stava maturando e, a suo tempo, i frutti sarebbero venuti. Ci voleva solo pazienza.


Non riuscii, invece, a trovare alcun segno vitale analogo di personalità emergente in Peter. Non esisteva solitudine creativa, nessun desiderio di risolvere le cose da solo, nessun orgoglio nell’essere autosufficiente, nessun tentativo di essere se stesso. Era preoccupato di difendere i propri confini dai genitori, ma ciò non riguardava la sua autentica individualità, serviva solo a tenerli fuori dalla sua vita. La sua resistenza ad affidarsi ai genitori non era motivata dal desiderio di fare da solo; egli si mostrava oppositivo e scontroso ma, come abbiamo visto nel capitolo 6, ciò derivava dall’intensità del suo attaccamento ai coetanei, e non da una genuina spinta verso l’indipendenza.


La maturazione è spontanea ma non inevitabile; è come il programma di un computer che sia stato preinstallato nel disco rigido ma che non venga necessariamente attivato. A meno che Peter non si sbloccasse, era ben avviato sulla strada che l’avrebbe portato ad essere uno di quegli adulti che si dibattono ancora nella sindrome prescolare. Ma come si possono sbloccare ragazzi come Peter? Cos’è che attiva il processo di maturazione?

Come favorire la maturazione

Sebbene i genitori e gli insegnanti ripetano ai bambini di “crescere”, la maturità non si raggiunge a comando. È impossibile insegnare a un bambino ad essere un individuo o indurlo con l’esercizio a diventare se stesso. Questo lavoro appartiene soltanto al processo di maturazione; possiamo custodire tale processo, fornire le condizioni opportune, rimuovere gli ostacoli, ma non possiamo costringere un bambino a crescere più di quanto potremmo ordinarlo alle piante del nostro giardino.


Quando si ha a che fare con bambini immaturi, può essere necessario mostrare loro come ci si comporta, tracciare i confini di ciò che consideriamo accettabile, esprimere le nostre aspettative: ai bambini che non comprendono la giustizia si può insegnare a fare a turno; a quelli che non sono ancora abbastanza maturi da valutare l’impatto delle proprie azioni devono essere date regole e prescrizioni su quelle che riteniamo le condotte adeguate. Tuttavia certi comportamenti condizionati non possono essere confusi con una autentica maturità. Non si può essere più maturi di quello che realmente si è, ma solo comportarsi in modo maturo se indirizzati nel modo adatto. Fare a turno perché è la cosa giusta è senz’altro un comportamento civile, ma fare a turno nel desiderio di preservare un senso di giustizia può scaturire solo dalla maturità; scusarsi potrebbe essere appropriato in determinate circostanze, ma assumersi le responsabilità delle proprie azioni è solo il frutto di un processo di individuazione. Non esistono surrogati della maturità autentica, né scorciatoie per arrivarci. Il comportamento può essere prescritto o imposto, ma la maturità nasce dal cuore e dalla mente. La vera sfida per i genitori è aiutare i propri figli a crescere, e non semplicemente a comportarsi da grandi.


Se la disciplina non è una cura per l’immaturità e la prescrizione di un copione da seguire è utile ma non sufficiente, come favorire allora il processo di maturazione? Per anni, gli studiosi dello sviluppo si sono lambiccati il cervello nel tentativo di comprendere i meccanismi e le condizioni di attivazione di tale processo. Ma la vera svolta si è avuta solo con l’affacciarsi alla coscienza scientifica dell’importanza fondamentale dell’attaccamento.


La storia della maturazione è alquanto chiara e ovvia, per quanto ciò possa stupire. Come tante altre cose nello sviluppo infantile, essa ha inizio con l’attaccamento. Come abbiamo già spiegato nel capitolo 2, l’attaccamento è la priorità assoluta per le creature viventi. Solo quando ci si libera dalle preoccupazioni relative all’attaccamento, si può dare il via alla maturazione. Nelle piante, perché la crescita possa avere inizio tanto da rendere possibile la nascita del frutto, le radici devono prima trovare un solido ancoraggio. Nei bambini, il piano di sviluppo che li renderà capaci di diventare individui realmente indipendenti può essere affrontato solo dopo che siano stati soddisfatti i loro bisogni di attaccamento, di contatto e sostegno, nonché la necessità di dipendere da una relazione in modo incondizionato. Pochi genitori, e un numero ancor più esiguo di esperti, lo comprendono per intuito. “Quando sono diventato genitore”, mi disse una volta un padre premuroso che lo aveva capito, “mi sono reso conto che il mondo sembrava assolutamente convinto che dovessi formare i miei figli in modo attivo forgiando il loro carattere anziché creando semplicemente un ambiente nel quale potessero svilupparsi e crescere. Nessuno sembrava comprendere che se gli si dà l’amore e il legame di cui hanno bisogno, i figli crescono sani e vigorosi”.


La chiave per attivare il processo di maturazione è nell’aver cura dei bisogni di attaccamento. Per promuovere l’indipendenza, dobbiamo prima invitare alla dipendenza; per favorire l’individuazione è necessario fornire un senso di appartenenza e unità; per aiutare il bambino a separasi, dobbiamo prenderci la responsabilità di tenerlo stretto a noi. Lo aiutiamo a staccarsi se gli offriamo più legame e contatto di quanto lui stesso non chieda. Se vuole essere abbracciato, lo stringeremo in un abbraccio più forte e caloroso del suo. Non rendiamo liberi i nostri figli se pretendiamo che debbano guadagnarsi il nostro amore, ma solo lasciandoli riposare in esso. Li aiutiamo ad affrontare il distacco, che sia per andare a scuola o a dormire, dando soddisfazione al loro bisogno di vicinanza e contatto. Il processo di maturazione si presenta allora nelle vesti di un paradosso: sono la dipendenza e l’attaccamento che favoriscono l’indipendenza e la vera autonomia.


L’attaccamento è il grembo della crescita e della maturazione; come il grembo biologico dà la vita a un nuovo essere in senso fisico, così l’attaccamento è il ventre da cui nascerà un nuovo individuo in senso psichico. Dopo aver dato alla luce il nuovo nato nella sua fisicità, il programma dello sviluppo è quello di predisporre per il bambino un utero diverso, quello dell’attaccamento, dal quale poter rinascere una seconda volta come creatura indipendente, un individuo in grado di operare in modo autonomo senza essere dominato dalle spinte verso l’attaccamento. Gli esseri umani non superano mai la necessità di legarsi agli altri, e nemmeno lo dovrebbero, ma le persone mature e davvero indipendenti non sono dominate da questi bisogni.


La nascita di un individuo autonomo richiede l’infanzia nella sua interezza per potersi attuare, e oggi questo significa arrivare almeno verso i vent’anni, se non oltre.


Ci spetta il compito di sollevare il bambino dalle preoccupazioni legate all’attaccamento per permettergli di attuare il suo sviluppo naturale verso la maturità e l’indipendenza. Il segreto per far ciò è assicurarsi che il bambino non debba faticare per il soddisfacimento dei suoi bisogni di contatto e vicinanza, di guida e orientamento. Il suo bisogno di attaccamento deve essere saziato; solo allora egli sarà libero di avventurarsi oltre, di crescere emotivamente.


La fame di attaccamento è molto simile a quella fisica per il cibo. Il bisogno di cibo non scompare mai, proprio come il bisogno di attaccamento nel bambino non si esaurisce mai. Come genitori, liberiamo il bambino dalla responsabilità di provvedere a se stesso nella ricerca del cibo e del nutrimento: ci assumiamo noi la responsabilità di nutrirlo e di offrire un senso di sicurezza per quanto riguarda le provviste. Non conta quanto cibo sia disponibile al momento; se non esiste la certezza delle provviste, trovare del cibo resterà l’assillo primario. Un bambino non è libero di vivere la sua vita e occuparsi dell’apprendimento fintantoché la questione del cibo non sia risolta, e noi genitori lo diamo per scontato. Dovrebbe essere altrettanto lucida la nostra consapevolezza quando si arriva al dovere di soddisfare la fame di attaccamento.

Nel suo libro On Becoming a Person, lo psicoterapeuta Carl Rogers descrive quell’atteggiamento amorevole e premuroso per cui coniò la definizione di considerazione positiva incondizionata, in quanto, come disse, “Essa non è condizionata da considerazioni di valore”. È un modo di prendersi cura degli altri, scrisse Rogers, “che non è possessivo, non chiede alcuna gratificazione personale. È un’atmosfera che dimostra chiaramente: io tengo a te, e non io tengo a te se ti comporti in un modo o in un altro28.

Rogers riassumeva così le qualità di un buon terapeuta in relazione ai suoi clienti. Se sostituiamo il genitore al terapeuta e il bambino al cliente, ecco che abbiamo un’eloquente descrizione di ciò che è necessario in una relazione genitori-figli. L’amore incondizionato del genitore è il nutriente indispensabile per una sana crescita emotiva. La prima cosa è creare uno spazio nel cuore del bambino dove alberghi la certezza di essere esattamente quella persona che il genitore ama e desidera. Per conquistarsi questo amore non è necessario fare nulla, né essere minimamente diversi da come si è – di fatto, non è possibile fare alcunché, dal momento che l’amore non può essere conquistato né perduto. In altre parole, non è condizionato. È semplicemente lì, e non tiene conto della sponda dalla quale il bambino agisce: quella “buona” o quella “cattiva”. Che sia irritabile, sgradevole, piagnucoloso, non collaborativo o platealmente villano, il genitore è sempre lì, pronto a farlo sentire amato. Si troveranno modi per comunicare l’inaccettabilità di determinati comportamenti senza tuttavia far sentire al bambino che è lui a non essere accettato. Lo si lascerà libero di poter mostrare la propria inquietudine e le proprie caratteristiche più spiacevoli continuando a ricevere la sicurezza e la soddisfatta pienezza di un amore incondizionato.


Il bambino ha bisogno di sentirsi sicuro quanto basta, amato quanto basta in modo incondizionato affinché possa avvenire il necessario spostamento di energie. È come se il cervello dicesse: “Molte grazie, era proprio quello che ci voleva, e ora rimettiamoci in marcia occupandoci del vero compito evolutivo, quello di diventare un essere indipendente. Non dobbiamo più preoccuparci di andare a caccia di carburante; il serbatoio è stato riempito, si riparte!”. Niente potrebbe essere più importante nell’ambito dello schema evolutivo.


Il padre di Evan, undici anni, amico del mio coautore, nel fine settimana aveva partecipato a un seminario sulle relazioni familiari, e si accingeva, il lunedì mattina, ad accompagnare a piedi il figlio a scuola. Aveva fatto pressione su Evan perché proseguisse con le sue lezioni di karate, attività a cui il ragazzo opponeva una certa resistenza. “Sai, Evan”, gli disse il padre, “se continui il karate ti vorrò bene! E vuoi saperne un’altra? Se lo lasci te ne vorrò altrettanto!”. Il bambino non disse nulla per alcuni minuti; poi, all’improvviso, guardò il cielo coperto di nubi e sorrise a suo padre: “Non è una bella giornata, papà? Non sono belle quelle nuvole lassù?” disse. Poi, dopo qualche altro minuto di silenzio, aggiunse: “Credo che diventerò cintura nera!”, e continuò i suoi studi di arti marziali.


Nelle giuste condizioni, anche gli adulti possono sperimentare gli effetti di un simile cambio di marcia. Un’esperienza in grado di produrre ondate di nuova energia è quella del profondo innamoramento e del sentirsi sicuri e tranquilli nel proprio amore. Le persone da poco innamorate vivono rinnovati interessi e curiosità, un senso acuto di unicità e individualità, e un risveglio del proprio desiderio di scoperta. Non è la pressione esterna di qualcuno che ci spinge ad essere maturi e indipendenti, bensì sentirsi profondamente appagati e sazi nei nostri bisogni di attaccamento.


Ciò che impedisce lo sviluppo di tanti dei nostri bambini è l’impossibilità di spostarsi dalla ricerca di soddisfare la fame di attaccamento, fino alla nascita di una partecipazione viva e indipendente nei confronti del proprio mondo.


Sono cinque le ragioni, importanti da comprendere per genitori e insegnanti, per cui l’orientamento ai coetanei priva i bambini della loro capacità di sentirsi sazi.

L'orientamento ai coetanei blocca la crescita in cinque modi significativi

Le cure genitoriali non giungono a segno

Una delle conseguenze dell’orientamento ai coetanei è che l’amore e le cure prodighe che abbiamo per i nostri figli non riescono a giungere a segno. Questo era senz’altro il caso di Peter e di molti altri genitori che si erano consultati con me. Non vi era dubbio che i genitori di Peter lo amassero, desiderassero il meglio per lui e fossero disposti a sacrificarsi per il suo bene. D’altro canto, come molti altri nella stessa situazione, essi facevano fatica a conservare il proprio amore in assenza di qualsivoglia segno di reciprocità da parte del figlio, e la situazione si faceva ancor più scoraggiante quando egli rifiutava attivamente le loro proposte, respingeva il loro affetto e si irritava per ogni tentativo di comunicazione o manifestazione di interesse da parte loro. Davvero Peter impediva che il calore e le cure amorevoli dei suoi genitori riuscissero a raggiungerlo.


Vedo di continuo situazioni in cui un bambino è circondato dall’abbondanza, un banchetto virtuale imbandito di fronte a lui, e nonostante ciò egli è lì che soffre di malnutrimento psichico per via dei problemi di attaccamento. Non si può nutrire qualcuno che non vuole sedersi alla tua tavola. Tutto l’amore del mondo non serve a riportare il bambino al punto in cui può essere nuovamente nutrito – se non si ricostituisce il cordone ombelicale, il nutrimento non passa. È impossibile saziare la fame di attaccamento di un bambino che non ha un’efficace e attiva relazione di attaccamento con la persona desiderosa di soddisfare quella fame. Quando un bambino sostituisce i genitori con i coetanei in quanto figure primarie di attaccamento, è appunto ai coetanei che si rivolgerà per il proprio nutrimento emotivo. Francamente, è un’eccezione che gli attaccamenti ai coetanei riescano mai a soddisfare questo bisogno di attaccamento. Il salto evolutivo verso nuove energie non avviene mai. Poiché non c’è passaggio dall’attaccamento all’individuazione, l’orientamento ai coetanei e l’immaturità vanno di pari passo.

Poiché l’attaccamento ai coetanei è incerto, non si può mai essere tranquilli

Le relazioni fra coetanei uniscono esseri immaturi e, come ho sottolineato nel capitolo precedente, sono intrinsecamente insicure. Non consentono al bambino di avere tregua nella sua incessante ricerca di provviste d’amore, di approvazione e conferma del proprio valore. Il bambino non è mai libero dal bisogno di vicinanza e anziché pace, l’orientamento ai coetanei porta con sé agitazione. Più un bambino è orientato ai coetanei, più l’agitazione sottostante diventa cronica e penetrante. Non importa quanto contatto e connessione esistano fra coetanei: la prossimità non è mai salda e garantita. Un bambino che si nutra della popolarità che ha presso gli altri – o che soffra della sua mancanza – è consapevole di ogni minima sfumatura, si sente minacciato da ogni parola, gesto o aspetto che gli siano sfavorevoli. Con i pari, il punto di svolta non si raggiunge mai: il perseguimento della vicinanza non muta mai nella possibilità di avventurarsi per proprio conto come individui separati. Le relazioni con i coetanei, a causa della loro natura molto condizionata, tranne poche eccezioni, non promuovono la crescita del sé emergente. Un’eccezione potrebbe essere quella dell’amicizia fra bambini che hanno attaccamenti sicuri con gli adulti; in questi casi, l’accettazione e la compagnia di un coetaneo possono sommarsi al senso di sicurezza del bambino. Sentendosi al sicuro nella relazione di affetto con un adulto, il bambino trarrebbe ulteriore calore dall’amicizia con i coetanei – non dovendo dipendere da loro, non si sentirebbe minacciato dalla loro intrinseca instabilità.

I bambini orientati ai coetanei sono incapaci di sentirsi appagati

Esiste un’altra ragione per cui i bambini orientati ai coetanei sono insaziabili. Per raggiungere il punto di svolta, un bambino non solo deve essere appagato, ma questo appagamento deve penetrare a fondo. Il cervello deve poter registrare in qualche modo che il desiderio di vicinanza e connessione è stato soddisfatto. La registrazione non è cognitiva e neppure conscia, bensì profondamente emotiva. È l’emozione che muove il bambino e sposta l’energia da un programma evolutivo a un altro, dall’attaccamento all’individuazione. Il problema è che, affinché l’appagamento riesca a realizzarsi appieno, il bambino deve essere in grado di sentire con profondità e vulnerabilità – un’esperienza dalla quale molti bambini orientati ai coetanei si proteggono. Per le ragioni affrontate nel capitolo precedente, questi bambini non possono permettersi di sentire la propria vulnerabilità.


Potrebbe apparire strano che i sentimenti di appagamento richiedano di essere aperti ai sentimenti di vulnerabilità; non esiste dolore o ferita nell’essere appagati, anzi è proprio l’opposto. Tuttavia, esiste una logica di base che spiega il fenomeno. Affinché un bambino percepisca la pienezza, deve prima conoscere il vuoto; per sentirsi aiutato, deve prima sentire che ha bisogno di aiuto, per sentirsi completo, deve prima aver sperimentato l’incompletezza. Per provare la gioia del ricongiungimento, è necessario aver patito il dolore della perdita, e per sentire il conforto, dobbiamo prima aver sofferto. L’appagamento può essere un’esperienza molto piacevole, ma il prerequisito è quello di sentire la propria vulnerabilità. Quando un bambino perde la capacità di percepire i vuoti di attaccamento, perde anche la capacità di sentirsi nutrito affettivamente e appagato. Una delle prime cose che verifico per la valutazione dei bambini è l’esistenza di sentimenti di perdita e smarrimento. Essere in grado di percepire ciò che gli manca e sapere cos’è il vuoto, è indicativo della salute emotiva del bambino. Non appena sono in grado di articolare il linguaggio, dovrebbero poter dire cose del tipo “mi manca papà”, “mi è dispiaciuto che la nonna non mi notasse”, “non mi sembrava che tu fossi interessato alla mia storia”, “non penso di piacere a questo o quello”.


Molti bambini oggi sono troppo sulla difensiva, troppo chiusi emotivamente per poter sperimentare queste emozioni di vulnerabilità. I bambini soffrono per ciò che gli viene a mancare, che lo percepiscano oppure no, ma solo se possono sentire e sapere di che si tratta possono poi liberarsi dalla loro sete di attaccamento. I genitori di questi bambini non sono in grado di condurli al punto di svolta e neppure in un spazio di pace e riposo. Se un bambino si protegge contro la vulnerabilità, come conseguenza del suo orientamento ai coetanei, diventa insaziabile anche nei confronti dei genitori. Questa è la tragedia dell’orientamento ai coetanei – esso rende il nostro amore e il nostro affetto assolutamente inutili e inappaganti.


Per bambini insaziabili, nulla è mai abbastanza. Per quanto uno faccia, per quanto ci si sforzi di far andare le cose per il verso giusto, per quanta attenzione e approvazione venga data, il punto di svolta non si raggiunge mai. Per un genitore questo è estremamente spossante e scoraggiante; non esiste nulla di più appagante per un genitore della sensazione di essere a sua volta fonte di appagamento per un figlio. Milioni di genitori sono privati di questa esperienza perché i loro figli si rivolgono altrove per il proprio nutrimento affettivo, oppure sono troppo protetti contro la vulnerabilità per riuscire a sperimentare l’appagamento. L’insaziabilità blocca i bambini sulla marcia di avviamento dal punto di vista evolutivo, li imprigiona nell’immaturità, incapaci di trascendere gli istinti più elementari. Sono destinati a non trovare mai pace e restano per sempre dipendenti da qualcuno o qualcosa al di fuori di se stessi per trovare soddisfazione. Né la disciplina imposta dai genitori, né il loro amore è in grado di porre rimedio a questa condizione. La sola speranza è di riportare i bambini all’ovile dell’attaccamento al quale essi appartengono e poi ammorbidirli fino a che il nostro amore possa davvero penetrare e nutrire.


Cosa succede quando l’insaziabilità domina il funzionamento emotivo di una persona? Il processo di maturazione è frustrato da un’ossessione o una dipendenza, in questo caso la connessione con i coetanei. Il contatto con i coetanei stimola l’appetito senza nutrire; titilla senza soddisfare; il risultato finale è in genere un desiderio bruciante di averne ancora di più. Più il bambino ha, più vuole averne. La madre di una bambina di otto anni rifletteva: “Non capisco, più tempo passa con gli amici, e più mia figlia pretende di stare insieme a loro. Ma quanto tempo le serve veramente per le interazioni sociali?”. Parimenti, il genitore di un giovane adolescente si lamentava che “Non appena nostro figlio torna dal campeggio estivo, prende il telefono per chiamare gli amici con cui è stato fino a quel momento. Eppure non vede la famiglia da due settimane!”. L’assillo per il contatto con i compagni peggiora sempre dopo che il bambino vi è stato esposto, a scuola o nei pomeriggi di gioco, quando si va a dormire dagli amici, nelle gite di classe, nelle uscite o nei campeggi estivi. Se il contatto con i coetanei saziasse, il tempo trascorso con loro porterebbe automaticamente a un aumento del gioco autonomo, della solitudine creativa o della riflessione individuale.


Molti genitori confondono questo comportamento incontentabile con un forte bisogno di interazione fra coetanei. Non faccio altro che ascoltare variazioni del tema “Ma mio figlio è assolutamente ossessionato dalle relazioni con i compagni, sarebbe crudele privarlo di questo!”. In realtà, sarebbe molto più crudele e irresponsabile indulgere in ciò che, in maniera così evidente, fomenta l’ossessione. L’unico attaccamento di cui il bambino ha davvero bisogno è quello che nutre e soddisfa, e può offrirgli pace e riposo. Più il bambino è esigente, e più questo indica un’ossessione sfuggita al controllo. Non è forza quella che il bambino manifesta, bensì la disperazione di una fame che può solo crescere nel contatto con i coetanei.

I bambini orientati ai coetanei non riescono a lasciar andare

Fino ad ora, mi sono concentrato sul fatto che saziarne la fame sia la chiave per liberare il bambino dalla preoccupazione per l’attaccamento. Tuttavia, esistono persone che sono riuscite a maturare bene senza aver mai goduto, nell’infanzia, di un attaccamento appagante con un adulto. Come è possibile? La spiegazione è che esiste una seconda chiave in grado di aprire la porta del processo di maturazione. La si potrebbe considerare come una “porta di servizio”, dato che è assai meno ovvia e per molti versi è l’opposto dell’appagamento. Questa svolta emotiva sopraggiunge quando, invece di essere soddisfatto per qualcosa che è andato nel verso giusto, il cervello del bambino registra che la fame di attaccamento non verrà saziata in quella situazione o in quel momento. Il senso di futilità che penetra a fondo è quello delle aspirazioni fallite – non ricevere l’attenzione di papà o non essere speciali per la nonna, non riuscire a farsi un amico o ad avere qualcuno con cui giocare. Potrebbe essere causata dall’incapacità del bambino di sfuggire al senso di solitudine o al non riuscire ad essere il migliore, a essere importante per qualcuno, a ritrovare un cucciolo smarrito, a trattenere mamma a casa, o a impedire il trasloco della famiglia. La lista potenziale dei desideri delusi potrebbe andare dall’esempio più banale di uno slancio frustrato all’intimità con qualcuno, fino alla più profonda perdita dell’attaccamento.


I nostri circuiti emotivi sono programmati per liberarci dal perseguimento del contatto e dell’intimità non solo quando la fame di attaccamento viene appagata, ma anche quando realizziamo sul serio che tale desiderio di appagamento è infruttuoso. Lasciar andare un desiderio a cui teniamo molto è assai difficile anche per gli adulti, che sia la voglia di piacere a tutti o il desiderio di essere amati da qualcuno in particolare, o l’aspirazione ad acquisire potere politico. Finché non accettiamo che ciò che abbiamo tentato è irrealizzabile e non viviamo appieno il disappunto e la tristezza che ne conseguono, non potremo proseguire con la nostra vita. In quanto creature immature di attaccamento, i bambini sentono un naturale impulso a mantenere la presa, a creare il contatto, a chiedere attenzione, a possedere la persona cui sono legati. Un bambino potrebbe farsi consumare da questo desiderio, al punto che esso dominerà tutto il suo funzionamento. Solo quando il senso di futilità si registra a fondo all’interno del cervello emotivo, il bisogno urgente si placherà e la presa si allenterà. D’altro canto, se il senso di futilità non riesce a penetrare, il bambino resterà intrappolato nel bisogno ossessivo di attaccamento e insisterà nel perseguire l’irraggiungibile.


Come per l’appagamento, il senso di inutilità deve penetrare a fondo affinché possa avvenire il passaggio da un’energia all’altra, il passaggio che conduce all’accettazione, dalla frustrazione a un senso di pace e di accettazione delle cose per ciò che sono. Non è sufficiente registrarlo razionalmente, deve essere sentito con profondità e vulnerabilità, proprio al cuore del sistema limbico, al centro del circuito emozionale cerebrale. Il senso di inutilità è un sentimento vulnerabile, che ci conduce faccia a faccia con i limiti del nostro controllo e con ciò che non possiamo mutare. I sentimenti di futilità sono tra i primi a scomparire quando un bambino si protegge contro la vulnerabilità. Il risultato è che i bambini orientati ai coetanei sono estremamente a corto di tali emozioni. Sebbene le loro relazioni con i coetanei siano tanto cariche di frustrazione e perdita, essi non parlano quasi mai di sentimenti di delusione, tristezza e dolore. Come vedremo nell’ultimo capitolo, l’incapacità di passare dalla frustrazione al senso di inutilità, dalla rabbia alla tristezza, è una delle fonti principali di aggressività e violenza.


Nei bambini, uno dei più naturali segnali del senso di futilità che penetra a fondo è il pianto. Esiste un piccolo organo del cervello che presiede all’orchestrazione di tale segno rivelatore. Spesso, da adulti, impariamo a nascondere le lacrime, ma l’impulso a piangere è collegato direttamente al senso di inutilità. Certo, ci sono altre esperienze che possono spingerci alle lacrime, come avere qualcosa nell’occhio, le cipolle, il dolore fisico e la frustrazione. Le lacrime del senso di futilità sono scatenate da circuiti neurologici diversi e sono uniche dal punto di vista psicologico. Le sentiamo diverse sulle nostre guance. Sono accompagnate da un cambiamento di energia: una sana tristezza, un ritrarsi dal tentativo di cambiare le cose. Le lacrime di inutilità portano davvero a una liberazione, a un senso che qualcosa è giunto al termine. Segnalano che il cervello ha capito che quella cosa non funziona e deve essere lasciata andare. Un bambino piccolo a cui, per esempio, cada il cono gelato, ma che è in grado di trovare lacrime e tristezza fra le braccia di un adulto amorevole, accetterà la perdita, ben presto si illuminerà di nuovo e procederà verso la sua nuova avventura nel mondo.


È più che naturale che un bambino venga mosso alle lacrime da qualcosa che è fallito nei suoi attaccamenti. Anche in questo i bambini orientati ai coetanei non sono affatto naturali; è molto probabile che il loro ciglio resti asciutto quando provano un senso di inutilità, e più le cose vanno male nelle loro relazioni con i coetanei, più si fortificano le loro resistenze inconsce ad accettare la futilità delle cose. Quando smettiamo di piangere, è come se la capacità cerebrale di elaborare le emozioni – solitamente piuttosto flessibile e reattiva – si irrigidisca. Perde la sua plasticità, la sua abilità ad evolvere. Senza il senso di futilità, così come senza l’appagamento, la maturazione è impossibile.

L’orientamento ai coetanei schiaccia l’individualità

L’orientamento ai coetanei minaccia la maturazione in un altro modo cruciale: schiaccia l’individualità. Prima di capire perché, dobbiamo far notare brevemente l’importante distinzione fra individualità e individualismo. L’individualità è frutto del processo di sviluppo di un essere psicologicamente separato, che culmina nella piena fioritura della propria unicità. Gli psicologi lo chiamano processo di differenziazione o di individuazione. Essere un individuo significa possedere idee e significati propri, confini propri. Significa dare valore alle proprie preferenze, princìpi, intenzioni, prospettive e obiettivi. Vuol dire essere in un luogo dove nessun altro sta. L’individualismo è la filosofia che pone i diritti e gli interessi della singola persona al di sopra dei diritti e degli interessi della comunità. L’individualità, d’altro canto, è il fondamento della vera comunità, in quanto solo individui autenticamente maturi possono cooperare appieno in modi che rispettino e onorino l’unicità degli altri. Per ironia della sorte, l’orientamento ai coetanei può alimentare l’individualismo pur insidiando la vera individualità.


L’individualità e l’indipendenza che stanno sbocciando hanno bisogno di essere protette, sia dalle reazioni degli altri, sia dal potere della propria spinta interiore a legarsi agli altri ad ogni costo. C’è qualcosa di molto vulnerabile in tutte le manifestazioni della crescita psicologica nascente: l’interesse, la curiosità, l’unicità, la creatività, l’originalità, gli occhi spalancati di meraviglia, le nuove idee, il fare da soli, lo sperimentare, l’esplorare, e così via. Queste prime manifestazioni hanno un tratto timido e incerto, come la tartaruga che mette fuori la testa dal guscio. Avventurarsi allo scoperto in tutta la propria nuda originalità, significa esporsi interamente alle reazioni degli altri. Se la reazione è troppo critica o negativa, questo emergere della propria personalità si dissiperà in fretta. Solo una persona molto matura può affrontare le reazioni di coloro che non riconoscono o apprezzano l’indipendenza del pensiero, dell’azione e dell’essere.


Non ci si può aspettare che i bambini accolgano i segnali di maturazione in un loro compagno. Non è responsabilità loro e, in ogni caso, sono troppo spinti dall’attaccamento per rispettare l’individualità. Come potrebbero sapere che sviluppare le proprie intenzioni getta il seme per i valori futuri? Che dividere il mondo in “mio” e “non mio” non è antisociale bensì il necessario inizio dell’individuazione? Che voler essere autore del proprio lavoro e iniziatore delle proprie idee è il modo per diventare se stessi? I bambini non sono attenti a questo genere di cose. Ci vuole un adulto per riconoscere i semi della maturità, per fare spazio all’individualità, e dare valore ai primi segnali di indipendenza. Ci vuole un adulto per vedere l’individualità come una sacra custodia e offrirle la protezione di cui ha bisogno.


Tuttavia, se il solo problema fosse l’incapacità dei bambini di incoraggiare e rispettare l’individualità reciproca, l’interazione fra coetanei non sarebbe tanto deleteria sulla personalità nascente. Purtroppo, il problema è ben peggiore. Le persone immature tendono a calpestare qualsiasi individualità che voglia manifestarsi. Nel mondo del bambino, non è l’immaturità ma piuttosto il processo di maturazione a essere sospetto e fonte di scherno. Il bambino emergente – colui che ha motivazioni proprie e non è spinto dal bisogno di contatto con i coetanei – è visto come un’anomalia, un’irregolarità, un po’ fuori dalle piste battute. Le parole che gli rivolgeranno i compagni orientati ai coetanei sono fortemente critiche: strano, stupido, ritardato, fuori di testa e fissato. I bambini immaturi non capiscono come mai questi compagni che stanno emergendo e maturando si sforzino tanto di far progressi, perché a volte cerchino la solitudine anziché la compagnia, perché siano curiosi e interessati a cose che non coinvolgono gli altri, perché facciano domande in classe. Dev’esserci qualcosa di sbagliato in loro, e per questo meritano che li si faccia vergognare. Più forte è l’orientamento ai coetanei, e più intensamente l’irritante individualità degli altri verrà attaccata.


Proprio come l’individuazione è minacciata all’esterno dalle reazioni dei coetanei, essa è anche insidiata dalle dinamiche interne del bambino orientato ai compagni. L’individualità non rende la vita facile agli attaccamenti fra coetanei. Fra queste relazioni, sono poche quelle che riescono a sopportare il peso di un bambino che sta diventando se stesso, che ha preferenze proprie, che dice ciò che pensa, che esprime i propri giudizi, che prende le sue decisioni. Quando l’attaccamento ai coetanei diventa la prima preoccupazione, l’individualità deve essere sacrificata. Al bambino immaturo un tale sacrificio non può che apparire giusto. Modificare la propria personalità, svilire l’espressione di sé, sopprimere tutte le opinioni o i valori contrastanti sembra il modo naturale di procedere. Non si può permettere alla propria individualità di frapporsi fra se stessi e i compagni. Per gli esseri immaturi, l’amicizia – con la quale intendono l’attaccamento ai coetanei – deve venire sempre prima di se stessi. Le creature di attaccamento ben volentieri venderebbero il proprio diritto inalienabile all’individualità per qualche dimostrazione di accettazione da parte dei compagni, senza sospettare affatto il sacrilegio che questo comporterebbe dal punto di vista evolutivo. L’istinto di autoconservazione, del resto, non si forma fin tanto che non esista la capacità di essere individui separati.


Kate è la mamma di Claire, una bambina di sette anni che riceve la sua istruzione in famiglia. “Una ragazzina straordinaria e unica per la sua età, con una sua indipendenza di spirito” dice Kate della figlia, “eppure, dopo poco più di due ore trascorse insieme ai coetanei, non è più la stessa. Il modo di parlare non è più il suo e prende le pose degli amici. Ci vogliono altre due ore perché il vero sé di Claire riemerga. Però, man mano che cresce, è sempre più in grado di non perdere se stessa.”


Durante gli anni in cui mia figlia Tamara era orientata ai coetanei, non era in grado di esprimere le proprie opinioni o persino di avere pensieri che l’avrebbero messa in conflitto con gli amici. Riuscivo quasi a vedere il suo contrarsi per poter rientrare nei parametri di qualsiasi relazione volesse preservare. Quando la incoraggiavo a essere se stessa con Shannon – la ragazza che era diventata il suo orientamento primario – aveva grosse difficoltà anche solo a capire cosa intendevo. Sebbene Tamara eccellesse dal punto di vista scolastico, era imbarazzata dai propri risultati e si dava gran pena nel nascondere i suoi voti ai compagni. Ogni ragazzo orientato ai coetanei conosce le regole del gioco: non dire né fare nulla che possa riflettersi negativamente sugli altri rischiando di farli allontanare. Ella sapeva per intuito che queste relazioni non avrebbero sopportato il suo peso, e così, invece di permettere al proprio sviluppo di fare il suo corso, tentava di adattarsi ad esse facendosi abbastanza piccola.


Il mondo in cui vivono i nostri figli sta diventando sempre più ostile al naturale processo di maturazione. Nell’universo dell’orientamento ai coetanei, la maturazione e l’individuazione sono viste come nemici dell’attaccamento e l’unicità e l’individualità impediscono di avere successo in questa cultura.


Il nostro compito di genitori è quello di coltivare attaccamenti con i figli che lascino spazio all’individuazione. L’individualità di un figlio non dovrebbe mai essere il prezzo da pagare per avere intimità e calore. Dobbiamo offrire loro ciò che non possono darsi l’un l’altro: la libertà di essere se stessi nel contesto di un’accettazione amorevole: è un’accettazione che i coetanei immaturi non sono in grado di offrire, ma che noi adulti possiamo e dobbiamo dare.

I vostri figli hanno bisogno di voi
I vostri figli hanno bisogno di voi
Gabor Maté, Gordon Neufeld
Perché i genitori oggi contano più che mai.La potente riscoperta del valore basilare dell’attaccamento tra genitori e figli. Più l’attaccamento è forte e sano e più i figli crescono sicuri. Il caos culturale dettato dal materialismo imperante e dalle infatuazioni tecnologiche dell’economia globalizzata minaccia la relazione con i propri figli: questi fattori appartenenti al nuovo mondo, infatti, allentano i legami di attaccamento fra i bambini e gli adulti che se ne prendono cura, distruggono il contesto appropriato perché i genitori possano svolgere il loro compito, menomando lo sviluppo umano e, inesorabilmente, erodendo le basi della trasmissione culturale e valoriale.Nel libro I vostri figli hanno bisogno di voi, un medico e uno psicologo uniscono le forze per trattare una delle tendenze più fraintese e allarmanti del nostro tempo: i coetanei (amici, cuginetti, compagni di scuola) che prendono il posto dei genitori nella vita dei figli.Questo fenomeno è definito come “orientamento ai coetanei”: tale termine si riferisce al fatto che, quando i bambini in età scolare e i giovani ragazzi hanno bisogno di un’indicazione, preferiscono rivolgersi ai coetanei anziché far riferimento al padre, alla madre e al rispetto dei valori naturali, al senso di ciò che è giusto o sbagliato, all’identità e ai normali codici di comportamento.Quando i coetanei sostituiscono i genitori, lo sviluppo dei bambini si arresta: non ci sono più sane figure educative di riferimento, l’orientamento ai pari crea una massa di giovani adulti immaturi, conformisti e inquieti, incapaci di integrarsi nella società corrente. Ora, questo continuo orientarsi ai coetanei non può che deteriorare la coesione familiare, impedendo uno sviluppo sano e equilibrato del bambino, avvelenando l’atmosfera scolastica e favorendo la crescita di una cultura giovanile aggressiva, ostile e prematuramente sessualizzata.Dal canto loro, i genitori sono a disagio, frustrati, e si acuisce la sensazione che lo sviluppo dei bambini sia sfuggito alla loro influenza. Perché si possa essere genitori efficaci, è necessario quindi che i bambini sviluppino la giusta relazione con i genitori.I ragazzi non stanno perdendo i genitori perché manca competenza o coinvolgimento, ma per mancanza di un attaccamento primario. La conservazione della cultura si basa proprio sui modelli di questo genere, e la conseguenza principale della loro perdita è la scomparsa del contesto appropriato per una sana crescita. L’attaccamento di un bambino ai genitori crea infatti un grembo psicologico necessario per dare vita alla personalità e all’individualità.Gli autori Gordon Neufeld e Gabor Maté aiutano i genitori, gli insegnanti e gli operatori sociali a comprendere questo fenomeno inquietante, fornendo soluzioni utili per ristabilire la giusta preminenza del legame che unisce i figli ai genitori e restituendo a questi ultimi il potere e la forza di essere una fonte vera di contatto, guida, calore e sicurezza. Un libro non finisce con l’ultima pagina!Questo titolo si arricchisce di contenuti “extra” digitali. Per consultarli è sufficiente utilizzare il QR code in quarta di copertina.