terza parte

Confinati nell’immaturità: come l’orientamento ai coetanei impedisce il sano sviluppo dell’individuo

capitolo Viii

La pericolosa fuga
dai sentimenti

Negli ultimi tempi, camminando per i corridoi della scuola superiore di mio figlio durante l’ora del pranzo, sono rimasto colpito dalla sensazione di trovarmi in un contesto molto simile a quello dei corridoi e delle mense delle prigioni minorili nelle quali avevo lavorato. La postura, i gesti, il tono, le parole, e l’interazione fra coetanei che osservavo in questa calca di adolescenti, tutto esprimeva una strana e innaturale invulnerabilità. Questi ragazzi sembravano impossibili da ferire. Il loro contegno rivelava una sicurezza, persino una spavalderia smargiassa che sembrava inattaccabile e superficiale al tempo stesso.


Il primo valore imposto dalla cultura dei pari è quello di essere “cool”, [di fare i “fichi”, N.d.T.], di caratterizzarsi per una completa assenza di apertura emotiva. I più stimati nel gruppo dei pari ostentano una calma sconcertante, non mostrano quasi alcuna paura, sembrano immuni dalla vergogna, e devono mormorare frasi del tipo “Chi se ne frega!”, “Frega niente!”, “Affari loro!”.


La realtà è piuttosto diversa. Gli esseri umani sono i più vulnerabili (dal latino vulnerare, ferire) fra tutte le creature e non solo fisicamente, ma anche psicologicamente. Cos’è allora che può rendere conto di una tale discrepanza? Come possono giovani esseri umani, di fatto tanto vulnerabili, apparire esattamente l’opposto? La loro durezza, il loro atteggiamento “fico”, sono posticci o sono reali? È una maschera che ci si può togliere una volta giunti in un porto sicuro, oppure rappresenta il vero volto dell’orientamento ai pari?


Quando, per la prima volta, mi imbattei in questa subcultura dell’invulnerabilità adolescenziale, pensai che fosse solo un atteggiamento. La psiche umana può sviluppare difese formidabili contro un consapevole senso di vulnerabilità, difese che si radicano nel circuito emotivo della mente. Preferivo credere che questi ragazzi, se ne avessero avuto la possibilità, avrebbero rimosso la loro corazza e rivelato il lato più tenero, più genuinamente umano. In alcune occasioni questo si rivelò vero, ma più spesso dovetti invece constatare che l’invulnerabilità degli adolescenti non era finta o presuntuosa. Molti di questi bambini e ragazzi non provavano sentimenti di dolore, non sentivano alcuna ferita. Non voglio dire che non potessero essere feriti anche loro, ma finché si trattava dei sentimenti che essi provavano consciamente, non vi era alcuna maschera da togliere.


I ragazzi capaci di provare emozioni come la tristezza, la paura, la perdita e il rifiuto nasconderanno spesso questi sentimenti ai compagni per evitare di esporsi al rischio di essere ridicolizzati e attaccati. L’invulnerabilità è un camuffamento che adottano per mescolarsi alla folla, ma a cui presto rinunciano in compagnia di coloro con i quali sanno di poter essere se stessi. Non sono questi i ragazzi che mi preoccupano di più, malgrado io abbia senz’altro una preoccupazione per l’impatto che un’atmosfera di invulnerabilità avrà sul loro sviluppo e apprendimento. In un tale contesto la genuina curiosità non potrà prosperare, le domande non potranno essere poste liberamente, l’entusiasmo schietto per la conoscenza non verrà espresso. È un ambiente nel quale non si possono correre rischi e dove la passione per la vita e la creatività non trovano sfogo.


Ma i ragazzi più a rischio di danni psicologici e più profondamente coinvolti sono quelli che aspirano a essere duri e invulnerabili, non solo a scuola ma in generale. Costoro non possono indossare e togliere la maschera a piacimento. La difesa non è qualcosa che essi fanno, bensì qualcosa che essi sono. Questo indurimento emotivo è più evidente nei delinquenti e negli appartenenti alle bande o nei ragazzi di strada, ma rappresenta anche una dinamica significativa della varietà di orientamento ai coetanei che si ritrova quotidianamente nella tipica famiglia americana.

I bambini orientati ai coetanei sono più vulnerabili

Il solo motivo per cui un bambino o un ragazzo diventano inconsapevoli della propria vulnerabilità è che essa è diventata troppo pesante da sopportare, le sue ferite troppo dolorose. In altre parole, i ragazzi che nel passato sono stati sopraffatti dal dolore emotivo, è probabile che sviluppino assuefazione in futuro a questo genere di esperienze.


La relazione che lega ferite psichiche e fuga dalla vulnerabilità è piuttosto ovvia in bambini la cui esperienza di dolore emotivo è stata profonda. Quelli che con maggiore probabilità sviluppano questo tipo di indurimento emotivo di difesa sono i bambini degli orfanotrofi o dati più volte in affidamento, i bambini che hanno sperimentato perdite significative o hanno subìto maltrattamenti e abbandoni. Visto il trauma sofferto, è facile comprendere perché tendano a sviluppare straordinarie difese inconsce.


Quello che sconcerta è che, senza alcun trauma paragonabile a quelli appena citati, molti bambini, dopo un periodo di orientamento ai coetanei, possono manifestare lo stesso grado di atteggiamento difensivo. Sembra che i bambini orientati ai coetanei abbiano bisogno di proteggere se stessi dalla vulnerabilità con la stessa intensità dei bambini traumatizzati. Come si spiega questo fenomeno, in assenza di esperienze manifestamente simili?


Prima di discutere le ragioni dell’accresciuta fragilità e dell’indurimento emotivo nei ragazzi orientati ai coetanei, dobbiamo chiarire il significato dell’espressione difeso contro la vulnerabilità, e del suo sinonimo fuga dalla vulnerabilità. Sono espressioni con cui intendiamo indicare le reazioni di difesa istintive del cervello quando viene sopraffatto da un senso di vulnerabilità. Queste reazioni inconsce vengono suscitate per difendersi non dalla reale vulnerabilità, ma da una percezione di vulnerabilità. La mente umana non è in grado di impedire che un bambino venga ferito, ma può impedire che senta, che percepisca la propria ferita. Le espressioni difeso contro la vulnerabilità e fuga dalla vulnerabilità contengono questi significati. Comunicano il senso di una perdita di contatto del bambino con pensieri e emozioni che lo fanno sentire vulnerabile, una diminuita consapevolezza della suscettibilità umana ad essere feriti emotivamente. Tutti, a volte, possiamo sperimentare una tale chiusura emotiva. Un bambino si difende contro la vulnerabilità quando la chiusura non è più solo una reazione temporanea, bensì una condizione duratura.


Esistono quattro ragioni per cui i ragazzi orientati ai coetanei sono più sensibili alle ferite emotive dei loro compagni orientati agli adulti. L’effetto finale è una fuga dalla vulnerabilità che somiglia in modo inquietante all’indurimento emotivo dei bambini traumatizzati.

I bambini orientati ai coetanei perdono il loro scudo naturale contro lo stress

La prima ragione per cui i bambini e i ragazzi orientati ai coetanei devono schermarsi emotivamente è che hanno perduto la loro naturale fonte di potere e di fiducia in se stessi e, allo stesso tempo, il loro scudo naturale contro il dolore e le ferite intollerabili.


A parte il flusso continuo di tragedie e traumi che avvengono ovunque, il mondo personale del bambino è fatto di interazioni profonde e intense, e di eventi che possono ferire: essere ignorati, non essere considerati importanti, venire esclusi, non essere all’altezza, sentirsi disapprovati, non venire apprezzati, non essere preferiti, essere ridicolizzati e umiliati. Ciò che protegge il bambino dal peso di tutto questo stress è l’attaccamento a un genitore. È l’attaccamento quello che conta: finché il bambino non sviluppa un attaccamento con coloro che lo disprezzano, il danno è relativamente contenuto. I rimproveri e gli insulti possono far male e provocare qualche lacrima, ma l’effetto non durerà a lungo. Quando il genitore funziona come bussola di riferimento, sono i messaggi che trasmette ad essere importanti. Se avvengono traumi o tragedie, il bambino si rivolgerà al genitore per capire se c’è da preoccuparsi. Se il loro attaccamento è solido, il cielo potrebbe crollare e venire la fine del mondo, ma il bambino sarà abbastanza protetto dalla sensazione di essere pericolosamente vulnerabile. Il film di Roberto Benigni, La Vita è Bella, in cui un padre ebreo si prodiga per proteggere il figlio dagli orrori del razzismo e del genocidio, illustra questo aspetto in modo molto toccante e intenso. L’attaccamento protegge il bambino dal mondo esterno.


Un padre mi raccontò una volta come aveva assistito al potere protettivo dell’attaccamento quando suo figlio, che chiameremo Braden, aveva circa cinque anni. “Braden voleva giocare a calcio nella squadra locale; il primo giorno di allenamento, alcuni bambini più grandi gli diedero filo da torcere. Quando sentii che lo deridevano e lo schernivano, mi trasformai senza indugio in un protettivo papà orso. Avevo tutte le intenzioni di far sì che quei bulli si dessero una bella regolata, quando osservai Braden che li fronteggiava, allungandosi in tutta la sua altezza, con le mani sui fianchi e sporgendo il petto più che poteva. Lo udii dire qualcosa del tipo, ‘Non sono un piccolo stupido imbranato! Papà dice che sono un calciatore’. E questo sembrò bastare.” L’idea che Braden aveva di ciò che il padre pensava di lui lo protesse con più efficacia di quanto avrebbe mai potuto fare il padre attraverso un intervento diretto. La percezione che il padre aveva di lui ebbe la meglio sugli insulti dei compagni, che vennero in tal modo schivati. Al contrario, un bambino orientato ai coetanei che non si rivolgesse più agli adulti per il proprio senso di autostima, non godrebbe di una simile protezione.


Naturalmente questa dinamica presenta un rovescio della medaglia. L’attaccamento di questo bambino lo protegge contro le interazioni dolorose con gli altri tanto quanto lo rende sensibile ai gesti e alle parole del padre verso di lui. Se il padre lo sottovalutasse, lo umiliasse, lo investisse col suo disprezzo, Braden ne sarebbe devastato. Il suo attaccamento ai genitori lo rende molto vulnerabile in relazione a loro e meno vulnerabile in relazione agli altri. Esiste un interno e un esterno: la vulnerabilità è all’interno dell’attaccamento e l’invulnerabilità all’esterno. L’attaccamento è allo stesso tempo lama e scudo; divide il mondo fra coloro che hanno il potere di ferire e coloro che non lo hanno. L’attaccamento e la vulnerabilità, questi due grandi temi dell’esistenza umana, vanno mano nella mano.


Una parte ovvia del nostro lavoro di genitori è quella di difendere i figli dalle ferite fisiche. Nel campo della psiche, malgrado la parte ferita non sia necessariamente visibile, la possibilità di essere feriti è anche maggiore. Persino noi adulti, per quanto relativamente maturi, possiamo essere scagliati violentemente fuori rotta o essere immobilizzati dal dolore emotivo quando una relazione di attaccamento si spezza. Se gli adulti possono essere feriti a tal punto, tanto più lo saranno i nostri figli, che sono molto più dipendenti e hanno molto più bisogno di affidarsi agli attaccamenti.


L’attaccamento è, per un bambino, il bisogno più pressante e una spinta formidabile, e tuttavia è sempre l’attaccamento che lo predispone al dolore delle ferite. Come due facce di una stessa medaglia, non si può avere l’una senza l’altra. Più un bambino è attaccato, più è vulnerabile: l’attaccamento è il territorio della vulnerabilità. E questo ci porta al secondo dei motivi per cui i bambini orientati ai coetanei hanno bisogno di alzare alte barriere di difesa emotiva.

I bambini orientati ai coetanei sono più vulnerabili alle interazioni prive di sensibilità dei pari

Proprio come un bambino orientato agli adulti è più vulnerabile nei confronti di genitori e insegnanti, i bambini orientati ai coetanei lo sono invece gli uni in relazione agli altri. Una volta perso lo scudo del loro attaccamento parentale, essi diventano estremamente sensibili alle azioni e alla comunicazione degli altri bambini. Il problema è che la naturale interazione fra coetanei è tutto fuorché attenta, sensibile e premurosa. Quando i coetanei prendono il posto dei genitori, questa interazione irresponsabile e disattenta acquisisce un potere che non avrebbe mai dovuto avere. L’emotività e la sensibilità ne sono facilmente sopraffatte. Si immagini come ce la caveremmo noi adulti se fossimo assoggettati dagli amici al tipo di interazione sociale che i bambini subiscono ogni santo giorno: i tradimenti meschini, il rifiuto, il disprezzo, la pura mancanza di affidabilità. Nessuna meraviglia che i ragazzi orientati ai coetanei si chiudano di fronte alla vulnerabilità.

La letteratura che studia l’impatto sui ragazzi del rifiuto da parte dei coetanei, e che si fonda su ricerche estese, è molto esplicita sulle conseguenze negative e utilizza termini come devastante, rovinoso, sconvolgente, umiliante22. I suicidi dei minori sono in aumento, e gli studi indicano che il rifiuto da parte dei coetanei ne è sempre più la causa. Ho osservato io stesso le vite di numerosi adulti e ragazzi distrutte dalla sofferenza per il modo in cui erano stati trattati dai loro pari. Il mio primissimo cliente è stato proprio un adulto, vittima di soprusi da parte dei compagni quando ancora frequentava la scuola elementare. Per ragioni a lui sconosciute, divenne il capro espiatorio di un gruppo di bambini frustrati che lo maltrattavano di continuo. Sviluppò ossessioni e compulsioni talmente serie che gli impedivano di condurre una vita normale. Egli, ad esempio, non poteva tollerare alcun riferimento al numero 57 perché il 1957 fu l’anno peggiore dei maltrattamenti subiti. Quando veniva contaminato da quel numero, doveva inscenare rituali complessi di pulizia che gli rendevano la vita impossibile. L’ostracismo e i soprusi dei pari hanno rovinato la vita a molti di questi capri espiatori dell’infanzia (studi recenti dimostrano che questo genere di fenomeni è rapidamente in aumento sotto l’influenza dell’orientamento ai coetanei, e li osserveremo più da vicino nei capitoli 10 e 11, dedicati all’aggressività e al bullismo).

Il primo colpevole è considerato il rifiuto da parte dei compagni: sfuggire, escludere, schernire e umiliare, deridere, sbeffeggiare, perseguitare. La conclusione a cui sono pervenuti alcuni esperti è che l’accettazione da parte dei coetanei è assolutamente necessaria alla salute emotiva e al benessere del bambino, e nulla è peggio del non piacere ai compagni. Si ipotizza che il rifiuto da parte dei coetanei condanni automaticamente a dubitare di sé per il resto della vita. Molti genitori, oggi, vivono con la paura che i propri figli non abbiano amici e non siano apprezzati dai coetanei. Questo modo di pensare non considera due aspetti fondamentali: cosa rende un bambino tanto vulnerabile in prima istanza? E perché questa vulnerabilità è in aumento?


È assolutamente vero che i bambini snobbano e disprezzano, ignorano, sfuggono, umiliano, deridono e sbeffeggiano; lo hanno sempre fatto se non sorvegliati a sufficienza dagli adulti responsabili. Ma è l’attaccamento, non il comportamento e il linguaggio insensibile dei compagni, a determinare la loro vulnerabilità. Gli studi moderni, focalizzati sull’impatto del rifiuto e dell’accettazione da parte dei pari, si lasciano completamente sfuggire il ruolo dell’attaccamento. Se il bambino possiede un attaccamento primario con i genitori, è l’accettazione genitoriale che diventa vitale per la sua salute emotiva e il suo benessere, e il non piacere ai genitori è un colpo devastante per la sua autostima. La disposizione dei bambini alla crudeltà probabilmente non è mutata ma, come mostrano le ricerche, le ferite che i nostri figli si infliggono a vicenda sono aumentate. Se oggi molti bambini sono traumatizzati dall’insensibilità dei loro coetanei, questo non dipende per forza dal fatto che i bambini di oggi siano più crudeli rispetto al passato, ma è invece dovuto al fatto che l’orientamento ai pari li ha resi più suscettibili agli insulti reciproci e agli attacchi emotivi. Il non essere riusciti a preservare l’attaccamento dei nostri figli con noi e con gli altri adulti di riferimento, non solo li ha privati dei loro scudi difensivi, ma ha armato di spada la mano dei loro compagni. Quando i coetanei sostituiscono i genitori, i bambini perdono la loro protezione vitale contro l’egoismo degli altri. In tali circostanze, la vulnerabilità del bambino può essere facilmente sopraffatta; il dolore che ne risulta è più di quanto molti riescano a sopportare.

Gli studi sono inequivocabili nell’accertare che la miglior protezione per un bambino, anche durante l’adolescenza, è un forte attaccamento con un adulto. Lo studio più imponente riguardò novantamila adolescenti provenienti da ottanta comunità diverse, scelte per essere il più possibile rappresentative degli Stati Uniti. La scoperta principale fu che gli adolescenti con forti legami affettivi con i propri genitori erano molto meno soggetti a manifestare problemi legati all’alcol e alle droghe, ai tentativi di suicidio, o a essere coinvolti in comportamenti violenti e attività sessuale precoce23. Questi adolescenti, in altre parole, erano molto meno a rischio proprio in relazione a quei problemi che derivano dal fatto di essere protetti contro la vulnerabilità. Ciò che li preservava dallo stress e proteggeva la loro salute emotiva e le funzioni ad essa connesse era un forte attaccamento con i genitori. Questa fu anche la conclusione cui giunse il noto psicologo americano Julius Segal, brillante pioniere nella ricerca sulle capacità di recupero dei giovani. Compendiando studi e ricerche da tutto il mondo, egli concluse che il fattore più importante nell’impedire che i ragazzi fossero sopraffatti dallo stress era “la presenza nelle loro vite di un adulto carismatico – una persona con la quale si identificassero e da cui potessero trarre forza24. Segal disse anche: “Non funzionerà nulla in assenza di un legame indistruttibile di cura e affetto fra genitore e figlio”.

I coetanei non dovrebbero mai arrivare ad avere tanta importanza – certamente non più di quella che hanno i genitori, gli insegnanti o altre figure adulte di attaccamento. Lo scherno e il rifiuto dei coetanei bruciano, naturalmente, ma non dovrebbero ferire tanto a fondo, né essere così devastanti. Il profondo abbattimento di un bambino escluso rivela un problema di attaccamento molto più serio che un problema di rifiuto da parte dei coetanei.


In risposta all’intensificarsi della crudeltà reciproca dei bambini, le scuole di tutto il continente si precipitano a tracciare programmi per inculcare la responsabilità sociale nei ragazzini. Siamo fuori strada se cerchiamo di rendere i bambini responsabili verso altri bambini. Dal mio punto di vista, è completamente irrealistico credere che in tal modo si possa sradicare il rifiuto, l’esclusione e le ingiurie fra coetanei. Dovremmo, invece, sforzarci di tenere lontano il dolore da queste manifestazioni naturali di immaturità, ristabilendo il potere degli adulti nel proteggere i più giovani da se stessi e dai loro coetanei.

Le manifestazioni di vulnerabilità sono schernite e sfruttate dai coetanei

Avendo perso lo scudo protettivo fornito dall’attaccamento ai genitori, e poiché la possente spada dell’attaccamento è brandita da ragazzini irresponsabili e sconsiderati, i giovani orientati ai coetanei devono fronteggiare due gravi rischi psicologici che da soli sono più che sufficienti a rendere insopportabile la propria vulnerabilità e provocare i meccanismi di difesa della mente. Un terzo colpo contro la capacità di provare sentimenti aperti e profondi – il che è anche la terza ragione per cui i ragazzi orientati ai coetanei si proteggono contro la vulnerabilità – è quello per cui qualunque segno di vulnerabilità tende ad essere attaccato da coloro che sono già chiusi verso di essa.


Per fare un esempio estremo, durante il mio lavoro con giovani fuorilegge violenti, uno dei miei primi obiettivi era quello di sciogliere le loro difese contro la vulnerabilità, così che potessero iniziare a sentire le proprie ferite. Se una seduta era andata bene ed ero stato in grado di aiutarli a oltrepassare le barriere difensive per giungere a qualche dolore sottostante, i loro volti e le loro voci si ammorbidivano e gli occhi si riempivano di lacrime; per la maggior parte di quei ragazzi, quelle lacrime erano le prime in tanti anni. Specialmente nel caso in cui qualcuno non sia abituato a piangere, questo può influire marcatamente sul volto e sugli occhi. All’inizio, ero ancora abbastanza ingenuo da rimandare quei ragazzi in cella con gli altri dopo le sedute. Non è difficile immaginare cosa accadesse: poiché la vulnerabilità era ancora scritta sui loro volti, essa attirava l’attenzione degli altri compagni. Coloro che erano protetti contro la vulnerabilità si sentivano obbligati ad attaccare; essi assalivano la vulnerabilità come se fosse il nemico. Imparai presto a prendere le opportune precauzioni e ad aiutare i miei clienti affinché i segni della vulnerabilità non fossero evidenti. Per buona sorte avevo a disposizione un bagno proprio accanto al mio ufficio nella prigione. A volte i ragazzi trascorrevano anche un’ora a sciacquarsi il viso con l’acqua fredda, cercando di cancellare ogni traccia di emozione che li avrebbe traditi. Anche se le loro difese si erano un po’ ammorbidite, essi dovevano continuare a indossare una maschera di invulnerabilità per evitare di essere ancora più feriti. Parte del mio lavoro consisteva nell’aiutarli a differenziare fra la maschera di invulnerabilità, che erano costretti a indossare in quel luogo per evitare di essere angariati, e le barriere interiori contro la vulnerabilità che impedivano loro di sentire in modo profondo e intenso.


La stessa dinamica, certo non a questi estremi, opera nel mondo dominato dai bambini orientati ai coetanei. La vulnerabilità viene di solito attaccata, non a pugni ma con la derisione. Molti imparano in fretta a mascherare ogni segno di debolezza, sensibilità e fragilità, così come di agitazione, paura, brama, bisogno, e persino curiosità. E soprattutto non devono mai far vedere che la presa in giro ha colpito nel segno.


Carl Jung spiegò come tendiamo ad attaccare negli altri ciò che più ci dà fastidio in noi stessi. Quando la vulnerabilità è il nemico, viene attaccata ovunque sia percepita, persino nel nostro migliore amico. Segni di agitazione possono provocare offese verbali come “cacasotto” o “coniglio”. Le lacrime evocano il ridicolo. Espressioni di curiosità possono far roteare gli occhi con l’accusa di essere uno strano o un fissato. Manifestazioni di tenerezza possono portare a infinite prese in giro. Rivelare che qualcosa ci ha fatto soffrire o che teniamo molto a qualcosa è rischioso se si è accanto a qualcuno che non si sente a proprio agio con la sua vulnerabilità. In compagnia di persone desensibilizzate, ogni volta che si fa mostra di apertura emotiva, si rischia di essere presi di mira.

Le relazioni fra coetanei sono intrinsecamente insicure

C’è ancora una quarta e ancor più fondamentale causa che costringe questi bambini a sfuggire la loro intensificata suscettibilità alle ferite emotive.


La vulnerabilità generata dall’orientamento ai coetanei può risultare opprimente e intollerabile anche quando i bambini non si feriscono l’un l’altro; infatti è insita nella natura fortemente insicura di questo tipo di relazioni. Essa non ha solo a che fare con ciò che accade, ma anche con ciò che potrebbe accadere, quindi con l’insicurezza intrinseca dell’attaccamento. Tutto ciò che abbiamo lo possiamo perdere, e più è grande il valore di ciò che possediamo, maggiore sarà la perdita potenziale. Forse potremmo riuscire a raggiungere intimità e vicinanza emotiva nell’ambito di una relazione, ma non potremmo mai assicurarcele, nel senso di poter fare affidamento su di esse – non certo come si assicura una corda o una barca, né come si fa affidamento su titoli di stato a interesse fisso. Si ha molto poco controllo su ciò che accade in una relazione, non sappiamo se saremo amati e voluti anche domani.


Sebbene la possibilità della perdita sia insita in qualunque relazione, noi genitori facciamo ogni sforzo per dare ai figli ciò che essi sono costituzionalmente incapaci di darsi l’un l’altro: una connessione che non abbia come fondamento il fatto che essi ci debbano far piacere, o far sentire bene, o ricambiare in alcun modo. In altre parole, offriamo ai nostri figli proprio ciò che manca nelle relazioni con i coetanei: l’accettazione incondizionata.


Gli esseri umani possiedono una comprensione intuitiva del punto oltre il quale la vulnerabilità diventa insostenibile. La vulnerabilità dovuta alla paura della perdita è connaturata alle relazioni fra coetanei, in esse non vi è alcuna maturità a cui affidarsi, nessuna dedizione sulla quale contare, nessun senso di responsabilità per un altro essere umano. Il bambino è lasciato alla dura realtà di attaccamenti incerti: e se non riesco a legare con i compagni? E se non riesco a far funzionare la relazione? E se non voglio fare le cose che fanno i miei amici, se la mamma non mi lascia uscire, o se al mio amico piacciono questo o quello più di quanto gli piaccia io? Sono queste le ansie onnipresenti dei bambini orientati ai coetanei, mai troppo al di sotto della superficie. Essi sono ossessionati dal pensiero di chi piaccia a chi, di chi preferisca chi, di chi voglia stare insieme a chi. Non c’è spazio per i passi falsi, né per far trapelare slealtà, disaccordo, differenze o ancora nonconformità. La vera individualità è schiacciata dal bisogno di mantenere la relazione ad ogni costo. Tuttavia non conta quanto duramente il ragazzo si impegni, perché quando i coetanei rimpiazzano i genitori, il senso di insicurezza può aumentare fino a diventare intollerabile. Ed è qui che spesso l’insensibilità si insedia, la chiusura difensiva scatta e i ragazzi non appaiono più vulnerabili. Si raggelano emotivamente per il bisogno di difendersi dal dolore della perdita, ancor prima che questa avvenga di fatto. Dinamiche analoghe entrano prepotentemente in gioco nelle relazioni sessuali “amorose” degli adolescenti più grandi (si veda il capitolo 12).


In Attaccamento e perdita: la Separazione dalla madre, il secondo volume della sua grande trilogia sull’attaccamento, John Bowlby descrisse cosa era stato osservato quando dieci bambini piccoli in nidi residenziali erano stati ricongiunti alle madri dopo una separazione che era durata dai dodici giorni alle ventuno settimane. Le separazioni erano state dovute in ogni caso a emergenze familiari e all’assenza di altre persone che potessero prendersi cura dei piccoli, e non vi era stato alcun intento da parte dei genitori di abbandonarli.

Nei primi giorni dopo la partenza della madre i bambini erano ansiosi e la cercavano ovunque; a questa prima fase era seguita un’apparente rassegnazione, persino depressione da parte del piccolo, sostituita poi da ciò che sembrava un ritorno alla normalità. I bambini avevano ripreso a giocare, a rispondere a coloro che li accudivano, ad accettare il cibo e altre cure. Il vero prezzo emotivo del trauma di perdita divenne evidente solo al ritorno delle madri. Al primo incontro con la madre, dopo giorni o settimane, ognuno dei dieci bambini manifestò una significativa estraneità. Due di loro sembrarono non riconoscerla, gli altri otto si voltarono o addirittura si allontanarono da lei. La maggior parte di loro pianse o fu molto vicina alle lacrime; alcuni alternarono le lacrime a un volto inespressivo. La dinamica da privazione è stata chiamata “distacco” da John Bowlby25. Un tale distacco ha una funzione difensiva e un solo significato: la tua assenza per me è stata talmente dolorosa che per evitare di provare ancora un simile dolore mi rinchiuderò in un guscio di emozioni pietrificate, inaccessibile all’amore, e quindi al dolore. Non voglio più sentire così tanto male.

Bowlby puntualizzò anche che il genitore può essere presente dal punto di vista fisico ma assente da quello emotivo, a causa di stress, ansia, depressione, o altre preoccupazioni. Dal punto di vista del bambino, ciò non conta. Le sue reazioni codificate saranno le stesse, perché il vero problema non è tanto la mera presenza fisica del genitore, bensì la sua accessibilità emotiva. Un bambino che soffra una grave insicurezza nella sua relazione con i genitori, adotterà l’invulnerabilità del distacco difensivo come suo principale modo di essere. Quando sono i genitori che rappresentano l’attaccamento attivo del bambino, il loro amore e senso di responsabilità di regola garantirà che essi non lo costringeranno ad adottare misure tanto disperate. I coetanei non hanno, invece, una analoga consapevolezza, né analoghi sensi di colpa o responsabilità. La minaccia dell’abbandono è sempre presente nelle interazioni con i coetanei, e ad essa si risponde automaticamente con il distacco emotivo.


Nessuna meraviglia, allora, che essere “cool”, [essere “fichi”] rappresenti il valore principale nella cultura dei pari, l’estrema virtù. Sebbene la parola cool, [“fico”], in inglese abbia molti significati, essa connota innanzitutto un’aria di invulnerabilità. Quando l’orientamento ai coetanei è intenso, non c’è segno di vulnerabilità nel linguaggio, nel portamento, nell’abbigliamento e negli atteggiamenti.


Il mio coautore era, prima di diventare medico, un insegnante di scuola superiore. Gabor ricorda quando lesse Uomini e Topi di John Steinbeck a una classe di quindicenni; gli studenti mancavano del tutto di empatia verso i protagonisti del libro, due umili lavoratori colpiti dalla povertà. “Sono talmente stupidi”, fu il commento di molti studenti, “hanno avuto quello che si meritavano!”. Questi adolescenti mostravano scarso apprezzamento per la vicenda tragica e nessun rispetto per la dignità della gente nel sopportare il dolore.


È facile biasimare la televisione o i film, o la musica rap, per aver desensibilizzato i nostri giovani nei confronti della sofferenza umana, della violenza e persino della morte. L’invulnerabilità di fondo non proviene dalla cultura commercializzata, per quanto essa sia riprovevole nell’assecondare e sfruttare l’indurimento emotivo e l’immaturità dei ragazzi. L’invulnerabilità dei giovani orientati ai coetanei è alimentata dall’interno. Anche se non ci fossero film e televisione a darle forma, essa scaturirebbe spontaneamente come modus operandi dei ragazzi orientati ai pari. Sebbene questi provengano da ogni parte del mondo e appartengano a un numero infinito di sottoculture, il tema dell’invulnerabilità è universale nella cultura giovanile. Le mode vanno e vengono, la musica cambia forma, il linguaggio si trasforma, ma il freddo distacco e la chiusura emotiva sembrano permearle tutte. La pervasività di questo aspetto della cultura è una formidabile testimonianza della disperata fuga dalla vulnerabilità dei suoi membri.


La preponderanza di droghe che sopprimono la vulnerabilità è un altro fattore che testimonia la natura intollerabile della vulnerabilità sperimentata dai ragazzi orientati ai coetanei. Essi farebbero qualunque cosa per evitare i sentimenti umani della solitudine, della sofferenza e del dolore, e per evitare di sentirsi feriti, abbandonati, impauriti, insicuri, inadeguati o consapevoli di sé. Più sono grandi e orientati ai coetanei, più le droghe sembrano essere parte integrante del loro stile di vita. L’orientamento ai coetanei crea un appetito per tutto ciò che può ridurre in qualche modo la vulnerabilità. Le droghe sono degli anestetici emotivi e, d’altro canto, aiutano i giovani a fuggire da quello stato di paralisi e intorpidimento che consegue al distacco emotivo utilizzato come difesa. Con la chiusura alle emozioni, ecco che arriva la noia e l’alienazione. Le droghe forniscono una stimolazione artificiale a chi è emotivamente logoro. Intensificano le sensazioni e forniscono un falso senso di coinvolgimento senza incorrere nel rischio dell’apertura autentica. Di fatto la stessa droga può avere funzioni apparentemente opposte in un individuo. L’alcol e la marijuana, ad esempio, possono intontire o, all’opposto, liberare la mente dalle inibizioni. Altri tipi di droghe hanno effetto stimolante – la cocaina, le amfetamine e l’ecstasy; il nome stesso dell’ultima la dice lunga su ciò che manca nella vita psichica dei nostri giovani emotivamente menomati.


La funzione psicologica assolta da queste droghe è spesso sottovalutata da adulti ben intenzionati che percepiscono il problema come proveniente dall’esterno dell’individuo, attraverso la pressione dei coetanei e i costumi della cultura giovanile. La questione non è soltanto quella di far dire di no ai nostri figli; il problema è molto più profondo. Finché non affronteremo, invertendolo, l’orientamento ai coetanei dei nostri ragazzi, non faremo che creare una sete insaziabile di queste droghe. L’attrazione per esse nasce dal profondo di animi corazzati contro la vulnerabilità. La salvezza emotiva dei nostri ragazzi può venire solo da noi: allora non saranno più spinti a rifuggire i propri sentimenti e ad affidarsi agli effetti anestetici delle droghe. Il loro bisogno di sentirsi vivi ed eccitati può e dovrebbe nascere da loro stessi, dalla loro sconfinata e innata capacità di sentirsi parte dell’universo.


Questo ci riconduce alla natura sostanzialmente gerarchica dell’attaccamento. Più un bambino o un ragazzo ha bisogno dell’attaccamento per funzionare, più è cruciale che abbia sviluppato attaccamenti primari con gli adulti responsabili. Solo allora sarà possibile sopportare la vulnerabilità che è insita nelle relazioni affettive. I bambini non hanno bisogno di amici, essi hanno bisogno di genitori, nonni, adulti che si assumano la responsabilità di tenersi stretti a loro. Più si legano ad adulti amorevoli, più saranno in grado di interagire con i coetanei senza essere sopraffatti dalla vulnerabilità che ne consegue. Meno contano i compagni, e più la vulnerabilità insita nelle relazioni instaurate con essi sarà sopportabile. Sono proprio i ragazzi che non hanno bisogno di amici ad essere più capaci di averne senza perdere la propria capacità di sentire in modo profondo e intenso.


Ma perché dovremmo desiderare che i nostri figli restino aperti alla vulnerabilità? Cos’è che non va se il distacco congela le emozioni al fine di proteggere il bambino? Per intuito, tutti sappiamo che è meglio sentire piuttosto che non sentire; le nostre emozioni non sono un lusso, ma un tratto essenziale della nostra natura. Non le abbiamo solo per il piacere di provare dei sentimenti, ma perché svolgono un ruolo cruciale per la sopravvivenza. Ci orientano, interpretano il mondo per noi, ci danno informazioni vitali senza le quali non potremmo prosperare. Ci dicono ciò che è pericoloso e ciò che è favorevole, cosa minaccia la nostra esistenza e cosa può arricchire la nostra crescita. Provate a immaginare quanto saremmo menomati se non riuscissimo a vedere o a sentire, a gustare i sapori o a percepire il caldo, il freddo, e il dolore fisico. Chiudersi alle emozioni significa perdere una parte indispensabile del nostro apparato sensoriale e, oltre a ciò, una parte indispensabile di ciò che siamo. Le emozioni sono ciò che rende la vita degna di essere vissuta, eccitante, interessante, piena di significato. Ci spingono all’esplorazione del mondo, danno un senso alle nostre scoperte, e alimentano la nostra crescita. Fino al cuore stesso delle cellule, gli esseri umani possono essere in modalità difensiva oppure di crescita, ma non possono essere in entrambe allo stesso tempo. Quando i bambini diventano invulnerabili, cessano di riferirsi alla vita come possibilità infinite, a se stessi come potenziale sconfinato, e al mondo come all’arena benedetta e accogliente dell’espressione di sé. L’invulnerabilità imposta dall’orientamento ai coetanei imprigiona il bambino nei propri limiti e nelle proprie paure. Non meraviglia che oggi tanti bambini vengano curati per depressione, ansia e altri disturbi.


L’amore, l’attenzione e la sicurezza che solo gli adulti possono offrire, liberano i bambini dal bisogno di rendersi invulnerabili e ripristinano in loro quella capacità di vivere intensamente e avventurosamente che non potrà mai scaturire da attività rischiose, sport estremi o droghe. Senza quella sicurezza, i nostri figli saranno costretti a sacrificare la propria capacità di crescita e di maturazione psichica, la voglia di coinvolgersi in relazioni significative, e di assecondare i propri impulsi più profondi e straordinari verso l’espressione di sé. In ultima analisi, la fuga dalla vulnerabilità è una fuga da se stessi; se non li teniamo stretti a noi, i nostri figli pagheranno un prezzo altissimo nella perdita della capacità di restare fedeli al loro vero e autentico essere.

I vostri figli hanno bisogno di voi
I vostri figli hanno bisogno di voi
Gabor Maté, Gordon Neufeld
Perché i genitori oggi contano più che mai.La potente riscoperta del valore basilare dell’attaccamento tra genitori e figli. Più l’attaccamento è forte e sano e più i figli crescono sicuri. Il caos culturale dettato dal materialismo imperante e dalle infatuazioni tecnologiche dell’economia globalizzata minaccia la relazione con i propri figli: questi fattori appartenenti al nuovo mondo, infatti, allentano i legami di attaccamento fra i bambini e gli adulti che se ne prendono cura, distruggono il contesto appropriato perché i genitori possano svolgere il loro compito, menomando lo sviluppo umano e, inesorabilmente, erodendo le basi della trasmissione culturale e valoriale.Nel libro I vostri figli hanno bisogno di voi, un medico e uno psicologo uniscono le forze per trattare una delle tendenze più fraintese e allarmanti del nostro tempo: i coetanei (amici, cuginetti, compagni di scuola) che prendono il posto dei genitori nella vita dei figli.Questo fenomeno è definito come “orientamento ai coetanei”: tale termine si riferisce al fatto che, quando i bambini in età scolare e i giovani ragazzi hanno bisogno di un’indicazione, preferiscono rivolgersi ai coetanei anziché far riferimento al padre, alla madre e al rispetto dei valori naturali, al senso di ciò che è giusto o sbagliato, all’identità e ai normali codici di comportamento.Quando i coetanei sostituiscono i genitori, lo sviluppo dei bambini si arresta: non ci sono più sane figure educative di riferimento, l’orientamento ai pari crea una massa di giovani adulti immaturi, conformisti e inquieti, incapaci di integrarsi nella società corrente. Ora, questo continuo orientarsi ai coetanei non può che deteriorare la coesione familiare, impedendo uno sviluppo sano e equilibrato del bambino, avvelenando l’atmosfera scolastica e favorendo la crescita di una cultura giovanile aggressiva, ostile e prematuramente sessualizzata.Dal canto loro, i genitori sono a disagio, frustrati, e si acuisce la sensazione che lo sviluppo dei bambini sia sfuggito alla loro influenza. Perché si possa essere genitori efficaci, è necessario quindi che i bambini sviluppino la giusta relazione con i genitori.I ragazzi non stanno perdendo i genitori perché manca competenza o coinvolgimento, ma per mancanza di un attaccamento primario. La conservazione della cultura si basa proprio sui modelli di questo genere, e la conseguenza principale della loro perdita è la scomparsa del contesto appropriato per una sana crescita. L’attaccamento di un bambino ai genitori crea infatti un grembo psicologico necessario per dare vita alla personalità e all’individualità.Gli autori Gordon Neufeld e Gabor Maté aiutano i genitori, gli insegnanti e gli operatori sociali a comprendere questo fenomeno inquietante, fornendo soluzioni utili per ristabilire la giusta preminenza del legame che unisce i figli ai genitori e restituendo a questi ultimi il potere e la forza di essere una fonte vera di contatto, guida, calore e sicurezza. Un libro non finisce con l’ultima pagina!Questo titolo si arricchisce di contenuti “extra” digitali. Per consultarli è sufficiente utilizzare il QR code in quarta di copertina.