Bowlby puntualizzò anche che il genitore può essere presente dal punto di vista fisico ma assente da quello emotivo, a causa di stress, ansia, depressione, o altre preoccupazioni. Dal punto di vista del bambino, ciò non conta. Le sue reazioni codificate saranno le stesse, perché il vero problema non è tanto la mera presenza fisica del genitore, bensì la sua accessibilità emotiva. Un bambino che soffra una grave insicurezza nella sua relazione con i genitori, adotterà l’invulnerabilità del distacco difensivo come suo principale modo di essere. Quando sono i genitori che rappresentano l’attaccamento attivo del bambino, il loro amore e senso di responsabilità di regola garantirà che essi non lo costringeranno ad adottare misure tanto disperate. I coetanei non hanno, invece, una analoga consapevolezza, né analoghi sensi di colpa o responsabilità. La minaccia dell’abbandono è sempre presente nelle interazioni con i coetanei, e ad essa si risponde automaticamente con il distacco emotivo.
Nessuna meraviglia, allora, che essere “cool”, [essere “fichi”] rappresenti il valore principale nella cultura dei pari, l’estrema virtù. Sebbene la parola cool, [“fico”], in inglese abbia molti significati, essa connota innanzitutto un’aria di invulnerabilità. Quando l’orientamento ai coetanei è intenso, non c’è segno di vulnerabilità nel linguaggio, nel portamento, nell’abbigliamento e negli atteggiamenti.
Il mio coautore era, prima di diventare medico, un insegnante di scuola superiore. Gabor ricorda quando lesse Uomini e Topi di John Steinbeck a una classe di quindicenni; gli studenti mancavano del tutto di empatia verso i protagonisti del libro, due umili lavoratori colpiti dalla povertà. “Sono talmente stupidi”, fu il commento di molti studenti, “hanno avuto quello che si meritavano!”. Questi adolescenti mostravano scarso apprezzamento per la vicenda tragica e nessun rispetto per la dignità della gente nel sopportare il dolore.
È facile biasimare la televisione o i film, o la musica rap, per aver desensibilizzato i nostri giovani nei confronti della sofferenza umana, della violenza e persino della morte. L’invulnerabilità di fondo non proviene dalla cultura commercializzata, per quanto essa sia riprovevole nell’assecondare e sfruttare l’indurimento emotivo e l’immaturità dei ragazzi. L’invulnerabilità dei giovani orientati ai coetanei è alimentata dall’interno. Anche se non ci fossero film e televisione a darle forma, essa scaturirebbe spontaneamente come modus operandi dei ragazzi orientati ai pari. Sebbene questi provengano da ogni parte del mondo e appartengano a un numero infinito di sottoculture, il tema dell’invulnerabilità è universale nella cultura giovanile. Le mode vanno e vengono, la musica cambia forma, il linguaggio si trasforma, ma il freddo distacco e la chiusura emotiva sembrano permearle tutte. La pervasività di questo aspetto della cultura è una formidabile testimonianza della disperata fuga dalla vulnerabilità dei suoi membri.
La preponderanza di droghe che sopprimono la vulnerabilità è un altro fattore che testimonia la natura intollerabile della vulnerabilità sperimentata dai ragazzi orientati ai coetanei. Essi farebbero qualunque cosa per evitare i sentimenti umani della solitudine, della sofferenza e del dolore, e per evitare di sentirsi feriti, abbandonati, impauriti, insicuri, inadeguati o consapevoli di sé. Più sono grandi e orientati ai coetanei, più le droghe sembrano essere parte integrante del loro stile di vita. L’orientamento ai coetanei crea un appetito per tutto ciò che può ridurre in qualche modo la vulnerabilità. Le droghe sono degli anestetici emotivi e, d’altro canto, aiutano i giovani a fuggire da quello stato di paralisi e intorpidimento che consegue al distacco emotivo utilizzato come difesa. Con la chiusura alle emozioni, ecco che arriva la noia e l’alienazione. Le droghe forniscono una stimolazione artificiale a chi è emotivamente logoro. Intensificano le sensazioni e forniscono un falso senso di coinvolgimento senza incorrere nel rischio dell’apertura autentica. Di fatto la stessa droga può avere funzioni apparentemente opposte in un individuo. L’alcol e la marijuana, ad esempio, possono intontire o, all’opposto, liberare la mente dalle inibizioni. Altri tipi di droghe hanno effetto stimolante – la cocaina, le amfetamine e l’ecstasy; il nome stesso dell’ultima la dice lunga su ciò che manca nella vita psichica dei nostri giovani emotivamente menomati.
La funzione psicologica assolta da queste droghe è spesso sottovalutata da adulti ben intenzionati che percepiscono il problema come proveniente dall’esterno dell’individuo, attraverso la pressione dei coetanei e i costumi della cultura giovanile. La questione non è soltanto quella di far dire di no ai nostri figli; il problema è molto più profondo. Finché non affronteremo, invertendolo, l’orientamento ai coetanei dei nostri ragazzi, non faremo che creare una sete insaziabile di queste droghe. L’attrazione per esse nasce dal profondo di animi corazzati contro la vulnerabilità. La salvezza emotiva dei nostri ragazzi può venire solo da noi: allora non saranno più spinti a rifuggire i propri sentimenti e ad affidarsi agli effetti anestetici delle droghe. Il loro bisogno di sentirsi vivi ed eccitati può e dovrebbe nascere da loro stessi, dalla loro sconfinata e innata capacità di sentirsi parte dell’universo.
Questo ci riconduce alla natura sostanzialmente gerarchica dell’attaccamento. Più un bambino o un ragazzo ha bisogno dell’attaccamento per funzionare, più è cruciale che abbia sviluppato attaccamenti primari con gli adulti responsabili. Solo allora sarà possibile sopportare la vulnerabilità che è insita nelle relazioni affettive. I bambini non hanno bisogno di amici, essi hanno bisogno di genitori, nonni, adulti che si assumano la responsabilità di tenersi stretti a loro. Più si legano ad adulti amorevoli, più saranno in grado di interagire con i coetanei senza essere sopraffatti dalla vulnerabilità che ne consegue. Meno contano i compagni, e più la vulnerabilità insita nelle relazioni instaurate con essi sarà sopportabile. Sono proprio i ragazzi che non hanno bisogno di amici ad essere più capaci di averne senza perdere la propria capacità di sentire in modo profondo e intenso.
Ma perché dovremmo desiderare che i nostri figli restino aperti alla vulnerabilità? Cos’è che non va se il distacco congela le emozioni al fine di proteggere il bambino? Per intuito, tutti sappiamo che è meglio sentire piuttosto che non sentire; le nostre emozioni non sono un lusso, ma un tratto essenziale della nostra natura. Non le abbiamo solo per il piacere di provare dei sentimenti, ma perché svolgono un ruolo cruciale per la sopravvivenza. Ci orientano, interpretano il mondo per noi, ci danno informazioni vitali senza le quali non potremmo prosperare. Ci dicono ciò che è pericoloso e ciò che è favorevole, cosa minaccia la nostra esistenza e cosa può arricchire la nostra crescita. Provate a immaginare quanto saremmo menomati se non riuscissimo a vedere o a sentire, a gustare i sapori o a percepire il caldo, il freddo, e il dolore fisico. Chiudersi alle emozioni significa perdere una parte indispensabile del nostro apparato sensoriale e, oltre a ciò, una parte indispensabile di ciò che siamo. Le emozioni sono ciò che rende la vita degna di essere vissuta, eccitante, interessante, piena di significato. Ci spingono all’esplorazione del mondo, danno un senso alle nostre scoperte, e alimentano la nostra crescita. Fino al cuore stesso delle cellule, gli esseri umani possono essere in modalità difensiva oppure di crescita, ma non possono essere in entrambe allo stesso tempo. Quando i bambini diventano invulnerabili, cessano di riferirsi alla vita come possibilità infinite, a se stessi come potenziale sconfinato, e al mondo come all’arena benedetta e accogliente dell’espressione di sé. L’invulnerabilità imposta dall’orientamento ai coetanei imprigiona il bambino nei propri limiti e nelle proprie paure. Non meraviglia che oggi tanti bambini vengano curati per depressione, ansia e altri disturbi.
L’amore, l’attenzione e la sicurezza che solo gli adulti possono offrire, liberano i bambini dal bisogno di rendersi invulnerabili e ripristinano in loro quella capacità di vivere intensamente e avventurosamente che non potrà mai scaturire da attività rischiose, sport estremi o droghe. Senza quella sicurezza, i nostri figli saranno costretti a sacrificare la propria capacità di crescita e di maturazione psichica, la voglia di coinvolgersi in relazioni significative, e di assecondare i propri impulsi più profondi e straordinari verso l’espressione di sé. In ultima analisi, la fuga dalla vulnerabilità è una fuga da se stessi; se non li teniamo stretti a noi, i nostri figli pagheranno un prezzo altissimo nella perdita della capacità di restare fedeli al loro vero e autentico essere.