SECONDA parte

Sabotati: come l’orientamento ai coetanei mette a rischio il legame con i genitori.

capitolo Vi

Controvolontà:
perchè i bambini diventano
disobbedienti

Ogni qual volta i genitori di Kirsten, sette anni, avanzavano richieste di collaborazione, ricevevano sconcertati la stessa immediata risposta: “Voi non siete i miei padroni!”. Sean, nove anni, anche lui sempre più recalcitrante, aveva appeso un grosso cartello fuori dalla porta della sua stanza con su scritto “vietato entrare”. La comunicazione dell’adolescente Melanie con i suoi genitori era ridotta a poco più di qualche gesto di sfida: un’espressione svogliata, un’alzata di spalle, o un sorrisetto compiaciuto che diventava sempre più sprezzante mentre suo padre arrabbiato le ordinava senza alcun risultato di “togliersi quel sorrisetto dalla faccia”.


Come abbiamo visto nel capitolo precedente, appena i figli si orientano ai coetanei l’attaccamento si rivolta contro i genitori, che perdono il loro potere. Doppiamente sguarniti, i genitori di Kirsten, Melanie e Sean avevano già il loro bel daffare, ma la storia non finiva lì. Esiste un altro istinto che, se sviato dall’orientamento ai coetanei, crea il caos nella relazione genitori-figli e rende la vita un inferno per qualsiasi adulto che abbia responsabilità di accudimento. Fu ben definito “controvolontà” da un acuto psicologo austriaco, Otto Rank.


La controvolontà è una resistenza automatica e istintiva in risposta alla sensazione di essere stati in qualche modo forzati. Scatta ogni volta che una persona si sente controllata o pressata, costretta a eseguire gli ordini di qualcun altro. Fa la sua apparizione più sensazionale nel secondo anno di vita, i cosiddetti “terribili due anni” (se i bambini di due anni potessero inventare etichette del genere, è probabile che descriverebbero i loro genitori come coloro che stanno attraversando i “terribili trenta”). La controvolontà riappare a oltranza durante l’adolescenza, ma può attivarsi a qualsiasi età, e molti adulti la sperimentano.


All’inizio del ventesimo secolo, Rank aveva già notato che avere a che fare con la controvolontà era una delle sfide più scoraggianti per un genitore. Egli scriveva in un periodo in cui, in linea di massima, gli attaccamenti dei bambini erano ancora allineati agli adulti. Non c’è nulla quindi di anormale nella controvolontà se non che, come spiegherò fra breve, essa è stata esaltata in modo abnorme sotto l’influenza dell’orientamento ai coetanei.


Nessuno ama essere comandato, inclusi naturalmente i bambini, o, sarebbe più corretto dire, soprattutto i bambini. Sebbene noi tutti siamo abbastanza consapevoli di questa risposta istintiva, per averla sperimentata su noi stessi, quando abbiamo a che fare con i più giovani tendiamo in qualche modo a trascurarla. Comprendere la controvolontà potrebbe risparmiare a un genitore tanta confusione e molti conflitti inutili, in modo particolare se si tratta di dare un senso al comportamento e agli atteggiamenti di un figlio orientato ai coetanei.


La controvolontà può manifestarsi in mille modi: può essere il “no” reattivo del bambino piccolo di due-tre anni, il “Tu non sei il mio padrone” del bambino più grandicello, o anche la resistenza quando si va di fretta, la disobbedienza e gli atteggiamenti di sfida. È visibile nel linguaggio del corpo dell’adolescente. La controvolontà si esprime anche attraverso la passività, procrastinando, facendo l’opposto di quello che ci si aspetta, e può sembrare pigrizia o mancanza di motivazione. Può essere comunicata attraverso la negatività, la belligeranza o gli atteggiamenti polemici, e spesso viene interpretata dagli adulti come insolenza. In molti bambini guidati dalla controvolontà, si può osservare una fascinazione per la trasgressione dei tabù e l’adozione di atteggiamenti antisociali. Qualsiasi cosa ci possa sembrare, in realtà la dinamica sottostante è semplice e chiara: la resistenza istintiva a essere forzati.


La semplicità di tale dinamica è in netto contrasto con la moltitudine e la complessità dei problemi che crea, ai genitori, agli insegnanti, e a chiunque abbia a che fare con i bambini. Il fatto stesso che qualcosa sia importante per noi può far sentire i nostri figli poco inclini ad assecondarci. Più esercitiamo una pressione su di loro affinché mangino le verdure, puliscano la loro camera, si lavino i denti, facciano i compiti, si comportino educatamente, o non litighino con i fratelli, meno si sentiranno di farlo. Maggiore è l’insistenza con cui gli proibiamo di mangiare cibi spazzatura, più inclini saranno invece a farlo. Un quattordicenne molto consapevole di sé disse a suo padre: “più mi dici di mangiare la verdura, meno mi va!”. Più siamo chiari nell’esprimere le nostre attese, maggiore sarà la focalizzazione dei bambini sugli atteggiamenti di sfida. Tutto ciò può essere vero anche nelle circostanze più normali e naturali, ossia quando i bambini hanno un buon attaccamento con gli adulti che si prendono cura di loro. Ma se per caso il loro attaccamento con gli adulti di riferimento non è attivo, essi vivranno gli sforzi dei grandi per mantenere l’autorità come un vero e proprio spadroneggiamento. Sviando il naturale attaccamento del bambino, l’orientamento ai coetanei ingigantisce la resistenza oltre ogni limite. L’istinto della controvolontà può davvero sfuggire a ogni controllo.

La controvolontà cresce con l'affievolirsi dell'attaccamento

La fondamentale resistenza dell’essere umano alla coercizione è in genere mitigata, se non addirittura disinnescata, dall’attaccamento. Anche questo lo sappiamo per esperienza: quando siamo innamorati, quasi nessuna aspettativa del nostro amore ci sembrerà irragionevole. È molto più probabile che si opponga un rifiuto alle richieste di qualcuno con il quale non ci sentiamo connessi. Un bambino che voglia restare accanto a noi forse vedrà nelle nostre aspettative un’opportunità per sentirsi all’altezza. Le indicazioni su come essere e cosa fare lo aiuteranno a conquistarsi l’apprezzamento del genitore.


Ma quando ci si allontana dalla dinamica dell’attaccamento, allora è tutta un’altra storia, soprattutto nel caso di bambini e ragazzi che ancora non sono abbastanza maturi da conoscere se stessi. Le attese si trasformano in una fonte di pressione, sentirsi dire cosa fare significa dover prendere ordini e obbedire equivale a una capitolazione. Persino adulti relativamente maturi possono reagire così, figuriamoci i bambini ancora in via di sviluppo! Dare un ordine a un bambino al di sotto dei sei anni con cui non si ha una relazione è un invito alla disobbedienza o, nel migliore dei casi, all’essere ignorati. I più piccoli non hanno inclinazione a obbedire a qualcuno con cui non si sentono in contatto. In altre parole, non sentono che sia giusto fare ciò che dice un estraneo, ossia qualcuno al di fuori della cerchia degli attaccamenti.


Per gli adolescenti immaturi la dinamica è identica, anche se il modo in cui si esprimono potrebbe non essere altrettanto grazioso e innocente. In situazioni in cui viene loro detto abitualmente cosa fare da persone con le quali non si sentono attaccati, è facile che si trincerino dietro la controvolontà come risposta di routine al mondo degli adulti. Una quattordicenne molto orientata ai coetanei che era stata mandata in collegio perché la controvolontà l’aveva resa ingestibile, finì per essere espulsa dalla scuola per lo stesso motivo. Le chiesi come mai avesse commesso alcuni degli atti orrendi che le erano stati attribuiti, e la sua risposta fu un’alzata di spalle e un concreto “perché erano proibiti”. Una tale perentorietà era a tal punto ovvia e scontata per lei che, a suo modo di sentire, la mia domanda quasi non meritava una risposta.


Se viene chiesto loro quale sia la cosa più importante, i ragazzi orientati ai coetanei e guidati dalla controvolontà risponderanno: “Non essere comandati da nessuno!”. La loro controvolontà è tanto forte e pervasiva che agli adulti sembrano incorreggibili e impossibili da gestire; per loro viene fatta la diagnosi di disturbo oppositivo provocatorio. Tuttavia non è l’atteggiamento oppositivo, la controvolontà, a essere fuori posto, bensì l’attaccamento. Questi bambini e ragazzi sono semplicemente fedeli al loro istinto nell’opporsi a persone con cui non si sentono legati. Più un bambino sarà orientato ai coetanei, più opporrà resistenza agli adulti. Quelli che etichettiamo come disordini del comportamento nei singoli bambini, sono in realtà segni di disfunzioni sociali.


L’istinto della controvolontà sfida le nostre nozioni su come i bambini dovrebbero essere. Agiamo secondo l’impressione che essi dovrebbero essere universalmente ricettivi alle direttive degli adulti; i bambini sono per natura collaborativi, d’accordo, ma solo nel contesto di un legame e solo quando il potere dell’attaccamento è sufficiente.


Insidiando l’attaccamento di un bambino ai suoi genitori, l’orientamento ai coetanei rivolge l’impulso della controvolontà proprio verso quelle persone a cui il bambino stesso dovrebbe guardare per essere guidato e diretto. I ragazzi orientati ai coetanei per istinto oppongono resistenza anche alle aspettative più ragionevoli dei genitori. Sono recalcitranti, fanno lo sciopero bianco, contraddicono, sono in disaccordo o fanno l’opposto di quello che si desidera.


Non è neppure necessario che i genitori dicano qualcosa per provocare la controvolontà di un figlio orientato ai suoi pari. Se esiste qualcuno in grado di leggere nella nostra mente quel che ci aspettiamo da loro, questi sono i bambini. Quando noi genitori siamo rimpiazzati dai coetanei, l’abilità del bambino di conoscere i nostri desideri e ciò che vorremmo da lui non sparisce. Ciò che svanisce è invece quell’attaccamento che rende la nostra volontà gradevole e accettabile. Il desiderio di collaborare è sostituito dal suo opposto. Senza che il genitore apra bocca, il bambino orientato ai coetanei si sentirà oppresso, comandato, manipolato.


Dietro le difficoltà incontrate dai genitori di Kirsten, Sean e Melanie vi era la dinamica della controvolontà, distorta e ingigantita dall’orientamento ai coetanei. Delle semplici richieste facevano inalberare questi ragazzi, la risposta agli stimoli era un rifiuto sgarbato, le aspettative erano controproducenti. Più una cosa era importante per i genitori, meno erano inclini a soddisfarla. Più il padre di Melanie tentava di essere autoritario, più la figlia diventava ribelle. Non era tanto che i genitori facessero qualcosa di sbagliato, quanto che l’istinto della controvolontà nei loro figli era stato reso pervasivo, e persino perverso, dall’orientamento ai coetanei.

La controvolontà e la sua funzione naturale

Se per un adulto è un vero tormento avere a che fare con un bambino oppositivo, nel contesto appropriato la controvolontà, come tutti gli altri istinti nel loro ambito naturale, esiste per uno scopo positivo e persino necessario. Essa serve a una duplice funzione evolutiva. Il suo ruolo primario è quello di difesa, per respingere gli ordini e l’influenza di coloro che non appartengono alla cerchia dei legami del bambino. Protegge il bambino dal pericolo di essere fuorviato e costretto da persone estranee, e inoltre favorisce la crescita dell’autonomia e della volontà interiore nel giovane individuo. Tutti iniziamo la nostra vita del tutto dipendenti e vulnerabili, ma il risultato finale dello sviluppo naturale è la maturazione di un individuo con motivazioni proprie e capace di autoregolarsi, con una sua propria e autentica volontà. La lunga transizione dall’infanzia all’età adulta inizia proprio con il tentativo da parte del giovanissimo essere umano di muoversi verso la separazione dai genitori. La controvolontà farà la sua prima comparsa nel piccolo al di sotto dei tre anni proprio per aiutarlo nel suo compito di individuazione. In sostanza, il bambino erigerà un muro di “no”. Dietro questo muro, egli potrà gradualmente imparare cosa gli piace e cosa no, preferenze e avversioni, senza essere sopraffatto dalla volontà infinitamente più potente del genitore. La controvolontà potrebbe essere paragonata alle piccole palizzate erette attorno ai prati appena piantati affinché nessuno li calpesti. A causa della natura incerta e delicata di ciò che emerge nel nuovo essere in crescita, una barriera protettiva deve continuare a esistere finché le idee proprie del bambino, ciò che ha significato per lui, le sue iniziative e prospettive non siano sufficientemente radicate e forti abbastanza da sopportare di essere calpestate senza andare distrutte. Senza quella barriera difensiva l’incipiente volontà del bambino non potrebbe sopravvivere. Durante l’adolescenza la controvolontà è utile per lo stesso obiettivo, aiutare la giovane persona ad allentare la sua dipendenza psichica dalla famiglia; arriva in un momento in cui il senso del sé deve emergere dal bozzolo familiare. Il riuscire a capire cosa si vuole deve iniziare con l’avere la libertà di non volere. Tenendo lontane le aspettative e le richieste dei genitori, la controvolontà aiuta a far spazio alla crescita delle motivazioni e inclinazioni proprie e personali del giovane. Pertanto, essa è una normale dinamica umana che esiste in tutti i bambini, anche in quelli il cui attaccamento è buono.


Per la maggior parte dei bambini con un buon attaccamento, la controvolontà resta un’esperienza ripetuta ma passeggera. Sarà circoscritta a quelle situazioni in cui la forza che l’adulto esercita nel tenere il bambino entro un certo limite è maggiore del potere conferitogli dall’attaccamento in quella determinata circostanza. Alcuni di questi momenti sono inevitabili per un genitore. Il genitore saggio e intuitivo riuscirà a limitarli al minimo necessario, quando le circostanze o il benessere del bambino richiederanno di imporre apertamente la propria volontà su quella del piccolo. Ma se si è inconsapevoli sia delle dinamiche dell’attaccamento, sia di quelle della controvolontà, si potrebbe non avere la sensibilità di capire dove risieda il confine fra le due, attraversando inavvertitamente la soglia che le separa anche quando non c’è alcuna necessità di farlo.


Potremmo credere, ad esempio, che nostro figlio sia testardo e caparbio e pensare di dover domare i suoi modi insolenti. Eppure, si può a stento affermare che i bambini abbiano una loro propria volontà, se per volontà si intende la capacità di una persona di sapere ciò che vuole e di restare fedele al proprio obiettivo a dispetto di contrattempi e distrazioni. “Ma mio figlio è molto volitivo!”, insistono spesso i genitori: “quando si mette in testa una cosa non molla finché non dico di sì, o finché non mi arrabbio sul serio”. Ciò che in realtà viene descritto qui non è volontà ma un rigido e ossessivo aggrapparsi a questo o quel desiderio. Un’ossessione può somigliare alla volontà nella sua persistenza, ma non ha niente in comune con essa. Il suo potere proviene dall’inconscio e governa l’individuo, mentre una persona con una volontà autentica ha la padronanza delle proprie intenzioni. L’atteggiamento oppositivo del bambino non è una espressione di volontà; ciò che denota è, anzi, l’assenza di una volontà, il che permette a una persona di poter solo reagire, ma non di agire grazie a un processo di scelta libero e consapevole.


Di solito si confonde la controvolontà con la forza del bambino, con il tentativo risoluto e premeditato di seguire la sua strada. Ciò che è forte è la reazione difensiva, non il bambino. Più è debole la volontà, più sarà forte la controvolontà. Se il bambino fosse davvero intimamente forte, non si sentirebbe tanto minacciato dal genitore. Anziché essere colui che esercita la propria influenza e pressione, il bambino è colui che si sente spadroneggiato e comandato. La sua sfacciataggine non deriva da una genuina indipendenza, bensì dalla mancanza di questa.


La controvolontà è qualcosa che accade al bambino, anziché essere suscitata da lui. Potrebbe prendere di sorpresa il bambino tanto quanto il genitore ed è davvero la manifestazione di un principio universale, quello per cui a ogni forza corrisponde una forza contraria. Osserviamo la stessa legge in fisica dove, per esempio, a una forza centripeta corrisponde sempre una forza centrifuga uguale e contraria. Poiché la controvolontà è una forza contraria, essa viene evocata ogni qual volta il nostro desiderio di imporre qualcosa ai nostri figli supera il loro desiderio di connettersi con noi.


Il motivo migliore perché i bambini sperimentino la controvolontà è quando essa sorge non come opposizione automatica, ma come una sana spinta verso l’indipendenza: quando il bambino non vuole essere aiutato perché vuol fare da sé, o quando non vuole che gli si dica cosa deve fare per poter trovare una motivazione propria nel fare le cose. Si opporrà alle direttive per trovare la sua strada, scoprire la sua mente, trovare il proprio slancio e la propria iniziativa. Resisterà ai “devi” del genitore per scoprire le sue preferenze personali. Ma, come spiegherò, il passaggio verso la genuina indipendenza può avvenire solo quando il bambino sia assolutamente solido nell’attaccamento agli adulti della sua vita (si veda il capitolo 9).


Un bambino di cinque anni che sia saldo e sicuro nella relazione con i suoi genitori potrebbe reagire all’affermazione che il cielo è blu ribattendo con certezza adamantina che non lo è. Ai genitori potrebbe sembrare che il figlio è un impudente bastiancontrario o che stia facendo il difficile; in realtà, il cervello del bambino sta semplicemente bloccando qualsiasi idea o pensiero che non provengano da lui stesso. A qualunque cosa estranea verrà opposta resistenza per poter far spazio alla nascita di idee proprie. Il concetto finale sarà probabilmente lo stesso – il cielo è blu – ma quando si tratta di essere se stessi, l’originalità è ciò che conta.


Quando la controvolontà è al servizio della ricerca di autonomia opera in modo molto simile a un sistema immunitario psicologico, reagendo difensivamente a qualunque cosa non abbia origine dal bambino stesso. Non appena il genitore farà spazio al bambino perché possa diventare se stesso, curando il suo bisogno di autonomia, così come quello di attaccamento, allora i progressi evolutivi avranno luogo. Persino questo tipo di controvolontà potrebbe non essere facile da gestire, come fece notare Otto Rank, ma non è pervasiva – non distorce la gran parte dell’interazione fra noi e i nostri figli – ed è certamente lì per un ottimo motivo. È al servizio del fondamentale programma evolutivo che conduce alla matura indipendenza.


Se lo sviluppo si svolge in modo ottimale e il bambino fa progressi nel diventare se stesso, il bisogno di attaccamento si affievolirà. Quando ciò avviene, il ragazzo che sta maturando sarà ancor più sensibile alla coercizione e ancor meno disposto a essere comandato. Si sentirà svilito se verrà trattato come se non avesse opinioni e pensieri propri, confini, valori e obiettivi personali, capacità di decisione e aspirazioni individuali. Opporrà una resistenza strenua se non verrà riconosciuto come una persona a sé stante. Si tratta anche qui di una cosa positiva. La controvolontà ha lo scopo di proteggere il ragazzo impedendogli di trasformarsi nell’appendice di qualcun altro, persino del genitore. È di aiuto nel far emergere un nuovo essere indipendente e autonomo, pieno di vitalità e in grado di funzionare al di fuori della relazione di attaccamento.


Quando una genuina indipendenza si evolve portando alla maturità, la controvolontà si attenua. Con la maturità l’essere umano acquisisce la capacità di sopportare emozioni eterogenee e contrastanti. Riesce a trovarsi contemporaneamente in stati mentali conflittuali: il desiderio di indipendenza e la dedizione nel preservare le relazioni di attaccamento. Alla fine, la persona veramente matura, con un genuino desiderio di soddisfare i propri bisogni, non monterà un’opposizione automatica e istintiva alla volontà di un altro: sarà in grado di dare ascolto agli altri quando ciò avrà un senso per lui, o di andare per la sua strada quando non lo avrà.

La falsa indipendenza del bambino orientato ai coetanei

Come sempre, l’orientamento ai coetanei conduce al fallimento dei naturali schemi evolutivi. Anziché essere al servizio dell’autonomia, la controvolontà sostiene solo il più primitivo proposito di evitare che il bambino sia forzato da coloro con i quali non ha sviluppato un desiderio di vicinanza. Per i bambini orientati ai coetanei, quelle persone siamo noi, i loro genitori e insegnanti. Anziché preparare la strada alla genuina indipendenza, la controvolontà protegge la dipendenza dai coetanei. E questa è l’estrema ironia della cosa: una dinamica che in origine aveva il compito di forgiare uno spazio per funzionare in modo indipendente, finisce, sotto l’influenza dell’orientamento ai coetanei, per distruggere la base stessa dell’indipendenza: la relazione sana del bambino con i genitori.


Nella nostra società, questa controvolontà distorta dall’orientamento ai compagni è spesso scambiata per il sano sforzo dell’essere umano verso l’autonomia. Diamo per scontato che le reazioni oppositive dei ragazzi orientati ai coetanei rappresentino una normale ribellione adolescenziale. È facile confondere le due; vi sono i consueti segnali di resistenza: il ribattere, il rifiuto di cooperare, la discussione continua, la disobbedienza, le battaglie territoriali, le barricate erette per tener lontani i genitori, gli atteggiamenti antisociali, i messaggi sul genere “non puoi controllarmi”. Nondimeno, la controvolontà al servizio dell’attaccamento ai pari è largamente diversa rispetto a quella che fa da supporto alla vera indipendenza. In un ragazzo che sta maturando, il desiderio di attaccamento e la ricerca di autonomia si mescolano, creando un gran numero di sentimenti contrastanti. I momenti in cui si manifesta una più spiccata resistenza della controvolontà sono bilanciati dai momenti in cui vi è una ricerca di contatto e vicinanza. Quando la controvolontà è il risultato dell’orientamento ai coetanei, la resistenza è più sfacciata e non mitigata da altre spinte alla prossimità con i genitori. Il bambino è poco consapevole degli impulsi conflittuali: la spinta è a senso unico, verso i coetanei.


Esiste una maniera molto semplice per distinguere la controvolontà distorta dai coetanei dalla genuina spinta verso l’autonomia: il bambino che sta maturando e sta avanzando verso l’individuazione resiste alla coercizione, da qualunque parte provenga, inclusa la pressione esercitata dai pari. Nella ribellione sana l’obiettivo da raggiungere è la vera indipendenza. Non si cerca la libertà da una persona solo per soccombere all’influenza e alla volontà di un’altra. Quando la controvolontà è il risultato degli attaccamenti sviati, la libertà cui si aspira non è quella di essere se stessi, bensì la possibilità di conformarsi ai coetanei. Per fare questo, si sopprimono i propri sentimenti e si camuffano le proprie opinioni nel caso in cui siano diverse da quelle degli altri.


Stiamo forse dicendo che non sarebbe naturale, ad esempio, che un adolescente desiderasse restare alzato fino a tardi in compagnia dei suoi amici? No, i ragazzi possono desiderare di stare insieme ai compagni non perché siano guidati dall’orientamento ai pari, ma perché qualche volta è proprio ciò che sentono di voler fare. La domanda è: desiderano discutere della faccenda con i genitori? Sono rispettosi della prospettiva degli adulti? Sono in grado di dire no agli amici quando prevalgono altre responsabilità o eventi familiari, o quando semplicemente preferiscono stare da soli?


I ragazzi orientati ai coetanei non sopportano alcun ostacolo e provano una intensa frustrazione se i propri bisogni di contatto con gli amici vengono contrastati. Sono incapaci di affermare se stessi di fronte alle attese dei compagni, e con la stessa proporzione resistono e si oppongono ai desideri dei genitori.


Gli adulti che dovessero mal interpretare questa primitiva e perversa forma di controvolontà credendola una sana autoaffermazione adolescenziale, potrebbero ritirarsi in anticipo dal loro ruolo parentale. Se è senza dubbio saggio offrire spazio agli adolescenti perché possano essere se stessi, permettendo loro di apprendere dai propri errori, molti genitori semplicemente gettano la spugna. A causa della assoluta frustrazione o esasperazione, di solito senza preamboli o cerimonie, essi si fanno da parte. Indietreggiare prima del tempo, però, vuol dire abbandonare inconsapevolmente un ragazzo che ha ancora un forte bisogno di noi, anche se non lo sa. Se riuscissimo a vedere questi adolescenti orientati ai coetanei per come sono veramente, in tutta la loro dipendenza, e comprendessimo quanto hanno ancora bisogno delle nostre cure e della nostra guida, saremmo senz’altro determinati a riguadagnare il nostro potere genitoriale. Dovremmo richiamarli a noi.

Il mito del bambino onnipotenze

Un altro errore è quello di interpretare l’opposizione del bambino come un gioco di potere o un desiderio di onnipotenza16. È comprensibile che, nel momento in cui gli adulti stessi sentono una mancanza di potere, proiettino sul bambino un desiderio di dominio. Se il controllo mi sfugge, allora sarà nelle mani del bambino; se non ho io il potere, allora dovrà averlo il bambino; se non sono io alla guida, deve per forza esserci mio figlio. Anziché assumermi la responsabilità del mio senso di impotenza, vedo il bambino preso dalla brama di controllo. Si giunge agli estremi attribuendo persino ai neonati una tale voglia di potere: nel voler controllare gli orari, nel sabotare i programmi stabiliti, nel rubarci il sonno, nel dettar legge.

Il problema nel vedere i figli come coloro che detengono il potere è che ci sfugge quanto invece abbiano estremo bisogno di noi. Anche quando un bambino sta di fatto cercando di esercitare un controllo su di noi, lo fa solo come conseguenza del suo bisogno e della sua dipendenza: egli dipende da noi per far funzionare le cose. Se fosse davvero potente, non avrebbe bisogno di farci fare ciò che vuole.


Di fronte a un bambino che viene percepito come esigente, alcuni genitori si mettono sulla difensiva e pensano a proteggere se stessi. Come adulti, reagiamo alla sensazione di essere costretti proprio come fanno i bambini: impuntandoci, resistendo, facendo opposizione e ribattendo. Viene provocata la nostra stessa controvolontà, portandoci a una lotta di potere con i figli che diventa in realtà molto più una prova di forza fra controvolontà anziché fra volontà diverse. La cosa triste è che il bambino perde il genitore di cui ha disperatamente bisogno. La nostra resistenza non fa che moltiplicare le richieste del bambino ed erode la relazione di attaccamento che è la nostra migliore e sola speranza.


Interpretare la controvolontà come sfoggio di forza, innesca e giustifica l’uso della forza psicologica. Lottiamo per opporre forza a ciò che percepiamo come forza: ci irritiamo, alziamo la voce, e alziamo la posta facendo uso di qualsiasi leva in nostro possesso. Più grande è la forza che imponiamo, maggiore sarà la controvolontà provocata dalla nostra reazione. Se la nostra reazione dovesse suscitare ansia, che serve al bambino come allarme psicologico in caso di minaccia a un attaccamento importante, preservare la vicinanza diventerebbe l’obiettivo principale. Il bambino impaurito si affretterà a ricompensarci e a tornare nelle nostre grazie. Potremmo credere di aver raggiunto il nostro scopo, quello di un comportamento accettabile, ma una tale capitolazione non è senza costi. La relazione ne risulterà indebolita per via dell’insicurezza causata dalla nostra rabbia e dalle nostre minacce. Maggiore è la forza che usiamo, maggiore saranno lo strappo e il logorio che avremo inflitto alla relazione; e più una relazione è debole, più rischiamo di essere rimpiazzati (oggigiorno soprattutto dai coetanei). Non solo l’orientamento ai coetanei è la causa maggiore della controvolontà, ma le nostre reazioni ad essa lo possono favorire.

Perchè l'uso della forza e della manipolazione è controproducente

Quando si sente di non avere abbastanza forza per portare a termine un compito – che sia quello di smuovere una roccia oppure un bambino – è istintivo il ricorso a qualche genere di leva. Gli sforzi dei genitori per acquisire potere di regola vanno in una di queste due direzioni: quella corruttiva o quella coercitiva. Se una semplice richiesta come “Vorrei che apparecchiassi la tavola” non ha effetto, potremmo aggiungere un incentivo, per esempio: “Se apparecchi, avrai il tuo dolce preferito!”. Oppure, se non è sufficiente ricordare al bambino che è ora di fare i compiti, potremmo minacciarlo dicendo che lo priveremo di qualche privilegio. Oppure potremmo mettere un’intonazione imperiosa nella voce, o assumere un atteggiamento più autoritario. La ricerca di leve può essere infinita: sanzioni, ricompense, abolizione di privilegi: vietare l’uso del computer, di giocattoli o negare la paghetta; separazione dal genitore o dagli amici; limitazione o abolizione del tempo trascorso davanti alla televisione; privazione dei privilegi legati ai viaggi in auto, e così via. Non è raro sentire qualcuno che si lamenta per aver esaurito le idee su ciò che ancora potrebbe essere sottratto ai figli.


Se il nostro potere di genitori si attenua, la ricerca di leve aumenta in proporzione. Gli eufemismi abbondano: la corruzione viene chiamata in vari modi: ricompensa, incentivo o rinforzo positivo; minacce e punizioni sono ribattezzate: avvertimenti, conseguenze naturali e rinforzi negativi; ci si riferisce all’uso della violenza psicologica parlando di comportamenti correttivi e modi per dare una lezione. Questi eufemismi camuffano il tentativo di motivare il bambino esercitando una pressione esterna perché la sua motivazione intrinseca è ritenuta inadeguata. L’attaccamento è naturale e sorge dall’interno, l’uso di leve è escogitato e imposto dall’esterno. In qualunque altro ambito, il ricorso a questi sistemi ci apparirebbe come manipolazione. Nell’ambito delle cure e dei compiti parentali, l’uso di simili mezzi è ormai considerato da molti normale e appropriato.


Tutti i tentativi di far uso di leve per motivare il bambino implicano l’uso della violenza psicologica, sia essa “positiva” come nelle ricompense, o “negativa” come nelle punizioni. Si tratta sempre dell’uso della forza, sia che si mercanteggi a proposito di ciò che piace al bambino, sia che si sfruttino le sue insicurezze e ciò che non desidera per indurlo a fare ciò che vogliamo. Ricorriamo alle leve quando non abbiamo altro con cui lavorare: nessuna motivazione interiore cui appellarci, nessun attaccamento cui affidarci. Tattiche di questo genere, se mai fossero utilizzate, dovrebbero essere l’ultima delle risorse, non la nostra prima risposta, e di certo non il nostro modus operandi. Purtroppo, quando i ragazzi si orientano ai coetanei, noi genitori siamo indotti per disperazione all’utilizzo di leve.


La manipolazione, che sia sotto forma di ricompense o di punizioni, può riuscire nell’intento di rendere il bambino ubbidiente per un po’, ma è un sistema con il quale non riusciremo mai a rendere il comportamento desiderato parte integrante della personalità del bambino. Che si tratti di dire grazie o scusa, di condividere con gli altri, di offrire un dono o un biglietto, di pulire la propria stanza, di essere riconoscenti, di fare i compiti o studiare il pianoforte, più il comportamento è frutto di costrizione, meno è probabile che sarà tenuto per libera scelta. E meno sarà spontaneo, più genitori e insegnanti dovranno escogitare qualche genere di leva. Inizia in tal modo un circolo vizioso di forza e controvolontà che necessita di un ricorso sempre maggiore al sistema delle leve: la vera base del potere genitoriale, pertanto, viene erosa.

È ampiamente dimostrato, sia in laboratorio sia nella vita reale, che il potere della controvolontà è in grado di sabotare anche gli obiettivi comportamentali minimi perseguiti attraverso l’uso della forza o della manipolazione. Un particolare esperimento ha visto coinvolti bambini della scuola materna che amavano disegnare con i pennarelli. Vennero divisi in più gruppi: a un gruppo venne promesso un premio stuzzicante se avessero usato i pennarelli; a un altro non venne promesso nulla ma i bambini venivano premiati nello stesso modo se li utilizzavano; infine, all’ultimo gruppo non venne promesso nulla né data alcuna ricompensa. Diverse settimane dopo, i bambini vennero sottoposti di nuovo all’esperimento senza far menzione delle ricompense e i due gruppi nei quali era stata utilizzata la costrizione positiva erano ora molto meno disposti a disegnare con i pennarelli17. L’istinto della controvolontà aveva fatto in modo che l’uso della forza fosse controproducente. In un esperimento simile, lo psicologo Edward Deci osservò il comportamento di due gruppi di studenti universitari alle prese con dei rompicapo di cui entrambi i gruppi erano appassionati in egual misura. Un gruppo ricevette una ricompensa economica ogni volta che uno dei rompicapo veniva risolto; all’altro non fu dato alcun incentivo esterno. Quando i pagamenti ebbero fine, il gruppo remunerato dimostrò una propensione molto maggiore ad abbandonare il gioco rispetto alla sua controparte non remunerata. “Le ricompense possono aumentare l’incidenza dei comportamenti auspicati” scrive il Dr. Deci, “ma solo finché dura la ricompensa. Niente soldi, niente gioco”18.

È facile scambiare la controvolontà del bambino per un desiderio di potere. Potremmo non avere mai il pieno controllo delle circostanze, ma allevare un figlio e fronteggiare ogni giorno la sua controvolontà significa toccare costantemente il fondo della propria impotenza. Nella società odierna non è straordinario né insolito che i genitori si sentano impotenti e tiranneggiati. Con il senso di impotenza che proviamo quando l’attaccamento adulto-bambino non è abbastanza forte, iniziamo a pensare che i nostri figli vogliano manipolarci, controllarci e persino avere potere su di noi.


Dobbiamo andare oltre i sintomi; se ciò che percepiamo è solo resistenza o insolenza, risponderemo con rabbia, frustrazione e forza. Dobbiamo invece vedere che il bambino reagisce solo d’istinto ogni volta che si sente spinto e pressato. Oltre la controvolontà è necessario riconoscere l’indebolimento dell’attaccamento. Il comportamento insolente e provocatorio non è l’essenza del problema; alla radice vi è l’orientamento ai coetanei che ritorce contro gli adulti l’istinto della controvolontà, spogliandola della sua funzione naturale.

Come vedremo nella quarta parte, la risposta migliore alla controvolontà del bambino è un rafforzamento della relazione con il genitore e un minor ricorso alla forza.

I vostri figli hanno bisogno di voi
I vostri figli hanno bisogno di voi
Gabor Maté, Gordon Neufeld
Perché i genitori oggi contano più che mai.La potente riscoperta del valore basilare dell’attaccamento tra genitori e figli. Più l’attaccamento è forte e sano e più i figli crescono sicuri. Il caos culturale dettato dal materialismo imperante e dalle infatuazioni tecnologiche dell’economia globalizzata minaccia la relazione con i propri figli: questi fattori appartenenti al nuovo mondo, infatti, allentano i legami di attaccamento fra i bambini e gli adulti che se ne prendono cura, distruggono il contesto appropriato perché i genitori possano svolgere il loro compito, menomando lo sviluppo umano e, inesorabilmente, erodendo le basi della trasmissione culturale e valoriale.Nel libro I vostri figli hanno bisogno di voi, un medico e uno psicologo uniscono le forze per trattare una delle tendenze più fraintese e allarmanti del nostro tempo: i coetanei (amici, cuginetti, compagni di scuola) che prendono il posto dei genitori nella vita dei figli.Questo fenomeno è definito come “orientamento ai coetanei”: tale termine si riferisce al fatto che, quando i bambini in età scolare e i giovani ragazzi hanno bisogno di un’indicazione, preferiscono rivolgersi ai coetanei anziché far riferimento al padre, alla madre e al rispetto dei valori naturali, al senso di ciò che è giusto o sbagliato, all’identità e ai normali codici di comportamento.Quando i coetanei sostituiscono i genitori, lo sviluppo dei bambini si arresta: non ci sono più sane figure educative di riferimento, l’orientamento ai pari crea una massa di giovani adulti immaturi, conformisti e inquieti, incapaci di integrarsi nella società corrente. Ora, questo continuo orientarsi ai coetanei non può che deteriorare la coesione familiare, impedendo uno sviluppo sano e equilibrato del bambino, avvelenando l’atmosfera scolastica e favorendo la crescita di una cultura giovanile aggressiva, ostile e prematuramente sessualizzata.Dal canto loro, i genitori sono a disagio, frustrati, e si acuisce la sensazione che lo sviluppo dei bambini sia sfuggito alla loro influenza. Perché si possa essere genitori efficaci, è necessario quindi che i bambini sviluppino la giusta relazione con i genitori.I ragazzi non stanno perdendo i genitori perché manca competenza o coinvolgimento, ma per mancanza di un attaccamento primario. La conservazione della cultura si basa proprio sui modelli di questo genere, e la conseguenza principale della loro perdita è la scomparsa del contesto appropriato per una sana crescita. L’attaccamento di un bambino ai genitori crea infatti un grembo psicologico necessario per dare vita alla personalità e all’individualità.Gli autori Gordon Neufeld e Gabor Maté aiutano i genitori, gli insegnanti e gli operatori sociali a comprendere questo fenomeno inquietante, fornendo soluzioni utili per ristabilire la giusta preminenza del legame che unisce i figli ai genitori e restituendo a questi ultimi il potere e la forza di essere una fonte vera di contatto, guida, calore e sicurezza. Un libro non finisce con l’ultima pagina!Questo titolo si arricchisce di contenuti “extra” digitali. Per consultarli è sufficiente utilizzare il QR code in quarta di copertina.