Dice un proverbio africano che “per crescere un bambino serve un intero villaggio”. Diversamente da altri mammiferi, che raggiungono l’età adulta nell’arco di settimane o mesi, ai nostri figli servono cure, attenzioni, educazione e protezione per più di quindici anni. Più di trenta, al giorno d’oggi. È difficile che una madre, da sola, sia in grado di fornire tutte queste cure; è sempre stata necessaria la collaborazione dell’intera comunità.
Quello che è cambiato molto negli ultimi decenni è la struttura della comunità. Prima era formata da familiari e vicini. Solo i bambini più grandi andavano a scuola; io stesso non ho iniziato fino a cinque anni (e anche il fatto di andare a scuola è piuttosto recente, si tratta di pochi secoli). Oggi in Spagna molti bambini vengono scolarizzati prima dell’anno, e altri sono accuditi in casa propria da persone pagate, baby sitter e bambinaie che non fanno parte della famiglia.
Queste nuove figure di cura si differenziano dalle vecchie in due aspetti importanti: innanzitutto non stanno a fianco della madre, sostenendola, ma la sostituiscono quando è assente. In secondo luogo, rimangono insieme al bambino per un tempo molto breve.
Non c’è dubbio che una volta i bambini ricchi erano allevati molto spesso da bambinaie o nutrici. Queste persone in genere rimanevano a lungo in famiglia e i bambini stabilivano con loro un vincolo affettivo stabile, una relazione di attaccamento. Nella letteratura del diciannovesimo secolo è frequente la figura dell’“anziana nutrice” o della “vecchia domestica”, che il protagonista, adulto, va a trovare, rispetta e a cui chiede consiglio.
Oggigiorno, al contrario, gli addetti alla cura esterni alla famiglia, maestre del nido o baby-sitter occasionali, non stabiliscono, e non possono farlo, un legame di attaccamento con il piccolo. A volte passano con lui più ore al giorno della madre (tolto il tempo in cui il bimbo dorme) e quasi sempre hanno più contatti delle nonne. Ma l’intensità del vincolo non è la stessa, né può esserlo. La maestra del nido deve proteggersi dal pericolo di stabilire un intenso legame affettivo con i piccoli a lei affidati, altrimenti a ogni fine anno proverebbe ciò che prova una madre nel perdere i figli. Il bambino manterrà un forte attaccamento ai nonni, e un vincolo più debole con gli zii e altri familiari; il contatto, più o meno frequente, con queste persone rimarrà per tutta la vita. Ma la maestra, dopo uno o due anni di contatto molto inteso, scompare completamente; non telefonerà quando il bimbo ha cinque anni per sapere come sta, non verrà alle feste di compleanno, non lo vedrà a Natale.
E il bambino? Riesce anche lui a proteggersi evitando il legame di attaccamento con chi si prende cura di lui? O stabilisce un forte vincolo e a fine anno soffre la perdita di una persona amata? Non lo sappiamo.
Come dicevo, i genitori di oggi sono soli anche in un altro senso, cioè nella mancanza di rapporti con genitori di altre generazioni.
In quasi tutte le occupazioni umane, gli apprendisti si mantengono sempre in contatto con chi ha più esperienza. Che si inizi a lavorare nello studio di un avvocato o da una parrucchiera, qualcuno che è lì da cinque o dieci anni insegnerà cosa fare, e a distanza vi sarà la supervisione di chi ha accumulato venti o trenta anni di esperienza. Ma i genitori di solito hanno pochi contatti con chi è stato genitore dieci o quindici anni prima. Li conoscono o li frequentano per lavoro, naturalmente, ma in genere con loro non parlano dell’accudimento dei figli.
Di questi argomenti, si è soliti parlare con altri genitori della stessa generazione. Quelli conosciuti al corso di preparazione al parto, quelli che si incontrano tutti i giorni al parco, all’ingresso del nido o della scuola, quelli che tifano la stessa squadra sportiva giovanile… Genitori della propria generazione. E poi i propri genitori, che lo sono stati venticinque o trenta anni fa (se non più) e che forse sembrano, ma non sono, obsoleti e poco affidabili. Nel mezzo, un grande vuoto.
La mancanza di contatti con chi è stato genitore solo un decennio fa, e di fiducia in chi lo è stato da più di due decenni, induce i genitori a pensare che il comportamento di questo gruppetto di amici e conoscenti è “quello che fanno tutti”, o addirittura “quello che si è sempre fatto”. Non si rendono conto che qualche anno fa si agiva in tutt’altro modo, o che in altri Paesi o altri quartieri della stessa città, altri genitori si comportano in modo molto diverso. Qualche esempio:
La scolarizzazione precoce. Alcuni pensano che i bambini debbano andare all’asilo nido perché solo così “socializzeranno”, “prenderanno delle abitudini” o “si decideranno a parlare”. Ho conosciuto madri disoccupate che fanno un grande sforzo economico per pagare il nido, convinte che il figlio ne abbia bisogno; altre, temendo che la mancata frequentazione possa influire sullo sviluppo o l’intelligenza dei figli, cercano “attività” e “materiale didattico”, vogliono dare “lezioni” in casa a bambini di un anno o due. Non sanno che fino a quaranta o cinquanta anni fa quasi nessun bambino andava al nido; io stesso, come ho detto, ho iniziato la scuola a cinque anni. Eppure, ho imparato a parlare, appreso abitudini (alcune non molto buone, ma pur sempre abitudini), sono andato all’università. Ancora adesso, sono pochissimi i bambini finlandesi o tedeschi che vanno all’asilo prima dei tre anni.
Le pappe. Quando dico alle mamme che possono dare ai figli il cibo a pezzi a partire da sei mesi, che non è necessario tritare gli alimenti, molte rimangono meravigliate e spaventate. Si soffocherà! Che novità, che cosa inaudita, non dare le pappe! I bambini piccoli hanno sempre mangiato le pappe! Ebbene, non è vero. Io non ho mangiato pappe, e neppure gli altri bambini della mia generazione. Ricordo il giorno in cui mia madre comprò il primo frullatore elettrico, ricordo con quanto entusiasmo scartò i pezzi, il supporto per la parete, le istruzioni per l’uso in tre lingue, le lame intercambiabili: una per frullare, una per la maionese, e una speciale per montare gli albumi a neve! Lo ricordo perché avevo sette anni. Prima di allora mia madre usava il passaverdura a manovella, che non era neppure di acciaio inossidabile. Dopo ogni utilizzo doveva pulire accuratamente i residui incastrati nella molla, asciugarlo bene e ungerlo d’olio per non farlo arrugginire. Mia madre odiava quell’apparecchio, restava settimane senza usarlo; quando ero piccolo di sicuro non mi preparava tre pappe al giorno; e in ogni caso non sarebbero venute fluide come quelle fatte con il frullatore, avrebbero avuto grumi. Fino agli anni Sessanta i piccoli non mangiavano alimenti tritati, ma tagliati a pezzetti o schiacciati con la forchetta.
La retina anti-soffocamento. Per mettere la frutta in modo che il bambino la ciucci senza rischio. Per proteggere i nostri figli dalla pericolosa frutta assassina, perché potrebbero mettersi in bocca di tutto… tutto meno che il cibo, ci mancherebbe. Ne ho scoperto l’esistenza circa tre anni fa, me ne ha parlato una mamma. E io, pediatra da più di vent’anni, padre di tre figli ventenni, non conoscevo la retina antisoffocamento. Dirò di più, ero ragionevolmente sicuro che non esistesse. Viviamo nel pericolo! Di certo con questo nome, “anti-soffocamento”, e visto che “la usano tutti”, quale genitore lascerebbe che suo figlio si soffochi per risparmiare qualche euro? Quasi quasi chiedo il brevetto per il basco anti-meteoriti e le scarpe anti-terremoto.
La mensa scolastica. Altra cosa diventata imprescindibile; al punto che, secondo alcuni, solo lì il bambino imparerà a mangiare. Eppure fino a quaranta anni fa, fermarsi a mangiare a scuola era rarissimo; nella mia classe si fermavano solo cinque o sei bambini su quasi cinquanta. La maggior parte andavano a casa, mangiavano con i genitori e tornavano a scuola nel pomeriggio.