Indovinate quali sono gli stili che corrispondono a ciascun enunciato?
Come si progetta un questionario come questo, come si verifica se funziona? Buri spiega nel suo articolo il procedimento seguito:
Il primo passo è stato ideare quarantotto domande a partire dalle descrizioni originali della Baumrind. In seguito le domande sono state mostrate a 21 professionisti (psicologi, educatori, sociologi e impiegati nel settore sociale) che hanno deciso se ognuna di esse corrispondesse chiaramente a uno dei tre stili parentali. In trentasei delle quarantotto domande, almeno 20 giudici su 21 si sono trovati d’accordo. Tra queste trentasei, sono state scelte trenta domande per il questionario definitivo.
Il terzo passo è stato verificare l’affidabilità test-retest. Vale a dire, se la stessa persona, a cui si propone due volte lo stesso questionario, risponde più o meno nello stesso modo. Perché se ogni volta risponde in modo diverso, il questionario è inutile. Per questo le domande sono state poste a 61 studenti di psicologia di diciannove anni e riproposte dopo una settimana. Gli studenti rispondevano più o meno (ma non esattamente) nello stesso modo.
Il quarto passo è stato verificare la coerenza interna; vale a dire, se le diverse domande del questionario ricevono risposte coerenti. Qui occorre cercare un certo equilibrio. Se una delle domande riceve quasi sempre risposte in contraddizione con le altre, forse è mal posta, o non viene capita, o è inutile. Ma neppure è auspicabile che tutte le domande ricevano risposte rigorosamente coerenti, perché allora a che servono dieci domande? Basterebbe farne una. La coerenza interna si misura con un coefficiente statistico chiamato Alfa di Cronbach. Si considera accettabile un risultato maggiore di 0,7, buono se maggiore di 0,8, eccellente se maggiore di 0,9. Buri ha proposto il questionario a 185 studenti di psicologia di diciotto anni ottenendo una coerenza tra 0,74 e 0,87 per ciascuna scala.
Il quinto passo è stato verificare la validità discriminante. Se esistono tre diversi stili educativi, un genitore che riceve un punteggio alto in una scala, dovrebbe riceverlo basso nelle altre. In altre parole, non si può essere autorevoli e permissivi allo stesso tempo. Questo verifica è stata eseguita con un altro gruppo di 127 studenti; in effetti, le diverse scale davano risultati antitetici.
Come sesto passo, a questi stessi 127 studenti, Buri ha proposto un questionario ideato da lui tre anni prima sulle cure ricevute dai genitori (nurturance, termine di difficile traduzione che esprime il sostegno materiale ed emotivo offerto per soddisfare le necessità del bambino). È partito dall’ipotesi che essere autorevoli abbia una correlazione positiva con le cure; essere autoritari, una correlazione negativa (cioè, quanto più si è autoritari, meno cure si dispensano); e essere permissivi, nessuna correlazione. E questo è esattamente ciò che ha riscontrato, il che secondo lui conferma la validità del questionario.
Settimo passo: Buri si è chiesto se qualcuno potesse rispondere il falso per fare bella figura. Già prima della Baumrind, la società nordamericana aveva in generale l’idea che un buon genitore non deve essere né troppo autoritario né troppo permissivo; e senza dubbio nei vent’anni trascorsi dalla prima classificazione, questa convinzione si è estesa e rafforzata. Alla gente non piace parlare male dei propri genitori. È chiaro tuttavia che non c’era modo di verificare se le risposte di quei giovani corrispondevano realmente a ciò che era accaduto anni prima tra le mura domestiche.
Così Buri ha deciso di confrontare, con altri 69 studenti, i risultati del suo questionario con quelli della Scala di desiderabilità sociale di Marlowe e Crowne. Si tratta di una scala ideata nel 1960 per misurare fino a che punto un individuo ha la tendenza a rispondere il falso per dire ciò che ci si aspetta da lui o che lo fa sembrare migliore. È un questionario ingegnoso di trentatré domande trabocchetto riferite a cose che quasi tutti a volte hanno fatto, ma a quasi nessuno piace confessarlo. Per esempio: “Sono sempre disposto a riconoscere di aver sbagliato”, “Sono sempre educato, anche con le persone sgradevoli”, o “Non intraprendo mai un lungo viaggio senza aver fatto revisionare la macchina”. Chi ottiene un punteggio molto alto in questo test, o è davvero un santo, o più probabilmente è un bugiardo. Se qualcuno stesse rispondendo il falso al questionario di autorità parentale, esisterebbe una correlazione tra questo e quello di desiderabilità sociale: chi sostiene di avere una condotta integerrima avrebbe genitori più autorevoli, meno autoritari e meno permissivi. Ma tale correlazione non esiste, il che indica onestà nelle risposte.
Infine, Buri ha proposto il questionario ad altri 169 studenti di scuole medie inferiori e superiori, per verificare i “valori normali” nella popolazione. I punteggi erano più alti nella scala autorevole e più bassi in quella permissiva.
Questo è più o meno il processo che si è soliti seguire per elaborare e convalidare un questionario. È un processo lungo e laborioso, e il risultato è uno strumento adatto a un lavoro serio, qualcosa di molto diverso da quei presunti “test psicologici” che di solito vengono pubblicati sulle riviste popolari, tipo: “Siete un risparmiatore?” o “Siete una madre iperprotettiva?”, che qualcuno ha tirato fuori dal cappello in un paio d’ore.
Ma pur essendo una cosa seria, continua a dipendere da una serie di presupposti iniziali. La Baumrind aveva stabilito che esistevano tre tipologie di genitori, non due né sette (anche se dopo, come vedremo, cambiò idea). Aveva deciso che le tipologie erano queste e non altre. E, con questi presupposti, è stato progettato un questionario che sembra in grado di identificare e differenziare i genitori in queste tipologie. Ma partendo da definizioni diverse, le domande sarebbero state diverse. Nessuna delle trenta domande si riferisce al dare o non dare schiaffi, a lasciare piangere i bambini oppure no, a prenderli in braccio, a sgridarli, a passare ore ogni giorno a parlare e giocare con loro o lasciarli tutto il tempo davanti alla televisione. Infatti queste cose non c’erano nelle definizioni originali della Baumrind. Tuttavia, mi sembra che conoscere questi aspetti sia molto importante per sapere che tipo di genitori siamo stati.
A volte non capisco bene una domanda fino a che non cerco di rispondere davvero. Così ho deciso di compilare il questionario di Buri pensando ai miei genitori. Sono risultati sostanzialmente autorevoli, ma anche molto permissivi (poveretti, e io che mi lamentavo…); l’esperimento mi ha fatto capire che, in effetti, per molte domande, risulta piuttosto difficile comprendere e rispondere. In pratica si finisce col rispondere a caso. Soprattutto le domande che contengono un ma. Ricordate, la descrizione originale dello stile autorevole era piena di ma, e questa caratteristica si è trasmessa alle domande del questionario. Cinque delle dieci domande sullo stile autorevole contengono la parola ma. Nessuna delle altre venti domande contiene un ma. Essendo ma una congiunzione avversativa, gli enunciati che la contengono, per definizione, sono formati da due proposizioni più o meno opposte. Convenire con un’affermazione di questo tipo, vuol dire essere d’accordo con ciò che viene prima o dopo il “ma”?
Per esempio, si consideri l’enunciato: “Le regole di comportamento per i bambini erano chiare a casa nostra, ma potevano essere adattate alle necessità di ciascun bambino”. Rispondere che si è “decisamente in disaccordo”, equivale a dire che non c’erano regole, o che c’erano ma non erano chiare, o che non potevano essere adattate a ciascun bambino, o che erano regole tanto buone che non è stato necessario adattarle perché i figli erano sempre d’accordo, o che si è figlio unico e quindi non c’è stato bisogno di adattare nulla ad altri bambini?
Mi chiedo se lo stesso Buri si rese conto di quanti ma aveva messo negli enunciati relativi allo stile autorevole, e se questi ma hanno contribuito a rendere più alti i punteggi. Infatti, come già si è osservato, le affermazioni con un ma ci attraggono di più, ci paiono meno estremiste, più sfumate. È sempre più facile essere d’accordo con una frase che contiene un ma.
E molte altre domande mi lasciano perplesso, pur senza contenere un ma. Per esempio: “Mi permettevano di prendere per conto mio gran parte delle decisioni senza dare molte indicazioni”. In realtà io, com’è naturale, non potevo decidere se andare a scuola, o se fare i compiti, o che a ora alzarmi. Ma nessun bambino può decidere queste cose, giusto? Allora non è possibile che la domanda si riferisca a situazioni di questo tipo, sarebbe assurda. Però potevo certamente decidere, almeno in parte, ciò che è ragionevole decidano i bambini: se studiare prima matematica o geografia, se avere un gelato al cioccolato o alla fragola, che maglietta mettermi, con che giocattolo giocare… Se mia madre mi diceva: “Mettiti la sciarpa, fa freddo”, questo significa dare “molte indicazioni”? Ma questo lo dicono tutte le madri, no? A quarant’anni me lo diceva ancora. Che punteggio posso dare a questa domanda, che punteggio assegnereste ai vostri genitori?
Perplesso, ho deciso di proporre il questionario ai miei figli (già oltre i vent’anni) per vedere se anche loro trovavano le domande confuse o sono strano io. Sono strano io. Ma con nostro grande sollievo, siamo risultati permissivi! Siamo stati, secondo i nostri figli, principalmente permissivi, un po’ autorevoli, quasi per niente autoritari. Adesso posso vantarmi. Se il test fosse venuto male, avrei dovuto bruciare tutte le prove.
No, scherzo. Mi sono fatto prendere dalla curiosità e sono andato a vedere che punteggio avevo ottenuto, ma per potermi azzardare a fare una cosa del genere, ho dovuto anzitutto avere ben chiaro che il punteggio non ha nessuna importanza, non significa nulla. Non vi consiglio di proporre il questionario ai vostri figli. L’apprendista psicologo, come l’apprendista stregone, può mettersi nei guai, e chi chiede ciò che non deve, potrebbe sentirsi rispondere ciò che non vuole.
I risultati individuali di questo test non hanno nessun valore perché non è stato pensato per questo scopo. Alcuni test psicologici sono destinati all’uso clinico, servono al professionista per valutare la personalità, i sintomi o i problemi di un paziente, e per orientare il trattamento. Ma anche questi test sono solo orientativi, lo psicologo non può basarsi unicamente su di essi.
Sono solo orientativi perché, come si è visto, la validità interna ed esterna di un test psicologico è, nel migliore dei casi, bassa. Agli autori sembra magnifico che lo stesso test, fatto dopo sue settimane, dia lo stesso risultato nell’80% dei casi. Ma in un esame medico di tipo biologico non sarebbe ammissibile un simile margine di errore. Il test per l’HIV, la radiografia per la diagnosi di un cancro al polmone o l’esame per la diagnosi del diabete non potrebbero avere un errore del 20%.
Tra l’altro, i test psicologici partono dall’ottimistico presupposto che si conosca la risposta. Se si facesse un esame a sorpresa a un gruppo di giovani adulti, sarebbero in molti a non conoscere la capitale della Malesia, l’accelerazione di gravità o la superficie del cerchio. E pensate che, domandando loro ciò che facevano i genitori dieci o quindici anni prima, se ne ricorderebbero e sarebbero in grado di spiegarlo alla perfezione?
Anche i test per l’uso clinico, come dicevo, devono essere usati con cautela. Ma il questionario di autorità parentale di Buri non ha mai preteso di essere destinato all’uso clinico. Appartiene a una categoria completamente diversa, quella dei test usati come strumenti di ricerca. La sua funzione non è valutare un determinato genitore, perché il margine di errore è troppo ampio. Si confida però nel fatto che gli errori non vadano sempre nella stessa direzione, ma che più o meno si compensino, e quindi la media su varie persone risulti più affidabile. Così vengono eseguiti studi come quello di cui si è già parlato (e altri che analizzeremo più avanti) in cui si indaga se alcuni adolescenti con genitori tendenzialmente autoritari prendono voti migliori o peggiori, o hanno più o meno problemi con la droga, rispetto ad altri adolescenti con genitori tendenzialmente più permissivi.
Ho notato un’altra cosa nei test compilati dai nostri figli: ci hanno dato voti alti in tutte le domande riguardanti la permissività (per esempio: “In genere mi lasciavano decidere da solo cosa fare”), eccetto in una, con cui non erano per nulla d’accordo: “I miei genitori non si consideravano responsabili di indirizzare e guidare il mio comportamento”. So che Buri aveva misurato la coerenza interna del suo questionario, ma non posso fare a meno di pensare che questi due enunciati si riferiscano a tipi di genitori molto diversi. Una conto è lasciar decidere i bambini, molto diverso è non essere responsabili di orientarli e guidarli. Proprio per poter decidere in modo adeguato hanno bisogno del nostro orientamento e della nostra guida, perché sono bambini piccoli e non saprebbero che fare senza il nostro aiuto. I genitori che non si sentono responsabili di orientare i propri figli sono tutto il contrario, sono irresponsabili. La definizione “genitori permissivi” stava considerando alla stessa stregua coloro che rispettano i propri figli e gli concedono una ragionevole libertà, e coloro a cui semplicemente non importa nulla dei figli e li trascurano. Altri psicologi ormai si rendevano conto del problema.