CAPITOLO VIII

Che cos’è indipendenza?

La prima ad associare questo termine allo sviluppo infantile è stata nel secolo scorso Maria Montessori. Anzi, vedeva la crescita umana – dalla nascita all’adolescenza – come una lenta, progressiva conquista di indipendenza. Oggi si sente parlare quasi ovunque di autonomia, come se fossero sinonimi, mentre non lo sono. Se guardiamo al significato etimologico autonomia significa sapersi dare regole di comportamento e rispettarle, mentre indipendenza è la capacità (progressiva) di agire in prima persona, senza aspettare – nel fare – il consenso o l’aiuto di altri. Un piccolino di 10 o 12 mesi può anche addormentarsi da solo senza difficoltà, ma non per questo è indipendente e tanto meno autonomo. Tuttavia può già intraprendere azioni indipendenti come scegliere un oggetto, adoperarlo per scuoterlo, portarlo alla bocca, lanciarlo. A tre anni può essere in grado di spogliarsi in parte da solo, mettere le scarpe sotto la seggiolina, lavarsi le mani e i denti, ma ha ancora bisogno della presenza di un adulto affettuoso che lo lasci fare standogli vicino, che lo accompagni con un breve rituale nel tempo del sonno.

Perfino il neonato, che è nello stato di massima dipendenza, ha suoi “poteri” autoregolativi (durata dei sonni e delle veglie, quantità di latte da succhiare, fissare il viso materno, piangere per segnalare un disagio…). Questi non possono essere frutto di insegnamento: li manifesta in base al proprio corredo genetico, ma sono anche l’avvio a future indipendenze.

La conquista di nuove posizioni

Abbiamo detto che la tranquillità della notte dipende moltissimo da come il bambino trascorre le ore di veglia, in particolare da come vive e sviluppa le sue esperienze motorie.


Dalle lettere di alcune madri apparse sulla Rete si nota un particolare: l’uso della sdraietta (o infant-seat) per far dormire il piccolo di pochi mesi, per dargli da mangiare o altro ancora: un oggetto pluriuso.


Precisiamo che il bambino, per essere garantito nella sua libertà di movimento, e quindi per uno sviluppo psicomotorio naturale (cioè senza interferenze), quando non succhia o non viene portato dovrebbe essere tenuto su un piano d’appoggio piuttosto ampio e sostenuto in modo da non affondarci dentro: per gradi riuscirà a spostarsi da solo su un fianco o sull’altro, a strisciare, rotolare, spingersi all’indietro puntando i piedi, tutte abilità che non si manifestano perché ha raggiunto una data età o perché incitato da qualcuno, ma perché egli stesso si sente pronto a una nuova postura o a esplorarne una già conquistata. La maturazione neuromuscolare procede di pari passo con il piacere di agire in modo indipendente.


Le esperienze condotte per oltre quarant’anni da Emmi Pikler1 con decine e decine di bambini nell’Istituto di via Lozy a Budapest, oggi conosciute in molte regioni del mondo, dimostrano che la libertà motoria non solo assicura grande sicurezza e perfetto senso di equilibrio fino a raggiungere, senza sollecitazione alcuna, la posizione eretta, ma produce notevole armonia nei ritmi quotidiani, nel comportamento, nelle relazioni con i coetanei, nello sviluppo del linguaggio e in generale nelle condizioni di salute. Il benessere come risultato del “lavoro” del bambino e non come induzione o insegnamento diretti di uno o più adulti. Questi in ogni caso devono garantire la “cornice” positiva nella quale può realizzarsi il percorso indipendente del bambino.


Ecco l’indicazione educativa e fisiologica di Emmi Pikler che peraltro coincide esattamente con la prassi del CNM e con gli insegnamenti della ben nota psicologa inglese Elinor Goldschmied: tre percorsi paralleli, sconosciuti l’uno all’altro, realizzati più o meno nello stesso periodo, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale e giunti agli stessi risultati in un’ottica di rispetto dei primi anni di vita.

“Ogni aiuto inutile è un ostacolo allo sviluppo” (Montessori)

È evidente dunque il motivo per cui Pikler e le altre due scuole psicopedagogiche sconsigliano l’uso di oggetti sollecitanti o costrittivi quali sdraietta, girello, box, seggiolone, guinzaglio, balla-balla ai quali si è aggiunto di recente l’ovetto – contenitore a forma di semiuovo, con manico – che costringe il bambino in una posizione curva (da neonato, si direbbe, ma del tutto impropria) nella quale non si può muovere, salvo agitare mani e piedi. Utile all’adulto per brevi spostamenti, in realtà per il piccolo è una prigione: “incastrato dentro”, dipende sempre da un adulto per il cambio di posizione e spesso deve piangere per ottenerlo.


Viceversa il bambino non va mai messo in una posizione che non possa cambiare da solo, anche nel primo mese. Quando è a terra non tenuto da qualcuno, riesce sempre a muoversi a suo modo. Infilato in uno di questi pseudo-mobili, le sue iniziative sono assai ridotte e il risultato è uno stato di eccitazione, a volte con effetto anticipatorio, ad esempio su:


* lo stare seduto (sdraietta, seggiolino da auto, seggiolone, ma anche i cuscini dietro la schiena) quando ancora non sa sedersi da solo,

* il mettersi in piedi e camminare prima del suo tempo (box e girello).

* l’addormentarsi tramite dondolio (carrozzina, ovetto) e tralasciamo l’ignobile guinzaglio da cane a due o tre anni.


Sono tutti mezzi comodi per l’adulto, ma non rispondenti alla naturale evoluzione motoria del bambino: provocano dipendenza e ulteriori forzature, che di fatto l’aumentano.


Molto interessante un altro modo di vedere la questione: Dilys Daws, qui più volte ricordata, a proposito del girello che permette al bambino di muoversi rapidamente attraverso le stanze quando ancora non è in grado di camminare, sostiene che egli viene indotto a compiere un’esperienza motoria prima di essere fisicamente pronto a realizzarla da sé. Scrive la Daws che: “il movimento compiuto ‘magicamente’ distoglie il bambino dall’attività di immaginarlo come possibile – essenziale passaggio mentale che precede il fare volontario o meno – e determina forte impoverimento psichico”2.


Tanto meno ci si rende conto che il malessere di un bambino e il suo dormire inquieto possono dipendere dall’eccesso di sollecitazioni ricevute al di fuori delle sue immediate possibilità, da uno stato generalizzato di tensione muscolare e quindi di stress. A questo si aggiunga l’ostacolo alle prime, appena percettibili indipendenze, le sole vere in quanto conquistate dal bambino a sua misura e non provocate né anticipate.

Estivill tra le sue “modalità d’uso” scrive: “Nel giro di pochi anni una creatura in stato di assoluta dipendenza diventa una persona, cioè un individuo dotato di precisa identità e autonomia”3, e subito dopo4 elenca tra le “conseguenze delle turbe del sonno nell’infanzia” per il lattante e il bambino piccolo la “dipendenza da chi lo accudisce”.


È vero che le parole, come dice Il piccolo Principe di Saint-Exupéry, sono “fonte di malintesi”, ma qui siamo al massimo della confusione. Intanto il neonato, con le sue riconosciute competenze, le capacità autoregolative e la sua unicità, non è vuoto, anche se sopravvive solo se accudito. È già una persona alla nascita, per il suo corredo genetico e le speciali sensibilità; la sua dipendenza – prevista dalle caratteristiche della specie – perdura per gran parte della “lunga infanzia umana” (Montessori).


Figurarsi se può essere indipendente dalle cure materne nei primi anni di vita. Indipendente solo perché si addormenta da solo senza disturbare? Ma questa non è vera indipendenza, tanto più se si tratta di comportamento indotto.


Nel giro di pochi anni” diverrebbe “dotato di precisa identità e autonomia”: dunque il neonato non avrebbe “identità”, ma se la procura (come?) o qualcuno lo “dota” (gli fa dono?) di identità e insieme di autonomia, parola che, come abbiamo detto, non è sinonimo di indipendenza.


L’autonomia (“Sono in grado di crearmi io stesso una norma e di seguirla”) è un punto d’arrivo che comincia a manifestarsi non prima dei 7-8 anni. Che confusione di idee!

Il valore primario delle cure materne

Lo sviluppo umano parte dall’interno dell’individuo fin dalla gestazione, e dopo la nascita si realizza in modo equilibrato solo se qualcuno si fa costantemente carico del singolo bambino (e si vede bene che cosa accade quando questo viene tragicamente a mancare!).


La sua umanità si costruisce grazie alle cure che riceve.


Azioni come nutrire, tenere pulito, accompagnare nel sonno, difendere dal caldo o dal freddo, consolare, tenere tra le braccia, costituiscono il veicolo basilare della relazione con lui, luogo originario dei legami e del linguaggio, àncora affettiva che alimenterà pensieri, sogni, speranze per tutta la nostra vita adulta. È il compito primario dei genitori, come delle educatrici. In una situazione sana:


la madre cura il bambino perché lo ama;

l’educatrice ama il bambino perché lo cura.


Sono le parole con cui Myriam David, medico e psichiatra francese di grande valore, ha sintetizzato l’intreccio emotivo intorno al prendersi cura di un bambino: è tutt’altro che una routine da affidare al primo che passa o un’occupazione sgradevole, noiosa, di scarso interesse educativo. Al contrario è la via maestra allo sviluppo emotivo e cognitivo, come alla costruzione delle indipendenze necessarie del vivere quotidiano. Non si tratta di un’affermazione astratta: è l’altro aspetto dell’esperienza di Loczy, già ricordata, che Myriam David ha fortemente sostenuto, arrivando alla conclusione che quanto più il bambino è in una situazione di protetta continuità di esperienze, tanto più diventa indipendente nel gioco, nei movimenti, nell’esplorare, nello sperimentare, arrivando a quella vita di piena soddisfazione che gli permette – per restare in tema – un giusto compenso nelle ore di sonno.


Le cure sono il compito dell’adulto; il gioco – possiamo dire con Maria Montessori – è il lavoro del bambino: in questo l’adulto non deve intromettersi perché lo impoverisce, sostituendosi a lui con meccanismi mentali diversi, lo rende passivo e rinunciatario. (“Mamma, non sono capace. Me lo fai tu?” oppure “Mamma, non so che fare… Giochi con me?”)5.

L’ambivalenza degli adulti

La mente del bambino non lavora liberamente, né si sviluppa secondo le proprie potenzialità quando l’adulto agisce in sua vece o lo aiuta troppo nelle cose che il piccolo già sa fare. Emergono di continuo le sue contraddizioni: da un lato non gli permette di mangiare da solo, di salire da solo le scale e così via, dall’altro gli mostra come mettere un cubetto sull’altro, gli disegna la casetta o il gatto; pretende di insegnargli che cosa fare perfino nel regno privilegiato dell’esplorazione degli oggetti e del gioco di fantasia.


Se l’adulto agisce di continuo da protagonista nelle situazioni, il bambino non vive al proprio livello l’esperienza della libera scelta delle proprie azioni, del creare a suo modo, e questo ricade negativamente sulle necessità fisiologiche quotidiane, come sulle abilità mentali.


L’indipendenza – che discende in linea diretta dalle capacità autoregolative del neonato nel ritmo sonno/veglia – si rende evidente fin dal primo anno di vita in minimi gesti, iniziative, espressione di desideri. Se protetto ma libero di muoversi, il bambino procede giorno dopo giorno nell’esplorazione della madre, del padre, di sé, dell’ambiente. Se invece la potente spinta ad agire in prima persona è minacciata o, peggio, soffocata, ecco emergere lo stato di agitazione, l’irrequietezza, la mancanza di concentrazione e di iniziativa, il tono depresso, l’insoddisfazione.

Qualche esempio

Vuole togliersi da sé le scarpe? “Non sei capace”.


Vuole lavarsi da solo le mani? “Ma che pasticci fai. Ti bagni tutto”.


Prende il cucchiaio per mangiare da solo? “Ma no, sei piccolo, te la dà mamma la pappa”.


Servito di continuo, il bambino subisce e diventa passivo.


Ma allora che cosa segna la fine della dipendenza?

Alcuni pensano che sia semplicemente non farsi più la pipì addosso; per altri mangiare da solo o camminare senza cadere: tutte visioni parziali.


Chiediamoci se sia davvero indipendente un bambino che


- a due anni mangi da solo, vada a letto senza problemi, ma si rifiuti di adoperare qualsiasi gioco senza l’aiuto o la compagnia di un genitore.


- a due anni e mezzo, vivace e intraprendente, rifiuti i cibi quasi a ogni pasto, salvo quei due o tre alimenti su cui gli adulti cedono “purché mandi giù qualcosa”.


- a tre anni controlli i suoi sfinteri ma non riesca a dormire tranquillo.


- a quattro anni abbia un linguaggio molto sviluppato e ricco, ma voglia essere imboccato, lavato, vestito anche degli indumenti più semplici ed esiga ogni sera un interminabile rituale.


- a sette anni, abile a scuola nel disegno, nella scrittura e nel calcolo, chieda per ogni cosa che fa l’approvazione degli adulti.


Non è difficile smorzare nei figli quella molla vitale che li spingerebbe a mettersi alla prova in prima persona.


Proviamo invece a rispettare le loro scelte, i loro tempi – sia pure entro quei confini ragionevoli che danno ordine alla mente – a riconoscere in loro un continuo desiderio di agire (non molto diverso da quello che guida i cuccioli di altre specie). Cerchiamo di aiutarli a fare da soli (Montessori) quando e dove sono in grado di farlo, e saremo ripagati dal loro buon umore e dallo stato di benessere che manifestano di giorno e di notte.


In caso contrario alcuni subiscono senza reagire, si adattano (i cosiddetti “facili”); altri si oppongono con forza, non si sentono ascoltati, si ribellano, (i “capricciosi”, gli “ostinati”…). Dove va a finire la forte e del tutto naturale aspirazione a dipendere sempre meno?

Come parlare ai bambini per essere ascoltati

Hai notato, dice Angela Paulon che coordina il Nido di Germignaga presso Luino, come si rivolgono oggi i genitori ai bambini? Pongono domande invece che semplici proposizioni, come a schivare a priori la protesta del figlio. “Andiamo a letto?” dice la madre: la risposta pronta è “No”. “Vuoi mangiare?”, “No”. La gentilezza viene confusa con una sorta di richiesta di permesso rivolta al bambino. Abbiamo perso il senso del limite”.


In effetti, un piccolino a uno o a due anni dovrebbe dichiararsi d’accordo su ciò che è necessario per il suo benessere? Quali strumenti ha per dire sì o no? L’adulto, per evitare il conflitto, lo carica di una scelta che non è in grado di compiere; in realtà lo rende in qualche modo “potente” e il conflitto arriva ugualmente. La risposta del figlio finisce per condizionare l’adulto e il bambino fa presto a rendersene conto. Alla fine nel tira-e-molla che si osserva in tante famiglie, proprio lui finisce per vincere.


Non mi piace il riso!

Allora ti preparo la pastasciuttina.

Quando è pronta: – Non la voglio.

Ma allora che cosa vuoi?

Voglio il prosciutto!


E così via fino all’esasperazione. “Purché mangi!!”. Ma no! E poi chi è responsabile: l’adulto che non sa dare una norma di vita o il bambino che, per assenza di regole chiare e stabili, è costretto a sprecare le proprie energie in questo gioco malato?


Chi dei due dovrebbe avere la saggezza per indicare la strada necessaria?


“Nell’atteggiamento del genitore, osserva ancora la nostra amica, pare esserci una richiesta rivolta al figlio: quella di venire da lui autorizzato a prendere una decisione al suo posto, quasi temesse di sbagliare, rivelando un’insicurezza di fondo nel suo ruolo. Lo si vede al mattino durante il tempo dell’accoglienza: genitori che faticano a separarsi dal bambino e gli chiedono ‘La mamma può andare?’. Il 90 percento delle risposte è un ‘no’ deciso, cui il genitore replica con una supplica, con un tentativo di distrazione o con un’altra domanda: ‘Vuoi stare qui o andare di là?’ (indicando la sala oltre la stanza dell’accoglienza) e il bambino si incolla alla mamma, esprimendo senza parole, ma con chiarezza: ‘Voglio stare con te’.

È una modalità da cui si esce a fatica. La soluzione è nel parlare in modo gentile ma affermativo quando ci si rivolge ai figli, soprattutto dopo i due anni…”.


Dunque niente domande (“Vuoi…?”). Né funziona mettere il bambino piccolo di fronte a continue scelte verbali che ancora non può sostenere. “Vuoi stare a casa o andare dalla nonna?”. “Vuoi il riso giallo o il riso rosso?”. Si arriva perfino a chiedere: “Quest’estate vuoi andare al mare o in montagna?”. È una modalità che alleva nell’insicurezza e nella saccenteria.


In effetti il piccolo con la sua vocetta risponde, ma senza alcuna consapevolezza delle proprie parole, date lì sul momento. Quando si trova a dover uscire o ad affrontare il piatto con il riso giallo, si oppone con tutte le forze. “Ma perché fa così se gliel’ho chiesto prima?”. Semplicemente perché la richiesta è prematura, è astratta. Forse nemmeno la ricorda! Questo si può fare con il ragazzino dei nove/dieci anni; anzi, si dovrebbero sempre discutere insieme le decisioni di famiglia a partire dalla seconda infanzia (e invece spesso non lo si fa, perché ormai si è esausti), ma quando i bambini sono piccoli, il loro bisogno fondamentale è la sicurezza, data anche dal tono calmo e sicuro con cui la madre dice: “Adesso andiamo dalla nonna” o con la quale mette in tavola il cibo che ha preparato.


Avere modi garbati ma fermi e senza via d’uscita, dà pace al bambino. Che dire allora della “scelta”? Questa deve avvenire – e non di continuo – in modo concreto: tra i giochi (pochi) a disposizione, tra i calzoni verdi e quelli blu, lì davanti agli occhi e solo quelli (e non l’intera provvista di tute, calzoncini, golfini di mille colori, come usa oggi).


La scelta per ora deve essere contenuta, accessibile ma ragionevole, per non scatenare insaziabilità e scontento.


Ancora una volta, evitiamo di anticipare.


Immaginiamo una situazione di continuo conflitto sui cibi.


Come superarla? Intanto non porre domande a priori. All’ora prevista il genitore dice: “Ora si mangia” (e magari il bambino ha collaborato nel preparare qualcosa: spalmare il burro sulle fette di pane, mescolare la crema, apparecchiare…). Ci si mette a tavola di buon umore. Al primo “Non mi piace”, si risponde tranquilli: “Va bene, si vede che non hai appetito”. (La fame è tutt’altra cosa!). Si toglie il piatto e non si dà altro, senza farsi prendere dall’ansia di un ipotetico danno, inesistente per i nostri bambini supernutriti.


Non si insiste, non si contratta. “Voglio la banana!”. “No, prima non hai mangiato il riso, vuol dire che non hai appetito” (ripetere sempre la stessa frase con tranquillità senza accontentarlo). Tutt’al più: “Ora puoi andare a giocare e farai merenda alle quattro”; e sulle quattro non si fanno anticipi! Provate: le sceneggiate finiscono nel giro di pochi giorni. Tale atteggiamento tranquillo, distaccato spiega perché al nido non c’è bambino che, prima o poi, non mangi di gusto perfino cibi per lui insoliti, che a casa rifiuterebbe.


La stessa cosa per il sonno. La soluzione sta nella fermezza dei familiari, ben coerenti fra loro, e questo non significa violenza, imposizione, punizioni, lasciarlo urlare perché si pieghi, ma essere vigili sui segnali di sonno per non trascurarli. Se sorge la protesta, si dice tranquillamente “Ora è il momento della nanna”, così come si insegna a lavarsi le mani prima di toccare un biscotto o come si cambia un abito sporco: occorre la tranquilla ineluttabilità delle cose che vanno fatte e senza modificare o prolungare il rituale stabilito.


Se si agisce così fin dal principio, tutto è più semplice. E invece gli adulti, temendo urli e strepiti, cedono, cominciano a far prediche a priori, proibiscono, sgridano: parole inutili, noiose, sgradevoli. Il bambino le capisce, eccome. Siamo noi che ci mettiamo in lotta con lui perché non ci fidiamo e non il contrario: abbiamo sempre nella testa la vecchia idea del bambino-legno-storto dalla nascita: i Greci assolutamente geniali in tante cose, questa proprio non l’avevano capita. Che si fa per raddrizzare un tronchetto o una tavola? Si pialla, si batte, si tratta con l’acqua o con il fuoco per dare la forma voluta: tutti i mezzi sono validi e leciti per “modellare” il legno.


Ma un bambino?

Un suggerimento di Jeannette Bouton per consolare dopo un brutto sogno

Il bambino si sveglia con un incubo e dice che ha paura: era nella foresta e ha visto il lupo. La madre arriva, accende la luce, gli dice che non è nulla e così via: con la luce e con le parole la foresta scompare, ma non il sentimento provato. Meglio piuttosto non accendere la luce, restando vicino al bambino, in silenzio, per accarezzarlo, fargli sentire le nostre mani sul corpo, ronfargli piano nell’orecchio.


Il mattino seguente, alla prima colazione, la madre davanti agli altri di casa racconta che nella notte ha fatto un sogno brutto che l’ha molto spaventata: era in un bosco, era buio, veniva un grande lupo.


È importante che il bambino si ritrovi indirettamente in questo racconto, senza che nessuno alluda a ciò che lui ha vissuto. Deve sentire che quello che ha provato, succede anche ad altri, ai genitori in particolare…

Facciamo la nanna - Seconda edizione
Facciamo la nanna - Seconda edizione
Grazia Honegger Fresco
Quel che conviene sapere sui metodi per far dormire il vostro bambino.Consigli, idee e suggerimenti per affrontare i problemi di sonno dei neonati, con un approccio dolce e rispettoso del bambino. Siamo sicuri che il bambino debba dormire quando lo decidiamo noi?Siamo certi che il suo pianto notturno sia un lamento?Dorme troppo? Dorme poco?A volte vorremmo la bacchetta magica per farlo addormentare?Ancora peggio, c’è chi ricorre a medicinali.Siamo fuori strada!Grazia Honegger Fresco, nel suo Facciamo la nanna, chiarisce le motivazioni che dovrebbero spingere a rigettare tutti i metodi “facili e veloci” per far dormire i bambini piccoli (come quello tristemente famoso di Eduard Estivill, noto agli specialisti per la violenza dell’impostazione e la potenziale dannosità nei confronti del bambino) e delinea al contrario quali siano gli approcci più dolci e rispettosi per affrontare i problemi del sonno. Conosci l’autore Grazia Honegger Fresco (Roma, 6 Gennaio 1929 - Castellanza, 30 Settembre 2020), allieva di Maria Montessori, ha sperimentato a lungo la forza innovativa delle sue proposte nelle maternità, nei nidi, nelle Case dei Bambini e nelle Scuole elementari. Sulla base delle esperienze realizzate con i bambini e i loro genitori, ha dedicato molte delle sue energie alla formazione degli educatori in Italia e all'estero.È stata presidente del Centro Nascita Montessori di Roma dal 1981 al 2003 e ne è stata Presidente onorario. È stata consulente pedagogica di AMITE (Associazioni Montessori Italia Europa) e nel 2008 ha ricevuto il premio UNICEF-dalla parte dei bambini.Ha pubblicato numerosi testi di carattere divulgativo.