3a tappa

Educare in famiglia

I bambini sono come il cemento umido, tutto quello che li colpisce lascia un’impronta.

Haim G. Ginott

Ti racconto una storia…

PICCOLI CHIODI

C’era una volta un ragazzo dal carattere molto difficile. Si accendeva facilmente, era rissoso e attaccabrighe. Un giorno suo padre gli consegnò un sacchetto di chiodi, invitandolo a piantare un chiodo nella palizzata che recintava il loro cortile tutte le volte che si arrabbiava con qualcuno. Il primo giorno il ragazzo piantò trentotto chiodi. Con il passare del tempo comprese che era più facile controllare la sua ira che piantare chiodi e, parecchie settimane dopo, una sera, disse a suo padre che quel giorno non si era arrabbiato con nessuno. Il padre gli disse: “È molto bello. Adesso togli dalla palizzata un chiodo per ogni giorno in cui non ti arrabbi con nessuno”. Dopo un po’ di tempo il ragazzo poté dire a suo padre che aveva tolto tutti i chiodi.

Il padre allora lo prese per mano, lo condusse alla palizzata e gli disse: “Figlio mio, questo è molto bello, però guarda: la palizzata è piena di buchi. Il legno non sarà mai più come prima. Quando dici qualcosa mentre sei in preda all’ira provochi nelle persone a cui vuoi bene ferite simili a questi buchi. E per quante volte tu chieda scusa, le ferite rimangono”.


Gli esseri umani sono fragili e vulnerabili. Tutti portano un’etichetta che dice: “Trattare con cura, maneggiare con cautela, merce delicata”. *


Per riflettere…

Si apre il capitolo con il racconto di una storia perché diventi un’occasione di riflessione. Si provi singolarmente e poi in coppia a rispondere alle seguenti domande:

  • Quali sentimenti ha suscitato in te questo racconto?

  • Quale idea degli effetti delle esperienze negative sullo sviluppo del bambino ti ha suscitato?

Esplorando la terza tappa

(…) Il compito dei genitori è essenzialmente il privilegio (e in verità si dovrebbe considerare un privilegio divino) di permettere a un’anima di entrare in contatto col mondo al fine di evolversi.

Edward Bach

Il periodo storico in cui stiamo vivendo è caratterizzato da profondi cambiamenti culturali e sociali, da uno sviluppo tecnologico sempre più innovativo e da condizioni di vita frenetiche e stressanti. Queste trasformazioni epocali hanno un’inevitabile effetto sulla famiglia, sul rapporto uomo-donna, sulla funzione materna e paterna e anche sul rapporto tra genitori e figli. Papa Francesco sostiene che “..la famiglia insegna a non cadere nell’individualismo ed equilibrare l’io con il noi. È lì che il ‘prendersi cura’ diventa un fondamento dell’esistenza umana e un atteggiamento morale da promuovere, attraverso i valori dell’impegno e della solidarietà”1.

La famiglia
La famiglia è una grande palestra di allenamento al dono e al perdono reciproco senza il quale nessun amore può durare a lungo. Senza donarsi e senza perdonarsi l’amore non rimane, non dura. 2

Walsh nel 1982 sostenne che la famiglia può essere considerata come un “sistema aperto che funziona in relazione al suo contesto socioculturale e si evolve durante il ciclo di vita”3.


Oggi si è passati dalla famiglia con un “ruolo normativo” in cui si trasmettevano principi morali e norme sociali, alla famiglia “affettiva” orientata a negoziare tutto e a soddisfare i bisogni individuali dei figli, a evitargli sofferenze e frustrazioni. Stiamo sicuramente assistendo a un’educazione in cui lo stile affettivo tende a predominare su quello normativo al punto di metterlo in secondo piano.

La famiglia costituisce un punto di riferimento importante per il suo ruolo educativo. L’educazione alle norme sociali è un’espressione d’affetto che i genitori trasmettono ai propri figli. È fondamentale che il bambino acquisisca un bagaglio di principi morali che gli permetta di vivere in mezzo agli altri e di riservarsi un suo posto nella società anche in vista dell’adolescenza e dell’età adulta.


L’educazione è un processo complesso che interessa la dimensione affettiva ed emotiva; è un incontro e un intreccio fra personalità e relazioni che il bambino sperimenta innanzitutto con i genitori, i quali svolgono un ruolo fondamentale nel suo sviluppo. L’azione educativa dei genitori non si limita solo a trasmettere corrette informazioni e norme di cultura, ma si basa anche sugli affetti profondi che vengono trasmessi fin da quando il bambino è piccolo e che costituiscono la base sicura entro cui si creano relazioni sane.


Numerosi studi psicologici hanno sottolineato il particolare ruolo della madre e del padre nella crescita del figlio fin da quando egli è concepito e vive nel grembo materno.


La famiglia è intesa sia come base di appoggio emotivo che come scambio di affetti. Essa è il luogo in cui l’individuo cresce e si adatta a vivere nel sistema sociale, ma può anche costituire luogo di grandi conflitti, di fronte ai quali i genitori possono assumere due modalità comportamentali opposte e disfunzionali: o si dimostrano troppo rigidi arrivando a non tollerare i comportamenti aggressivi dei figli, coartandoli nell’espressione delle emozioni in generale; oppure si identificano con i figli trascurando in un certo senso il ruolo parentale, diventando “amici” dei loro figli, impedendo così loro di imparare a controllare la propria aggressività.


Al giorno d’oggi l’adolescente vive in un contesto socioculturale e tecnologico iperattivo, sovraccarico di stimoli che sembrano non lasciare spazio alla riflessione sul proprio futuro e al raggiungimento di certi obiettivi. Sembra che si sia assopita la capacità di introspezione, di analisi dei propri sentimenti e del proprio vissuto emozionale lasciando prevalere la soddisfazione immediata di bisogni primari relativi al presente. Così facendo è la noia che prende il sopravvento. I giovani sono spesso scontenti di ciò che fanno, della propria famiglia e delle proprie esperienze. In un contesto di questo genere, i genitori comunque rappresentano per i propri figli un modello di vita.


Se noi adulti trasmettiamo efficacemente ai nostri giovani affetto, valori, scopi, propositi che noi stessi seguiamo e condividiamo, i ragazzi acquisiranno creatività, interesse e passione nello svolgere le varie attività che arricchiranno la loro personalità. Quindi per educare e responsabilizzare i figli è forse opportuno ridare un significato più profondo alle cose, significato che è stato sicuramente inaridito da una cultura troppo consumistica e superficiale.

La genitorialità e i ruoli nella triade
Per nascere veramente il figlio ha bisogno del concorso affettivo, relazionale e intellettivo della propria madre.
Egli ha bisogno della sua disponibilità materna che, sul piano esistenziale, diventa, sia per l’uomo che per la donna, una necessità d’essere.

Gino Soldera

La genitorialità costituisce una dimensione che attraversa diverse fasi del “divenire ed essere coppia”. La consapevolezza di come la vita sia un processo dinamico, non un insieme di eventi slegati tra di loro, ma una successione di fasi in cui ognuna ha un valore specifico e chiede di essere vissuta attivamente. Alla base del diventare genitori troveremo alcune dimensioni fondamentali come la responsabilità e la consapevolezza. Assumere la responsabilità di essere genitore implica la possibilità di rispondere personalmente delle proprie azioni, accettandone le conseguenze. Parlare di consapevolezza ci porta nel contesto dei ruoli4.

Bollea, nella prefazione del libro I primi anni del bambino di Irène Lézine, dice: “Nella casa nasce un bambino, il primo. I coniugi, marito e moglie, si trovano immersi in nuovi ruoli: quelli dei genitori, di padre e di madre… è il futuro che riorganizza il passato”.


Il rapporto con la figura materna rappresenta una modalità affettiva e relazionale che mette in evidenza in particolar modo l’area della cura intesa come accoglienza, protezione, legame, calore, soddisfazione sollecita del bisogno, con la presenza di modalità anche sacrificali (dare tutto senza volere niente in cambio). Al padre, invece, è affidato il compito di favorire il processo di separazione dalla madre e di introdurre il figlio nel mondo più adulto e autonomo del sociale. Il rapporto con la figura paterna valorizza la capacità, l’esplorazione, l’efficienza, l’autonomia e l’indipendenza.


Figli si nasce, genitori si diventa. Essere genitori è un divenire, sempre perfettibile; diventare genitori richiede una ricerca costante di equilibrio.


Il vivere il proprio ruolo nel rispetto della identità di genere, di cui ognuno dei genitori è portatore, aiuta il figlio a organizzare la sua vita e la sua mente. Il sistema triadico madre-padre-figlio è un sistema completo, in grado di formare e crescere in modo armonioso ed equilibrato il figlio.


Fare il genitore è sicuramente un mestiere difficile, non esistono genitori perfetti: occorre la capacità di accettare i propri limiti e allo stesso tempo di essere presenti nell’educazione dei figli, senza perdere di vista il proprio ruolo genitoriale, con il massimo impegno, amore ed entusiasmo, offrendo loro la possibilità di crescere e di acquisire il senso profondo della propria esistenza.

Le ombre dei genitori

Le ombre dei genitori diventano facilmente comprensibili se osservate alla luce della “pedagogia nera”, la quale mette in evidenza come molto spesso il bambino sia sottoposto, direttamente o indirettamente, alla violenza dei genitori nella pretesa della sua obbedienza. In questo rapporto asimmetrico l’adulto esercita sul bambino un potere quasi assoluto, che viene considerato normale dalla società5. L’uso di castighi, punizioni corporali, regole rigide, manipolazione, induzione di paure, sottrazione d’amore, isolamento, umiliazione, disprezzo viene messo in atto, a dire dei genitori, “per il bene del bambino”. In realtà questo “bene del bambino” maschera le ombre e le difficoltà dei genitori, dovute ai loro problemi personali non ancora risolti, che li porta ad avere una visione ristretta della vita e della società, un atteggiamento di difesa egoistica dei loro poteri e privilegi, anche a causa della loro personalità debole, fragile e spesso immatura. Investito da una sua autorità, il genitore si ritiene detentore della conoscenza di ciò che va bene o non va bene per il figlio, che ritiene responsabile della sua collera; inoltre è convinto che i bambini siano da considerare pericolosi e da tenere sotto controllo, anche perché una sua eventuale apertura e fiducia non può che diventare fonte di sorprese negative.


In questo senso Miller è convinta che in generale l’opinione pubblica sia ancora ben lontana dall’essere consapevole che tutto ciò che capita al bambino nei suoi primi anni di vita, si ripercuoterà inevitabilmente sull’intera società generando disagio psichico e sociale. Andando a fondo delle conseguenze del disprezzo e della freddezza verso il bambino non è difficile pensare che le psicosi, la droga e la criminalità non siano altro che l’espressione cifrata delle primissime esperienze, in quanto la violenza concorre alla sistematica demolizione del sano potere personale del bambino, venendo minata la sua stima e fiducia personale. Questo alla lunga produce in lui ripercussioni negative nell’ambito esistenziale (con la difficoltà a trovare la propria collocazione nel mondo), sociale e relazionale (a causa della ridotta resilienza e autonomia che induce atteggiamenti di dipendenza, la formazione di legami affettivi inadeguati, la presenza di un’accentuata dose di insicurezza, paura, rabbia, ansia, depressione e disperazione), comportamentale (per lo scarso adattamento e per le possibili manifestazioni di comportamenti disturbati e violenti) e fisico (con possibili effetti negativi sulla salute, come l’indebolimento del sistema immunitario).


Inoltre colui che nella sua infanzia ha attraversato l’esperienza della violenza, in assenza di un’analisi attenta e approfondita, da adulto tenderà ad assumere un atteggiamento difensivo orientato alla minimizzazione o rimozione di quanto accaduto, se non addirittura all’idealizzazione dei protagonisti, facendo diventare i genitori (causa delle sue difficoltà) degli eroi. Nel caso in cui questo circuito non venga interrotto, il bambino è portato ad assorbire le modalità operative malsane dei genitori per farle proprie e trasmetterle alle generazioni successive. La risposta da dare a questo stato di disagio non sta nella medicalizzazione o psichiatrizzazione dell’infanzia (per esempio attraverso l’uso di psicofarmaci), perché essa allontana la ricerca delle vere cause e responsabilità del disagio e non aiuta i genitori a superare le loro difficoltà. È opportuno invece avviare i genitori verso un lavoro di introspezione e di catarsi dei sentimenti negativi repressi, di rielaborazione del proprio vissuto, per giungere all’autentico perdono e per comprendere che i genitori sono stati a loro volta vittime della violenza dell’educazione, per riconquistare la possibilità di essere se stessi e di vivere liberamente il presente.


In sintesi, possiamo dire che il bambino per poter vivere e crescere armoniosamente senza gli influssi negativi della violenza6 non ha bisogno di essere diretto dall’esterno, né di ricevere delle istruzioni di sorta, ma, come abbiamo già affermato, ha la necessità di essere rispettato come persona e di essere messo nella condizione di essere se stesso per vivere in modo autentico e per realizzare senza deviazioni e interferenze il suo progetto di vita. Mentre gli adulti devono ricordarsi che quando si gioca con il potere (la testa) si rischia di perdere l’amore (il cuore) e di fare propria la violenza, fisica e verbale. Per questo il potere deve essere sempre accompagnato dall’amore se vogliamo che sia un servizio agli altri e non un esclusivo privilegio personale.

Gli stili educativi e i modelli di attaccamento
Il ruolo del genitore è quello di offrire al figlio una base di relazione sicura nella quale possa cominciare a gestire le sue emozioni interne e questo condividendo le emozioni e amplificando le positive e attenuando le negative.

Daniel J. Siegel

La relazione qualitativa tra il bambino e chi lo accudisce plasma l’espressione innata all’attaccamento del bambino, la rappresentazione mentale di sé, dell’altro e della relazione; vale a dire che la qualità della relazione che s’instaura con il bambino fin dalla gestazione ha un ruolo determinante sullo sviluppo e la crescita del figlio.


Diventa quindi di fondamentale importanza interrogarsi su quali siano gli atteggiamenti e i comportamenti più efficaci per costruire una sana relazione con il proprio figlio, che permetta uno sviluppo armonico e funzionale della sua persona; soprattutto c’è da chiedersi quali sono gli effetti del nostro agire educativo.

Possiamo definire lo stile educativo come l’insieme di modalità ripetitive e costanti di relazionarsi con il bambino; gli studi di Baumrind7 hanno evidenziato che si possono individuare quattro tipi di stili:

  • autoritario

  • permissivo-indulgente

  • autorevole

  • trascurante

È bene sottolineare che queste quattro categorie ci aiutano a semplificare le forme dell’interazione educativa, tuttavia non si possono fare generalizzazioni poiché lo stile educativo e i suoi effetti variano a seconda dell’individualità dei soggetti e del contesto; inoltre “uno stile educativo è qualcosa che si costruisce nel tempo e in maniera circolare”8.

Nella seguente tabella esaminiamo i diversi stili educativi e gli effetti che le diverse azioni hanno sul bambino.


Stile educativo Effetti sul bambino
Autoritario
Il suo agire è molto rigido e restrittivo. Stabilisce e detta le regole senza prima averle condivise. Impone il suo essere e le sue modalità, sottolineando e pretendendo che venga riconosciuta la sua superiorità, svalutando e ignorando il bambino con le sue esigenze e i suoi interessi.
Il bambino non si sente accettato e riconosciuto. La sua dignità di persona non viene rispettata, per cui avrà scarsa stima e fiducia in se stesso, si sentirà svalutato, insicuro e inadeguato. Questo stile potrebbe provocare due risposte da parte di chi lo subisce:

  • ribellione e trasgressione, sfidando l’altro in una lotta di potere (che in adolescenza potrebbe sfociare in un’azione di bullismo);

  • adattamento e passività: cercherà di annullarsi o di compiacere la guida autoritaria.

Permissivo/indulgente o lassista Permette tutto al bambino delegando a lui ogni scelta poiché lo sopravvaluta e lo tratta come un piccolo adulto, senza offrirgli feedback e supporto. Non si fa carico della responsabilità del suo ruolo educativo, giustifica il bambino anche dinanzi a comportamenti scorretti. Il bambino è confuso, fragile e disorientato. Può provare frustrazione poiché non ha senso del limite e non sa come autoregolarsi oppure può esasperare l’eccessiva libertà che gli viene concessa assumendo il ruolo del bambino tiranno, per il quale non ci sono regole ma la regola è “ciò che io voglio e dico”.
Autorevole
Agisce nel rispetto reciproco, stabilisce regole e limiti coinvolgendo l’educando e si dimostra attento e disponibile all’ascolto dell’altro. Promuove il suo sviluppo e la sua autonomia senza interferire o sostituendosi, ma dando il suo supporto e sostegno.
Il bambino si sente accolto e sicuro, si dimostra disponibile e collaborativo. Sviluppa un buona autostima, si sente riconosciuto e libero di potersi esprimere senza paura di sbagliare o di sentirsi giudicato.
Trascurante
Ha un atteggiamento di indifferenza nei confronti del bambino e non desta particolare cura alle sue esigenze.
Il bambino si sente insicuro e fragile, presenta una bassa autostima e considerazione di sé. Anche in questo caso può ribellarsi per attirare l’attenzione su di sé oppure chiudersi in se stesso.


Dalla tabella emerge in modo chiaro che quello autorevole è lo stile educativo maggiormente efficace poiché mette il bambino nella condizione di potersi sperimentare in un ambiente sicuro, diventando protagonista del suo sviluppo, libero di potersi esprimere in maniera autentica.


Ciò che caratterizza questo stile è infatti la profonda fiducia nel bambino e un’interazione mossa da quella che don Bosco definisce “Amorevolezza”, in cui l’amore e la fermezza forniscono all’educando la base sicura da cui partire per far emergere il proprio potenziale.


Osservando la tabella possiamo chiederci: in quale stile mi riconosco maggiormente? Che effetti hanno le mie azioni su mio figlio? In che cosa posso migliorarmi?

Dice Balsamo: “Il problema vero è che per educare un bambino occorre prima di tutto educare se stessi… E questa sì che è una grande impresa!”9.


La sfida di “Educare ad essere” è proprio quella di fornire al genitore le conoscenze e gli strumenti necessari affinché l’adulto si metta in una posizione di ascolto del bambino, favorendo un processo di reciproca crescita, come sostiene Montessori: “Il bambino e l’adulto sono due facce della stessa vita e hanno due diverse missioni: l’uno di formare gli esseri, l’altro di guidare gli esseri formati. Guai se si ritrovano in lotta: è solo dalla loro armonia che può nascere l’essere umano migliore di noi. Ma chi deve fare il primo passo è l’adulto: oltre agli sforzi esterni deve compiere uno sforzo immane su se stesso, per potersi avvicinare al bambino, per comprenderne l’animo”10.


Secondo le ricerche di Ainsworth11 possiamo riconoscere inoltre quattro forme di attaccamento; nella tabella che segue notiamo nuovamente come le diverse modalità e i diversi atteggiamenti che assumiamo nei confronti dei figli vanno a influire nello sviluppo della costruzione del sé e della percezione dell’altro.

Modalità del genitore Modello operativo interno del bambino
Genitore sicuro (autorevole) (60/65%):
stabile, emotivamente disponibile, recettivo e responsivo, risponde con coerenza ai bisogni del figlio. Si dimostra degno di fiducia. Padre presente e fonte di equilibrio. Buona la relazione di coppia.
Idea di sé positiva. Si sente in grado di attirare e dare amore. I suoi bisogni hanno valore e significato perché vengono raccolti da qualcuno. Orientati socialmente, sintonizzati e capaci di stabilire relazioni affettive intime. Crescono con le qualità della solidarietà e della compassione. Formano amicizie profonde.
Genitore ansioso, resistente, (autoritario) (10/15%):
imprevedibile e variabilmente disponibile. Non riesce a sintonizzarsi con il figlio che vive con impazienza.
Inizialmente variabile. Poi, data l’insicurezza, esprime difficoltà di controllo. Cerca di attirare con decisione l’attenzione e di avere l’amore.
Genitore ansioso evitante (respingente) (20/25%):
freddo e distaccato, emotivamente indisponibile.
Si avverte come poco amabile, incapace di attirare l’amore e di amare l’altro; ciò favorisce l’indifferenza e il distacco.
Genitore disorientato/disorganizzato (problematico):
confuso, spaventato, terrorizzante, disorientato e allarmante.
Si vive come debole e vittima. Manca di punti di riferimento.
Marchioro ribadisce: “Non ripeteremo mai abbastanza che le prime relazioni con le figure parentali costituiscono il tessuto che contiene le cellule staminali di tutte le relazioni e di tutti i legami che l’individuo vivrà nel corso della sua esistenza”12. Infatti gli studi sull’epigenetica ci confermano che i gesti d’amore e la relazione con i genitori influenzano la formazione del figlio già a partire dal periodo prenatale; afferma Lipton: “Le emozioni materne come la paura o la collera, o al contrario l’amore o la speranza, influenzano biochimicamente la selezione e la riscrittura del codice genetico del bambino nell’utero con conseguenze evolutive molto profonde per le generazioni future”13.
Sintonizzazione, sincronizzazione e collaborazione nella reciprocità

Vista l’importanza basilare di queste relazioni primarie in famiglia, c’è da chiedersi come sia possibile instaurare fin dai primi istanti di vita un legame d’amore stabile che favorisca un attaccamento sicuro: il primo passo da fare è quello della sintonizzazione. Sintonizzarsi con l’altro vuol dire accordarsi col vissuto di chi ci sta di fronte, cioè sentire quello che l’altro sente, vive e pensa. Per fare ciò è necessario porsi in un atteggiamento di disponibilità, di ascolto empatico, vuol dire fare spazio all’altro dentro di noi. Il modo più semplice per favorire questo processo è l’utilizzo delle tecniche del respiro: una respirazione di tipo diaframmatico riduce lo stress, permette al corpo di rilassarsi e allo spirito di essere più lucido e più consapevole. Si pensi per esempio al bambino piccolo che piange: una delle tecniche più efficaci per calmarlo è proprio quella di portarselo al petto e di sintonizzare il suo respiro col nostro. Il respiro favorisce l’apertura all’altro, ci permette anche fisicamente di entrare in relazione con l’altro facilitando così la condivisione, la partecipazione e la mutualità.


Nella sintonizzazione:

  • vengono avvertite le esigenze, i bisogni e le necessità;

  • vengono sentiti gli stati d’animo, le emozioni, le sensazioni;

  • vengono rilevate le caratteristiche personali, le condizioni di vita.

L’atteggiamento del genitore verso il figlio è improntato su:

  • accettazione integrale e senza riserve della realtà del figlio;

  • rispetto dei suoi ritmi personali e dei suoi modi di essere e di fare;

  • intesa e collaborazione.

La sintonizzazione rende possibile l’intesa, nella prospettiva del pensare e del sentire, e di conseguenza facilita la sincronizzazione, cioè il permettere che l’agire sia condiviso e che ci si muova in accordo con l’altro, favorendo quindi l’interazione e la comunicazione tra genitore e figlio.


La sincronizzazione:

  • può essere modificata, interrotta e ripresa in ogni momento da uno degli interlocutori della relazione;

  • può essere – anche se impercettibilmente – controllata e influenzata di continuo, in un vero e proprio sistema cibernetico di elaborazione delle informazioni;

  • tende a svilupparsi gradualmente e progressivamente attraverso un contatto vigile, distanziato, delicato e attento;

  • si rafforza e si stabilizza quando si opera insieme per realizzare mete comuni.

Lo sviluppo di questo atteggiamento collaborativo, cioè l’imparare a fare insieme, dapprima nel piccolo e poi nel grande gruppo, permette inoltre di sviluppare nel bambino un senso di appartenenza e di fratellanza. La possibilità di prendere parte a delle esperienze collettive aiuta a comprendere che:

  • “se tu stai bene, anch’io sto bene”;

  • il gruppo funziona solo se tutti collaborano (l’unione fa la forza);

  • se abbiamo raggiunto un obiettivo insieme è merito dell’impegno di ciascuno di noi;

  • la sintonia del gruppo dà gioia, allegria e fa maturare il senso del bello e della gratitudine.

La collaborazione (in particolar modo nel contesto famigliare) è un elemento essenziale per lo sviluppo di un clima sereno e piacevole, dove ognuno si sente parte di una realtà più ampia che lo comprende. Sviluppare il senso di collaborazione nella relazione con i propri figli permette al bambino di maturare e sviluppare un senso di responsabilità, consono alla sua età, e di cura nei confronti di chi ha accanto, a beneficio di un’atmosfera famigliare disponibile e unita.

  • Ognuno dei membri della famiglia è chiamato a mettere in primo piano l’interesse generale rispetto all’interesse particolare o personale.

  • Il bambino fin da piccolo è chiamato a dare, con l’aiuto dei genitori, il suo prezioso contributo al buon funzionamento della famiglia.

  • Il premio nella collaborazione con la famiglia è dato dalla funzionalità del sistema famigliare stesso, non tanto da specifiche gratificazioni personali.

  • I ricatti e le imposizioni finalizzati alla collaborazione indicano che non è del tutto chiaro il senso d’appartenenza a quella famiglia.

Se fino ad alcuni anni fa i modelli genitoriali autoritari ponevano il bambino in una posizione subordinata rispetto all’adulto, oggi assistiamo invece sempre più spesso all’esatto opposto, ovvero al fenomeno cosiddetto dei “bambini tiranno”: è il bambino che dà gli ordini e decide le regole per se stesso e per gli altri, è lui che detiene l’autorità e qualora le sue richieste non vengano accolte non è in grado di gestire la propria frustrazione e può mostrare il suo disappunto sino a diventare aggressivo. È necessario dunque sin dall’inizio, già dal grembo materno, educare il bambino alla reciprocità, chiedendo la sua collaborazione e il suo contributo nelle scelte e nelle azioni quotidiane, in base alle possibilità di ciascuno, rendendolo partecipe della vita famigliare.


La collaborazione e la disponibilità all’altro favoriscono infatti la reciprocità; questa, fondata su fiducia, accettazione e rispetto, porta a realizzare una relazione simmetrica e quindi paritaria, dove le posizioni e i ruoli diventano complementari l’uno all’altro. I suoi effetti sono interattivi, costruttivi, liberi e creativi.


Nella asimmetria relazionale viene persa l’uguaglianza e viene meno la reciprocità: l’uno si trova ad avere una posizione di superiorità e di dominio rispetto all’altro; questo è quello che avviene nelle situazioni di pericolo. In caso contrario non si è più riferimento l’uno per l’altro, ma si diventa lo strumento dell’altro e questo fomenta il conflitto e con esso l’atteggiamento passivo o impositivo, rendendo insana la relazione.


Spetta dunque ai genitori il compito e la responsabilità di ripristinare la simmetria relazionale in famiglia, là dove, per qualche motivo, sia stata interrotta, attraverso un atteggiamento di verifica del proprio comportamento e di quello dei figli.

Nel caso in cui l’interruzione sia avvenuta a causa del figlio, al genitore è consigliato di assumere un atteggiamento distaccato e di attesa attiva (mantenendo una totale apertura interiore verso il figlio), nel tentativo di recuperare un’autentica disponibilità del figlio al riconoscimento del ruolo del genitore (se in discussione), oltre che l’intesa e la collaborazione. Il dialogo, nell’ambito educativo, va sempre promosso anche perché si fonda sull’accoglienza, sul rispetto e sulla mutua considerazione. Il ricorso alla regola rappresenta il venir meno della relazione reciproca, chiamata da Adriano Milani Comparetti “relazione creativa”14, per il suo carattere costruttivo. L’essere coinvolti da un comune interesse allontana da ogni forma di possibile isolamento, che alla lunga porta, come hanno dimostrato molte ricerche, ad assumere atteggiamenti inadeguati, sia da parte dei genitori che dei figli, imbevuti di aggressività, paura, disistima, insicurezza; il dialogo, al contrario, accresce l’inclusione, la socializzazione e la comprensione.
La comunicazione educativa

Nell’ambito educativo, nella relazione va privilegiata la comunicazione indiretta perché è l’unica capace di animare il dialogo in condizioni di equilibrio e di serenità. A differenza della comunicazione indiretta, la comunicazione diretta è governata dalla coscienza e dall’Io della persona, nel rapporto Io-Tu, e riguarda principalmente ciò che avviene nel mondo esterno. In particolare viene usata nelle situazioni di pericolo, nella ricerca di un risultato immediato, oppure per affermare regole, principi o valori che non potendo essere cambiati vanno solo compresi e praticati. Essa è basata su imperativi e richieste dirette e in genere specifiche ed è tendenzialmente utilizzata in modo naturale dal genere maschile, proprio per le sue caratteristiche di concretezza ed efficienza.


La comunicazione indiretta invece è tipica dell’universo femminile, vicino al mondo dell’inconscio e dell’anima. Coinvolge la persona nella sua globalità lasciando l’Io dell’altro (il Tu) libero di esprimersi e di decidere e anche di commettere degli errori, sempre che questi non siano irreparabili; inoltre porta a evitare (soprattutto in chi è particolarmente predisposto) un atteggiamento di chiusura e difesa personale. Questa forma di comunicazione è una proposta, che viene avanzata all’altro, senza pretese, caratterizzata da un’apertura senza chiusura. Il destinatario della comunicazione indiretta ha la possibilità di muoversi nella massima libertà, di disporre di sé, anzi, viene sollecitato a rispondere, a diventare protagonista, a entrare nella dinamica del dialogo e a esprimere la propria posizione.


Di conseguenza, nel suo ruolo educativo il genitore più che dare ingiunzioni al figlio (“fai questo…”, “fai quello…”, “comportati in questo modo….”), dovrebbe dire: “che ne dici…”, “che cosa pensi…”, “ti sembra opportuno quanto stai facendo…”, ‘ti è mai capitato di…”, “non so se sai cosa significa…”, “te la senti di darmi una mano…”. Non va dimenticato che il continuo ricorso all’ingiunzione e alla regola da parte dei genitori nei confronti del figli rappresenta un atteggiamento di sfiducia, se non un segnale di fallimento del dialogo possibile o della relazione stessa. La comunicazione indiretta evita di far sfociare la diversità di opinione, tipica di due esseri differenti che si confrontano fra loro, verso l’opposizione reciproca o lo sterile conflitto, anche perché offre le condizioni favorevoli all’intesa e alla collaborazione, al fine di trovare una sintesi comune e rispettosa delle posizioni. Di fronte all’opposizione decisa, anche se talvolta banale e immotivata del figlio, conviene evitare di alimentare il conflitto e contemporaneamente stigmatizzare con calma la propria posizione: “Questo è quanto vuoi, va bene, anche se non sono d’accordo perché…”, per poi ritornarci sopra più tardi, quando si sono ripristinate le condizioni che portano al dialogo, per dare tutte le spiegazioni necessarie del caso. Aderendo a una modalità di comunicazione indiretta, il genitore offre al figlio la possibilità di assaporare il valore della libertà, che è anche responsabilità, oltre che di essere posto nelle condizioni di essere se stesso, di poter comprendere, oltre che di esprimere la parte migliore di sé nella relazione.

Qualità richieste ai genitori

– Unità

L’unione dei genitori è un punto fondamentale per la crescita, l’integrazione e la realizzazione dei figli. Inoltre l’unità dei genitori evita il manifestarsi dell’insicurezza e dell’opportunismo, mentre offre la possibilità di acquisire le tendenze e i valori di riferimento di cui il padre e la madre sono portatori. Per Padre Aurelio Maschio: “L’educazione non è mai opera di un singolo individuo. […] in famiglia, se i genitori non sono d’accordo sulle scelte e sui metodi, i figli restano disorientati e spesso crescono sbandati. Per domare un cavallo occorrono due redini: guai se uno tira a destra e l’altro a sinistra; peggio ancora se entrambi lo lasciano andare a briglia sciolta”.


Per una unità di intenti educativa, Courtois suggerisce ai genitori di:

  • non incorrere in nessuna disputa e non rimproverarsi davanti ai figli;

  • non autorizzare di nascosto quello che l’altro ha proibito;

  • non permettere che il figlio sia confidente delle pene procurate dall’altro genitore;

  • non fare riferimento a difetti o colpe dell’altro genitore e di non accettare, anche se passivamente, la mancanza di rispetto verso questo;

  • non dire al bambino di non parlarne con il papà o con la mamma, ma rinforzare l’apertura e la stima verso l’altro genitore in tutte le circostanze15.

– Sensibilità

Premessa: la condizione necessaria per sviluppare la sensibilità è accettare la realtà, la sofferenza, la perdita e la morte, quali messaggi e doni della vita.

In questo modo il genitore sviluppa la capacità di:

  • entrare in sintonia e sincronia con il figlio, per percepire la sua realtà interiore, condividere la sua esperienza e realizzare intese e collaborazioni;

  • conoscere quello che accade nei diversi piani della propria esistenza e di quella del figlio a livello corporeo, emozionale, mentale ed esistenziale; questo aiuta a intervenire nel modo giusto al momento giusto16.

Notabene: l’anestesia emozionale rende insensibili e non curanti (esistono il dolore positivo e il dolore negativo).

– Autorevolezza

I genitori autorevoli sono capaci di:

  • far valere la propria autorevolezza e responsabilità (non farsi sostituire dalla TV, internet ecc.), controllando con sistematicità l’acquisizione delle informazioni, esperienze e relazioni dei figli;

  • aiutare il figlio ad amare, conoscere e rispettare la vita con le sue leggi, attraverso opportune esperienze, in funzione dell’autonomia;

  • insegnare a riconoscere il valore delle cose e delle persone e l’importanza del dare e ricevere. Al bambino va dato solo ciò di cui ha realmente bisogno;

  • assumere comportamenti coerenti, con ciò che si pensa e si sente dentro.

Essere il più possibile se stessi in modo autentico, in tutte le circostanze possibili.


Il figlio ha bisogno della coerenza del genitore: per poter essere incisivi nell’educazione è necessario evitare l’ambivalenza e l’incoerenza personale (si può chiedere aiuto ad altri). Essere coerenti significa essere centrati su se stessi, coerenti nei fatti e nelle parole; dare una comunicazione univoca e non equivoca (dire una cosa e farne un’altra mette in difficoltà il figlio).


La coerenza porta ad allineare l’azione con l’emozione, il pensiero e la parola, in quanto l’emozione vissuta è allineata con il proprio pensiero personale (arti, lingua, cuore e testa). La coerenza fornisce il potere personale e la forza interiore e conferisce l’autorevolezza che consente di guidare, accompagnare e educare con sicurezza.


In un rapporto autorevole il bambino ascolta l’adulto e si lascia guidare da lui con fiducia. Non ha senso parlare al figlio se non è presente con la mente e con il cuore.

– Positività

La pratica dei valori positivi, consiste:

  • nell’evitare le affermazioni negative e mortificanti e nel fare ampio uso di quelle positive (evitare i ricatti ecc.);

  • nel considerare gli errori come un’occasione per migliorare e per imparare a vivere;

  • nell’essere consapevoli dei limiti personali del figlio, per poter sostenere e stimolare il suo impegno e contenere l’eventuale delusione da insuccesso;

  • nel guidare il figlio attraverso esperienze, anche impegnative (prove), perché possa rafforzare le sue difese, la fiducia di sé, la stima personale e sviluppare le sue potenzialità e quindi l’autonomia;

  • nel favorire l’atteggiamento sorridente e umoristico, quale componente importante della vita;

  • nel favorire il senso di meraviglia verso la sorpresa: “presentarsi con la valigetta delle sorprese, significa invogliare a conoscere, a esplorare, ad andare incontro al fiume della vita, senza avere paura di non riuscire, di essere respinti, giudicati o derisi”17.

“L’ironia è la più alta forma d’intelligenza e di difesa, non cambia le cose, ma t’insegna a riderci sopra anziché piangerti addosso.”

M. Licenza

L’unità, la sensibilità, l’autorevolezza e la pratica dei valori positivi dei genitori favoriscono nel figlio lo sviluppo:

  • dell’adattamento;

  • della fiducia in sé e negli altri;

  • della buona autostima;

  • dell’autocontrollo;

  • della consapevolezza della propria realtà e ruolo;

  • delle relazioni intime e sociali;

  • delle competenze psicosociali;

  • dello stato di benessere psicologico.

Il venir meno di queste premesse è correlato con i comportamenti a rischio per la salute, con la devianza e con il disagio psicologico.


– Stile di vita in famiglia

  1. ORARI Rispettare gli orari dei pasti, almeno la cena, aspettando che tutti siano arrivati per mangiare.

  2. PASTI Bandire la TV accesa, la lettura dei giornali e gli squilli dei telefonini durante i pasti.

  3. DISCUSSIONI Intavolare discussioni sui problemi sociali permettendo a ognuno di esprimere la propria opinione.

  4. OSPITI La famiglia deve essere accogliente e aprire la casa agli amici; anche i figli devono ricevere i loro.

  5. SVAGHI Proporre mostre, concerti, cinema, teatro e passare qualche serata con giochi di squadra e società.

  6. TRADIZIONI Tramandare le tradizioni familiari e sociali e passare insieme feste, compleanni e ricorrenze.

  7. DECISIONI Non avere paura di coinvolgere i figli nelle decisioni importanti da prendere.

  8. LAVORI Coinvolgere i figli fin da piccoli nella gestione della casa e nei piccoli lavori quotidiani.

  9. PRIVACY Non essere invadenti e rispettare la ricerca di intimità dentro la casa.

  10. DIALOGO Parlare durante la cena con il coniuge, davanti ai figli, di come è andata la giornata.


Che cosa si aspetta un figlio da un genitore:

  • di essere accettato per quello che è, con i suoi pregi e limiti;

  • di essere compreso, nonostante i suoi continui errori;

  • di essere valorizzato e riconosciuto con le sue potenzialità necessarie per costruire il futuro;

  • di essere guidato amorevolmente nel suo cammino di crescita;

  • di essere protetto e sostenuto (diverso da controllato);

  • di essere nutrito e alimentato con attenzione e amorevolezza;

  • di avere relazioni positive e di avere degli scambi circolari creativi nella reciprocità propositiva.

FOCUS

Le relazioni genetiche

Soldera in diversi lavori18 introduce con un punto di vista psicorelazionale il concetto delle relazioni genetiche o transgenerazionali. Secondo la psicogenealogia19, il patrimonio genetico (fatto di informazioni provenienti dai propri progenitori, di cui ognuno di noi è portatore) è in grado di condizionare le relazioni e quindi il modo di porsi e di relazionarsi con gli altri.


Il ruolo del genitore è quello di offrire al figlio una base di relazione sicura nella quale possa cominciare a gestire le sue emozioni interne, condividendo e amplificando quelle positive per attenuare le emozioni negative20.


Alla base c’è una regola fondamentale: ogni figlio è sempre corrispondente con un genitore e complementare con l’altro.


Il figlio che ha un rapporto genetico di tipo verticale con un genitore avrà un rapporto trasversale con l’altro genitore. Se il primogenito appartiene alla linea genetico-relazionale di un genitore, il secondogenito apparterrà alla linea dell’altro genitore e della sua famiglia di origine.


Nella relazione genetica verticale, l’individuo affonda le proprie radici, il proprio sé, nel genitore omologo (con il quale ha una più evidente somiglianza sia morfologica che caratteriale), quello con cui ha un rapporto di affinità. Questo genitore fa da terreno, da riferimento per la sua crescita essendo da esso nutrito, alimentato e sostenuto.


Nella relazione genetica trasversale che l’individuo ha con l’altro genitore, egli ritrova il suo alter ego, in sostanza quello che rappresenta il necessario completamento della parte principale di sé e che ne favorisce la continua interazione interna (il proprio dialogo interiore) e con il mondo esterno (la relazione comunicativa con gli altri e la modalità con cui si affrontano le esperienze). Il genitore complementare assumerà un ruolo indispensabile di aiuto, di collaborazione, di supporto per questo figlio.


I genitori, appartenendo a due linee genetiche distinte, hanno tra loro una relazione su un piano orizzontale, di complementarità. Le coppie di fratelli hanno tra loro una relazione simile a quella dei genitori, e quindi, di tipo orizzontale.


Per individuare la propria linea genetico/relazionale è necessario, per prima cosa, raccogliere i dati relativi alle proprie caratteristiche e a quelle dei propri genitori (si possono prendere in considerazione anche le caratteristiche dei propri nonni) in termini di convergenza/divergenza riguardante:

  1. struttura del corpo, in particolare la morfologia del volto: assomiglio di più a mio padre o a mia madre?;

  2. modalità motorie e comportamentali: ho modi di comportarmi che possiedo solo io nella mia famiglia, che caratterizzano solo me, ma ci sono aspetti del mio comportamento (come camminare, correre, mangiare, parlare, certi modi di fare) in cui assomiglio di più alla famiglia di mio padre o di mia madre?;

  3. legame affettivo indagato in termini di vicinanza/lontananza: mi sento affettivamente più vicino a mio padre o a mia madre?, Sento mio padre o mia madre maggiormente partecipe alle mie emozioni e ai miei affetti?”;

  4. qualità intellettive, predisposizioni, interessi e tendenze, intesi come qualità da sempre presenti e che hanno trovato le condizioni per potersi manifestare, non come capacità acquisite in seguito ad allenamento o perché indotte dall’esterno: nelle mie predisposizioni, nei miei interessi, assomiglio di più a mio padre o a mia madre?21


Esperienze di vita in famiglia: i genitori raccontano…

Riportiamo di seguito le testimonianze di alcuni genitori che hanno partecipato al corso “Educare ad essere”.


Erano ormai diversi mesi che io e mio marito non riposavamo bene la notte a causa dei continui risvegli di S., nostro figlio di 8 mesi. Su suggerimento dei relatori, abbiamo iniziato a parlare al nostro bambino mentre dormiva, ci era stato detto che in quei momenti il bambino è particolarmente ricettivo. Quando ero certa che stesse dormendo profondamente nel suo lettino, mi avvicinavo e gli sussurravo di dormire sereno tutta la notte. Gli dicevo di stare tranquillo che mamma e papà erano vicini e che per noi era importante che tutti potessimo riposare bene la notte, per poi stare bene anche di giorno. Da quando abbiamo adottato questa strategia i risvegli sono cominciati a diminuire e in un paio di settimane S. ha iniziato a dormire tutta la notte… e a noi è sembrato davvero un sogno!


Per togliere il ciuccio a mia figlia G. di 3 anni mi sono affidata a quanto ci era stato suggerito di fare durante il corso, quindi di non imporle questo passaggio bensì di coinvolgerla, incoraggiarla e prepararla al momento. Inizialmente avevamo stabilito insieme che per la fine dell’estate avrebbe regalato il ciuccio alla fatina. Cominciava l’asilo e la incoraggiavamo dicendole che sarebbe diventata grande; ne parlavamo con una certa frequenza e anche lei sembrava decisa a fare questo passo. Tuttavia quando è stato il momento di separarsi dal ciuccio ci ha fatto capire che non era pronta, così, anche in accordo con la sua insegnante della scuola dell’infanzia, abbiamo deciso di non insistere e di non dare troppo peso a questa cosa; per un paio di mesi non abbiamo più accennato nulla a riguardo.


Qualche settimana prima del passaggio di San Nicolò, a dicembre, abbiamo fatto un altro tentativo. Abbiamo ripreso a parlarne e l’abbiamo incoraggiata dicendole che in cambio del suo gesto avrebbe ricevuto un bel regalo… stavolta era davvero pronta! Quando san Nicolò è passato col suo asinello, G. gli ha donato con fierezza e orgoglio il suo ciuccio e ha preso il suo dono soddisfatta. Questa esperienza ci ha fatto capire quanto sia importante dare fiducia a nostra figlia, accettarla e rispettare i suoi tempi, sostenendola e spronandola amorevolmente senza giudicarla.

Letture consigliate

  • Gonzáles C., Genitori e figli insieme. Dall’infanzia all’adolescenza con amore e rispetto, Il leone verde, Torino, 2014.

  • Honegger Fresco G., Essere genitori, Red Edizioni, Como, 1980.

  • Lombardo P., Affettività, nutrimento del cuore. Significati e compiti dell’educazione affettiva, Vita Nuova, Verona, 2007.

  • Morelli R., Crescerli senza educarli, Mondadori, Milano, 2016.


Esercizi per educare ad essere

ESERCIZI MEDITATIVI

  1. Ascoltare il proprio respiro (4/5 minuti, 3 volte al giorno)Ascoltare per alcuni minuti il flusso del respiro per imparare a osservarlo e viverlo senza volerlo modificare, per sviluppare le proprie capacità di sentire, la propria sensibilità e quindi la propria consapevolezza.1 Ascoltare il ritmo del respiro permette una conoscenza più intima e profonda di se stessi, favorendo così anche l’ascolto e la comprensione del figlio, nel suo essere, nella presa di coscienza delle sue qualità da valorizzare, dei suoi limiti e delle sue necessità.

  2. Il progetto di vita. Per quale motivo pensi che tuo figlio sia venuto al mondo? Pensi abbia un suo progetto? Se sì, quale? Quale messaggio e quali doni è venuto a portare a te e alla famiglia?

  3. Studiare insieme la strategia per affrontare e risolvere un problema presentato dal figlio.Dopo aver osservato il figlio ed aver rilevato un problema o un atteggiamento da migliorare, studiate insieme, madre e padre, quali azioni concrete potreste mettere in atto al fine di correggere il comportamento di vostro figlio. Osservate e annotate in seguito quali effetti produce la vostra strategia nella relazione col figlio.

DIARIO EDUCATIVO

Compilate il diario giornaliero della relazione educativa con vostro figlio.

Attività 3a tappa – L’album di famiglia

Attività A Il bisogno di appartenenza è uno dei bisogni fondamentali a cui ogni uomo sente l’esigenza di dare risposta, così anche il bambino, per potersi collocare nella storia e trovare il suo posto, per sentirsi riconosciuto e amato, ha bisogno di sentirsi parte della famiglia. Alla luce di quanto detto sulle relazioni genetiche, potete completare l’albero genealogico insieme al vostro bambino, soffermandovi sui tratti caratteristici dei volti e osservando le somiglianze fisiche e caratteriali dei famigliari.


Attività B Potete realizzare un album fotografico che racchiuda la storia e i ricordi degli eventi più importanti che hanno coinvolto la vostra famiglia: per esempio potete partire da una foto di voi genitori da fidanzati, una foto del matrimonio, della gravidanza, della nascita, del primo giorno d’asilo… Così facendo il bambino diventa consapevole del suo percorso e del suo ruolo in questa storia d’amore che continua con lui.

Educare ad essere
Educare ad essere
Gino Soldera
Per diventare ciò che siamo.Una guida pratica per riconoscere e valorizzare i talenti del bambino e aiutarlo a costruire il proprio progetto personale di vita. Educare ad essere è un metodo originale che affronta la questione dell’educazione in modo radicale e globale, per rispondere alle complesse sfide poste dalla società. Riconosce al bambino un ruolo attivo e interattivo, l’esistenza di grandi potenzialità e di un proprio progetto di vita, che non può e non deve essere ignorato. Il libro di Gino Soldera offre strumenti semplici e pratici per comprendere la realtà meno conosciuta del bambino e i suoi molteplici bisogni, per costruire relazioni armoniose e un dialogo aperto e creativo, a beneficio della famiglia e dell’intera società. Educare ad esseredi Myriam Zarantonello, pediatraCredo siamo tutti coscienti che il tema dell’educazione sia un problema e un’urgenza nella nostra società.Questo testo di Soldera, Da Mar e Verticilo ci aiuta a riscoprire questo valore e a comprendere come rispondere a questa esigenza per sanare gli errori di una deriva culturale che antepone le cose delle persone. Gli autori auspicano un’altra “rivoluzione copernicana”: quella di porre al primo posto le esigenze interiori dell’essere umano fin da prima del concepimento.Chi siamo, come veniamo in questo mondo, perché, qual è il senso della nostra esistenza: è importante che queste e altre domande esistenziali guidino quando si sceglie di essere genitori, perché concepire e crescere un bambino è una grande responsabilità, alla quale ci si prepara con attenzione.Questo testo diventa particolarmente interessante per il pediatra, il quale, nei “bilanci di salute”, ha l’opportunità preziosa di incontrare più volte genitori e bambini. Spesso le domande sulle difficoltà più comuni, legate ai bisogni fisiologici come il pianto, il sonno, l’alimentazione, esprimono la difficoltà dell’adulto a dare risposte adeguate, a comprendere e vivere meglio la relazione con il bambino. Anche il pediatra può correre il rischio di limitarsi a rispondere con un farmaco, pensando di poter risolvere sbrigativamente i sintomi somatici, invece di considerarli sentinelle di disagi più profondi. È per questo che concetti importanti come struttura della psiche, progetto di vita, costruzione di valori, completano anche nel pediatra quella conoscenza del bambino che va oltre la fisicità, per coglierne l’interiorità, rispettando così l’unità e la complessità che caratterizza l’essere umano fin dall’inizio della sua vita.Buona lettura! Conosci l’autore Gino Soldera, psicologo e psicoterapeuta, insegna Psicologia ed Educazione Prenatale all’Università IUSVE di Mestre-Venezia, Psicoantropologia all’Accademia ConSè di Brescia e svolge l’attività di supervisore presso il Consultorio Familiare del CIF di Dolo (VE).È consigliere internazionale dell’APPPAH (Associazione Americana di Psicologia Prenatale Perinatale e Salute), membro del Comitato Scientifico della Scuola Italiana per la “Care in Perinatologia” e socio onorario dell’Associazione “Genitorialità”.Dirige la rivista Il Giornale Italiano di Psicologia e di Educazione Prenatale dell’ANPEP (Associazione Nazionale di Psicologia e di Educazione Prenatale), di cui è presidente.