capitolo iii

Il bisogno di contatto
dei bambini va
soddisfatto

Pelle ed emozioni in contatto

Non è rispondendo alle loro richieste di affetto e contatto fisico che si viziano i bambini, ma piuttosto con la soddisfazione di ogni loro richiesta di oggetti come giocattoli, cibo spazzatura, televisione o giochi elettronici.

Margherita, mamma di Emanuele

Io vengo da una famiglia in cui non ci si è mai abbracciati. Mi sono sforzata, arrivata a
un’età matura, di non ripetere lo stesso errore.
E i risultati si vedono... si sentono...

Barbara, mamma di Riccardo e Irene

Se dovessi limitarmi a esporre un solo bisogno dei bambini, non avrei esitazione: senz’altro parlerei del bisogno di contatto fisico. Per tale ragione dedico a questo tema un capitolo intero: lo ritengo di centrale importanza come chiave di lettura per tutti gli altri bisogni primari dei bambini. Nella nostra società non si parla molto delle necessità affettive dei più piccoli; è più facile trovare prodotti industriali, manuali ed esperti che le sottovalutino e propongano metodi per controllarle o per reprimerle. Si ritiene normale considerare i bambini come “piccoli adulti da impostare” perché crescano ben educati e non diano fastidio. Sembra che abbiano soprattutto doveri e pochi diritti. Pare che i genitori abbiano l’obbligo di intervenire fin dal principio per indirizzarli verso l’indipendenza e l’autonomia attraverso lodi e punizioni. Sembra che “diventare grandi” significhi dominare le proprie emozioni piuttosto che imparare a conoscerle e a gestirle con l’aiuto degli adulti; ed è anche sottinteso che fra bambini e genitori debba aumentare la distanza fisica prima possibile, per guadagnare spazio e tempo sì da potersi svincolare reciprocamente. Nella nostra cultura, poi, è più accettato guardare e parlare con i bambini piuttosto che toccarli, coccolarli o tenerli in braccio per lungo tempo. C’è uno vero e proprio tabù riguardo al bisogno di contatto dei bambini.


González scrive: “La nostra società, per alcuni aspetti così comprensiva, lo è molto poco nei confronti delle madri e dei bambini. Questi tabù moderni potrebbero essere classificati in tre grandi gruppi:

  • Tabù relativi al pianto: è proibito preoccuparsi dei bambini che piangono, prenderli in braccio, dare loro ciò che chiedono.

  • Tabù relativi al sonno: è proibito addormentare i bambini tenendoli in braccio o allattandoli, cantare o cullarli perché si addormentino, dormire con loro.

  • Tabù relativi all’allattamento materno: è proibito allattare in qualsiasi momento o in qualsiasi luogo, o dare il latte a un bambino ‘troppo’ grande.

Quasi tutti questi tabù hanno una cosa in comune: proibire il contatto fisico tra madre e figlio. Al contrario, godono di grande successo divulgativo tutte quelle scelte comportamentali che tendono a fare diminuire questo contatto fisico e a far aumentare la distanza tra madre e figlio”1.


Non esistono fondamenti scientifici che giustifichino il pregiudizio secondo cui il contatto fisico fra genitori e figli va limitato o è dannoso, eppure questa credenza errata sembra scontata tanto quanto sentir dire da un genitore: “Non posso mai mettere giù mio figlio. Come provo a rimetterlo in carrozzina si sveglia e piange! Vuole sempre stare in braccio”. E cosa dovrebbe volere un bambino, dopo essere stato per nove mesi avvolto e contenuto fra le flessibili e rassicuranti pareti uterine materne?


I genitori sappiano che il proprio bambino è del tutto normale se esprime la necessità di contatto fisico continuo. Per tutti i bambini del mondo questo è un bisogno primario che va soddisfatto. Non dimentichiamoci che ognuno di noi è stato concepito attraverso un atto di contatto fra due persone che si sono incontrate e amate.


Afferma Gerhardt, psicologa: “Essere tenuto tra le braccia con amore è il più grande stimolo allo sviluppo, più efficace persino dell’essere allattati. Non è un caso che l’immagine della Madonna con il Bambino sia diventata un’icona nella cultura umana. Nelle braccia della madre o del padre, dove c’è calore e si è al sicuro, i muscoli si rilassano e il respiro si fa più profondo; nello stesso modo, accarezzare dolcemente e cullare lievemente scioglie le tensioni. È stato rilevato che la frequenza cardiaca del bambino si sincronizza con quella della madre: se lei è rilassata e in armonia, lo sarà anche il bambino. In effetti il sistema nervoso autonomo della madre comunica con il sistema nervoso del bambino, calmandolo attraverso il tatto. Quando siamo tenuti fisicamente sappiamo di essere protetti dagli altri”2.


Vediamo allora quali sono i presupposti fisiologici che motivano l’esigenza irrinunciabile di contatto dei neonati e dei bimbi piccoli. Per iniziare dobbiamo parlare del senso del tatto e dell’organo a esso corrispondente: la pelle.

Relier, neonatologo, sottolinea come: “Nei mammiferi (il gruppo animale di cui facciamo parte) l’attivarsi dei sistemi sensoriali segue sempre quest’ordine: tatto (il toccare e la sensibilità cutanea), equilibrio (apparato vestibolare), olfatto, gusto, vista.”3

Perciò, così come la pelle è l’organo del nostro corpo che si sviluppa per primo e che presenta il maggior numero di connessioni con il sistema nervoso centrale, il bisogno di contatto dei bambini è il primo bisogno che garantisce loro la sopravvivenza fuori dall’utero.


A concepimento avvenuto, si parla di embrione fino all’ottava settimana di gestazione e di feto dalla nona settimana fino alla nascita. I foglietti embrionali indicano, nella biologia evolutiva degli organismi pluricellulari, una prima differenziazione di un embrione in diversi strati cellulari, dai quali successivamente si sviluppano strutture, tessuti e organi differenti. Si distinguono tre foglietti: endoderma, mesoderma ed ectoderma, che si differenziano come illustrato nella figura seguente:


Figura 1: Differenziazione dei foglietti embrionali
(Fonte: http://digilander.libero.it/emcalvino/embrione/images/gastrulazione.gif)

Già all’ottava settimana di gestazione l’embrione presenta una pelle molto sviluppata e capace di reagire agli stimoli (nella regione intorno alla bocca). A undici settimane le parti sensibili si estendono a tutto il viso, ai palmi delle mani e sulle piante dei piedi.


Dalla figura si può notare come la pelle abbia origine dallo stesso foglietto embrionale degli organi di senso e del sistema nervoso. Questo significa che, fin dagli esordi della vita uterina, la pelle e le sensazioni emotive sono collegate indissolubilmente da strutture e funzioni anatomiche. Infatti, è dall’ectoderma che inizia a costruirsi la comunicazione dell’individuo fra ambiente interno ed esterno. Attraverso la pelle, ogni essere umano percepisce le sensazioni tattili e grazie anche agli altri organi di senso (vista, udito gusto e olfatto) lo scambio con l’ambiente diventa completo. I cinque sensi dell’uomo portano le informazioni al cervello attraverso recettori sensoriali4 che trasmettono segnali ad aree apposite presenti nella corteccia cerebrale.

La pelle è l’organo più esteso del corpo, nel neonato rappresenta circa il 20% del peso corporeo e nell’adulto circa il 18%. Può destare stupore sapere che per ogni centimetro quadrato di pelle esistono circa 5.000 recettori che trasportano l’informazione cutanea alla corteccia cerebrale. Le aree del cervello che elaborano le informazioni provenienti dagli organi di senso sono raffigurate schematicamente nel cosiddetto homunculus sensomotorio. Si tratta di una rappresentazione grafica della destinazione cerebrale dei segnali provenienti dagli organi di senso e dei corrispondenti impulsi nervosi inviati di ritorno, in risposta agli stimoli. Il termine homunculus è dovuto al fatto che la rappresentazione del corpo umano appare grottesca e sproporzionata: infatti alcune regioni, soprattutto la mano, il piede e la bocca, sono ingrandite proporzionalmente al numero di recettori presenti.

Si veda la seguente figura per farsi un’idea:


Fonte: http://universe-review.ca/I10-13-homunculus.jpg

Appare chiaro, quindi, che la rappresentazione di un organo sulla corteccia cerebrale non è proporzionale alla sua dimensione ma, piuttosto, alla sua funzione. In altre parole, le mani, i piedi e la bocca sono le parti del corpo umano che presentano più recettori cutanei perché compiono moltissime attività. Ciò dimostra l’importanza primaria della funzione tattile per l’essere umano. Il tatto è l’unico senso senza il quale non si potrebbe sopravvivere a lungo.


Ashley Montagu, antropologo inglese, ha scritto un testo5 importantissimo sul linguaggio della pelle, grazie al quale si possono comprendere le ragioni fisiologiche del bisogno di contatto dei bambini. Questo autore per primo intuisce che la pelle è coinvolta anche nello sviluppo del comportamento dell’essere umano. Infatti, così come l’ossitocina non si limita ad avere soltanto effetti meccanici ma ne ha anche sul comportamento6, anche la pelle ha questa duplice azione. In genere siamo abituati a considerare la pelle soltanto come un organo con funzioni multiple: 1) è un barriera fisica che difende il corpo da agenti esterni di vario genere; 2) è l’organo del senso del tatto; 3) regola la temperatura corporea; 4) è l’organo responsabile del metabolismo dell’immagazzinamento dei grassi, dell’acqua e dei sali minerali attraverso la traspirazione. Oltre a questi aspetti funzionali, la pelle ricopre un ruolo fondamentale nel garantire lo sviluppo ottimale dell’intero organismo fin dalla vita fetale. Afferma Montagu: “È evidente che nei mammiferi in generale la stimolazione cutanea è importante a tutti gli stadi di sviluppo, ma in particolare durante i primi giorni di vita del neonato e durante la gravidanza, il travaglio, il parto e l’allattamento. Effettivamente, più si approfondisce la nostra conoscenza riguardo agli effetti della stimolazione cutanea, più ci rendiamo conto della sua estrema importanza per un sano sviluppo. Per esempio, si è trovato che la stimolazione cutanea della prima infanzia esercita un’influenza altamente benefica sul sistema immunitario, con importanti conseguenze sulla resistenza alle infezioni e alle malattie”7.

Secondo questo autore, in tutta la gravidanza il feto sarebbe massaggiato dalle pareti uterine e dal liquido amniotico materno e le contrazioni del parto servirebbero a stimolare e attivare il corretto funzionamento degli apparati fondamentali che serviranno al bambino subito dopo la nascita. Per ritornare a quanto ho illustrato nello scorso capitolo, anche Montagu pensa che il periodo di gestazione non termini con la nascita ma: “rappresenta una complessa e importantissima serie di mutamenti funzionali che servono a preparare il neonato per il passaggio dalla gestazione intrauterina a quella extrauterina. Dato che il bambino nasce a uno stadio così rischiosamente immaturo, è particolarmente necessario che i genitori capiscano appieno il vero significato dell’immaturità dei propri figli: cioè che, con i mutamenti iniziati durante il periodo della nascita, il bambino continua il suo periodo di gestazione, passando, attraverso il canale naturale, dall’uterogestazione all’esterogestazione in un continuo e sempre più complesso rapporto di interazione con la madre, che è ottimamente dotata per venire incontro alle sue necessità. Fra le esigenze più importanti del neonato, vi sono i segnali che riceve attraverso la pelle, il suo primo mezzo di comunicazione con il mondo esterno. Per prepararla al suo funzionamento nel mondo postnatale – per dargli un grembo adeguato – le forti contrazioni dell’utero sul corpo del feto hanno un ruolo importante”8.


Anche per quanto riguarda l’allattamento al seno, Montagu fa notare come il contatto pelle a pelle favorisca la secrezione, da parte dell’ipofisi materna, della prolattina, un ormone necessario per l’inizio e il mantenimento della lattazione nei mammiferi. Inoltre, sottolinea che lo scopo dell’allattamento al seno “è quello di dare al bambino molto di più che una dieta adeguata, di fornirgli insomma, un ambiente emozionale di sicurezza e di amore nel quale la creatura nel suo insieme possa crescere vigorosamente. L’allattamento al seno da solo non glielo garantirà. È il rapporto globale della madre con il proprio bambino che rende significativo l’allattamento al seno.”9


Margaret Ribble, psicologa, già alla metà del secolo scorso mise in evidenza come i bisogni psicologici dei bambini debbano essere soddisfatti quanto quelli fisici. In particolare questa autrice ha sottolineato l’importanza della stimolazione tattile sulla respirazione del neonato: “La respirazione, che nelle prime settimane di vita è tipicamente superficiale, instabile e inadeguata, viene stimolata in modo definitivo per via riflessa attraverso la suzione e il contatto fisico con la madre. [...] È evidente che il contatto fisico con la madre ha una precisa implicazione biologica nella regolazione della respirazione e nelle funzioni nutritive del bambino”10.


Anche Frederick Leboyer, grande innovatore della pediatria mondiale e autore di famosi testi sulla nascita, scrive: “Per i bambini piccoli, essere portati, cullati, accarezzati, essere tenuti, massaggiati sono tutti nutrimenti indispensabili, come le vitamine, i sali minerali e le proteine, se non di più. Se viene privato di tutto questo e dell’odore, del calore e della voce della madre che conosce bene, il bambino, anche se gonfio di latte, si lascerà morire di fame”11.


Montagu afferma anche: “Sebbene il tatto non sia di per sé un fatto emotivo, i suoi elementi sensoriali inducono quei cambiamenti neurali, ghiandolari, muscolari e mentali che chiamiamo complessivamente sentimento. Per cui il tatto non è sentito come una semplice modalità fisica, come sensazione, ma affettivamente, come sentimento”12.

Anche nel linguaggio comune “essere toccati” da un evento significa provare un forte sentimento al riguardo; oppure vedere un film “toccante” significa che ci ha colpito emotivamente. Ugualmente l’espressione “teniamoci in contatto” significa che si vuole continuare ad avere una relazione anche con persone lontane fisicamente.


Da tutto questo si può capire come il senso del tatto abbia notevoli implicazioni nello sviluppo e nel rinforzo dell’affettività dei bambini e nella loro crescita psicofisica globale. Non stupisce, quindi, che in una società come la nostra, dove difficilmente è accettato che i bambini possano esprimere le proprie emozioni e i propri sentimenti, si tenti fin dalla nascita di deviarli verso il controllo affettivo. Invece, afferma Gerhardt: “Una buona ‘immunità’ emotiva è il risultato dell’esperienza di sentirsi sicuri, del contatto fisico, dell’essere visti e aiutati a riprendersi dallo stress, mentre la reazione a esso è minacciata dalla separazione, l’incertezza, la carenza di contatto e la mancanza di contenimento”13.


Come ho già affermato nel primo capitolo, i beni materiali e consumistici dedicati ai bambini dal mercato e dall’industria tendono a colmare i vuoti affettivi che la nostra cultura produce in loro. Se non cominciamo a invertire questa tendenza a riempire i bambini di oggetti spesso inutili fin dalla prima infanzia, anziché soddisfare pienamente i loro bisogni primari, perdiamo la possibilità di offrire un’educazione affettiva ed emotiva fondata sulle persone e sul “calore umano”, che servirà loro come base relazionale per tutta la vita. Se continuiamo a togliere i bambini dalle braccia dei genitori con assurde pretese educative, ci troveremo davanti adulti che hanno difficoltà ad abbracciare e a essere abbracciati come triste memoria di una carenza del passato.

Non è facile andare controcorrente e rivendicare il diritto di tenere in braccio e accudire i nostri figli, per tre motivi principali.

  • Primo: come ho già illustrato, molti genitori di oggi sono figli dei dogmi educativi di trenta-quaranta anni fa, grazie ai quali la separazione madre/bambino era massima. Siamo stati per la maggior parte bambini messi nelle nursery alla nascita, separati precocemente dalle nostre madri e allattati artificialmente. I nostri genitori ci lasciavano piangere “finché non ci facevamo i polmoni a sufficienza”, perché la cultura del momento voleva così; perciò, nella nostra memoria, ci sono esperienze che non aiutano a cambiare rotta con i figli. Non bisogna trascurare l’importanza del bagaglio affettivo e delle esperienze infantili, né negare il bambino che è in noi. Mi viene in mente una frase famosissima che non mi stancherò mai di ricordare ai genitori e agli adulti in generale: “Tutti i grandi sono stati bambini una volta (ma pochi di essi se ne ricordano)”14. Inoltre ognuno di noi fa parte di un cerchio che comprende molte generazioni. In psicologia questo concetto è noto e riguarda vari approcci teorici, fra cui quello della psicogenealogia e delle teorie che studiano la trasmissione intergenerazionale dei modelli di attaccamento. Ognuna di queste branche della psicologia afferma che è molto difficile spezzare gli schemi con i quali siamo cresciuti poiché diventano tracce indelebili nella nostra memoria affettiva attraverso le rappresentazioni mentali. Credo sia anche per questo che molti genitori faticano ad accettare un certo tipo di informazioni e spesso le rifuggono. Ma, con un opportuno sostegno se necessario e soprattutto condividendo la propria esperienza con altri genitori che abbiano voglia di andare fino in fondo, è possibile cambiare modello genitoriale; da un modello a basso contatto a uno che invece faccia del contatto fisico il nucleo fondamentale della relazione coi propri figli.

  • Secondo: la nostra società è basata sul fare, sull’avere, sul produrre e sull’apparire, piuttosto che sullo stare, sull’essere e sul vivere con ciò che è davvero indispensabile. Perciò, per i neogenitori alle prese con un neonato – che all’inizio sembra più uno sconosciuto, quasi un “extraterrestre” – può essere molto problematico non aderire ai modelli culturali a cui si appartiene, per sentirsi più sicuri e integrati. Può essere ancora più difficile continuare a rimanere fedeli a un modello non convenzionale quando i bambini crescono. A proposito di extraterrestri, nel 1996 è stato diffuso nelle sale cinematografiche italiane (per poche settimane purtroppo) un meraviglioso film francese: Il Pianeta Verde di Coline Serreau. Il film tratta in chiave umoristica i problemi del mondo occidentale: la frenesia, l’abuso di comando, l’inquinamento e il consumo selvaggio delle risorse naturali e degli spazi. Denuncia anche le routine ospedaliere dei reparti di ostetricia e propone modelli educativi diversi da quelli comunemente noti nelle società occidentali. Il Pianeta Verde è un pianeta lontano e sconosciuto ai terrestri, dove le persone vivono in armonia con se stesse, con gli altri e con la natura. Anche gli abitanti di questo pianeta sono passati per l’era industriale (nel film è definita preistoria) ma, dopo averne verificato la decadenza, hanno preferito abbattere gerarchie, industrie e tutto ciò che rappresentava l’epoca dello sfruttamento. Su questo pianeta non esistono soldi, solo baratto. Non si mangia carne e si fanno sedute di “silenzio”.

  • Come ogni anno, sul pianeta viene convocata un’assemblea plenaria; ordine del giorno: inviare qualcuno sulla Terra per controllare a che punto sia arrivato il processo evolutivo. I racconti dei più anziani (sul pianeta si vive fino a 250 anni) parlano dell’era Napoleonica, caratterizzata da guerre e da manie espansionistiche e nessuno sembra volersi offrire volontario per la spedizione sul pianeta azzurro.

    Mila, interpretata dalla stessa Serreau, si offre volontaria per il viaggio, portando con sé il segreto delle sue origini: sua madre era una terrestre.

    Calata nella Parigi degli ultimi anni Novanta del secolo scorso, Mila si ritrova disorientata a causa delle indicazioni che gli anziani le hanno dato prima di partire: vestita con abiti stile Impero, dà vita a una serie di primi, comici, approcci con il popolo parigino. Senza acqua né cibo – poiché in città queste fonti di sostentamento sono rispettivamente inquinate e insalubri – è costretta a raggiungere un ospedale per “ricaricarsi” con dei neonati; ed è proprio nell’ospedale di Parigi, che incontra Max (impersonato dall’attore francese Vincent Lindon), primario di medicina a cui cambierà completamente la vita, umana e professionale, e da cui abiterà per tutta la durata del film, fino al suo ritorno sul Pianeta Verde.

    Cito questo film perché ci sono alcune scene meravigliose che riguardano anche gli argomenti di questo libro: Mila si ricarica
    tenendo in braccio i neonati. Questo gesto le permette di vivere senza nutrirsi né di cibo né di acqua. In un’altra scena Mila è raggiunta sulla Terra da due dei suoi figli adolescenti che dormono con lei in stretto contatto fisico. In un’altra scena Max getta via la televisione dicendo ai familiari “Da oggi si parla” e dal quel momento cambia la vita di tutta la famiglia. Vale la pena vedere questo film per rendersi conto della società in cui viviamo e mettere in discussione molte delle certezze a cui siamo abituati; e, inoltre, per recuperare un approccio ai rapporti umani molto più sano e meno invischiato nelle dinamiche perpetuate dal consumismo e dalla piattezza affettiva.

  • Terzo: se anche un genitore accettasse di rimettersi in gioco personalmente e in coppia, si informasse con attenzione su metodi educativi che rispettano i bisogni dei bambini, si organizzasse per stare con i propri figli per più tempo possibile, non cedesse al consumismo e ai dogmi della nostra cultura, ebbene, in ogni caso, dovrebbe fare i conti con i giudizi di chi lo circonda. Credo che questo sia il nocciolo della questione: i genitori non si sentono liberi di fare come sentono e come credono meglio. La società li tratta a loro volta come bambini che devono essere istruiti da altri, più competenti, nel difficile mestiere del genitore. Basta guardare i programmi televisivi dove tate in divisa sgridano i genitori perché a loro volta sgridino i figli.

In qualsiasi occasione c’è sempre un parente, un conoscente o un esperto che mette a dura prova la motivazione a essere genitori ad alto contatto. È proprio l’esempio di contatto fisico in sé che attira l’attenzione della gente. Sembra un esempio di errore madornale e sconvolgente. Ci ricorda invece Montagu: “La pelle in sé non pensa, ma è sensibilissima, inoltre ha la facoltà di ricevere e trasmettere una straordinaria varietà di segnali e di dare una vastissima gamma di risposte, molto più che tutti gli altri organi di senso: quanto a versatilità va perciò considerata seconda soltanto al cervello. Tuttavia, la sua sensibilità può risultare notevolmente ridotta, se non riceve gli stimoli tattili necessari a un corretto sviluppo. In tal senso, influenze come famiglia, classe sociale e cultura hanno un ruolo fondamentale”15.

Riassumendo, non è soltanto l’allattamento al seno, o il portare addosso i neonati e i bimbi piccoli, o il dormire con loro, che scandalizza le persone, ma l’insieme di tutti questi comportamenti, poiché appaiono in palese contrasto con i modelli sociali più comunemente accettati. In realtà, abbiamo visto come queste modalità di accudimento dei neonati e dei bimbi piccoli rappresentino un continuum fra la vita prenatale e quella postnatale e come aiutino l’intero sviluppo psicoaffettivo dei bambini.


Approfondirò adesso due modi di garantire il contatto fra genitori e figli: il portare i bambini con fasce e altri supporti di stoffa e il massaggio del neonato.

Portare i bambini: ovvero contatto continuo e... mani libere!

La mia piccola Alice è stata portata da quando aveva 1 mese. Ora è ‘grande’, cioè ha 2 anni e mezzo e corre e sgambetta e addosso ci sta giusto in certe occasioni particolari. In compenso adesso lei porta le sue bambole... che bello tramandare questa abitudine!

Francesca, mamma di Alice

L’altra mattina ho fatto un giro al mercato e ho suscitato l’invidia di un sacco di
amiche e conoscenti con bimbi piccoli al seguito visto che,
a differenza dei loro bimbi, resi isterici da tutta quella confusione,
Tobia se la dormiva addosso a me beato nel mei tai... e infatti tutte o quasi si sono
appuntate il nome di questo ‘curioso marsupio’.

Alessia, mamma di Emma e Tobia

Non scorderò mai l’emozione di impastare il pane con Irene nella fascia: io con
le mani e lei, a 5 mesi, con i piedini!
Il pane fatto insieme a 5 mesi: non l’avrei mai immaginato...
Peccato non aver conosciuto le fasce prima, le avrei usate anche con Bianca.

Alessandra, mamma di Bianca e Irene

Io ho scoperto la fascia solo con Irene. Con Riccardo ne avevo comprata una che era troppo difficile per una principiante. Con Irene invece mi sono informata mentre ancora l’aspettavo e non so come avrei potuto fare senza. Con Richi abbiamo potuto fare un sacco di cose normali portando la sorella in fascia.

Barbara, mamma di Riccardo e Irene

Ho avuto in regalo per Susanna la fascia ad anelli fatta da una mia carissima amica, madre di tre figli. L’ho vissuta come ben più di un regalo, come una dote, una conoscenza e una sensibilità particolari, come questa fantastica mamma. Susanna ci è stata dalla mattina dopo che era nata (portata da mio marito che svuotava la lavastoviglie) fino quasi a un anno di vita. Una volta, aveva circa 3 anni, me l’ha portata per metterla dentro, come spesso faceva quando era stanca o aveva voglia di coccole, e nel darmela mi ha detto... ‘Così è come quando ero nella tua pancia, perché a me piace tanto stare dentro la mia fascia’. Unico rimpianto è non averla conosciuta col primo figlio, che è cresciuto nelle mie
braccia, ma decisamente non è la stessa cosa!

Gaia, mamma di Susanna

Io ero all’ultima settimana di gravidanza e leggevo avidamente il libro della La Leche League sull’allattamento dove ci sono un sacco di foto con bambini in fascia... a un certo punto il flash: ma guarda come stanno bene i bimbi lì dentro e come se la... dormono, la voglio anch’io! Il giorno dopo ho ordinato la mia prima fascia (elastica) che è arrivata un paio di giorni prima della nascita di Alice. Con mio marito l’abbiamo usata sia per le uscite sia per stare in casa, sia per le escursioni in montagna. Per me era come riavere la piccola nella pancia, al sicuro con me, ma io sempre libera di muovervi e lavorare. Col tempo siamo passate dalla pancia alla schiena, e dalla fascia elastica a quella normale e ora al mei tai... peccato solo che le occasioni per portarla ora che ha quasi 2 anni e mezzo siano poche perché vuole camminare ovunque! Ora che sono di nuovo in attesa non vedo l’ora di portare ancora... e anche Alice si allena portando le sue bambole!

Daria, mamma di Alice

Ho scoperto la fascia quando ero incinta, insieme a mio marito ho seguito un breve corso per imparare a portare i bimbi. Ero così determinata a usarla che, malgrado le perplessità di chi avevo intorno, non ho voluto comprare né carrozzina né passeggino. Ma non immaginavo che la fascia sarebbe stata per noi così indispensabile. Emanuele infatti ha molto sofferto di reflusso, non faceva che rigurgitare ed era impossibile tenerlo sdraiato, anche per dormire. Quindi ha passato i suoi primi 5 mesi pancia a pancia con me e il babbo, poi l’ho passato sul fianco e verso l’anno sulla schiena. Intanto abbiamo provvidenzialmente ricevuto un passeggino di un cugino e per i tragitti lunghi abbiamo cominciato a usare anche quello, ma anche molto la bicicletta. Adesso che ha 20 mesi usiamo meno la fascia perché Emanuele vuole camminare, ma è ancora preziosa in tante occasioni e occupa poco spazio in borsa, decisamente più pratica del passeggino. E poi portare è meraviglioso per i genitori, i bambini ci stanno benissimo e si possono fare
un sacco di cose!

Margherita, mamma di Emanuele

Scoprire la fascia mi ha aperto un mondo e ha semplificato la vita di tutta la famiglia. Con la prima figlia l’avevo conosciuta tardi ma il fratellino, adesso di tre mesi e mezzo, è stato portato fin dai primi giorni. È stata un valido aiuto nelle crisi di coliche e mi ha concesso fin da subito un’autosufficienza che con due bimbi sarebbe stata utopia. La figlia grande ha così continuato ad avere una mamma molto presente che la accompagnava a scuola, al parco, al mare, in piscina e il figlio piccolo ha continuato a essere nutrito e coccolato come quando era in utero.

Alessia, mamma di Emma e Tobia

Un’infinita comodità averlo sempre con me in tutti gli spostamenti, ma soprattutto in casa, si calmava e io facevo qualsiasi cosa con la tranquillità di un bimbocangurino che si godeva il mondo dalla sua posizione comoda
e facile da coccolare

Silvia, mamma di Lorenzo

La fascia per me è stata innanzitutto una necessità: mio figlio è un bambino ad alto bisogno, da quando è nato ha sempre voluto starmi attaccato, non gli bastava vedermi o sentire la mia presenza, voleva proprio il contatto con il mio corpo... la fascia mi ha salvato: in un colpo solo soddisfacevo le esigenze di contatto di Michele e le mie esigenze di libertà di movimento... inoltre la fascia è comodissima anche per spostarsi in città, sui mezzi pubblici, e non c’è problema per le poppate, fatte camminando e guardando le vetrine oppure durante le escursioni in montagna... e tuttora, che Michele ha 15 mesi, se ha qualche fastidio, male ai dentini o è irrequieto e non riesce a dormire, un giretto per la casa in fascia e subito si tranquillizza e si addormenta sereno... la fascia mi ha aiutato a entrare subito in una profonda empatia col mio cucciolo e a soddisfare i suoi bisogni primari senza rinunciare ai miei...

Fabiana, mamma di Michele

Finalmente anche nel nostro Paese si cominciano a vedere bambini portati nelle fasce o in altri supporti di stoffa. Fino a pochi anni fa sembrava solo un’abitudine delle mamme africane.

Tutti possono portare i bambini: genitori, nonni, baby sitter…



Nonna e papà con Irene
Si può anche fare a meno di “ovetti”, passeggini e carrozzine, fin dalla prima volta che trasportiamo i bambini:


Ancora in ospedale, la prima volta di Irene nella fascia… e nel mondo!

Ancora in ospedale, la prima volta di Irene nella fascia… e nel mondo!

E anche le bambole possono essere un valido esempio di “cultura del portare”:


Bianca e la sua bambola “portata”



Il desiderio del piccolo di rannicchiarsi sul corpo della madre corrisponde al bisogno di una sensazione che riproduca le condizioni dell’ambiente uterino. Le fasce garantiscono una posizione fisiologica della schiena del bambino, molto simile a quella che assumeva prima della nascita. Ci vorrà circa un anno perché si riesca a reggere sulle proprie gambe tenendo la schiena diritta. Prima di questa conquista è quindi poco indicato tenere i bambini in contenitori rigidi che li obblighino a stare in una posizione fissa. Anche i marsupi rischiano di costringere il bambino in una posizione non fisiologica. Se osserviamo bene un neonato nel marsupio sembra che “penzoli” piuttosto che essere sostenuto; in più, tutto il suo peso sarà scaricato sui genitali poiché le gambe sono lasciate cadere senza alcun contenimento. Nella fasce, invece, il bambino è perfettamente sostenuto e il suo peso è uniformemente distribuito sulle spalle e sulla schiena del portatore che, a sua volta, starà molto più comodo.


Inoltre il neonato in molti casi vive con disagio il mancato controllo dei suoi movimenti e necessita perciò di essere fisicamente “contenuto”, cioè di percepire confini spaziali in cui sentirsi protetto e avvolto.


Non c’è alcun motivo per cui gli adulti debbano precludersi o “dosare” il contatto corporeo con i bambini: come abbiamo già avuto occasione di notare, in una relazione umana è un atto di comunicazione vero e proprio, che crea i presupposti per un adeguato sviluppo psico-affettivo e cognitivo del bambino ed è anche determinante per la sua evoluzione, nell’intero corso della vita.


È un’esperienza che aiuta il bambino a rafforzare la propria autostima: la percezione della propria identità nasce proprio dall’esperienza del contatto corporeo che gli fa comprendere meglio se stesso e l’altro.


Molti genitori temono di viziare il bambino se lo tengono troppo addosso. Vediamo perché questa credenza è errata e rientra nei pregiudizi della nostra cultura.

Afferma Federica Mattei, mamma di quattro figli, psicologa dell’età evolutiva: “Purtroppo, nel corso dei secoli, in Italia e in Europa questo modo di cura si è perso perché si è lentamente insinuato l’assurdo convincimento che portare un bambino addosso sia un modo di ‘viziarlo’ e di compromettere la formazione del suo carattere e della sua autonomia. Questa convinzione probabilmente è nata e viene di continuo rafforzata dal fatto che tutti i genitori possono constatare come un bambino dorme beatamente in braccio e si risveglia non appena viene messo nella culla; ciò accade poiché il posto preferito di tutti i bambini sono le braccia dei propri genitori. Questi, influenzati anche dai pareri di parenti, amici, nonni e di molta letteratura sull’infanzia, scambiano per un ‘vizio’ il pianto di richiamo dei figli e si ritrovano a cercare di contrastare l’istinto che li spinge a tenerli in braccio”16.

D’altra parte l’origine del portare i bambini addosso è antica e ha ragioni fisiologiche. Afferma Jacqueline Jimmink, olandese, mamma di tre bambini a lungo portati: “L’uso di portare su di sé i propri piccoli non è prerogativa esclusiva della specie umana. Molte specie animali lo fanno, per tempi più o meno lunghi. Si tratta di una delle forme più spontanee di comportamento materno in molti mammiferi. Perché alcuni portano sempre con sé i loro piccoli? Una risposta potrebbe trovarsi nell’allattamento. La ricerca mostra che mammiferi con latte a basso contenuto di proteine nutrono i loro piccoli molto regolarmente e con intervalli brevi tra un pasto e l’altro. I mammiferi con un latte a elevato contenuto di proteine si comportano in maniera opposta: i conigli, che hanno un latte particolarmente ricco di proteine, nutrono i loro piccoli solo una volta ogni 24 ore, per quattro o cinque minuti. Il piccolo può sopravvivere a lungo senza la madre. I primati, compresa la specie umana, hanno un latte materno a basso contenuto proteico, perciò hanno bisogno di nutrire spesso i loro piccoli. Affinché la madre possa nutrire il piccolo così regolarmente, è necessario che lo porti con sé. Un piccolo d’uomo non può camminare, perciò deve essere portato con un supporto”17.


Portare i bambini in braccio non è pratico e alla lunga è faticoso; inoltre, usare passeggini e carrozzine è certamente diverso che avere le mani libere e poter uscire col proprio bambino senza dover trasportare altro.


Portare i bambini ha anche notevoli effetti sul benessere loro e di tutta la famiglia.

In uno studio18 di A. Hunziker e R. Barr, pubblicato sulla celebre rivista scientifica “Pediatrics”, è stato dimostrato che, nei bambini che erano portati in fascia per tre ore al giorno alla sesta settimana di vita, la durata dei momenti di pianto era ridotta del 43% di giorno e del 51 % di notte, rispetto ai coetanei non portati. Perciò portare un neonato riduce il suo pianto e aiuta la gestione delle cosiddette “coliche” che riflettono sempre un disagio psicosomatico del bambino e che spesso sono favorite dall’aria ingurgitata nei momenti di pianto. La mancanza di questo tipo di informazioni fa sì che i genitori europei stiano maggiormente a contatto con i propri figli soltanto come rimedio per calmare difficoltà già evidenti e non come efficace prevenzione del disagio.

Quindi, per riassumere:

  • I bambini portati piangono meno.

    Esistono studi che dimostrano come il pianto del bambino sia una scelta che arriva soltanto dopo che un suo bisogno non è stato soddisfatto o quando c’è una necessità impellente da comunicare. Il pianto rappresenta sempre un segnale che richiede attenzione urgente da parte di chi si prende cura del bambino.

    Portare con le fasce può anche aiutare i bambini che di solito piangono molto, i cosiddetti bambini ad alto bisogno. Infatti, anche se piange, il bambino trae conforto dal trovarsi stretto alla mamma: può udire il battito del suo cuore e sentire la sua voce. Sono suoni molto rassicuranti per lui e i movimenti materni gli ricordano l’esperienza intrauterina cullandolo delicatamente.

    In genere, quando piange, il bambino si allunga e si irrigidisce inarcando la schiena, dimostrando un alto grado di stress. È una situazione abbastanza frequente nei neonati e nei bambini piccoli, e può essere aggravata se il bambino è lasciato disteso. Tutti sanno che in questo caso prendere il bambino in braccio significa calmarlo. I bambini portati in fascia poi segnalano le proprie necessità in maniera diversa grazie al contatto continuo col genitore, che riconoscerà i segnali del bambino appena si manifestano. Per questo motivo portare il bimbo evita normalmente che si scatenino grosse crisi e ha un valore preventivo circa l’insorgenza di stress.

    Sostiene Ester Weber, madre di due bambine, fondatrice e presidente dell’associazione culturale Portare i piccoli: “Essendo la condizione portata per il bambino una condizione fisiologica, che risponde a monte a molte delle sue esigenze, spesso il piccolo non deve neanche usare il pianto per farsi capire”19. Il pianto è sempre un’ultima scelta di comunicazione e, come tale, molte volte può essere prevenuto.

  • I bambini portati diventano autonomi prima dei coetanei lasciati soli per lungo tempo in contenitori vari (box, sdraiette, passeggini).
    Afferma ancora Weber: “Ascoltare e soddisfare il bisogno primario di contatto corporeo del bambino non crea un suo ulteriore bisogno o lo accresce, ma col tempo lo colma”20. Se un bambino ha bisogno di contatto e non glielo offriamo, lo ricercherà continuamente poiché è per lui un bisogno primario tanto quanto essere nutrito. Se, al contrario, il bambino crescerà sapendo che può avere fiducia nella soddisfazione di quel bisogno, abbandonerà prima la richiesta, poiché avrà acquisito sicurezza e fiducia in chi si prende cura di lui e in se stesso.
    Anche Bowlby, padre della teoria dell’attaccamento, asserisce che “Se una condizione (necessità o bisogno) necessaria per un dato periodo della vita non è soddisfatta, l’essere umano non riesce a passare a un’altra tappa dimenticando i bisogni non ricevuti, e resta in attesa trascinandosi la carenza della tappa precedente anche nella vita adulta”21.
    Portare poi è un processo naturale che si riduce gradualmente nel tempo; difatti il bisogno di essere portato diminuisce a mano a mano che il bambino cresce e sviluppa nuove capacità motorie. Quando i bambini imparano a muoversi carponi chiedono meno di essere portati poiché l’ambiente circostante li incuriosisce e hanno necessità di sperimentare altri modi di interazione con esso. I bambini più grandi possono chiedere di essere portati se sono stanchi, malati e per altre necessità. Se un bambino viene portato a lungo, sarà proprio lui a indicare alla mamma quando non lo gradisce più. Di solito ciò avviene intorno ai tre anni di vita.

  • Portare i bambini pelle a pelle ha potere analgesico.

    Ogni genitore sa bene che quando suo figlio è in difficoltà basta prenderlo in braccio e sarà molto probabile che si calmi. La fascia e gli altri supporti per portare i bambini offrono questo contatto anche in caso di dolori di varia natura: infatti “il contatto pelle a pelle è un forte analgesico naturale sia per i neonati sani sia per i prematuri stabili”22.

  • Portare i bambini è comodo e pratico.

    Il peso del bambino viene scaricato non solo su entrambe le spalle del portatore ma anche sul bacino e di conseguenza sulle gambe. Una volta che il genitore ha fatto un po’ di pratica, la fascia diventa un oggetto fondamentale per portare fuori i bambini in tutta comodità. Infatti i bimbi non sono all’altezza dei tubi di scappamento delle auto come nei passeggini. Si possono fare lunghe passeggiate in qualsiasi ambiente e senza preoccuparsi di dover salire o scendere scale, o attraversare strade in punti precisi. Anche salire sull’autobus o sulla metropolitana è molto semplice.

    In casa, la mamma troverà molto più tempo per stare con altri figli se ce ne sono; anche i lavori domestici saranno più agevoli con il bimbo addosso, finché non pesa troppo.

    I bambini in fascia possono dormire ed essere allattati senza spostamenti di posizione, rendendo questi momenti ancora più naturali. Talvolta si sente dire che i bambini portati sembrano stare scomodi perché stanno stretti: questo è impossibile in quanto se stessero scomodi lo segnalerebbero o si muoverebbero per spostarsi. Se, invece, osserviamo i bambini nelle fasce o nei vari supporti possiamo notare come siano sereni e tranquilli per la maggior parte del tempo.

  • Portare i bambini facilita il continuum fra endogestazione e esogestazione.

    Grazia De Fiore, mamma di tre bambini, consulente volontaria de La Leche League, consulente professionale in allattamento IBCLC, fondatrice dell’Associazione Contatto Continuo23, suggerisce di considerare il supporto per portare i bambini come un utero di transizione. In effetti, i supporti usati per portare danno al bimbo un senso di contenimento e di protezione molto rassicurante e allo stesso tempo stimolante. I piccoli sono addosso al portatore e partecipano alla sua vita così come accadeva nel grembo materno. Quando il bimbo è pronto ad aumentare la distanza dal genitore, poiché il suo bisogno di contatto continuo è soddisfatto, non esiterà a segnalare di voler scendere e cominciare a muoversi nello spazio circostante. Anche nei primi mesi i bambini portati accetteranno molto più volentieri di essere messi giù per brevi periodi perché sanno che potranno ristabilire presto il contatto che la fascia offre.

  • Portare i bambini favorisce il legame di attaccamento.

    Portare i propri figli favorisce la conoscenza reciproca e non limita la libertà di nessuno. Rispetta i bisogni dei grandi e dei piccoli e per questo aiuta l’instaurarsi di una relazione di attaccamento sicuro; rientra nei comportamenti dei genitori ad alto contatto. In caso di difficoltà, possedere un buon supporto aiuta a superare i momenti critici e, di conseguenza, aumenta il senso di fiducia del genitore nella sua capacità di gestire il pianto e le difficoltà del proprio bambino e a riconoscere i segnali di disagio.

  • Portare i bambini facilita la comunicazione.

    Quando il bambino è addosso al genitore per lungo tempo, partecipa alla vita normale della famiglia e interagisce con ciò che gli succede intorno attraverso il “filtro” del portatore. Per esempio, se la mamma si trova in un ambiente molto affollato, il bimbo in fascia potrà ripiegarsi su di lei per non essere sovrastato da stimoli eccessivi come avviene invece nei passeggini. In questo modo non avrà bisogno di piangere o di essere preso in braccio perché si troverà già nella condizione più idonea per essere protetto e rassicurato. In questo modo, la madre può accorgersi di ciò che infastidisce il bambino attraverso le sue reazioni e si renderà conto di rappresentare un tramite fra lui e l’ambiente esterno.

    Il bambino inoltre, si trova “ad altezza bacio” e sarà ancora più facile parlare con lui e coccolarlo mentre si svolgono le proprie attività, rendendolo così ancora più partecipe alla vita familiare.

  • Portare i bambini migliora il loro sviluppo corporeo.
    Stare a contatto col corpo del genitore implica per il bambino seguirne i movimenti e rappresenta una stimolazione del proprio senso cinestesico attraverso meccanismi di propriocezione24. Egli infatti, si muove in tutte le direzioni mentre il genitore stesso lo tiene in equilibrio: esattamente come nell’utero. Il suo organo dell’equilibrio viene di conseguenza stimolato. Alla nascita questo organo è particolarmente sensibile e i bambini iniziano così a regolare questa capacità, cosa che certamente non avviene in carrozzina.
  • Inoltre, come abbiamo già visto, il bambino potrà continuamente compiere piccoli movimenti per stare più comodo o per segnalare al genitore la necessità di cambiare posizione. È incredibile come portare i propri bambini, anche molto piccoli, aiuti a capire in un attimo quali siano le loro esigenze. Un bimbo che passa molto tempo in un contenitore come la sdraietta, la culla o il box, o all’interno di una carrozzina, è privato di molte esperienze precoci essenziali. Poiché egli ha bisogno di partecipare alla vita quotidiana per crescere, non serve solo sedersi davanti a lui e guardarlo dando risposte verbali a ciò che chiede, ma condurre una vita normale rendendolo partecipe delle nostre abituali attività.

  • Portare i bambini è una continua fonte di apprendimento.

    Proprio perché i bambini sono sempre insieme ai genitori, partecipano a ciò che fanno e diventa per loro molto naturale osservare le varie attività degli adulti in una situazione protetta da stimoli eccessivi. Con i bambini in fascia si può fare quasi tutto. Personalmente, l’unica cosa che non ho potuto fare con la mia bimba in fascia è stata guidare la macchina, per ovvie ragioni di sicurezza!

    Essere portati è di gran lunga più stimolante dei vari giochi educativi che ci propone il mercato per l’infanzia: cosa c’è di più divertente, per esempio, che vedere la propria madre che cucina, o familiarizzare con i vari cibi, sentire gli odori da vicino, oppure fare una bella passeggiata nella natura con la possibilità di vedere ad altezza adulta ciò che l’ambiente offre?

  • Tutti possono “indossare” i bambini e trovare il supporto più adatto.

    In Italia ci sono ormai moltissimi siti internet25 che offrono supporti per tutte le tasche. Si va dai 35 euro in su e se ne trovano di moltissimi tipi e materiali. Con un po’ di pratica tutti possono scoprire un supporto adatto per sé e per il proprio bambino. In altri Paesi c’è perfino l’abbigliamento “da fascia” per facilitare il genitore che porta il bambino. Ci sono giacche a vento o poncho appositi, ma ci si può tranquillamente arrangiare con quello che si ha in casa. Si trovano anche Associazioni dove provare i vari supporti e ottenere valide indicazioni per le prime volte in cui si provano le varie posizioni. Anche il mercato dell’usato offre molte possibilità. Se poi una mamma ha dimestichezza con la macchina da cucire può trovare facilmente su internet cartamodelli molto semplici da realizzare col minimo sforzo e con una spesa irrisoria.

  • Portare i bambini è economico e sostenibile.
    Portare i bambini è una pratica molto economica e sostenibile. I vari supporti possono essere prestati a parenti e amici e diventare parte dei preziosi ricordi di famiglia da condividere a ogni nascita. Richiedono poco spazio, stanno tranquillamente in borsa e si lavano con la comune biancheria di casa.
  • Portare i bambini aiuta le mamme a sentirsi più libere e a spostarsi meglio con loro.

    È molto comune che le mamme abbiano sentimenti di solitudine quando si trovano in casa da sole con i neonati. Un tempo c’era la famiglia patriarcale per proteggere e fare compagnia a madre e bambino dopo la nascita.

    Oggi questo non succede più tanto sovente e molte mamme, soprattutto nei mesi invernali, stentano a uscire di casa, perpetuando un circolo vizioso che le fa sentire ancora più sole. Uscire con un bimbo piccolo, certe volte, significa quasi traslocare! La fascia restituisce libertà di movimento alle mamme e dà loro la possibilità di spostarsi avendo il bambino sempre con sé senza dover spingere niente e avendo le mani libere. Anche in caso di pioggia, basterà un ombrello per entrambi e il calore che la mamma emana sarà certamente utile nei mesi invernali per proteggere il bambino da temperature eccessivamente fredde e soprattutto dal vento. Gli eschimesi portano i loro bambini a temperature polari per l’intera giornata e dormono insieme a loro per i primi anni di vita.

  • Portare i bambini aiuta a ristabilire un contatto successivo a una separazione.

    Nel caso in cui la mamma torni a lavorare presto o si debba allontanare per qualche ora, chiunque può portare il bambino al posto suo. Il contatto con altri adulti renderà l’assenza della madre molto più accettabile e al suo ritorno il bambino potrà stringersi a lei in un abbraccio caldo e rassicurante per recuperare il tempo perduto.

  • In caso di cesareo, nascita difficoltosa o prematura, portare i bambini aiuta a superare il trauma della nascita.
    I neonati portati in fascia ritrovano un ambiente simile all’utero materno: si sentono al caldo, contenuti e riconoscono rumori e odori. Ciò li aiuta a superare lo shock della nascita. Per i neonati l’ambiente ideale non è certo l’immobilità e il silenzio della culla in una stanza buia. Nel caso dei bambini nati prematuri (prima della 34a settimana di gestazione) la marsupioterapia26, che prevede il contatto pelle a pelle con il genitore, rappresenta una vera e propria possibilità in più per sopravvivere. Esistono organizzazioni come la Fondazione Canguro27 che promuovono questa pratica in tutto il mondo. Anche le mamme che hanno avuto difficili esperienze di parto possono ristabilire con facilità il contatto con i propri bimbi utilizzando uno dei vari dispositivi per portarli. Di recente anche in molti ospedali si cominciano a vedere fasce, utilizzate anche dal personale sanitario.

I massaggio infantile come esperienza di contatto

I primi figli sono spesso più sfortunati dei successivi perché le loro madri, molto condizionate dai pareri delle persone che le circondano (amici, parenti ma anche semplici conoscenti), hanno timore di viziarli e tendono quindi a non seguire quell’istinto che le porterebbe a mantenere il più possibile, dopo il parto, quel contatto che per nove bellissimi mesi è stato continuo e gratificante. Spesso serve una seconda gravidanza per recuperare, e questo è quello che è accaduto a me. Emma non ha mai avuto il contatto di cui sta godendo il fratellino di tre mesi che è ogni giorno portato e massaggiato. Il massaggio infantile l’ho scoperto infatti quando lei aveva un anno. Al corso AIMI a cui partecipammo era la bimba più grande e a differenza degli altri non accettava di essere toccata e fuggiva gattonando. Al tempo il corso fu per me più una fonte di stress che di piacere, ma appresi comunque le tecniche che adesso utilizzo con successo con il fratello.

Alessia, mamma di Emma e Tobia.

Per me è stato diverso, il percorso di conoscenza è iniziato con la prima gravidanza, avevo molto tempo a disposizione solo per noi e ogni mattina facevamo (in sequenza) esercizi di motricità, massaggio neonatale e bagno insieme con esercizi di acquaticità, ciuccia e pisolo incorporati. Uno sballo, praticamente la stanza da bagno ogni mattina era una beauty farm, troppo rilassante! Musica, profumi e oli aromatici! Tutto questo è durato dalla nascita agli 11 mesi circa (sono rientrata al lavoro a 3 mesi ma avevo un part-time pomeridiano). Poi è arrivato Elia, il nostro secondo figlio affidatario, 3 anni e una vitalità pazzesca. Greta ha iniziato a camminare immediatamente per corrergli dietro... e chi la prendeva più? Con Ambra, la mia seconda figlia naturale nata tre anni e mezzo dopo, tutto è stato diverso, il tempo era molto meno e gli appuntamenti di relax in beauty farm erano 2-3 la settimana. In compenso ho usurato la fascia che con Greta non ero riuscita a sfruttare troppo perché l’avevo trovata molto tardi, a circa 8 mesi (non ricordo nemmeno come ho fatto a trovarla, era fatta a mano, sono stata a casa della donna straniera, forse inglese, che l’aveva fatta, a Torino, 200 km da casa mia in un’era ante-internet e ante-gps... sto parlando del 1996, incredibile cosa fa la forza di volontà!). Era quella con gli anelli, teoricamente permetteva poche posizioni ma io l’ho usata in ogni modo, in ogni momento, me la portavo sempre dietro suscitando i commenti inquisitori e gli sguardi increduli della gente. A dirlo ora sembra strano ma, davvero, era uno strano modo di essere madre. Ora si parla anche negli ospedali di contatto continuo, allora era ancora una specie di eresia qui da noi,
giù al profondo nord!

Laura, mamma di Greta, Elia e Ambra.

Io ho avuto la fortuna di avere come puericultrice del consultorio un’insegnante AIMI e mi ha inserita subito nel corso. Agnese era la più piccola (aveva due mesi quando abbiamo iniziato). È stata un’esperienza straordinaria, che in qualche modo mi ha ricollegata a lei, visti i primi giorni post-cesareo dove non riuscivo molto bene a creare ‘relazione’ e le difficoltà con l’allattamento. Credo che dovrebbero farlo davvero tutti, è un’esperienza che lascia il segno...

Lucia, mamma di Agnese

Sono insegnante AIMI.
Ho fatto il corso per insegnanti quando ancora non avevo figli. Appena è nata la mia prima bambina non vedevo l’ora di massaggiarla e l’ho fatto tutti i giorni fino agli 11 mesi di vita. È stata un’esperienza bellissima sia per me sia per lei. L’ho sempre portata ai corsi dopo parto che conduco ed è stato meraviglioso poter condividere finalmente con le altre mamme la gioia del massaggio su un bambino vero (noi insegnanti dimostriamo generalmente il massaggio alle mamme su di una bambola).
Alle mamme e ai papà vorrei dire che il massaggio non è una tecnica, ma un modo stupendo di stare con i propri bambini in armonia e semplicità. Non abbiamo mai tempo di toccarli a lungo: sentire la loro pelle scorrere sotto le nostra mani, il loro profumo e vedere le loro risposte entusiaste anche a pochi giorni di vita, dà una carica fortissima per affrontare anche i momenti più difficili insieme.
È un vero e proprio atto comunicativo che favorisce la relazione con loro.
Ora, che non ho più un neonato da massaggiare e lo devo dimostrare sulle bambole, mi manca ancora di più!

Alessandra, mamma di Bianca e Irene


Un corso di massaggio

Bianca prima del massaggio…


… e dopo!

Tutte le mamme sanno massaggiare i propri bambini: li toccano, li coccolano e li tengono in braccio comunicando loro amore. Per certi versi può sembrare assurdo frequentare un corso dove “si insegna ai genitori a massaggiare il neonato”. Ma in una società come la nostra, dove il tempo per stare cede sempre più spazio al fare qualcosa, trascorrere momenti di tranquillità con i propri bambini è diventato un lusso che pochi si concedono. Spesso si pretende che i bambini non disturbino e che “non facciano perdere tempo” agli adulti; inoltre, massaggiare i bambini non fa più parte delle tradizioni familiari tramandate di generazione in generazione come invece avviene ancora in molti Paesi.

Ecco che allora si comprende meglio perché il massaggio neonatale venga proposto alle famiglie in corsi da frequentare singolarmente o in gruppo. In Italia è presente dal 1989 l’associazione italiana massaggio infantile (AIMI), affiliata all’International Association Infant Massage (IAIM) che riunisce le organizzazioni di tutto il mondo. Questa associazione mondiale è stata fondata nel 1986 da Vimala McClure negli Stati Uniti d’America.


L’obiettivo principale di queste associazioni è di “incoraggiare il contatto e i rapporti umani durante il periodo di crescita del bambino e promuovere ricerche e corsi di preparazione e istruzione in modo che i genitori, gli operatori della prima infanzia e i bambini siano amati, valorizzati e rispettati dalla comunità mondiale” (art. 2 dallo statuto dell’AIMI).


Il corso di massaggio favorisce la relazione genitore/bambino proponendo un nuovo modo di stare insieme in un contesto di condivisione delle proprie esperienze. Il massaggio non è insegnato come tecnica in sé, ma a partire da un’antica tradizione presente nelle culture di molti Paesi. È una pratica riscoperta e valorizzata in questi anni dall’evidenza clinica e da recenti ricerche che ne hanno confermato l’effetto positivo sullo sviluppo del bambino a diversi livelli:

  • Come effetto stimolante: aiuta a sviluppare e a regolare le funzioni respiratorie, circolatorie e gastrointestinali; infatti, spesso, allevia il disagio delle coliche gassose.
  • Come effetto rilassante: aiuta il bambino a rilassarsi e a superare gli stress provenienti da nuove situazioni, insegnandogli a essere consapevole delle tensioni del proprio corpo e a liberarsene.
  • Come effetto psicologico: approfondisce la conoscenza, la comunicazione, la confidenza fra genitore e bambino, facilita lo scambio di messaggi affettivi, la conoscenza dello schema corporeo, la formazione dell’immagine di sé e fa sentire al bambino che è sostenuto e amato. Stimola, indirettamente, momenti di riflessione comune con gli altri genitori e modalità di comunicazione non verbale col bambino: sorrisi, contatto visivo, contatto attraverso la pelle.

Conduco personalmente da dieci anni incontri per famiglie dove propongo anche il massaggio infantile. Ho potuto constatare, sia da professionista sia soprattutto da mamma, quanto sia utile come atto comunicativo fra bambino e genitore. Il massaggio fa parte della memoria più dolce dei genitori, fa parte di quei momenti che non tornano più… Gli incontri di massaggio sono spazi dove le mamme e i papà (ma spesso vengono anche nonni, parenti e amici) si godono il proprio bambino in un contesto informale e protetto. Sebbene esista una sequenza da assimilare, si tratta più che altro di una proposta da cui partire per un’esperienza del tutto personale e autonoma. Il corso di massaggio è l’occasione per confrontarsi con altre famiglie con neonati, dando quindi la possibilità di condividere ansie, paure ma anche gioie e conquiste dei propri bambini.


Come operatrice ho vissuto momenti molto emozionanti durante questi incontri: ricordo una mamma che aveva avuto un parto molto difficile e non era stata sufficientemente sostenuta per l’allattamento al seno. Arrivò al corso molto provata e triste, anche se lei e la bimba, di appena un mese, stavano benissimo. Per questa donna partecipare al corso rappresentava una sorta di riparazione alla brutta esperienza del parto e dell’inizio dell’allattamento.


Dopo tre incontri di massaggio, e dopo averla messa in contatto con una consulente di allattamento, questa mamma ha risolto del tutto i problemi di allattamento e ha dichiarato al gruppo di riuscire finalmente a toccare la sua bambina senza avere paura. Ogni volta che conduco gruppi dopo parto mi sento onorata di fare questo lavoro e di poter osservare mamme e bambini piccolissimi nel divenire della loro relazione. Ogni gruppo ha le sue potenzialità imprevedibili che aiutano sempre ad aumentare l’autostima di tutti, partecipanti e conduttori. Devo tantissimo alle mamme che ho incontrato in questi anni e le ringrazio infinitamente. L’esperienza che noi operatori facciamo soltanto stando insieme alle mamme, ascoltandole e fornendo loro un ambiente in cui esprimersi ed essere sostenute, non ha prezzo.


Tornando al massaggio, la sequenza che viene insegnata nasce dalla combinazione di massaggi provenienti da varie culture del mondo e si ispira alla riflessologia plantare, allo yoga, al massaggio indiano e svedese. È stata messa a punto da Vimala McClure che da sola ha studiato l’accostamento dei massaggi e gli ha dato i nomi. È una sequenza trasmessa tale e quale da tutte le associazioni che aderiscono all’IAIM, come patrimonio comune di diffusione mondiale della pratica del massaggio infantile.

Afferma McClure: “Ognuno, perfino una macchina, può comunicare un massaggio. Ma il nostro programma non riguarda il dare massaggi. Riguarda il principio del tocco nurturing28 (il tocco “buono”, che nutre) tra gli esseri umani. Sappiamo che è una legge naturale il fatto che gli esseri umani e altre creature hanno bisogno del tocco nurturing per sviluppare corpi, menti, spiriti e relazioni salutari durante la vita”29.

Consiglio caldamente a tutti i genitori di non perdere questa magnifica occasione di stare insieme ai propri bambini.

E se poi prende il vizio?
E se poi prende il vizio?
Alessandra Bortolotti
Pregiudizi culturali e bisogni irrinunciabili dei nostri bambini.I bimbi piccoli non hanno vizi. Hanno esigenze fisiologiche, ormai ben conosciute dalla ricerca scientifica, che è bene riconoscere e trattare come tali. Sono tanti i libri dedicati all’accudimento dei bambini piccoli, nella maggior parte dei casi spacciati come manuali di istruzioni, magiche ricette di felicità per genitori e figli.E si sa che la società odierna impone tempi e spazi basati sulla logica della produttività e del consumismo, senza curarsi di proteggere lo sviluppo psicofisico e affettivo dei più piccoli. I bambini si ritrovano così a crescere in un mondo adultocentrico che spesso si dimentica di loro o impone di diventare immediatamente autonomi e indipendenti, di non disturbare, di ignorare fin da subito i propri istinti e la capacità di comunicare i propri bisogni.E se poi prende il vizio? invece non propone metodi identici per tutti. Partendo dal presupposto che ogni genitore sia unico e, in quanto tale, debba mettersi in gioco in prima persona e compiere scelte libere, autonome e informate, per allevare esseri umani che mettano al primo posto le relazioni affettive e l’espressione libera dei sentimenti, il libro invita a riflettere sulla particolarità di ogni famiglia, sul diritto (e il dovere) di educare e allevare i figli in libertà, mettendo da parte i pregiudizi culturali e dando ascolto al proprio cuore e all’istinto.Alessandra Bortolotti, rinomata psicologa perinatale, nel suo libro tratta temi universali quali il sonno dei neonati e dei bambini più grandi, il bisogno di contatto e le più elementari forme di comunicazione tra genitori e figli, basandosi sulle più recenti scoperte nel campo delle neuroscienze. Le ricerche sulla fisiologia della gravidanza, del parto e dell’allattamento sottolineano infatti, in maniera chiara e inappellabile, che rispondere ai bisogni affettivi dei bambini non significa viziarli ma, anzi, costituisce un patrimonio irrinunciabile che può influenzare positivamente l’equilibrio fisico ed emotivo di tutta la loro vita. L’ebook di questo libro è certificato dalla Fondazione Libri Italiani Accessibili (LIA) come accessibili da parte di persone cieche e ipovedenti. Conosci l’autore Alessandra Bortolotti, psicologa perinatale, si occupa da anni di puericultura e fisiologia di gravidanza, parto e allattamento.È consulente di numerose riviste e siti internet dedicati ai genitori e scrive su varie pubblicazioni scientifiche.È ideatrice e curatrice del sito www.psicologiaperinatale.it e conduce incontri post parto in provincia di Firenze, dove vive.