capitolo II

I bambini nascono
“viziati”

Gravidanza e parto influiscono a lungo termine sulla vita emotiva e fisica del bambino e sulla relazione con la madre

Se ripenso al mio parto non posso certo dire che siano stati rispettati i miei tempi! Ho avuto un travaglio molto veloce e dopo circa due ore di spinte, e l’aiuto di un corpulento ginecologo, mio figlio è nato. Me lo hanno fatto vedere un attimo: piangeva disperatamente; non ho avuto nemmeno il tempo di toccarlo che già lo avevano portato via... Intanto l’ostetrica cercava la mia placenta, mi spremeva la pancia, ci frugava dentro e tirava. Ho provato un dolore bestiale, molto più forte delle contrazioni e ho urlato, cosa che ancora non avevo fatto! Così mi hanno addormentato ed eseguito un secondamento manuale. Dopo ho subìto varie visite perché il mio utero aveva smesso troppo presto di contrarsi e quindi mi hanno somministrato ossitocina per provocarmi nuove contrazioni. Poi, finalmente, mi hanno portato Lorenzo. Ho saputo solo dopo che il secondamento può anche avvenire dopo mezz’ora dal parto e che ci sono pratiche che possono favorirlo tipo attaccare subito al seno il bambino e fare massaggi particolari alla pancia; ma ci vuole tempo, e quella mattina c’erano molti travagli in corso... Ora mi chiedo: la mia difficoltà a interagire i primi tempi con Lorenzo e con i suoi pianti inconsolabili poteva essere minore se avessi potuto accoglierlo subito? La disperazione di mio figlio sarebbe stata più sopportabile se, nel momento forse più delicato della sua vita, non fosse stato lasciato da solo a gestirla? Il ‘disturbo’ avvenuto durante il mio parto non mi ha impedito di amare mio figlio, ma ha sicuramente causato sofferenza e insicurezza in entrambi. Sarebbe bello che un giorno questo fosse ‘scontato’ per tutti e che non ci fosse più bisogno di soffrire per capire.

Paola, mamma di Lorenzo

Ho dovuto lottare per un diritto che la natura mi aveva dato: partorire naturalmente! Mi avevano detto che avevo il diabete gestazionale, l’ipertensione gravidica e pure lo streptococco... Bene, siccome nel primo parto mi sono sentita usurpata dall’incompetenza di alcuni operatori, nel secondo ero già pronta e mi sono documentata: ho dimostrato, studi alla mano, che le mie erano situazioni fisiologiche e che i valori di glicemia e pressione si erano stabilizzati; ma qualcuno mi ha chiuso la porta della fisiologia lo stesso! Non tutti però lo hanno fatto! Irene è nata in un altro ospedale, in una bellissima stanza del parto naturale, con un protocollo davvero rispettoso della fisiologia: in acqua, senza un punto, senza alcun intervento medico, in tre ore e non ha nemmeno pianto... Mi sono sentita potente come non mai, non ho subìto l’ansia dei medici, ho sempre contato sulle mie forze! Ho avuto fortuna? Io penso che il problema sia la mancanza di ascolto delle donne e l’assistenza protocollare che, per paura di denunce, annulla il buonsenso. O un parto è fisiologico o non lo è! Non deve bastare cambiare ospedale perché lo sia! Non è colpa di nessuno in particolare, è colpa del sistema: è un compromesso sociale e culturale. Ma alle conseguenze a lungo termine di tali pratiche protocollari chi ci pensa? Quando si esce dall’ospedale si chiude la cartella clinica, ma si inizia la vita insieme!

Alessandra, mamma di Bianca e Irene

Perché parlare di concepimento, gravidanza e parto in un libro sui vizi dei bambini? Perché i condizionamenti culturali influiscono fortemente già in queste prime fasi delle maternità e una donna incinta ha un’occasione irripetibile per riflettere e informarsi, ancora prima di stringere il proprio bambino fra le braccia. Inoltre, le più recenti ricerche ci forniscono elementi importanti per capire il legame che esiste tra le esperienze endouterine e la salute fisica ed emotiva del bambino lungo l’intero corso della sua vita. L’assistenza alla donna in gravidanza, pertanto, dovrebbe tenere conto di questi aspetti e, invece, spesso passa il messaggio che il parto sia una specie di “pacchetto” da scegliere senza conseguenze.


Alle donne incinte vengono fatte domande del tipo: “Che parto farai? Il parto in acqua? Il parto naturale? Il parto senza dolore? O preferisci fare il cesareo?” Sembra che gravidanza e parto siano un traguardo da raggiungere, dopodiché tutto filerà liscio come l’olio. E invece, dopo che il bambino è nato, si torna a casa e si inizia la vita insieme, in famiglia. Il bello è appena cominciato: se gravidanza e parto durano all’incirca nove mesi, la vita con i nostri bambini sarà per sempre.


Non è questa la sede per discutere o dare indicazioni circa epidurale, metodi di assistenza e accompagnamento alla nascita, né per esaminare l’eccesso di medicalizzazione ancora preponderante nel nostro paese. Quello che mi preme è diffondere la fisiologia del periodo primale, definito da Odent come il periodo che va dal concepimento al primo anno del bambino, per dare spunti di riflessione e strumenti di scelta alle donne e alle famiglie.


Qualcuno potrebbe obiettare che non tutti i parti sono fisiologici e che con questo tipo di approccio si rischia di discriminare le donne che subiscono parti operativi e/o cesarei. In realtà, credo che sia necessario un grande salto di qualità: riconsiderare la nascita in maniera globale, per far sì che ogni singola donna sia ascoltata, tutelata e rispettata a prescindere dalle sue scelte e dalla sua esperienza di gravidanza e parto. In altre parole, non dovrebbe contare il luogo o la modalità di parto, quanto il fatto che la donna e la sua famiglia ricevano un’assistenza competente, aggiornata, informata, rispettosa, indipendente e libera dagli schemi istituzionali.

È fin troppo evidente che i protocolli servono a tutelare il personale medico da eventuali cause legali e a uniformare le pratiche assistenziali, ma quando diventano una pura applicazione di regole senza che sia possibile adattarle alla singola circostanza, le donne sono costrette a piegarsi alle Istituzioni. Lorenzo Braibanti, illustre ginecologo, ha messo in luce come sia “insostenibile la contraddizione fra modelli istituzionali di intervento sulla maternità e bisogni espressi dalla donna e dal neonato. [...] Ne sono nati una sfiducia e un rifiuto verso l’istituzione ostetrica che potranno essere anche giudicati eccessivi, ma che per molti anni hanno rappresentato l’unica direzione possibile verso un cambiamento. […] Si può e si deve restituire alla natura (ovvero alla mamma, al compagno, al neonato) la pienezza di un’esperienza che si riappropria dei versanti emozionali, affettivi, sessuali della gravidanza e del parto, ritrovando i termini di intimità e di socializzazione che l’istituzione non può e non vuole assumere come rilevanti o primari”1 .


Il parto, invece, è ancora un evento della vita di cui troppo spesso si considerano secondari gli aspetti affettivi rispetto a quelli protocollari. Nel nostro Paese stiamo assistendo a un vertiginoso aumento dei bambini che nascono con taglio cesareo. Elisabetta Malvagna, mamma di due figli nati in casa, giornalista dell’ANSA e scrittrice, sottolinea come “l’Italia, con quasi il 40%, detiene il primato dei cesarei nel mondo occidentale, triplicati negli ultimi 20 anni. Il bisturi in sala parto raggiunge picchi al Sud (50-60%) e nelle cliniche private, dove sette bambini su dieci nascono chirurgicamente. Non solo: nel 50% dei casi il motivo del cesareo non viene indicato nelle cartelle cliniche; quattro donne su dieci non ricevono informazioni sul loro stato; e una donna su due non ha voce in capitolo al momento del parto.”2


L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) stabilisce la soglia massima del ricorso al taglio cesareo al 10-15%3, soglia che, come abbiamo appena visto, in Italia è superata ampiamente e con grande disparità fra le varie regioni. Se in molti Paesi questi valori sono fuori controllo significa che qualcosa non va, che dobbiamo almeno riflettere.


Afferma Odent a questo proposito: “Porsi l’obiettivo mondiale di ridurre il tasso di cesarei può far rischiare le donne in termini di un aumento di parti lunghi, difficili e con perfusione di ossitocina sintetica di routine. La priorità non è quella di ridurre i cesarei ma quella di conoscere la fisiologia del parto. Se non si rispetta la fisiologia ci saranno conseguenze transgenerazionali in termini di civiltà; è necessario riscoprire i bisogni di base della donna che partorisce, per favorirne il parto fisiologico. Solo così si avrà come conseguenza, e non come obiettivo a sé stante, l’effettiva riduzione del numero dei cesarei” 4. In altre parole, la riduzione dei cesarei sarà un traguardo raggiunto quando l’assistenza alla donna in travaglio terrà conto dei suoi bisogni fisiologici di base.


La fisiologia è intesa qui come terreno comune per tutti i professionisti e per ogni essere umano, ovunque viva e a qualunque nazione e ceto sociale appartenga. In questi anni invece siamo di fronte a un insensato paradosso: dover dimostrare ciò che è normale! Ci troviamo a ri-scoprire la fisiologia e a dover studiare dal punto di vista scientifico ciò che è semplicemente naturale, con un notevole dispendio di risorse fisiche ed economiche. L’approccio fisiologico, per di più, è interdisciplinare e può servire ai vari operatori coinvolti nella nascita per lavorare insieme a partire da conoscenze di base uguali per tutti. Solo così si potrà davvero cambiar rotta e applicare un approccio olistico che comprenderà simultaneamente gli aspetti psicologici, ginecologici, ostetrici e pediatrici inerenti alla gravidanza e alla nascita. Come sottolinea Odent: “Oggigiorno, per quello che riguarda la nascita, noi siamo come un viaggiatore che si accorge di aver sbagliato strada. In questo tipo di situazione, di solito, l’atteggiamento migliore è tornare al punto di partenza, prima che sia troppo tardi, e poi provare ad andare in un’altra direzione. Speriamo non sia troppo tardi. Speriamo che malgrado l’ingenuità umana, gli ormoni dell’amore continueranno a impregnare il corpo dei nostri discendenti. Se c’è futuro per l’amore, c’è anche futuro per l’umanità”5.

Ossitocina e attaccamento

Vediamo allora in cosa consiste questo cocktail di ormoni6 coinvolto nel parto. L’ossitocina (OT) è un ormone ipotalamico che sovraintende alla conservazione della specie. I suoi effetti sono noti soprattutto a livello meccanico. È l’ormone che permette di contrarre l’utero, è responsabile dei riflessi di eiezione7 del feto e del latte materno ed è implicato nel legame parentale e fra pari. Ai più sono meno noti gli effetti dell’OT sul comportamento e il suo ruolo nell’instaurarsi della relazione fra madre e bambino.


Il picco massimo di secrezione di questo ormone si ha nell’ora successiva al parto, la cosiddetta terza fase del parto, spesso ignorata come momento importantissimo per l’instaurarsi di un buon legame madre/bambino: fra loro, subito dopo la nascita, avviene cioè un vero e proprio imprinting emozionale grazie alle secrezioni ormonali di entrambi.


L’ossitocina è definita ormone dell’amore, in quanto coinvolta in ogni atto d’amore che riguarda l’essere umano (concepimento, nascita, allattamento); ormone dell’altruismo o pro sociale, poiché si attiva quando c’è una relazione con l’altro (a questo proposito esiste uno studio8 che dimostra come perfino mangiare in buona compagnia determini rilascio di ossitocina!); infine TOT è nota anche come ormone timido, in quanto viene secreto in condizioni di intimità e di riservatezza. È presente solo nei mammiferi e questo ci spiega perché le cure materne di questa classe di esseri viventi siano simili.


È, poi, secreta in seguito a stimoli non dolorosi che si producono per contatto intimo con altri esseri viventi ed è un antagonista9 dell’adrenalina, un ormone che si attiva invece in situazioni di pericolo e di paura. Nel parto l’adrenalina viene secreta se la donna ha paura, freddo, fame o se intorno a lei ci sono persone molto agitate e preoccupate. Odent afferma nelle sue opere che l’adrenalina è “contagiosa”: vicino a una donna in travaglio ci dovrebbe essere un clima che riduca al minimo gli stimoli di pericolo e paura e, di conseguenza, faciliti in lei la secrezione di ossitocina naturale.

Spesso quando un parto è piuttosto lungo ci si può domandare se i bisogni di base della partoriente siano stati sottovalutati. Odent ne identifica cinque:

  • Sentirsi al sicuro e protetta

  • Silenzio

  • Luce soffusa

  • Non sentirsi osservata

  • Non avere freddo

Se consideriamo, per esempio, le innumerevoli sollecitazioni verbali a cui è sottoposta una donna in travaglio in ospedale, possiamo facilmente capire quanto sia costretta a porre attenzione a ciò che le viene chiesto o detto dall’esterno, piuttosto che concentrarsi sulle proprie sensazioni e sui messaggi che le manda il bambino. Per partorire “bene” serve, al contrario, mettere a riposo la parte razionale del cervello, che implica attenzione verso l’esterno e può ostacolare il progredire del travaglio: la neocorteccia cerebrale.


Da un punto di vista pratico, se vediamo che la partoriente sembra “essere su un altro pianeta”, che fa e dice cose che altrimenti non farebbe mai, o si mette in posizioni che sembrano strane e assurde, siamo certi che non è inibita dall’attività neocorticale, ma è a contatto con le sensazioni provenienti dalla parte più antica del cervello (la paleocorteccia). Soltanto questa ultima porzione cerebrale è utile al parto, mentre la neocorteccia rappresenta un serio ostacolo all’emergere delle capacità istintuali di ogni donna di partorire nel rispetto della fisiologia. Se pensiamo alla maggior parte dei nostri ospedali, dove le donne travagliano in camerate comuni, magari durante l’ora di visita o delle pulizie, si capisce come la fisiologia non venga rispettata e come sia facile deviarne il corso. Le donne sono mammiferi e hanno bisogno di percepire il luogo del parto come una “tana”, cioè un posto dove sentirsi sicure e protette. Nei parti in casa spesso partoriscono in un angolo buio della casa, e negli ospedali si vedono di frequente donne in travaglio che cercano di isolarsi il più possibile, magari in bagno o, se li trovano, in luoghi solitari.

In un bellissimo articolo le pediatre italiane Annamaria Moschetti e Maria Luisa Tortorella illustrano anche il ruolo che l’OT endogena ha sul legame madre/bambino dopo il parto. Ritengo che questo articolo (facilmente scaricabile da internet)10 dovrebbe essere patrimonio di chiunque sia coinvolto nell’evento della nascita, soprattutto famiglie e operatori. Gli effetti dell’OT naturale sul comportamento sono quasi del tutto ignorati dagli psicologi dell’età evolutiva e purtroppo anche da molti medici.


Queste autrici fanno notare come le cure prossimali11, tramite il rilascio e l’azione dell’ossitocina, promuovano il legame madre/bambino. Evidenziano anche come certi interventi che ne riducono l’azione (l’epidurale, il ritardo nell’inizio dell’allattamento e la separazione forzata madre-bambino) siano sconsigliabili, in quanto possono influenzare la formazione di un saldo legame di attaccamento.

L’ossitocina non è l’unico, ma è uno degli ormoni del parto che insieme rappresentano un vero e proprio cocktail di fisiologia della nascita. Vediamone anche altri:

  • Prolattina: ormone che facilita le cure materne, responsabile della produzione del latte.

  • Endorfine: ormoni oppiacei che provocano l’inizio della dipendenza e dell’attaccamento; l’effetto è a lungo termine, cioè non si esaurisce in breve tempo.

Gli ormoni sintetici non hanno lo stesso effetto e interferiscono con la secrezione di quelli naturali, perciò possono condizionare in maniera negativa l’instaurarsi del legame di attaccamento madre/bambino, con conseguenze anche a lungo termine. Questi aspetti non sono abbastanza trattati e tenuti in considerazione dalla maggior parte dei protocolli ospedalieri, perché si dà per scontato – quando è vero l’opposto – che le modalità di nascita siano fini a se stesse, senza ripercussioni sulla sfera affettiva e relazionale nella coppia madre/bambino o che, tutt’al più, queste ripercussioni siano di modesta entità e solo temporanee.

Scrivono invece Moschetti e Tortorella: “La natura provvede a creare le condizioni per le quali il neonato e la madre, attraverso una serie di meccanismi finemente regolati, si legano di un legame ‘amoroso’ che li tiene costantemente vicini e che è, esso stesso, indotto dalla vicinanza […] così che la madre può fornire al bambino le cure adatte alla sua sopravvivenza e alla sua crescita. Le cure prossimali sono uno dei fondamenti della naturale attitudine degli esseri umani a essere efficienti genitori”12.


In seguito, a proposito dell’OT affermano: “L’OT secreta all’atto dell’accoppiamento, nel corso del parto e dell’allattamento, agisce sulla mente dei partner della relazione sessuale e sulla coppia madre/neonato e madre/lattante [...]. Alla nascita, il picco materno ematico di OT, che perdura per un’ora dopo il parto, sembrerebbe costituire la base fisiologica di una sorta di imprinting degli esseri umani: la madre all’atto di ricevere il neonato è per natura predisposta e facilitata all’innamoramento”13. Le autrici forniscono anche alcune indicazioni per la pratica clinica: “È opportuno non interferire con la possibilità delle madri di offrire spontaneamente cure prossimali secondo la loro naturale tendenza, modulata attraverso caratteristiche individuali. Tale promozione passa attraverso la riorganizzazione delle cure ospedaliere: contatto pelle a pelle e rooming-in14 precoce, contatto con la madre e allattamento al seno. Ma anche attraverso politiche sociali di protezione della donna lavoratrice e contrastando operativamente alcuni pregiudizi sulle cure del neonato e del bambino, relativi alla supposta nocività per la salute o lo sviluppo psicologico di pratiche prossimali come il cosleeping o il tenere in braccio. […] Alla luce di tutto questo è proponibile l’implementazione delle cure prossimali anche nelle madri ansiose o depresse; difatti è stato dimostrato che promuovendo il contatto fisico migliora la reattività del bambino e la sua espressione di affetti positivi; sul versante materno, altresì, l’allattamento e il contatto fisico mitigano l’iperreattività dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene [implicato negli squilibri emozionali caratteristici di sindromi ansiose o depressive]15”.

Kerstin Uvnäs-Moberg, professore di Fisiologia a Stoccolma, è una delle più illustri studiose mondiali dell’ossitocina e dei suoi meccanismi d’azione sul comportamento umano. A un recente convegno mondiale sulla nascita questa autrice ha affermato: “L’OT viene diffusa nel nostro corpo attraverso tre vie differenti. Esiste la diffusione per via nervosa, per via sanguigna e quella diretta nel tessuto cerebrale. Anche i recettori per l’OT sono molti ed entrano in azione in maniera molto diversa fra loro. Alcuni sono recettori transitori e altri sono presenti solo durante l’infanzia o lo sviluppo; altri ancora sono presenti per tutta la vita.


Gli organi bersaglio di questo ormone sono: mammella, utero, ovaio, testicolo, prostata, rene, cuore e sistema vascolare, timo16, cellule adipose, pancreas, surrene. L’OT agisce sullo stato emotivo, diminuisce l’aggressività, la sensazione di paura, abbassa la pressione sanguigna e la frequenza delle pulsazioni cardiache, aumenta la curiosità, il senso di benessere e le capacità mnemoniche. Oltre a ciò, è un ansiolitico naturale, innalza la soglia del dolore, abbassa il livello sanguigno del cortisolo (l’ormone dello stress) e aumenta del 50% la velocità di guarigione delle ferite. Essa accresce l’interesse sociale e la capacità empatica, aumentando la capacità della donna di fidarsi del mondo esterno. Gli effetti a lungo termine dell’ossitocina sono più duraturi se essa viene rilasciata in maniera ripetuta, come per esempio durante tutto il periodo dell’allattamento; quindi l’ossitocina protegge la salute della donna.


È un ormone fondamentale nei primi momenti (minuti, ore e primi giorni) dopo la nascita [anche in caso di parto non fisiologico]17. Attraverso i suoi effetti, essa promuove l’attaccamento madre/figlio, l’allattamento del bambino e il benessere della donna. È un ormone che agisce a doppio senso: sia dalla mamma al bambino sia viceversa. Così la madre ha un adattamento fisiologico che la rende più adeguata a prendersi cura del bambino”18.


Molto spesso, le donne in travaglio subiscono una somministrazione di OT sintetica per indurre o velocizzare il parto, o per facilitare l’espulsione della placenta dopo che è nato il bambino. Odent mette in guardia dai possibili effetti inattesi di questa pratica: “Per quanto riguarda la perfusione di OT sintetica siamo davanti a un grosso problema. In quasi nessuno studio relativo al parto si registrano le perfusioni di OT sintetica; non abbiamo una reale statistica di quante donne nel mondo la ricevano. Varrebbe la pena includere questo dato nelle statistiche in quanto abbiamo prove che l’OT sintetica attraversa la placenta nelle due direzioni ma, preferibilmente, dalla madre al bambino. Il fegato del bambino non riesce ancora a metabolizzarla e quindi questa sostanza raggiunge la barriera ematoencefalica, che non è ancora matura e si trova sotto stress ossidativo: arriva cioè al suo cervello e lo penetra. Questo è molto pericoloso poiché alcuni studi provano che i recettori per OT presenti nell’utero, nel seno della madre e nel cervello del bambino diverranno meno sensibili all’OT naturale per molto tempo, se durante il travaglio sono bersagliati dall’OT sintetica. Ciò si verifica poiché travaglio e parto sono periodi critici degli esseri umani, in cui si decidono molti aspetti che hanno ripercussioni sulla salute di tutta la loro vita. Dobbiamo inoltre ragionare su basi transgenerazionali, e non solo a lungo termine relativamente a un singolo individuo. Il rischio, quindi, è che TOT naturale diventi a lungo andare un ormone superficiale, se continuiamo a inibirne l’azione spontanea. L’OT sintetica, inoltre, desensibilizza molto anche i recettori dell’OT naturale presenti nel seno e può perciò condizionare l’allattamento. Oggigiorno ci sono molte campagne per l’allattamento al seno, ma la loro efficacia può essere vanificata se non indaghiamo ulteriormente gli effetti della perfusione di OT sintetica nel parto e subito dopo la nascita. Spesso si usa anche nella terza fase del parto, quando il bambino è già nato, per favorire l’uscita della placenta, proprio nel picco di massima produzione materna”19.

A questo proposito, lo stesso autore continua: “La maggior scoperta scientifica del XX secolo è curiosa. Abbiamo scoperto l’importanza della prima ora dopo la nascita e che il neonato ha bisogno della madre e deve stare con lei senza essere disturbato. Fino a cinquant’anni fa la separazione tra madre e bambino dopo la nascita era la regola in moltissime culture; le donne davano per scontato che i bambini dovessero stare nelle nursery. Le società umane agiscono spesso attraverso credenze e rituali che separano madre e bambino e non avvalorano l’istinto materno. La trasmissione di teorie scientifiche è una delle forme di controllo culturale più sofisticate e senza precedenti. A un certo punto le ricerche sui mammiferi e sull’imprinting emozionale nel periodo perinatale hanno studiato cosa succedeva a lasciare madre e cucciolo insieme: gli ormoni fluttuavano liberamente, il colostro veniva secreto e succhiato con facilità. Se non si interferisce nel contatto fra madre e bambino subito dopo la nascita, questo trova da solo il seno entro un’ora. Quindi la più importante scoperta scientifica è che il bambino appena nato ha bisogno di sua madre e che la madre va lasciata in pace! Ma i bisogni di base della mamma e del bambino si scontrano con gli ostacoli culturali. Perciò, dobbiamo stare alla larga dalle dottrine e dalle teorie e conoscere la fisiologia che è transculturale! Essere mammiferi significa andare contro i condizionamenti culturali. Diventa importante quindi non esprimere opinioni ma studiare i fenomeni in profondità, così come sono”20.

Da questa breve analisi degli effetti dell’OT naturale sul comportamento materno e sul bambino, si evince come i bambini nascano programmati alla vicinanza con la madre per molti mesi/anni e come la madre stessa sia equipaggiata, grazie agli ormoni naturali, ad affrontare la maternità. Ecco perché i bambini nascono “viziati” e non lo diventano! Ciò che intendiamo come “vizi” dei bambini altro non sono che bisogni primari irrinunciabili di ogni cucciolo d’uomo. Sono bisogni d’amore che trovano conferma nella fisiologia e nelle secrezioni ormonali coinvolte nel parto e nell’allattamento. Non sono opinioni o mode educative, ma norme biologiche imperative da rispettare come base della salute fisica e affettiva di ogni essere umano, lungo tutto il suo ciclo vitale.


Allora potremmo affermare che i bambini nascono per essere amati e che i vizi non c’entrano in quanto sono sovrastrutture culturali e basta; sviano gli istinti di accudimento dei genitori e creano malintesi educativi fin dai primi istanti di vita dei loro figli. Ecco perché ho voluto andare all’origine dei bisogni dei bambini e ho parlato di gravidanza e parto, cercando di sgombrare il campo dai pregiudizi: chi ben comincia è a metà dell’opera, grazie anche al rispetto della fisiologia e del ruolo dell’OT materna. Ovviamente la fisiologia è condizione necessaria ma non sufficiente, in quanto è altrettanto necessaria la relazione diretta e il contatto fisico fra madre e bambino. Vorrei rassicurare le mamme che avessero avuto un parto difficile che, attraverso la relazione con il bambino, con l’allattamento e un accudimento ad alto contatto, molto può essere recuperato. Il parto non è un marchio indelebile come molti vogliono far credere. Le risorse delle donne sono infinite e imprevedibili, perciò anche una brutta esperienza, con il tempo e magari ricorrendo all’aiuto di un bravo psicologo, può essere vista come un’occasione di crescita interiore ed essere trasformata e integrata senza traumi nella propria storia personale. Vorrei anche che le mamme in attesa potessero riflettere sul fatto che sono le protagoniste della loro gravidanza e del loro parto, così come dopo saranno le principali esperte dei loro bambini. Delegare, quando non è davvero necessario, impoverisce il legame con il figlio fin dall’inizio e può portare a delegare ancora ogni qualvolta ci si trovi di fronte a difficoltà anche banali nell’accudimento dei bambini.


Pratiche assistenziali che promuovano al massimo l’empowerment delle donne e delle famiglie saranno un guadagno per tutti: per i medici, che si troveranno di fronte mamme più autonome e studi meno affollati; per le mamme stesse, che saranno più libere di esprimere le proprie competenze e di rivolgersi ai medici soltanto quando davvero necessario; e per i bambini, che si sentiranno accolti e rispettati fra le braccia sicure e amorevoli di chi li ha generati.

Ascoltare le donne e aiutare l’emergere delle loro competenze

Avendo più di 35 anni quando sono rimasta incinta, tutti si sentivano in dovere, senza che io lo chiedessi, di avvertirmi ‘per il mio bene’: dovevo assolutamente sottopormi ad accertamenti prenatali dal ginecologo più famoso (e costoso, ma quando c’è la salute di mezzo non si deve badare a spese); avevo le caviglie gonfie? Poteva trattarsi di gestosi; volevo lavorare fino all’ottavo mese? Non ce l’avrei mai fatta, troppo caldo (la data presunta del parto era il 20 settembre); parto non medicalizzato? Una follia! poi, povera me, probabilmente non sarei più tornata magra: questo è il destino di chi ha figlie femmine... E che pancia enorme,
sicura che dentro non ce ne fossero due di bambini? Io lasciavo che parlassero, stavo bene e sapevo che sarebbe andato tutto bene, non mi importava delle loro chiacchiere. La cosa che più mi piaceva era immaginare come fosse stare nella pancia: il liquido amniotico che avvolgeva Angela come un abbraccio, i rumori che arrivavano dall’esterno morbidi e la luce che filtrava rosa
attraverso la pelle (così avevo letto...).

Rossella, mamma di Angela

ғEro incinta di quattro mesi della mia prima figlia quando sono stata madrina al battesimo di Simone. Ero molto emozionata e felice. Al ricevimento dopo la cerimonia, con mio profondo stupore, molte donne che si accorgevano del mio stato di gravidanza mi hanno raccontato i loro parti, spesso molto drammatici. Sinceramente avrei voluto che qualcuno mi ascoltasse e mi chiedesse come stavo; quei racconti mi hanno dato molto fastidio. Al mio parto mancava ancora molto e tutti sembravano sapere cosa sarebbe successo a me!ӓ

Alessandra, mamma di Bianca e Irene

La gravidanza, soprattutto la prima, è un momento unico e irripetibile per la donna e per tutta la sua famiglia. Passo dopo passo la mamma, stando a contatto con se stessa, ascoltando il proprio corpo che cambia e le proprie sensazioni, accogliendo tutto quello che ha dentro, scoprirà emozioni di ogni genere: senso di potere, paure, momenti di sicurezza o in cui sembra di non farcela. Spesso sentirà il bisogno di informarsi o di confrontarsi con esperti, familiari e conoscenti su molti aspetti della gravidanza, del parto e del futuro accudimento del bambino.


Ascoltare se stesse sarebbe ancora più facile se le donne fossero ascoltate dagli altri. La donna in stato interessante diventa interessante davvero, soprattutto per altre donne già diventate mamme; diventa il fulcro di parole spesso inutili e ridondanti, di esperienze altrui riportate come presagi di cui tenere assolutamente conto. In definitiva, capita molto di frequente che altri si sentano padroni dell’esperienza unica e irripetibile della donna che hanno davanti senza, il più delle volte, averle dato ascolto. La donna in gravidanza ha bisogno di vivere la propria esperienza avendo fiducia nelle proprie sensazioni ed emozioni; di essere stimolata e incoraggiata nell’espressione di ciò che sta cambiando dentro di lei e di rafforzare il proprio senso di autonomia e di unicità attraverso il confronto con altre donne o con gli esperti. Troppo spesso, se questo non accade, donne non ascoltate quando erano incinte colgono proprio l’occasione del confronto con un’altra donna in gravidanza per rielaborare la propria esperienza, creando un circolo vizioso che non serve a nessuno.


Pertanto, operatori sanitari e familiari dovrebbero tenere ben presente la necessità della donna incinta di essere ascoltata. Più di tanti racconti, libri o giornali da leggere passivamente, forse sarebbe necessario creare spazi di confronto che aiutino le donne a esprimersi e a integrare dentro di sé i veloci cambiamenti che la gravidanza propone e impone. I corsi di accompagnamento alla nascita o quelli dopo parto dovrebbero tenere conto di questi aspetti affettivi e intimi delle donne. Ho visto incontri dove 30 donne assistevano insieme a lezioni didattiche sulla fase dilatante o sulle posizioni più vantaggiose per il travaglio, senza poter parlare ma solo ascoltare. Queste nozioni sono importanti tanto quanto la maniera in cui vengono recepite ed elaborate da ogni singola persona. La donna incinta che frequenta un corso di accompagnamento alla nascita deve potersi esprimere in un contesto protetto e in presenza di persone competenti che possano contenere tali elaborazioni.

Afferma Braibanti a questo proposito: “Se fosse vero che basta spiegare alla donna com’è fatto l’utero, quali sono le fibre muscolari che si contraggono e come si susseguono le varie fasi del parto, le ostetriche partorirebbero benissimo. [...] Ogni volta che si cerca di dominare un atto involontario riducendolo a una manovra cosciente (sia questa una condotta innata come il deglutire o un comportamento appreso come lo scrivere o l’andare in bicicletta), in realtà si diventa più impacciati e maldestri. Chi ha l’enorme responsabilità di ‘preparare’ le donne al parto, deve tener conto di tali elementi: rispettare il profondo, perché lì è scritta la verità. La donna partorisce bene se interroga il suo profondo”21.
Michele Grandolfo, dirigente di ricerca presso l’Istituto Superiore di Sanità, ha sostenuto più volte come non sia sufficiente che il personale sanitario padroneggi i contenuti, ma che sia ancora più importante il modo in cui questi vengono trasmessi. Se gli operatori della nascita si pongono come “detentori della verità”, la donna tenderà ad assumere una posizione subordinata e a delegare la propria esperienza, senza essere incoraggiata a esprimere le proprie competenze. Poiché le persone mescolano le informazioni scorrette con il proprio vissuto e con il momento di vita che stanno attraversando, gli operatori sanitari dovrebbero mettere in atto, più che una modalità taumaturgica, una sorta di “maieutica” di ispirazione socratica. Questo termine viene dal greco maieutiké e indica “l’arte della levatrice” (o “dell’ostetricia”). L’arte dialettica, cioè, viene paragonata da Socrate a quella della levatrice: come quest’ultima, il filosofo di Atene intendeva “tirar fuori” dall’allievo pensieri assolutamente personali, al contrario di quanti volevano imporre le proprie vedute con la retorica e l’arte della persuasione. Sarebbe perciò molto meglio aiutare la donna a tirare fuori le proprie competenze e le proprie riflessioni piuttosto che inculcarle verità a lei estranee.
Questo tipo di approccio la aiuterà nel processo di empowerment personale e non provocherà dipendenza dal medico o dal personale sanitario. Ancora Braibanti sottolinea che “la madre iperprotettiva nasce dall’insicurezza. In un’indagine retrospettiva sulle madri iperprotettive potrebbe essere molto spesso trovato un errore di comportamento medico […]. In questo modo possono essere sollecitati nella donna sentimenti di inadeguatezza rispetto alla propria capacità di far nascere e di prendersi cura del bambino. Tutte le volte che si sente colpevole o inadeguata, può scattare la disforia depressiva cui segue inevitabilmente l’iperprotettività. […] Tutto quello che rafforza l’autostima della madre è importante nella preparazione al parto e nel momento del parto”22.

Ognuno eserciterà così il suo ruolo nel rispetto di quello dell’altro. La delega al sapere medico lascerà il posto all’autonomia e alla consapevolezza di potersi rivolgere e di essere ascoltati dagli esperti se necessario, ma anche di poter contare sulle proprie forze e sulle proprie risorse interiori. Poiché la scienza si contraddice di frequente e non esiste una verità assoluta né in medicina né in ostetricia, da parte degli operatori non serve un atteggiamento di potere e di gerarchia; al contrario sarà certamente più vantaggioso favorire l’autonomia e la sicurezza delle persone, intese come individui unici e non soltanto come massa indifferenziata di utenti.


Se si dà l’impressione di avere la verità in tasca la donna si chiude, si sente subordinata e inferiore. Rifuggirà, inoltre, dal mettersi in gioco personalmente anche dopo che è nato il bambino, perché sarà troppo difficile e faticoso andare controcorrente, contro il sapere medico in una società basata sul consumo e sulla mercificazione, che trascura gli affetti, le relazioni e il mondo interiore delle persone, bambini in primis.

Endogestazione

L’endogestazione è il periodo – dal concepimento alla nascita – in cui la gestazione ha come ambiente l’utero materno. Questa fase culmina con la nascita di un bimbo incapace di sopravvivere senza un legame profondo, sia fisico sia emotivo, con la madre o con altri adulti che si prendano cura di lui. Il cucciolo d’uomo nasce molto più dipendente e immaturo di altri mammiferi. È per questo motivo che si può intendere la nascita come una tappa di continuità fra la gestazione endouterina e la fase di vita successiva. Braibanti ha proposto di parlare di esogestazione per individuare il periodo che segue la nascita, quando il bambino evolve a poco a poco grazie all’interazione con l’ambiente e alle relazioni affettive che instaura con chi lo accudisce. Interpretare in questo modo lo sviluppo e la crescita del neonato lega indissolubilmente la vita uterina con quella dopo la nascita e ci fa capire meglio i bisogni primari dei neonati. In questo paragrafo desidero occuparmi del legame che si stabilisce in utero tra la madre e il bambino. Questo legame avrà conseguenze per entrambi lungo tutto il corso della vita. Non penso sia necessario violare il sacro spazio uterino e indagare la struttura della “psiche” del feto, sarebbe come voler salire all’ultimo piano di un edificio prima di averlo costruito.

Penso anche che non sia utile cercare di prevederne il carattere o la fisionomia. Aspettare un bambino ha un significato profondo. Vuol dire dargli tempo e fiducia, fin dai suoi primi istanti di vita dopo il concepimento. Significa non avere fretta e non voler precorrere le tappe della sua crescita. Perché nel nostro Paese siamo arrivati a una media ben più alta delle classiche tre ecografie a gravidanza? A questo proposito il noto pediatra neonatologo francese Jean Pierre Relier è categorico: “Fare un bambino richiede tempo, pazienza e serenità, tutte cose che nella nostra società occidentale e frenetica vanno scomparendo, e delle quali le donne hanno voluto credere di poter fare a meno. […] Se la tecnologia talvolta può aiutare la natura a sopperire a certi suoi difetti, essa comunque non può mai sostituirsi a ciò che una madre, nel corso di una gravidanza vissuta in armonia, dà a suo figlio, e che determina in parte la sua salute e il suo equilibrio futuro”23.


Pertanto, mi interessa riflettere sugli aspetti affettivi che legano madre e bambino fin dal concepimento e ben oltre la nascita. Il ruolo del legame affettivo che si instaura nel corso della gestazione è importante quanto gli aspetti biologici e genetici. Il bambino nasce completo e unico. Di solito, alla nascita, ne misuriamo peso, altezza e indice di Apgar24 come parametri indicatori del suo stato di salute generale. Nessuna di queste misure comprende però lo stato emotivo del bambino: eppure esiste anche quello, già da prima della nascita. Il pediatra italiano Alessandro Volta ha suggerito di ampliare il punteggio Apgar, comprendendo anche i punteggi 11 e 1225 come indicatori dello stato di benessere psichico del neonato. I tempi necessari per raggiungere l’Apgar 12 rappresenterebbero un ottimo indicatore di assistenza orientata a un accudimento del bambino che tenga conto anche del suo stato emotivo, permettendo di far entrare questa pratica a tutti gli effetti nelle routine assistenziali dei punti nascita.


Ciò nonostante, lo stato emotivo del bambino continua spesso a essere trascurato prima, durante e dopo la nascita. Dato che un bambino inizia la propria vita nel ventre di sua madre e che questa è una persona che prova emozioni, come si può, ai giorni nostri, ignorare il ruolo dell’affettività in gravidanza e nel parto?


Relier continua: “L’amore è un principio vitale come l’ossigeno e gli aminoacidi. La mamma dovrebbe prepararsi a un legame affettivo molto forte, che dovremmo chiamare ‘bio-affettivo’ tanto il fattore biologico e quello affettivo sono legati. […] Esistono tre dimensioni non scindibili che collaborano in gravidanza: la componente affettiva (la paura, l’angoscia, la gioia) condiziona quella biologica sotto forma di secrezioni ormonali; le secrezioni ormonali, d’altro canto, determinano sentimenti diversi (angoscia, depressione, euforia, ecc.)”26.

Ecco perché alla nascita bambino e madre sono sincronizzati, per esempio, nel sonno; ecco il motivo della capacità specifica delle madri di calmare e comprendere i bisogni dei propri figli: hanno avuto nove mesi per stabilire una comunicazione affettiva ed equilibri fisiologici simbiotici che continuano anche dopo il parto.


La nascita non è soltanto il traguardo dell’attesa, ma rappresenta anche un cambiamento di stato dell’esistenza uterina. Quando nasce, il bambino ha già conosciuto una vita emotiva propria e le emozioni della madre. La donna incinta si riappropria di uno stato infantile che le permette di sintonizzarsi meglio sul bambino. Lo stato di gravidanza la riporta a una dimensione personale spesso accantonata e la induce a rielaborare i rapporti con i familiari. Gli ormoni della gravidanza la aiutano ad accentuare la sensibilità verso modi di comunicazione non verbali che saranno fondamentali poi per relazionarsi col neonato. Allan Shore, neuropsicanalista, membro del Dipartimento di Psichiatria e delle Scienze del Comportamento alla Geffen School of Medicine e del Centro per la cultura e lo sviluppo del cervello alla UCLA (Università della California), ha il merito di aver integrato le neuroscienze con le altre discipline che studiano la nascita e con la psicologia dello sviluppo. Questo autore utilizza la teoria dell’attaccamento come modello fondamentale e propone una teoria degli affetti che comprende la vita uterina e prosegue lungo l’intero arco della vita. Shore ha unito nozioni psicologiche a nozioni biologiche e anatomiche e ha illustrato come la struttura del cervello fetale sia collegata alla sua funzione. È la base per capire come le interazioni precoci fra madre e bambino, comprese quelle uterine, influenzino lo sviluppo del cervello del bambino e modulino in parte anche quello della madre.


Questo autore propone un modello multidisciplinare complesso che ha il merito di considerare l’essere umano nella sua interezza e nelle sue interazioni con l’ambiente, fin dal concepimento. Afferma Shore: “Se noi osserviamo il cervello al concepimento, la sua crescita nel periodo prenatale e poi al momento della nascita, si nota una crescita massiccia che interessa i primi due anni di vita; si passa dai 400 grammi alla nascita fino agli oltre 1000 grammi all’età di dodici mesi; in nessun altro periodo della vita il cervello cresce in modo così rapido. Tutto ciò accade tra il primo trimestre di gravidanza e il secondo anno di vita. La crescita interessa il periodo prenatale, perinatale e postnatale ed è determinata da qualcosa di più di un semplice programma genetico. L’ambiente influenza in maniera molto forte questo programma genetico. [...] I cambiamenti del cervello continuano fino all’età adulta. Nei primi due anni di vita sono i fattori ambientali che danno un notevole contributo mediante la relazione madre/bambino.

Questa interazione che coinvolge le emozioni ha un impatto diretto sul genotipo27. L’idea che tutto ciò che avviene prima della nascita sia genetico e tutto ciò che accade dopo la nascita sia appreso, è una delle grandi bugie della scienza”28.


Anche Odent sottolinea il ruolo simultaneo dei fattori genetici e ambientali nello sviluppo dell’individuo, fin dal concepimento: “I progressi scientifici degli ultimi anni riguardano soprattutto l’epigenetica e cioè la relazione tra l’uomo e l’ambiente. Al concepimento ogni bambino riceve materiale genetico dai genitori e, in seguito, in periodi critici per lo sviluppo (subito dopo il concepimento e vicino alla nascita) alcuni geni si esprimono mentre altri diventano silenti. Il DNA non si modifica mai perché i geni sono sempre gli stessi durante tutta la vita, ma alcuni di loro hanno una specie di ’etichetta’ che li fa esprimere. Questi geni si possono modificare in seguito all’incontro coi fattori ambientali (anche intrauterini): questo è il meccanismo dell’epigenetica. Di solito la domanda che gli scienziati si ponevano era: qual è il ruolo dei fattori genetici e di quelli ambientali nell’origine delle malattie? Ora ci si chiede quale è la cronologia di questi fattori; quale è il periodo critico per la combinazione di questi fattori nell’origine delle malattie o dei tratti caratteriali delle persone”29.


Shore spiega anche l’importanza di studiare il ruolo dell’emisfero destro30 del cervello fin dall’epoca fetale. Infatti: “L’emisfero destro è più connesso ai processi emozionali del sistema limbico31 ed elabora le emozioni in un modo che l’emisfero sinistro non riesce a fare. […] L’emisfero sinistro non inizia la sua maturazione fino al 18° mese di vita, mentre il destro è quello che matura per primo ed è più connesso al corpo. Questo emisfero si sviluppa dal periodo prenatale fino al primo anno e mezzo di età. Ciò significa che tutte le esperienze precoci relative alla relazione d’attaccamento sono impresse nella memoria dall’emisfero destro che, infatti, è dominante nei primi tre anni di vita. In genere dopo il quarto anno l’emisfero sinistro diventa dominante come negli adulti”32.

Queste affermazioni sono di fondamentale importanza per capire la ragione per cui i neonati e i bambini fino a tre anni hanno necessità che si riconoscano i loro bisogni emotivi e di rassicurazione: servono per la maturazione del loro cervello. Se il neonato chiede di essere preso in braccio non è viziato, furbo o tiranno: ne ha bisogno! È assurdo pretendere dai neonati comportamenti razionali, logici e analitici se ancora le loro strutture cerebrali non comprendono queste capacità. Non si può pensare alla nascita o ai primi mesi come a un periodo in cui si deve insegnare al bambino a “ragionare” o a imparare razionalmente un metodo. Non si può pretendere che un bambino di sei mesi impari a dormire tutta la notte, perché lui sente la necessità di svegliarsi e di essere rassicurato. Non si può applicare un modello adulto a un bambino il cui cervello è una struttura in crescita e in trasformazione continua grazie alle relazioni affettive e ambientali che lo circondano. Perciò, se vogliamo assecondare la crescita neurofisiologica delle cellule nervose dei nostri bambini, dobbiamo partire dal presupposto che il loro cervello funziona diversamente da quello di un adulto e ha bisogno della nostra presenza e della nostra regolazione affettiva per crescere. Non serve allenare il bambino all’indipendenza né di giorno né di notte, serve esserci e stare con lui, toccarlo, allattarlo, parlargli e rassicurarlo quando avrà paura di un mondo troppo adulto e sconosciuto per lui. Naturalmente ciò non significa che gli adulti debbano essere “schiavi” dei neonati; ogni madre saprà con il tempo quando e come interagire con il proprio bambino. L’importante è tenere presente che il bambino cerca di comunicare sempre come può, non sfida, non è furbo e non è in malafede; è competente, chiede quello che gli serve per crescere e sarà normale per lui aumentare la sua indipendenza in modo spontaneo a partire dalla pronta risposta che gli adulti daranno ai suoi bisogni primari.


Queste semplici nozioni neuroscientifiche dovrebbero sgombrare il campo dai pregiudizi che vogliono i bambini capaci di essere “indipendenti” e “ragionevoli” fin dalla nascita. Non è un caso che i tre anni siano proprio l’età media in cui i bambini acquistano la capacità di dormire tutta la notte e si staccano da soli dal seno, se sono allattati. Finché queste informazioni non saranno sufficientemente note alle famiglie, finché i pediatri non divulgheranno questi normali meccanismi del funzionamento e della struttura del cervello dei bambini, continueremo a rischiare di sottovalutare i bisogni primari dei nostri figli scambiandoli per potenziali vizi e a costruire una società che trascura l’affettività e l’empatia.


Come abbiamo accennato, l’emisfero sinistro è considerato dominante per l’adulto ed è la sede del linguaggio verbale, mentre l’emisfero destro è la sede della comunicazione non verbale. Approfondirò questi temi nel quarto capitolo; qui è sufficiente sottolineare che anche per la mamma sarà utile ripensare a forme comunicative infantili basate sul linguaggio non verbale e sulle attività dell’emisfero destro.


Fin dalla gravidanza, tutti questi cambiamenti permetteranno alla donna di orientarsi psicofisiologicamente verso la relazione con la sua creatura. Chi le sta intorno dovrebbe aiutarla in questo processo e favorirne la presa di coscienza: si tratta di un percorso normale e indispensabile, per arrivare preparata al momento in cui sarà necessario riconoscere e rispondere ai bisogni del neonato. Anche la mamma che sta benissimo fisicamente a un certo punto della gravidanza sente che la sua vita deve rallentare verso tempi più “infantili”. Se la nostra società vive “con l’orologio”, la donna incinta dovrebbe provare a farne a meno come allenamento per ciò che la aspetta nel parto e dopo che il bambino sarà nato. Lo stile di vita che una madre conduce in gravidanza influisce certamente sullo sviluppo del bambino: i momenti di attività e di riposo determinano all’inverso quelli del bambino. Molte madri notano che, di solito, quando sono in movimento il bambino sembra stare fermo, e quando si riposano iniziano a percepire i movimenti fetali. Questa altalena stimolatoria serve al bambino per calibrare i suoi ritmi di attività già in utero. La simbiosi madre/bambino ha origine nell’utero, come fondamenta di ciò che sarà necessario dopo la nascita; perciò è affatto incomprensibile come si possa far coincidere la nascita con la forzata separazione fisica tra madre e bambino. Casomai, madre e bambino hanno bisogno di stare insieme per ritrovarsi e riconoscersi anche fuori dall’ambiente uterino. Come abbiamo già visto, il neonato è geneticamente e affettivamente allenato e predeterminato per restare vicino a sua madre. Se ci vogliono nove mesi per sintonizzarsi col bambino fino a poterne soddisfare i bisogni dopo la nascita, non possono bastare poche ore per decretare l’indipendenza di entrambi!


Fedor Freyberg, ginecologo dell’Università di Bratislava e Past-President della ISPPM (International Society of Prenatal and Perinatal Psychology and Medicine) di Stoccolma, ha studiato il periodo prenatale come opportunità unica di prevenzione primaria di disturbi psicologici, emozionali e fisici. Secondo questo autore è necessario estendere la definizione di ciclo di vita al periodo prenatale, poiché è in base alle esperienze in utero che si potrà comprendere meglio la vita fisica ed emotiva dell’individuo.

Scrive Freyberg: “È sorprendente vedere quanti psicologi, ostetriche, ginecologi e altri professionisti considerano ancora l’utero semplicemente come un ‘contenitore anatomico per il bambino’. Nonostante migliaia di studi scientifici, ci sono ancora professionisti della nascita inconsapevoli dell’‘inquinamento tossico’ a cui potenziali pericoli psicologici e sociali espongono il bambino non ancora nato. […] La vita umana dovrebbe essere considerata come un indivisibile continuum in cui ognuna delle fasi di sviluppo è ugualmente importante e tutte sono interdipendenti e inseparabili dall’insieme della vita di un individuo. […] Per comprendere cosa accade durante la vita prenatale, c’è bisogno di un nuovo linguaggio e di una nuova teoria scientifica. [...] Non è possibile separare nessuna fase di sviluppo di un essere umano dal resto della sua vita. Il continuum della vita è uno dei bisogni più fondamentali nel corso della vita umana e assicura il mantenimento di omeostasi33 e di equilibrio”34.


Questo autore parla di “regressione creativa” della madre per stabilire un dialogo intimo con il proprio bambino in utero e sottolinea come “La futura madre ha bisogno di essere cosciente di questi poteri creativi e di sapere come usarli, in modo da essere meglio dotata per dirigere e accrescere tale impresa creativa. […] Bisogna attuare anche un cambiamento radicale dell’assistenza prenatale al fine di tener conto non solo dell’aspetto medico, ma anche dello stato psicologico e delle condizioni della vita sociale di entrambi i genitori”35. Questi aspetti possono aiutarci a dare un senso diverso alla vita prenatale e a capirne i collegamenti con la vita extrauterina. Per una mamma, sapere che il neonato non è strutturalmente così diverso da colui che ha tenuto in grembo per nove lunghi mesi, può farla sentire molto meno inesperta, da un punto di vista emotivo, di quanto le viene fatto credere da tanti manuali di puericultura. Di più, la madre e il padre possono considerare la gravidanza come un’occasione per rivedere il proprio sviluppo psicologico interiore. Ludwig Janus, medico chirurgo tedesco, psicanalista e psicologo prenatale, riferisce36 che i due terzi dei suoi pazienti adulti sottoposti a psicoterapia avevano subìto traumi psicologici risalenti alla vita prenatale e perinatale. Sono numerosissimi gli psichiatri e gli psicoterapeuti che, riscontrando questa stessa situazione nel corso delle terapie, hanno presentato nelle sedi congressuali, o pubblicato, i risultati delle loro esperienze, avvalorati da significativi casi clinici.


Ciò che potrebbe influenzare negativamente lo sviluppo psicofisico del feto non è un evento traumatico o luttuoso in sé, ma l’intensità di uno stress prolungato associata al senso d’abbandono che la madre gli potrebbe comunicare. Thomas Verny, psichiatra americano, scrive a questo proposito: “Quello che mette più in pericolo il nascituro non è tanto la reazione fisicoormonale immediata della madre a un avvenimento tragico, quanto la reazione successiva a livello emotivo se è a lungo termine. Se la donna rimane tanto sconvolta dal dolore e dalla perdita da rinchiudersi in se stessa, il bambino ne soffrirà terribilmente. Ma se, invece, mantiene aperti i canali di comunicazione con il figlio inviandogli messaggi rassicuranti, il bambino potrà continuare a crescere rigoglioso”37.

Davvero non si può più ignorare come le esperienze perinatali rientrino nel campo che ogni psicoterapeuta dovrebbe indagare durante il suo lavoro coi pazienti e come la gravidanza sia una fase della vita in cui certe dinamiche irrisolte possano riemergere ed essere rielaborate con strumenti unici e particolarmente utili per la loro risoluzione.


Freyberg suggerisce che l’individuo debba essere inteso secondo una visione olistica e globale, inclusiva delle dimensioni fisiche, biologiche e sociali, e considerando anche i temi di salute e malattia. In altre parole, la salute dell’individuo si costruisce molto prima della sua nascita, in quanto l’importanza della storia familiare individuale diventa sempre più evidente. Freyberg afferma: “Dobbiamo batterci per la rinascita dell’unicità dell’individuo umano in un mondo in cui l’individuo e l’ambiente dovrebbero convivere in un’unità spirituale e in uno stato di pace, sia etnica sia ecologica.”38 In conseguenza di ciò, l’autore inserisce il bisogno di prendersi cura di qualcuno, e che qualcuno si prenda cura di noi, tra i bisogni basilari dell’essere umano e sottolinea come questa necessità sia “uno dei prerequisiti per la nostra sopravvivenza che determina l’omeostasi e l’equilibrio fra noi e il nostro ambiente. […] Il mondo può essere cambiato solo se modifichiamo il modo di intendere il rispetto per la vita fin dalle sue prime manifestazioni. Il cambiamento inizia con un profondo rispetto verso il feto e la sua posizione ecologica nell’utero, il rispetto per la madre, il rispetto per il bambino al momento del parto e nel modo in cui viene accolto nella società, con grande dignità, in qualità di essere pari a noi. […] Siamo convinti che solo un cambiamento degli atteggiamenti, della filosofia e della pratica di base nei confronti delle condizioni prenatali della vita umana condurrà all’umanizzazione delle società, verso la non violenza, al comune rispetto per la vita e alla tolleranza per la libertà dell’individuo e alla sua autorealizzazione. […] Se saremo in grado di garantire che ogni bambino sia amato e desiderato fin dall’inizio, che sia trattato con rispetto e che il rispetto per la vita sia al più alto grado dei valori umani, e se potremo ottimizzare gli stadi della vita prenatale e perinatale senza frustrazione dei bisogni di base, senza influenze aggressive e psicologicamente nocive, il risultato potrebbe essere quello di una società non violenta”39.

L’importanza dello stato emotivo della madre

Nei giorni successivi alla scoperta di essere incinta, alla gioia infinita si è unita una sensazione di ‘onnipotenza’... Non riesco a trovare una parola che spieghi meglio quell’emozione dovuta al fatto che una vita ti sta crescendo dentro, mista
all’ammirazione per la potenza della natura...

Margherita, mamma di Chiara

Quando ero incinta mi sentivo come il gatto di Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll: tutto poteva sparire, restava il sorriso. Era una sensazione che mi diceva continuamente ‘Tutto va bene, siamo qui, siamo al sicuro... una bolla di energia potente ci protegge’. Cosa che mi è rimasta anche dopo la nascita del mio bambino.

Annalisa, mamma di Diego

È l’incanto di un attimo... e il tempo si dilata perdendone confini e significato, da quel momento il cuore non t’appartiene e il corpo si mostra tempio nella sacralità ancestrale dell’atto di racchiudere entro sé la Vita! L’incedere nel quotidiano assume un passo diverso, morbido eppur pesante. È il passo delle Donne che, donna dopo donna, mostra istintivamente il cammino. Ascoltare... In un’implosione d’ascolto... Il battito del cuore che diviene voce... Un fremito d’ali tra pancia e anima... Amore... Mai solitudine più dolce, malinconia più struggente. Potere! E un uomo, a proteggere questa storia lieve, a filtrare una realtà che le emozioni rendono a tratti insostenibile... a sostenere il respiro, ad accarezzare un Sogno.

Paola, mamma di Alessandra, Elisa e Giada

Le mie gravidanze sono state molto diverse... la prima piena di euforia e la sensazione di poter fare qualsiasi cosa... anche se poi bastava un soffio di vento per farmi piangere come una bambina... ma l’ho vissuta con spensieratezza e naturalezza. La seconda è stata costellata da eventi negativi che mi hanno toccato nel profondo... l’ho vissuta come se stesse capitando a qualcun altro... perché le cose che mi succedevano intorno erano così terribili... che non potevo pensare che succedessero davvero a persone intorno a me... in qualche modo estraniandomi da quel che stava succedendo dentro di me mi sembrava quasi che quel miracolo sarebbe stato ‘salvato’ da tutto il resto... ci sono state poche coccole e pochi discorsi al pancione... per non legarmi troppo... Lo so, è triste... ma non è stata una scelta razionale... e mi manca non aver fatto foto al pancione, e non aver parlato al mio bambino... e proprio per questo penso che in gravidanza scatti qualche meccanismo particolare per cui non si è realmente lucide... mi ricordo di essere tornata in me mentre lo stringevo tra le braccia cercando di capire se stava davvero bene... il mio cervello si è come ‘riacceso’

Annalisa, mamma di Alice e Federico

Nella mia seconda gravidanza ho dovuto affrontare un’esperienza terribile... ho avuto tanta paura per la mia bambina! Ma quando l’ho stretta tra le braccia appena nata ho potuto finalmente allentare la tensione che per mesi non avevo potuto esprimere per paura di nuocerle.
I lutti in gravidanza, di sicuro quelli improvvisi, sono del tutto contro natura: sei concentrata sulla magia della vita e devi affrontare la morte.
Certo un cerchio unisce tutto: la morte è l’altra faccia della vita, ma in gravidanza proprio non riesci a pensare a questo! Devi proteggere la tua creatura e spiegarle
che non è colpa sua se alla mamma batte forte il cuore!

Alessandra, mamma di Bianca e Irene

Da quanto esposto nel paragrafo precedente si evince come sia importante proteggere lo stato emotivo della donna incinta, poiché può influenzare la crescita e lo sviluppo del feto. Nella nostra cultura, invece, si sente di rado parlare di questo aspetto fondamentale della gravidanza. La medicina, l’ostetricia e la ginecologia dovrebbero salvaguardare l’unicità della persona che assistono e invece, troppo sovente, sono proprio i medici a far preoccupare le donne. Tutelare la salute fisica significa anche tenere conto di quanto su questa influisca la mente. Odent parla proprio di effetto nocebo delle consultazioni perinatali. Fa notare come “lo stile stesso in cui sono condotte le visite prenatali può avere un effetto nocebo, perché consiste sempre nel mettere l’accento su potenziali patologie, nell’indagare possibili anomalie, nel cercare ciò che è patologico”40. Non si tende, invece, a valorizzare la fisiologia e a cercare le condizioni per favorirla. L’approccio assistenziale, di regola, è protocollare e di routine, non individuale.

Nei nove mesi la madre crea spazio per il suo bambino, all’interno del suo corpo ma anche all’interno della sua mente e della sua vita. Per creare questo spazio, per prepararsi alla nascita e alla maternità, è necessario del tempo e tanta tranquillità. Infatti non soltanto il corpo rallenta, ma anche la mente si sintonizza su frequenze diverse, che saranno utili per accudire il bebè e comprenderne i segnali.


Per questo motivo la mamma sarà particolarmente sensibile e di frequente proverà emozioni molto intense che meraviglieranno lei stessa e chi le sta intorno. Questo è normale e, anzi, il processo di cambiamento emotivo dovrebbe essere agevolato e accolto con fiducia.


La gravidanza allena la donna alla continua ricerca di nuovi equilibri. Questa è la chiave per vivere la gravidanza e il parto con serenità: assecondare i cambiamenti, fisici e emotivi, andando incontro al bambino con fiducia. La gravidanza può essere così l’occasione per sperimentare tempi diversi e per provare a rallentare le attività quotidiane, favorendo il ripiegamento su se stesse. Anche nella scelta dei corsi di accompagnamento alla nascita si tende a cercare la tecnica per respirare, l’esercizio fisico o la ginnastica da “fare”. Sembra che si debba imparare a partorire da altri più competenti che insegnano cosa fare in travaglio. In realtà, il parto è un processo involontario che nessuno può anticipare o prevedere; così, dedicare un po’ di tempo al contatto con se stesse e alla comunicazione con il bambino e cercare di cogliere i segnali del proprio corpo sarà di sicuro utile per affrontare il travaglio e l’accudimento del neonato.


Questa introspezione può avvenire soltanto se la mamma si concede tempo e se non ha preoccupazioni eccessive durante la gravidanza. Per questo motivo, non bisogna mai ignorare il bisogno di serenità di una donna incinta: le servirà per essere una mamma più tranquilla con il suo bambino.

Esogestazione

Dopo un parto fantastico, sono uscita dall’ospedale con la mia bimba in fascia per la prima volta. Ho sentito addosso i suoi movimenti e li ho riconosciuti subito: erano gli stessi che sentivo quando era dentro di me! È stata una sorpresa meravigliosa, quasi mi sembrava che essere dentro la mia pancia o dentro la fascia fosse la stessa cosa. Lei era sempre la stessa e io, finalmente, la stringevo a me e la potevo vedere. La nascita e il parto mi sono sembrati la cosa più naturale del mondo e questo mi è servito tanto per i mesi successivi. Ora Camilla ha due anni e mezzo, dorme con noi, la allatto al seno e comincia a essere davvero autonoma e indipendente.

Benedetta, mamma di Camilla

Quando viene alla luce, il bambino non è pronto ad affrontare la vita extrauterina. Il suo sviluppo deve continuare fuori dall’utero ma in condizioni molto simili a quelle prima della nascita. Per questo si parla di esogestazione, cioè di gestazione fuori dal grembo materno. Il piccolo d’uomo si trova in una condizione molto simile a quella degli animali marsupiali e delle specie nidicole: per sopravvivere è totalmente dipendente dai genitori o da chi si prende cura di lui. La scienza antropologica ci suggerisce che il bambino nasce quando le dimensioni della sua testa raggiungono un valore oltre il quale non sarebbe più possibile attraversare il canale del parto. Alla nascita quindi lo sviluppo del sistema nervoso e delle dimensioni craniche non è completo e avrà un rapido accrescimento nei primi tre anni di vita.


L’indipendenza fisica ed emotiva del bambino dall’adulto sarà poi un’acquisizione graduale e irregolare, che attraverserà tappe fisiologiche più o meno contemporanee in tutti gli esseri umani. La crescita fisiologica del bimbo avviene all’interno di una relazione di dipendenza con le figure di attaccamento significative che riflette le competenze reciproche.

Sottolinea Braibanti: “A partire dagli anni Settanta si è affermata una posizione che, senza mettere in discussione l’indispensabilità per il neonato di un ambiente sociale ricco e di cure parentali adeguate, ha peraltro messo in luce una competenza precoce del bambino rispetto a quello stesso ambiente sociale e alle cure parentali, che ne fanno un protagonista attivo, in grado di indirizzare il corso dell’interazione con gli adulti e, in parte, di anticiparlo intenzionalmente. Il neonato, insomma, non sarebbe affatto privo di proprie strategie di adattamento ma, piuttosto, queste strategie sarebbero specializzate per il contesto sociale entro cui la specie ha ‘scelto’ di collocare l’esperienza delle prime fasi di sviluppo”41. Quindi il neonato sarebbe sì un essere immaturo, ma equipaggiato per svilupparsi velocemente all’interno di relazioni di amore e di scambio comunicativo. Egli fa parte, cioè, di un’unità simbiotica: durante la gravidanza la madre, che gli ha dato rifugio e sostentamento nel grembo, si è “trasformata” per continuare a fornirgli nutrimento fisico e affettivo anche dopo la nascita.

Ogni neonato che viene al mondo chiede soltanto amore e risposte ai propri bisogni che comunica come può. Niente di più. A qualsiasi età, i bisogni dei bambini (“capricci”, direbbe qualcuno) non vanno mai ignorati ma interpretati, perché prima della rabbia espressa c’è sempre un sentimento non ascoltato o non riconosciuto. Più di tutti, la madre è in grado di sintonizzarsi con lo stato emotivo del neonato e del bimbo piccolo, di riscoprirlo nel proprio intimo, costruendovi un rapporto empatico e affettivo. Inoltre, può esercitare nei confronti di suo figlio un’azione di regolazione affettiva, facendo evolvere il legame che la nascita ha spezzato.


Nella nostra cultura, viceversa, si vede erroneamente la nascita soltanto come l’inizio di una separazione anche emotiva e relazionale fra madre e bambino. Ecco quindi il motivo per cui si moltiplicano le teorie e le figure più o meno professionali che devono per forza inventarsi qualche metodo per avvalorare questa separazione. Se si va contro natura è necessario scovare qualcosa che la sostituisca, almeno in apparenza. Poiché, invece, all’interno di una relazione non esistono regole generali, questi metodi non servono a molto, e conta “soltanto” lo stare insieme e imparare a conoscersi trovando modalità interattive proprie.


Abbiamo visto come nei primi tre anni del bambino il suo sistema neurologico sia estremamente flessibile e ricettivo. Si pensi che nel primo anno di vita il bebè sviluppa circa il 75% dei collegamenti fra le cellule del suo sistema nervoso. Tutti i messaggi che gli arrivano sono di tipo sensoriale, cioè affluiscono direttamente al cervello. Essi ricordano quelli sperimentati in utero: i rumori, le sensazioni tattili, termiche, di movimento e spaziali tipici della vita uterina vengono più facilmente riconosciuti dal neonato.


I processi chiave che aiutano lo sviluppo cerebrale di un bambino sono il contatto fisico, l’allattamento al seno e il rispetto della fisiologia del sonno. In questo libro ho dedicato un capitolo a ognuno di questi processi, per poter approfondire meglio argomenti di vitale importanza per chiunque si occupi di bimbi piccoli.


In genere si parla di esogestazione fino a che un bambino è in grado di spostarsi da solo gattonando, cioè circa a nove mesi. Considerando i bisogni affettivi dei bambini, il fatto che l’emisfero destro resti dominante fino al terzo anno di vita e gli studi antropologici, i quali indicano i tre anni come l’età in cui i bambini, di norma, raggiungono spontaneamente una maturità cerebrale sufficiente per dormire tutta la notte e si staccano mediamente dal seno se allattati, forse si potrebbe estendere il termine “esogestazione” fino al terzo anno. Questo per indicare con precisione che prima di quell’età i bambini hanno bisogno di essere dipendenti dalla propria madre per crescere in armonia con i princìpi della fisiologia. Forse il mio azzardato suggerimento potrà lasciare perplessi, ma penso che potrebbe servire per dilatare il periodo in cui, nell’idea comune, si ha il diritto di stare coi propri figli, senza essere considerati genitori che li viziano.

Per concludere, vorrei citare a questo proposito ancora Shore che afferma come “Nei primi due anni di vita del bambino si hanno due processi regolatori:

  • La sincronia dell’affetto fra madre e bambino, che crea stati di eccitazione positiva, eccitamento e gioia.

  • Il recupero interattivo che regola l’eccitamento negativo”42


Ciò significa che la madre agisce da regolatore emotivo delle emozioni di suo figlio attraverso la relazione con lui nell’intero corso dei suoi primi due anni di vita. Questa regolazione affettiva permetterà al bimbo di affrontare gli squilibri emozionali attraverso il filtro del contenimento materno. A sua volta questo meccanismo servirà al cervello del piccolo per stabilire connessioni fra le cellule nervose.


Nei prossimi capitoli spiegherò in dettaglio quali sono i meccanismi fisiologici responsabili del bisogno di contatto, del bisogno di essere allattati a richiesta giorno e notte e del bisogno di dormire vicini ai propri genitori.

E se poi prende il vizio?
E se poi prende il vizio?
Alessandra Bortolotti
Pregiudizi culturali e bisogni irrinunciabili dei nostri bambini.I bimbi piccoli non hanno vizi. Hanno esigenze fisiologiche, ormai ben conosciute dalla ricerca scientifica, che è bene riconoscere e trattare come tali. Sono tanti i libri dedicati all’accudimento dei bambini piccoli, nella maggior parte dei casi spacciati come manuali di istruzioni, magiche ricette di felicità per genitori e figli.E si sa che la società odierna impone tempi e spazi basati sulla logica della produttività e del consumismo, senza curarsi di proteggere lo sviluppo psicofisico e affettivo dei più piccoli. I bambini si ritrovano così a crescere in un mondo adultocentrico che spesso si dimentica di loro o impone di diventare immediatamente autonomi e indipendenti, di non disturbare, di ignorare fin da subito i propri istinti e la capacità di comunicare i propri bisogni.E se poi prende il vizio? invece non propone metodi identici per tutti. Partendo dal presupposto che ogni genitore sia unico e, in quanto tale, debba mettersi in gioco in prima persona e compiere scelte libere, autonome e informate, per allevare esseri umani che mettano al primo posto le relazioni affettive e l’espressione libera dei sentimenti, il libro invita a riflettere sulla particolarità di ogni famiglia, sul diritto (e il dovere) di educare e allevare i figli in libertà, mettendo da parte i pregiudizi culturali e dando ascolto al proprio cuore e all’istinto.Alessandra Bortolotti, rinomata psicologa perinatale, nel suo libro tratta temi universali quali il sonno dei neonati e dei bambini più grandi, il bisogno di contatto e le più elementari forme di comunicazione tra genitori e figli, basandosi sulle più recenti scoperte nel campo delle neuroscienze. Le ricerche sulla fisiologia della gravidanza, del parto e dell’allattamento sottolineano infatti, in maniera chiara e inappellabile, che rispondere ai bisogni affettivi dei bambini non significa viziarli ma, anzi, costituisce un patrimonio irrinunciabile che può influenzare positivamente l’equilibrio fisico ed emotivo di tutta la loro vita. L’ebook di questo libro è certificato dalla Fondazione Libri Italiani Accessibili (LIA) come accessibili da parte di persone cieche e ipovedenti. Conosci l’autore Alessandra Bortolotti, psicologa perinatale, si occupa da anni di puericultura e fisiologia di gravidanza, parto e allattamento.È consulente di numerose riviste e siti internet dedicati ai genitori e scrive su varie pubblicazioni scientifiche.È ideatrice e curatrice del sito www.psicologiaperinatale.it e conduce incontri post parto in provincia di Firenze, dove vive.