capitolo iv

La comunicazione efficare
con i bambini

I bambini sono persone

Definire un bambino buono o cattivo significa etichettarlo e giudicarlo superficialmente. Ciascuno di noi cambia con il tempo e le esperienze che vive e può essere in tanti modi diversi a seconda del contesto e dell’ambiente in cui si ritrova, non siamo mai uguali a noi stessi. I bambini dovrebbero essere liberi di esprimersi ed essere amati e accettati anche (soprattutto) quando non corrispondono alle aspettative dei genitori.

Rossella, mamma di Angela

I bambini non fanno i capricci! A volte usano solo un linguaggio differente, perché non conoscono altro modo per esprimere il loro disagio... siamo noi a dover tentare di interpretare questo linguaggio come fossero parole che nascondono una richiesta d’aiuto...

Paola, mamma di Alessandra, Elisa e Giada

La cosa fondamentale, secondo me, è proprio dare importanza a ogni manifestazione del bambino. Se il tuo piccolo piange, ha certamente una ragione per farlo. Quindi, se anche il seno o il cambio del pannolino non eliminano il suo disagio, e hai provato di tutto, continua a tenerlo in braccio e a dirgli che non capisci come aiutarlo, ma che tu starai con lui finché non starà meglio. Non lasciarlo mai solo. I bambini ascoltati e accolti anche nei momenti più difficili imparano prima a mostrare in modo efficace le proprie esigenze e bisogni, e non piangono tanto come quelli che invece vengono lasciati a loro stessi: così saprai per certo che, quando il tuo bambino piange, ti vuole comunicare una cosa importante e ha bisogno di te; e
lui imparerà che è una persona importante e degna di considerazione. Crescerà sentendosi amato e avrà fiducia in se stesso.

Lucia, mamma di Vera

“I bambini sono la bocca della verità”.

Questo detto che tutti conosciamo rivela a sua volta una grande verità: i bambini non conoscono la retorica, parlano col cuore, dicono quello che pensano e spesso noi adulti abbiamo molto da imparare dalla loro semplicità e schiettezza. Imparare dai nostri figli significa considerarli persone come gli adulti e instaurare con loro un dialogo basato sull’uguaglianza dei diritti, della dignità e sull’empatia1 reciproca. Eppure crediamo di sapere comunicare meglio di loro. Molti pensano che la priorità per i bambini sia imparare a parlare educatamente e a stare zitti se non sono interpellati. In una parola i bambini si dovrebbero controllare sia come comportamento manifesto sia come espressione verbale delle proprie emozioni. Questo genere di cultura ha fatto sì che molti adulti siano imprigionati nella retorica e che, quando parlano, perdano di vista il contenuto e l’obiettivo del messaggio che vogliono trasmettere. Inoltre, come abbiamo già visto in precedenza, i genitori comunicano spesso con i bambini come se parlassero con persone subordinate all’interno di un rapporto basato sulla gerarchia e sul potere. Frasi come: “So io quello che è meglio per te”, “Quando sarai grande capirai”, “Comando io non tu”, “Adesso ubbidisci e non fiatare”, “Non ti provare ad aprire bocca, stai zitto finché non ti dò il permesso di parlare!”, “Vergognati!”, “Lascia stare, tanto non sei capace”, “Come fai a non capire?!”, “Vuoi fare sempre di testa tua...”, “Ma tu chi sei per dire queste cose? Devi solo ubbidire a quello che ti dico, io sono grande e tu sei solo un bambino”, “È inutile, non c’è niente da fare con te”, “Quando sarai a casa tua farai come vuoi, ora che sei in casa mia fai come dico io”, sembrano frasi normali e scontate da dire ai propri figli, tanto quanto, molto probabilmente, sono state dette a noi dai nostri genitori.

In realtà, si può parlare con i bambini (e con gli adulti) attraverso dinamiche comunicative che trasformino potenziali conflitti in dialoghi pacifici e rispettosi dei bisogni e dell’integrità di tutti, grandi e piccini. Si può basare la comunicazione sull’empatia e sulla fiducia di trovare soluzioni che soddisfino tutti e non mortifichino nessuno. Afferma Tomas Gordon, psicologo clinico: “Quando le persone imparano a comunicare efficacemente con se stesse e con gli altri, le loro vite e le loro relazioni interpersonali possono essere profondamente trasformate”2.


Anche Marshall Rosemberg, psicologo clinico, associa i processi comunicativi alle dinamiche sociali che spingono a etichettare le persone, a fare paragoni, a pretendere ed emettere giudizi anziché a diventare consapevoli di ciò che sentiamo e dei nostri bisogni: “Credo che la comunicazione che aliena dalla vita sia radicata in certe visioni della natura umana che hanno esercitato la loro influenza per vari secoli. Queste visioni enfatizzano i nostri difetti e la nostra malignità innata e suggeriscono che vi sia bisogno di educazione per controllare la nostra natura intrinsecamente sgradevole. Tale educazione ci induce spesso a domandarci se c’è qualcosa di sbagliato nei sentimenti e nei bisogni che proviamo. Impariamo presto a scollegarci da quello che accade dentro di noi. La comunicazione che aliena dalla vita deriva dalle società gerarchiche, il cui funzionamento dipende dalla presenza di un gran numero di cittadini docili e sottomessi, e ne permette la continuazione. Quando siamo in contatto con i nostri sentimenti e i nostri bisogni, noi umani non costituiamo più buoni schiavi né buoni subalterni”3.

Diventare genitori rappresenta, quindi, una fantastica occasione per rimettersi in gioco e cercare di cambiare ciò che ci impedisce di esprimerci liberamente attraverso modalità di comunicazione limitate e limitanti.


Quando infatti maltrattiamo, ignoriamo, sgridiamo, urliamo, puniamo e cerchiamo di dirigere e controllare un bambino come fosse un oggetto da imparare a “usare”, non rispettiamo la sua integrità e gli diamo un esempio di sfiducia e di mancanza di autostima; quella sfiducia e autostima che parte da noi, dal bambino che è in noi e si specchia in lui! Soltanto con la capacità di mettersi in discussione come bambini cresciuti che, a contatto coi propri figli, rivivono esperienze rimosse, possiamo rompere il cerchio della violenza affettiva e aprire quello dell’amore incondizionato per le nostre creature. Quante volte, infatti, ci capita di ripetere automaticamente ai nostri figli le tanto odiate espressioni di rimprovero che ci venivano dette dai nostri genitori? Comprendere l’importanza di una buona interazione comunicativa fra genitori e figli rappresenta un tesoro di inestimabile valore sia da un punto di vista soggettivo, sia come esempio da portare in famiglia e nella società, con la speranza di un futuro migliore basato sull’empatia, sul rispetto e sull’espressione libera di sentimenti e bisogni.

Anche Gerhardt afferma: “Quando i genitori reagiscono ai segnali dei loro bambini, stanno partecipando a molti importanti processi biologici. Stanno favorendo la maturazione del sistema nervoso del bambino in modo che non venga sopraffatto dallo stress. Stanno favorendo il consolidamento delle catene dei bioaminoacidi a un livello moderato. Stanno contribuendo alla costituzione di un sistema immunitario robusto e di una buona capacità di reagire allo stress. Stanno anche favorendo la costruzione della corteccia prefrontale del bambino e la sua capacità di conservare informazioni, riflettere sui sentimenti, trattenere gli impulsi che saranno una parte vitale della sua futura capacità di comportarsi socialmente”4.

I bambini ci inviano segnali molto chiari che noi genitori dobbiamo interpretare sempre, anche se scaturiscono da necessità difficili da accettare perché contrastano con il modo in cui noi stessi siamo stati educati o con quello che altri intorno a noi usano per educare i loro figli.


Comunicare in maniera efficace con i propri figli è possibile fin dai loro primi istanti di vita, perfino nel grembo materno. Vediamo insieme alcune regole della comunicazione che ci saranno utili con i bambini di ogni età.

Semplici nozioni di teoria della comunicazione

Saper comunicare è fondamentale nella gestione delle relazioni fra individui in generale, figuriamoci fra genitori e figli. È una capacità che si può migliorare e apprendere, abbandonando l’idea di conoscere già tutto quello che serve. In effetti, comunicare non è affatto facile perché racchiude comportamenti e atteggiamenti di cui spesso siamo inconsapevoli. Fra chi è implicato nel processo di comunicazione possono esistere barriere di livello gerarchico, di personalità, di relazione e di modelli dialogici di riferimento.


Innanzitutto è necessario mettere in discussione il primato della parola rispetto alla necessità di ascoltare il nostro interlocutore. Si pensa, di solito, che l’elemento più importante sia la comunicazione attraverso un codice verbale. Invece, gli elementi coinvolti in un atto comunicativo sono anche altri: tono, gesti, postura del corpo, ascolto passivo o attivo.


Questi elementi identificano la comunicazione non verbale (CNV): quella parte della comunicazione che comprende tutti gli aspetti di uno scambio comunicativo e non soltanto il significato letterale delle parole coinvolte nella trasmissione del messaggio. Questo tipo di comunicazione è ritenuta universalmente comprensibile, al punto da poter trascendere le barriere linguistiche. In effetti i meccanismi dai quali deriva sono assai simili in tutte le società, anche se ogni cultura tende a rielaborare in maniera differente i messaggi non verbali e a dar loro un significato specifico.

Uno studio condotto nel 1972 da Albert Mehrabian5 ha mostrato che ciò che viene percepito in un messaggio vocale può essere così suddiviso:


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L’efficacia di un messaggio dipenderebbe, quindi, soltanto in minima parte (7%) dal significato letterale di ciò che viene detto attraverso le parole e il modo in cui questo messaggio viene percepito sarebbe influenzato profondamente dai fattori di CNV (93%).

Queste percentuali sono state ridimensionate da studi successivi6 ma non è mai stato messo in discussione il fatto che l’insieme degli elementi che costituiscono la CNV siano prioritari. La comunicazione verbale, inoltre, è prevalentemente volontaria e conscia, mentre le componenti della CNV sono perlopiù involontarie e inconsce, quindi meno controllabili e più spontanee. Può succedere, per esempio, che messaggio verbale e non verbale si contraddicano a vicenda; per esempio dire: “Come sono contento di vederti” con un’espressione del viso contrariata esprime discordanza tra ciò che si dichiara verbalmente e ciò che si manifesta a livello corporeo.


Paul Watzlawick7, psicologo austriaco naturalizzato statunitense, e altri studiosi della Scuola di Palo Alto (California), allo scopo di identificare alcune proprietà della comunicazione, hanno identificato cinque regole fondamentali: gli assiomi della comunicazione umana.

  • Il primo assioma afferma che è impossibile non comunicare: qualsiasi interazione è una forma di comunicazione, anche il silenzio. Qualunque atteggiamento assunto da un individuo diventa immediatamente portatore di significato per gli altri.
  • Il secondo stabilisce un rapporto tra il contenuto e la relazione che c’è fra i comunicanti: cioè il contenuto è determinato dalla relazione. Ogni comunicazione comporta un aspetto di metacomunicazione8 che determina la relazione tra i comunicanti. Per esempio, la mamma che ordina al bambino di andare a fare il bagno esprime, oltre al contenuto (la volontà che il bambino si lavi), anche la relazione che intercorre tra chi comunica e chi è oggetto della comunicazione, nel caso particolare di questo esempio quella di superiore/subordinato.
  • Il terzo assioma evidenzia la connessione tra la punteggiatura9 della sequenza di comunicazione e la relazione che intercorre tra i comunicanti: il modo di interpretare la comunicazione è in funzione della relazione tra i comunicanti. Poiché la comunicazione è un continuo alternarsi di flussi comunicativi da una direzione all’altra e le variazioni di direzione del flusso comunicativo sono scandite dalla punteggiatura, il modo di leggerla sarà determinato dal tipo di relazione che lega i comunicanti.
  • Il quarto assioma attribuisce agli esseri umani la capacità di comunicare in forma sia analogica sia digitale. Quando gli esseri umani comunicano per immagini, per esempio disegnando, la comunicazione è analogica. Si basa, cioè, sulla somiglianza tra gli strumenti scelti e ciò che rappresenta: mantiene quindi un rapporto di analogia con i fenomeni e gli oggetti che trasmette. Quando si comunica usando le parole, la comunicazione segue, viceversa, la componente digitale. Questo perché le parole sono “etichette” che permettono uno scambio di informazioni attraverso le regole della sintassi. Esempi di mezzi di comunicazione digitali sono: il fax, il compact disc, l’orologio a cristalli liquidi (in cui l’indicazione dell’ora e delle sue frazioni è visualizzata con scatti di cifre).
  • Infine, per il quinto assioma: tutti gli scambi comunicativi si fondano o sull’uguaglianza o sulla differenza e quindi possono essere simmetrici o complementari. Si dicono complementari gli scambi comunicativi in cui i comunicanti non sono sullo stesso piano: (dipendente/datore di lavoro). Sono simmetrici gli scambi in cui gli interlocutori si considerano sullo stesso piano; è questo il caso di comunicazioni tra pari grado (marito/moglie, compagni di classe, fratelli, amici).

La nostra società e la nostra cultura comprendono certamente la relazione genitori/bambino tra gli scambi comunicativi complementari. Ciò riflette l’idea che la famiglia sia un’istituzione gerarchica basata sul potere. In sostanza, anche a livello comunicativo ci sarebbe un piano diverso in cui genitori e figli manterrebbero la loro differenza di potere. In una struttura basata sul potere, i conflitti esercitano una pressione che porta a stabilire chi ha ragione e chi ha torto decretando, di fatto, vincitori e vinti. Va da sé che, con tali modelli educativi si trasmettono ai figli valori come la disciplina, l’obbedienza all’autorità, il dare ordini e il limitare l’iniziativa e l’espressione personale di chi è subordinato. In questo caso il genitore vince e il figlio perde. Ma esiste anche il caso opposto, quello in cui vince sempre il figlio: in questo caso il genitore viene considerato permissivo e il figlio viziato e maleducato. La maggior parte dei genitori conosce solo questi due modi di rapportarsi ai figli. Gordon ha messo a punto un metodo comunicativo definito metodo senza perdenti che risolve questa antitesi fra vincitori e vinti proponendo un modello rispettoso dei sentimenti e dei bisogni di tutti gli interlocutori coinvolti nell’atto comunicativo. Gordon scrive: “Dal momento che non si tratta di un espediente o di una formula magica per diventare un genitore efficace, il metodo senza perdenti richiede alla maggior parte dei genitori un cambiamento radicale nell’atteggiamento verso i figli”10. In questo metodo genitori e figli esprimono i rispettivi bisogni e sentimenti e trovano soluzioni proprie per arrivare a compromessi che stiano bene a tutti e comunichino accettazione e rispetto reciproco. Ognuno è rispettato come persona che prova dei sentimenti e ha bisogni da esprimere e l’ascolto empatico è considerato più urgente della preoccupazione di insegnare cosa è giusto o sbagliato. Il valore delle persone viene anteposto a qualunque altro e i genitori si impegnano per promuovere lo sviluppo del potenziale espressivo e creativo dei loro figli. In questo modo si apprende dall’esperienza piuttosto che da un sapere preconfezionato, per cui l’essere diventa molto più importante dell’apparire, del comandare e dell’avere.

Quando si comunica con i bambini, dobbiamo sempre ricordare che, soprattutto i più piccoli, fanno pochissima attenzione a ciò che passa attraverso il codice verbale. Infatti sono molto attenti, sensibili e ricettivi a tutta la comunicazione non verbale, cioè sanno leggere e cogliere benissimo la parte apparentemente nascosta (sentimenti, percezioni, tonalità affettiva) di ciò che si comunica loro. La capacità di comprendere il linguaggio verbale sarà direttamente proporzionale all’età del bambino.


Un ultimo elemento comunicativo molto importante da approfondire è il valore dell’ascolto.

Una celebre frase di Epitteto11 recita così: “Dio ci ha dato due orecchie ma una sola bocca, proprio per ascoltare il doppio e parlare la metà.” Forse l’autore voleva invitarci a trascorrere il doppio del tempo ad ascoltare piuttosto che a parlare. Oppure voleva affermare che ascoltare è due volte più difficile che parlare.

In ogni caso, quando si parla di comunicazione, si pensa comunemente che la cosa più importante sia sapersi esprimere. In realtà senza saper anche ascoltare il nostro interlocutore, grande o piccolo che sia, non può esserci uno scambio comunicativo vero e proprio. Inoltre, sentire e ascoltare non sono sinonimi. Sentire indica una funzione fisica dell’apparato uditivo compiuta su base automatica e istintuale, mentre ascoltare implica una funzione attiva di colui che ascolta in quanto cerca di cogliere tutti i segnali del suo interlocutore: le pause, le esitazioni, i sospiri, i cambiamenti nel tono della voce e, soprattutto, il suo stato d’animo. Il semplice ascolto, cioè l’ascolto passivo, è un potente strumento che invita l’altro a esporre il suo problema e lo incoraggia al colloquio. È il primo passo per una comunicazione riuscita. Ma esiste anche un altro tipo di ascolto: l’ascolto attivo. Infatti il silenzio, i cenni di attenzione e le espressioni facilitanti stimolano la comunicazione ma non sono sufficienti per farla progredire e per aiutare lo scambio relazionale e affettivo fra gli interlocutori; non permettono all’interessato di capire se chi lo ascolta lo comprende e lo accetta. È quindi necessario utilizzare una modalità comunicativa che consenta una maggior interazione e un maggior grado di espressione dei sentimenti di entrambi gli interlocutori.


L’ascolto attivo in sostanza comunica due cose: l’accettazione incondizionata del nostro interlocutore e la condivisione empatica del suo stato mentale, dei suoi sentimenti e dei suoi bisogni. In realtà, come spiegherò più avanti, i genitori nutrono sentimenti di non accettazione dei figli, non rispetto alle loro persone ma rispetto ai loro comportamenti, e tendono a modificare quei comportamenti che sono considerati poco desiderabili.


Tutto questo è valido sia per la comunicazione che riguarda gli adulti sia per quella che comprende anche i bambini. Vediamo le differenze di modalità comunicativa in base alle diverse età dei piccoli.

Comunicare coi bambini dipende anche dalla loro età

Nel secondo capitolo ho già accennato come sia possibile stabilire una comunicazione madre/bambino già in utero. D’altro canto, sembra che questa coscienza, ben presente in altre culture, per esempio in Africa o Asia, vada perdendosi nei popoli occidentali. Davvero nella nostra cultura moderna si riflette troppo poco sul fatto che un bimbo non nasce dal nulla. I nove mesi di gravidanza sono già vita e portano con sé l’inizio di tutte le competenze, comprese quelle comunicative. Questo non significa che sia necessaria una tecnica per comunicare con il bambino in utero, tanto quanto non credo che ci sia bisogno di un metodo specifico per comunicare con i bambini in base alla loro età. È innegabile però che gli schemi comunicativi della nostra cultura non sono più i soli a cui riferirsi, poiché danno pochissimo spazio all’espressione emotiva dei bambini e all’importanza di una relazione adulto/bambino basata sull’empatia e su un piano di pari dignità. Quando un uomo e una donna diventano genitori, sembra che si dimentichino di essere stati bambini e di essere persone che possono sbagliare. Pare che debbano essere perfetti, che debbano recitare la parte del “capo” e aderire ai modelli culturali condivisi dalla maggioranza; sembra che non si possano permettere indecisioni e che debbano mettere da parte i propri bisogni per sacrificarsi per i figli. Gordon al contrario sottolinea: “Un genitore efficace è quello che si concede di essere una persona, una persona autentica”12.

Ovviamente la scienza e le tecniche comunicative non sostituiscono le persone e il loro buonsenso, ma possono essere utili ai genitori per dare ampiezza e conferma ai propri istinti, così bistrattati dalla nostra cultura a basso contatto. Ecco il punto di vista di Giuliana Mieli, psicologa: “La visione dell’uomo che abbiamo ereditato dalla nostra cultura è una visione parziale, condizionata dall’uso o dall’abuso di uno strumento scientifico, utile in un ambito limitato e specifico di interpretazione della realtà, ma indebitamente esteso a comprendere una complessità, quella della natura e della vita, che ha bisogno di ben altri strumenti cognitivi per essere interpretata e intuita. […] Le cosiddette scienze umane si sono sviluppate sotto l’influenza della teorizzazione tipica delle scienze fisiche esatte nate con Galileo e hanno quindi sofferto dell’estensione di un metodo del tutto inappropriato alla loro materia complessa. […] Ho imparato precocemente a dubitare delle certezze della scienza: […] l’esperienza della vita mi suggeriva una ricchezza del sentire, una complessità del pensare che mi sembrava mal rappresentata nelle categorie degli adulti che mi circondavano e mi istruivano”13. Questa autrice, in sintesi, fa notare come sia necessario riflettere sulla nostra cultura per capire che interpretare la natura dell’uomo attraverso il metodo scientifico è una condizione utile ma non sufficiente a comprendere la complessità dell’essere umano in ogni suo aspetto: scientifico ma anche affettivo e sociale.

L’individualità di ogni persona e la specificità di ogni relazione non sono certo riducibili a strumenti scientifici predeterminati, né a metodi preconfezionati validi per tutti. Quando comunichiamo con i bambini mettiamo inconsapevolmente in pratica gli schemi della nostra cultura di appartenenza che, nel nostro caso, sancisce la superiorità dell’aspetto verbale rispetto a quello affettivo e dà per scontata la subordinazione dei figli al potere dei genitori. Il merito di autori come Rosemberg, Gordon e Juul è quello di aver restituito alla comunicazione fra genitori e figli l’aspetto affettivo e relazionale integrandolo in quello educativo. Vale a dire: non c’è bisogno di comandare dall’alto i figli, di farsi ubbidire in nome della buona educazione e del potere; ci possiamo rispettare tutti poiché tutti abbiamo sentimenti, bisogni e pari dignità!

Non serve minacciare il bambino con castighi e punizioni: anche queste modalità sono una forma di condizionamento del comportamento manifesto del bambino, che trascura i sentimenti e/o i bisogni da cui tale comportamento deriva. Kohn, educatore americano, ha scritto: “Se un tempo i bambini venivano puntualmente sottoposti a crudeli punizioni corporali, oggi capita loro di essere messi in castigo o, al contrario, di ricevere un premio in cambio della loro obbedienza. Ma non si tratta di mezzi nuovi per fini nuovi. L’obiettivo resta il controllo, anche se ottenuto con metodi più moderni. E non perché non vogliamo bene ai nostri figli: ha più a che vedere con il peso schiacciante delle infinite e banali pressioni della vita familiare, per cui mettere i bimbi a nanna o tirarli giù dal letto, infilarli nella vasca o in macchina rende difficile fermarsi un attimo a riflettere su cosa si sta facendo”14.

Secondo questo autore è giunto il momento di lavorare con i bambini, piuttosto che imporre ai bambini. Sostiene infatti che uno dei bisogni fondamentali di ogni bambino è di essere amato incondizionatamente, nella certezza di essere accettato anche quando combina guai o fallisce. All’opposto, sistemi educativi quali punizioni (tra cui mettere in castigo), premi (come il rinforzo positivo) e altre forme di controllo, inducono i nostri figli a credere di essere amati solo se ci compiacciono o ci colpiscono favorevolmente.


In effetti, le forme comunicative che adoperiamo per farci ubbidire dai nostri figli influenzano prepotentemente la loro autostima. Mentre i genitori, in genere, sono infastiditi dal comportamento del bambino e non dal bambino in sé, i bambini, al contrario, introiettano esattamente questo messaggio. Pensano che se vengono messi in castigo o sgridati, per esempio perché hanno rovesciato l’acqua, sono bambini cattivi. Oppure gioiscono delle lodi conseguenti a un’azione ritenuta desiderabile dai genitori, ricavandone che sono bambini bravi. Per i bambini educati attraverso lodi e punizioni, la propria natura dipende dal giudizio dei genitori e da ciò che loro ritengono accettabile a livello comportamentale, quindi non trae origine da come loro stessi sono, ma da quello che fanno. Questo è un serio attentato all’acquisizione di una sana autostima e allo sviluppo di una propria capacità valutativa da parte del bambino. Manca del tutto la dimensione affettiva e relazionale che, attraverso una collaborazione attiva fra genitori e figli, e nel rispetto della differenza dei ruoli, dia a tutti lo spazio e la libertà di esprimersi. Si capisce quindi come sia necessario, fin dai primi istanti di vita, instaurare con loro una comunicazione basata sull’empatia e sul rispetto della dignità di tutti.


Fin dall’inizio, mamma, papà e bambino in utero potranno comunicare attraverso il tatto e con la fantasia. Abbiamo visto come il tatto del feto sia già sviluppato a poche settimane di vita: ogni sensazione tattile che trasmettiamo al bambino in utero sarà certamente ricevuta e gli servirà per stabilire un contatto attivo con la madre e col padre. Durante la nascita questo contatto non si spezza ma amplia i canali comunicativi rappresentando un continuum fra la vita prenatale e quella che segue il parto. Molte donne percepiscono chiaramente la comunicazione con il bambino che sta per nascere e questo può agevolare, in pratica, la ricerca della posizione migliore per facilitargli la discesa nel canale del parto. Dopo la nascita, l’interazione col neonato sarà in prevalenza basata sul contatto fisico e sulla comunicazione non verbale. Abbiamo visto come fino a tre anni nel bambino l’emisfero cerebrale destro sia predominante e quindi come sia di vitale importanza per i genitori comunicare con lui attraverso modalità non verbali.


I bambini piccoli sono una porta aperta verso i sentimenti e verso i bisogni di tutti; ignorare questo piano comunicativo significa, davvero, limitare il loro sviluppo affettivo.

Spesso esiste un vero e proprio scarto generazionale nella comunicazione fra genitori e figli. In molte famiglie i genitori non ascoltano ma insegnano, correggono, ordinano, sottovalutano o ridicolizzano i messaggi che provengono dalla mente e dal corpo in crescita dei loro bambini. Questo impedisce ai figli di sentirsi accettati così come sono e di lasciare emergere le proprie spontanee competenze e le proprie strategie di risoluzione dei problemi. In sintesi, i bambini vogliono assicurarsi che i genitori comprendano l’intensità e la natura dei loro sentimenti e si aspettano di essere aiutati a gestirli, non di vederseli negati o minimizzati. Gordon a questo proposito ricorda: “Come è facile per i genitori dimenticare la propria esperienza di figli! Come è facile dimenticare che i figli a volte sanno meglio dei genitori se hanno sonno o fame; che conoscono meglio dei genitori le qualità dei propri amici, le proprie aspirazioni e obiettivi, come sono trattati dai propri insegnanti, gli stimoli e le esigenze del proprio corpo, chi amano e chi non amano, a cosa attribuiscono molto o nessun valore”15.


Fin da quando sono neonati, i bambini lanciano segnali a chi si prende cura di loro per comunicare il proprio stato di malessere, di bisogno o di gioia. Iniziare da subito la danza comunicativa, che stabilisce un codice non verbale del tutto privato fra ogni coppia di genitori e i propri figli, significa cogliere le occasioni di trasformazione ed evoluzione della relazione con loro proprio nel momento in cui si presentano. Non esistono manuali o teorie che possano stabilire chiavi di lettura specifiche per le richieste di ogni bambino.


Rosemberg ci introduce anche al concetto di comunicazione non violenta il cui scopo “non è quello di cambiare le persone e il loro comportamento per fare le cose a modo nostro; è invece quello di creare relazioni basate sull’onestà e sull’empatia, che successivamente soddisferanno i bisogni di tutti”16.

Comunicare in maniera non violenta significa che tutto può essere tradotto nel linguaggio universale dei sentimenti e della uguale dignità. Significa che non esistono vincitori e vinti ma persone che si rispettano e desiderano trovare soluzioni pacifiche ai conflitti, nel rispetto delle diversità di ruolo e di idee. Non significa evitare i conflitti, anzi. Significa imparare a gestirli e utilizzarli per accrescere la conoscenza reciproca e la capacità di comunicare. Quando i bambini modificano i loro comportamenti per soddisfare i desideri o le aspettative dei genitori, la maggior parte delle volte lo fanno al prezzo di ignorare i propri bisogni e di limitare la propria iniziativa. Ciò si trasforma spesso in senso di colpa: “Sono cattivo se provo certi bisogni perché i miei genitori non vogliono soddisfarli, quindi le mie sensazioni sono sbagliate e io devo fare quello che dicono loro”. Purtroppo a molti di noi non è stato permesso di pensare a sentimenti e bisogni, ma piuttosto ci siamo abituati a ragionare in termini di sensi di colpa e di sottomissione a regole e relazioni di potere stabilite da altri. Ogni volta che un bambino cede al potere degli adulti, dovendo reprimere le proprie necessità, si sente inferiore e acquisisce un messaggio di non accettazione. Ogni volta che un genitore costringe il figlio a fare qualcosa in nome della propria autorità, gli impedisce di trovare soluzioni proprie e spontanee al conflitto. Sembra che l’unica possibilità sia il potere del genitore e la negazione dell’individualità del figlio e ogni volta che gli adulti ignorano i segnali dei bambini perché li ritengono indesiderati, provocano l’estinzione di quella modalità comunicativa. Uno dei maggiori paradossi della nostra cultura è quello di riferirsi a modelli di psicologia comportamentista per provocare nei bambini l’estinzione graduale di comportamenti e modalità espressive non accettati dagli adulti. È il caso del famoso libretto17 che pretende di insegnare ai bambini a dormire ignorando per tempi gradualmente sempre più lunghi i loro richiami. Ed è anche il caso di note trasmissioni televisive dove si afferma che “i capricci dei bambini vanno ignorati”, sopprimendo così la possibilità del genitore di interpretare cosa sta dietro al cosiddetto capriccio, e di intervenire per soddisfare il bisogno non compreso fino a quel momento. González è molto chiaro al riguardo “Quando un bambino smette di chiamare la madre perché non ha più bisogno, non è come quando smette di chiamarla perché sa che, per quanto la chiami, lei non gli presterà mai attenzione”18.


L’educazione comportamentista non si interessa delle motivazioni che determinano uno specifico comportamento. Non dà la minima importanza ai sentimenti e ai bisogni fisiologici dei bambini, ma ritiene che sia necessario forgiare il loro comportamento verso modalità espressive decise dagli adulti. Il risultato di questo tipo di educazione è, ovviamente, una limitazione dell’affettività del bambino e una relazione genitori/figli, ma anche insegnanti/bambini, basata di nuovo su un rapporto gerarchico in cui i grandi decidono e figli si adeguano senza potersi esprimere liberamente.

Naturalmente, come ho già affermato in precedenza, questo non significa che i genitori siano al servizio di piccoli tiranni, significa “soltanto” che i sentimenti e i bisogni dei bambini non possono e non devono essere ignorati in nome di un’apparente educazione. Anche le varie teorie psicologiche che considerano la frustrazione come elemento indispensabile per crescere sono molto discutibili. Lo stato di frustrazione è quello in cui ci si viene a trovare quando si è bloccati o impediti nel soddisfacimento di un proprio bisogno o desiderio. Proprio un comportamentista ha effettuato uno studio molto famoso che rivela il rapporto di relazione tra frustrazione e aggressività. John Dollard19, famoso psicologo americano, infatti afferma che alla base di un comportamento aggressivo vi è sempre un evento frustrante. Non è questa la sede per addentrarci nella teoria della frustrazione; qui basti affermare che la vita e anche le relazioni sono piene di occasioni di frustrazioni che necessitano di strategie per essere superate. La soddisfazione dei bisogni primari, oggettivi e universali dei bambini e il contenimento emotivo, il rispetto e la decodifica dei loro segnali comunicativi – verbali e non verbali – da parte dell’adulto, permettono ai bambini di acquisire sicurezza e autonomia a partire da esperienze di accettazione e successo comunicativo. Questo sarà certamente utile per affrontare le inevitabili frustrazioni della vita senza che sia stato necessario, per forza, provocare la frustrazione da parte dei genitori, per esempio smettendo di allattare o esiliando il bambino dal lettone soltanto perché ha raggiunto una certa età.


È fin troppo banale, a questo punto, affermare che i bisogni soddisfatti appena si presentano, e per il tempo necessario a essere superati, sono un passaporto verso la conquista dell’indipendenza e dell’autonomia. Questi bisogni, infatti, non saranno estinti e repressi ma saranno appagati e non torneranno più. I bambini sono perfettamente in grado di comunicare le proprie esigenze fin dalla nascita; negare loro questa possibilità significa, di fatto, limitare la relazione con loro riducendola a schemi preconfezionati che tornano utili soltanto a chi vuole vendere libri o ipotesi educative ormai decisamente obsolete. I bambini non si svegliano la mattina pensando di nuocere o disturbare i genitori; si aspettano di essere aiutati a crescere nel rispetto e nell’empatia e di trovare nei genitori guide autorevoli. Questo significa diventare autonomi e indipendenti. I genitori non dovrebbero preoccuparsi di dirigere i propri figli attraverso il potere, ma di comunicar loro accettazione incondizionata e libertà di espressione verbale ed emotiva. Se gli adulti in generale smetteranno di utilizzare il potere per vincere sui bambini, questi ultimi “non avranno motivo di esercitare pressioni per perseguire i propri scopi o per difendersi energicamente dal potere dei genitori. Conseguentemente, spariscono quasi totalmente i forti scontri dovuti ai bisogni. Al contrario, i giovani diventano accomodanti nutrendo per i bisogni dei genitori il medesimo riguardo che hanno per i propri. Quando hanno un bisogno lo rivelano apertamente e i genitori si danno da fare per appagarlo e i figli fanno altrettanto se sono i genitori ad avere un bisogno”20.

In questa maniera i figli rispetteranno i genitori non perché ne hanno paura ma perché li percepiscono competenti e autorevoli. Il rispetto e la fiducia che ci riconoscono i nostri figli non è scontato e non dipende dalla differenza d’età: bisogna guadagnarselo giorno dopo giorno nella relazione con loro. Se, fin dall’inizio, il nostro principale impegno di genitori è rivolto alla qualità della relazione con i nostri bambini e ci assicuriamo che questo processo soddisfi i bisogni di tutti, allora possiamo avere a nostra volta fiducia che le nostre richieste non saranno percepite come pretese autoritarie. Scrive Rosemberg: “La comunicazione non violenta, sollecitandoci a separare l’osservazione dalla valutazione, a identificare i pensieri o i bisogni che danno forma ai nostri sentimenti e a esprimere le nostre richieste in un linguaggio di azione chiaro, innalza la nostra consapevolezza del condizionamento culturale che, in ogni dato istante, ci influenza.

E portare alla luce questa consapevolezza su questo condizionamento è un passo cruciale per liberarci dalla sua tirannia su di noi”21 e per non esercitare questa tirannia sui nostri figli. Quanti genitori rinfacciano, infatti, ai figli cresciuti quello che hanno fatto per loro pretendendo prima o poi una restituzione del “malloppo”? Essere genitori significa donare incondizionatamente amore e dare esempio di accettazione delle persone che abbiamo generato. Diamo la vita a esseri umani molto diversi dalle nostre aspettative, che ci possono stupire anche a pochi giorni di vita per competenze e per capacità inimmaginabili. Esprimere giudizi, fare paragoni, avanzare pretese, pretendere modifiche dei comportamenti dei nostri figli, senza cercare di comprenderne i motivi, significa bloccare l’empatia sia verso noi stessi sia verso di loro e limitare la relazione reciproca ad aspetti non affettivi. L’empatia ci chiede di concentrarci sull’altra persona e sul suo stato emotivo, dandole tempo e spazio di esprimersi e sentirsi compresa anche nelle divergenze e nei conflitti. Spesso non è importante fare o dire qualcosa, basta esserci e ascoltare con il cuore. È la presenza che conta, una presenza che non è solo comprensione del contenuto dei messaggi, ma anche dei sentimenti coinvolti nell’atto comunicativo. Inoltre, anche per gli adulti, riconoscere i propri bisogni e i propri sentimenti non soddisfatti aiuta a capire meglio i bambini e le loro richieste. Molto più spesso di quanto si possa pensare, più gli adulti sono direttivi ed esercitano potere sui figli, più questo significa che i loro bisogni non sono stati soddisfatti e vengono riproposti ai figli, trasformati in modelli educativi.


A sua volta, quindi, il bambino che sarà appagato dei propri bisogni sarà in futuro un genitore più libero nell’accogliere i bisogni dei propri figli. In definitiva, un modello di comunicazione senza perdenti, basato sull’empatia e sulla gestione dei conflitti in maniera rispettosa della dignità e dell’espressione emotiva di tutti, ha valore transgenerazionale, cioè serve non solo a noi oggi, ma sarà utile anche alle generazioni future e alla società.

In conclusione, ecco un piccolo schema riassuntivo di come comunicare con i nostri figli dimostrando loro accettazione e amore incondizionato:

  • Comprendere che la comunicazione non verbale fatta di gesti, tono, postura e ascolto è molto più importante di quella verbale.
  • Considerare i bambini persone competenti e capaci di comunicare fin dalla nascita e cercare di decodificarne sempre i segnali.
  • Non ignorare mai il pianto dei bambini: questo è un segnale tardivo di bisogno e perciò esige sempre attenzione.
  • Dare sempre un nome ai sentimenti: “Sei arrabbiato perché il babbo non torna a casa la sera come i babbi dei tuoi amici?”, “Sei triste perché volevi giocare ancora in giardino con gli altri bambini?”, “Sono dispiaciuto anche io perché vorrei stare ancora un po’ con te, ma devo andare a lavorare”.
  • Non puntare mai il dito verso i bambini e non far valere la differenza di altezza come simbolo di potere; mentre parliamo con loro, cerchiamo di stabilire un contatto fisico prendendoli in braccio: ciò permette anche di guardarli negli occhi a pari altezza.
  • Usare frasi in prima persona. Dire: “Ho fatto molta fatica oggi a stirare questa biancheria, mi dispiacerebbe molto doverlo rifare...” è molto diverso rispetto a pronunciare lo stesso messaggio in seconda persona: “Smetti di toccare la biancheria appena stirata!”
  • Non fare paragoni con altri bambini o con i fratelli.
  • Non esprimere giudizi personali sul bambino.
  • Non interferire. Spesso i bambini possono cavarsela da soli, piuttosto sarebbe importante stimolare la loro autonomia nella pratica quotidiana e nella risoluzione di problemi.
  • Assegnare ai bambini compiti chiari, accettati e condivisi e che sono realmente realizzabili da loro senza troppo sforzo.
  • Cercare di evitare frasi che iniziano con “non”. Per esempio: “Non correre!”, può essere sostituito da “Ho paura che tu cada, potresti andare più piano?”

Testimonianze

Le mamme e i papà del progetto “Non Togliermi Il Sorriso”22 (NTIS), pensano che un’educazione non violenta costituisca la base di partenza per diventare adulti sereni e in pace con se stessi e con il prossimo, cioè persone in grado di gestire i grandi e piccoli conflitti della vita in modo sano e costruttivo. Alcuni di loro hanno deciso di riportare le proprie esperienze in questo piccolo contributo, redatto appositamente per questo libro.


Accolgo molto volentieri le loro riflessioni, che aggiungono testimonianze preziose a quanto abbiamo appena visto in questo capitolo.


In generale questi genitori hanno osservato che, quando parlano ai bambini, anche la componente comunicativa non verbale ha una grande importanza. Chinarsi, abbassandosi al loro livello guardandoli negli occhi e sorridendo, permette di creare una connessione importante, “cuore-a-cuore”, che serve a veicolare le parole senza farle giungere come imposizioni del potere genitoriale. Viene inevitabile ripensare allora alle parole del grandissimo Janus Korczack23, pediatra: “Dite: è faticoso frequentare bambini. Avete ragione. Poi aggiungete: bisogna mettersi al loro livello, abbassarsi, inclinarsi, curvarsi, farsi piccoli. Ora avete torto. Non è questo che più stanca. È piuttosto il fatto di essere obbligati a innalzarsi fino all’altezza dei loro sentimenti. Tirarsi, allungarsi, alzarsi sulla punta dei piedi. Per non ferirli”.

Sull’importanza della comunicazione non verbale, una mamma di NTIS racconta che a volte i figli possono voler comunicare con noi, ma a un livello diverso: “A volte le nostre stesse parole ci possono allontanare dal sentire e dal farci sentire. Quindi contano gli sguardi, il modo di respirare, di muoversi, di stare seduti, di toccarci e di toccare nostro figlio, il nostro sentire corporeo tutto quanto insieme”.


Sullo stesso tema aggiunge un’altra mamma: “Io, per esempio, ho notato un lungo ed efficacissimo dialogo non verbale tra una mamma della scuola di mia figlia, una atleta di alto livello, e suo figlio. Loro usano occhi, corpo e gesti in modo eccezionale. Hanno molta confidenza col proprio corpo, se ne fidano e quindi lo ‘usano’ molto, anche per comunicare, giocare, condividere. Nel suo caso la ‘lingua materna’ è sicuramente una lingua in cui la parte verbale non è la più istintiva e importante per comunicare”.


Molti genitori hanno anche notato come elencare ciò che non ci si aspetta da bambini (per esempio: “Non correre”, “Non gridare”), risulti spesso nel risultato opposto a quello sperato. In qualche modo, infatti, sembra rimanere impresso, come sunto della comunicazione, l’atteggiamento descritto dal genitore, escludendone il “non”! Ed ecco quindi che i bimbi corrono e gridano...! Sembrano, invece, molto più memorizzabili e afferrabili richieste esplicite del tipo: “Per piacere, parla piano”, accompagnato dalla motivazione “perché tua sorella sta dormendo”, oppure “Cammina piano a fianco a me, per favore, che qua passano le macchine, è pericoloso”. Metterli al corrente delle ragioni per cui si chiede un determinato tipo di collaborazione consente loro di capire che cosa ha generato la richiesta, così come chiarire che sentimento causa quel bisogno, per esempio: “La mamma si sente stanca e ha bisogno della tua collaborazione. Per favore, potresti mettere nella scatola i giochi che non usi?”.


Melissa di NTIS, dalla sua esperienza di mamma di sette meravigliosi bambini, attribuisce un’importanza altissima alla connessione, alle buone sensazioni che derivano dall’amore, ed è convinta che quando è capace di approcciare con questo proposito interiore i figli, il compagno, ecc., tutto diventi subito molto più facile. Scrive: “Se voglio la pace, devo ritrovarla prima io. Se voglio che smettano di litigare, devo essere io la prima a non arrivare con un’energia litigiosa. Per questo, è importantissimo riuscire a gestire la propria rabbia in modo consapevole: diventare consci dei pensieri che attraversano la mente, dare a noi stessi un po’ di empatia, un bell’abbraccio interiore, riconoscendoci com’è difficile talvolta gestire queste situazioni, riconoscersi il bisogno interiore di un po’ di pace, un pochino di calma… ed ecco che poi ci si può ricordare di trovare quel posto interiore di calma così necessaria a gestire i propri casi, in casa.”

Sempre Melissa, nelle situazioni di disputa tra fratelli, trova molto utile ricordarsi di fare una specie di time-together24 (al posto del time out, che pare purtroppo così di moda): “Prendo il bambino più leggero in braccio, e dico a tutti quanti quanto sono dispiaciuta di non essere arrivata prima per aiutarli a gestire la situazione. Questo per me è stato come scoprire l’oro, perché è la verità: una gran parte del mio dispiacere deriva proprio da questo, che non ero presente per aiutarli prima del litigio. Spesso, quando mi sta scappando la situazione di mano, invece di menare le mani, sono solita mettermi a fare una ‘scenata’ ma ridicolizzandola… superesagerata, fatta per far ridere loro, e anche me. Alle volte mi metto a ‘urlare’ in ‘canto lirico’ dicendo tutto quello che vorrei ma in modo così ovviamente ridicolo che non offende… cosi ‘caccio’ quei pensieri di base che mi hanno portato a infuriarmi e posso fare a questo punto un ‘da capo’ della situazione. Dico: ‘Ripartiamo da capo?’ E ripropongo la giornata partendo da dove era ancora bella: aiuta molto questa specie di teatrino dove ricapitoliamo da dove le energie erano ancora buone ‘reinventando’ nuove proposte per ciò che era successo.”

La comunicazione efficace, inoltre, aiuta a capirsi meglio in entrambi i sensi: da noi ai bambini, ma anche viceversa. “Tra fratelli, per esempio”, continua Melissa, “può essere molto importante offrire al bambino più grande un po’ di spazio protetto. Ma è utile per il genitore che chi ha bisogno di giocare in santa pace lo dica in anticipo così da potersi organizzare per distrarre e occupare il bambino più piccolo, per esempio con uno spazio privato, magari in un angolo della casa, dove il più grande non è più raggiungibile dal più piccolo.”


Per migliorare la comunicazione serve un po’ di abitudine. All’inizio ci vuole la volontà di compiere scelte diverse. Tanti trovano molto utile leggersi pezzi che ispirano nella direzione di non violenza, empatia e intimità, anziché distacco e potere sovrano. Poi, giova anche ricordarsi giornalmente che ogni comportamento è un’affermazione di bisogno: sia che questo comportamento sia positivo, che quindi affermi un bisogno soddisfatto, sia che questo comportamento sia negativo e quindi affermi un bisogno mancato. Siamo noi adulti a dover scoprire i bisogni dei bambini, dato che non hanno ancora imparato a esprimerli e a comunicarli come i grandi!


La fiducia nei messaggi comunicati dai figli è altrettanto essenziale: fin dalla nascita infatti il bambino fornisce un riscontro immediato a tutto ciò che facciamo (aggrottando le sopracciglia e con le lacrime quando una sua legittima esigenza non è stata soddisfatta, o con luminosi sorrisi e coccole quando soddisfiamo i suoi bisogni in modo amorevole). Sta a noi accogliere quanto ci viene trasmesso, così come assicurarci che i nostri messaggi siano stati recepiti da loro.


Standoli ad ascoltare, c’è così tanto da imparare dai figli. Annalisa di NTIS racconta: “Quando ho smesso le mie aspettative, il pianeta che osservavo — mio figlio — aveva già cambiato rotta. Da allora so che devo usare un telescopio rotante perché, se lo tengo fisso in un punto, lui mi è già scappato, appunto come un pianeta meraviglioso. C’è un sostrato di unicità nei nostri figli che è solo loro. I nostri figli sono pianeti, ma ognuno ha un’orbita sua propria che solo il genitore sa come seguire.

“Ci è voluta molta, ma molta connessione e pratica zen… (nel senso che lui è stato il maestro per conoscere noi stessi), e quanto ne è valsa la pena! E lo dico non in termini utilitaristici; anche io penso, come molti di noi, che non faccio questo per ottenere quest’altro: faccio questo perché non potrei fare in altro modo per rispettare la sua unicità, la sua integrità di persona. Ho dovuto imparare a non comunicare solo con le parole, ma a esserci, dando il mio campo di energie… il mio respiro… Io sento, per esempio, che in me è come se si fossero attivate delle altre zone del cervello, non lo so… qualcosa di profondamente diverso rispetto a come ero prima.

“In effetti è così vero che, come sostiene la Miller25, il modo in cui siamo stati trattati da bambini si ripercuote nella maniera in cui facciamo i genitori, come pensiamo, come ci comportiamo, come vediamo i nostri figli e assolutamente anche come comunichiamo con loro!”

E se poi prende il vizio?
E se poi prende il vizio?
Alessandra Bortolotti
Pregiudizi culturali e bisogni irrinunciabili dei nostri bambini.I bimbi piccoli non hanno vizi. Hanno esigenze fisiologiche, ormai ben conosciute dalla ricerca scientifica, che è bene riconoscere e trattare come tali. Sono tanti i libri dedicati all’accudimento dei bambini piccoli, nella maggior parte dei casi spacciati come manuali di istruzioni, magiche ricette di felicità per genitori e figli.E si sa che la società odierna impone tempi e spazi basati sulla logica della produttività e del consumismo, senza curarsi di proteggere lo sviluppo psicofisico e affettivo dei più piccoli. I bambini si ritrovano così a crescere in un mondo adultocentrico che spesso si dimentica di loro o impone di diventare immediatamente autonomi e indipendenti, di non disturbare, di ignorare fin da subito i propri istinti e la capacità di comunicare i propri bisogni.E se poi prende il vizio? invece non propone metodi identici per tutti. Partendo dal presupposto che ogni genitore sia unico e, in quanto tale, debba mettersi in gioco in prima persona e compiere scelte libere, autonome e informate, per allevare esseri umani che mettano al primo posto le relazioni affettive e l’espressione libera dei sentimenti, il libro invita a riflettere sulla particolarità di ogni famiglia, sul diritto (e il dovere) di educare e allevare i figli in libertà, mettendo da parte i pregiudizi culturali e dando ascolto al proprio cuore e all’istinto.Alessandra Bortolotti, rinomata psicologa perinatale, nel suo libro tratta temi universali quali il sonno dei neonati e dei bambini più grandi, il bisogno di contatto e le più elementari forme di comunicazione tra genitori e figli, basandosi sulle più recenti scoperte nel campo delle neuroscienze. Le ricerche sulla fisiologia della gravidanza, del parto e dell’allattamento sottolineano infatti, in maniera chiara e inappellabile, che rispondere ai bisogni affettivi dei bambini non significa viziarli ma, anzi, costituisce un patrimonio irrinunciabile che può influenzare positivamente l’equilibrio fisico ed emotivo di tutta la loro vita. L’ebook di questo libro è certificato dalla Fondazione Libri Italiani Accessibili (LIA) come accessibili da parte di persone cieche e ipovedenti. Conosci l’autore Alessandra Bortolotti, psicologa perinatale, si occupa da anni di puericultura e fisiologia di gravidanza, parto e allattamento.È consulente di numerose riviste e siti internet dedicati ai genitori e scrive su varie pubblicazioni scientifiche.È ideatrice e curatrice del sito www.psicologiaperinatale.it e conduce incontri post parto in provincia di Firenze, dove vive.