capitolo I

Cultura, conformismo
e ruoli genitoriali
a confronto

Introduzione: fisiologia, normalità e consumi

Io passo per una mamma che non intende far crescere il proprio bambino perché dorme con noi, allatto, rispondo sempre e con infinita pazienza a qualsiasi suo richiamo e quando lui comincia ad aver attacchi di rabbia, al posto di innervosirmi, lo tranquillizzo e cerco di capire dove sta il problema. Dicono che lo vizio, che non crescerà mai... per colpa miai Chiaramente a me non importa ciò che possono pensare ‘gli altri’, ma ci si sente spesso tanto soli a leggere certi articoli. Vedere che esiste gente come me, che non sono un E.T., è davvero confortante.

Rossella, mamma di Francesco

Questo libro nasce per fare chiarezza e diffondere informazioni su ciò che è normale, sano e universale per tutti i bambini.

Nell’immaginario collettivo occidentale i bambini dovrebbero essere sempre tranquilli, sereni, non disturbare, dormire tutta la notte prima possibile, finire tutto quello che hanno nel piatto, stare fermi. Questi bambini sono quelli rappresentati dalle pubblicità e da una certa cultura dell’immagine, non certo dei sentimenti. Nella nostra mentalità non c’è chiarezza su quali siano i bisogni oggettivi di ogni bambino, in qualsiasi angolo della Terra nasca e cresca. Inoltre, si scambiano questi bisogni per vizi, poiché si ignora che i luoghi comuni relativi al rischio di viziare i bambini non hanno alcuna base biologica ma sono unicamente frutto di pregiudizi ideologici. Sfuggono a molti esperti alcuni aspetti di base della fisiologia, cioè di ciò che è normale per ogni appartenente alla specie umana in un buon stato di salute1.

L’etimologia della parola fisiologia ci rimanda alla lingua greca in cui physis e logos significano rispettivamente natura e insegnamento. È, quindi, una disciplina che studia ciò che è naturale e normale per ogni persona in una prospettiva transculturale, che va cioè oltre i modelli e le credenze dettate dalla cultura.


Conoscere a fondo questa materia può aiutare i genitori a capire meglio i propri figli e i loro bisogni, considerando normale, per esempio, dormire con loro, allattarli a lungo o portarli nelle fasce. Nella nostra società queste pratiche sembrano, invece, strane o addirittura da evitare: piuttosto che dare valore a un “pacchetto di cure” che prevedano semplicemente il contatto fra genitori e figli, pare normale delegare tutto agli esperti o ancora sembra che le varie scienze debbano aiutare a vivere meglio e “insegnare” l’impegnativo mestiere del genitore.


In realtà, molto ci è suggerito dallo svolgersi quotidiano della relazione che instauriamo con i nostri figli, soprattutto se questa è basata su princìpi di non violenza, di valorizzazione dei sentimenti e sul rispetto dei bisogni di tutti. Tutti i bambini piangono per segnalare qualcosa di importante; tutti i bambini hanno bisogno di stare in braccio per sentirsi avvolti e contenuti; tutti i bambini hanno esigenze simili, indipendentemente dal paese in cui nascono e vivono. Si tratta di bisogni e di comportamenti adattivi, cioè che rendono migliore l’adattamento del soggetto all’ambiente in cui vive. Ma c’è di più. Riconoscere e rispondere adeguatamente ai bisogni dei bambini li aiuterà a crescere psicologicamente sani ed equilibrati, aumenterà la loro autostima e li agevolerà verso la conquista dell’indipendenza.


Le culture orientali, per tradizione, considerano l’uomo in maniera “olistica”, cioè nella sua interezza di mente e corpo. In occidente, invece, l’influenza dei fattori emotivi, affettivi e relazionali implicati nella nascita e nella crescita dei bambini è materia di studio da pochi decenni. È più usuale considerare la salute del bambino soltanto come “assenza di malattia”, anziché come un insieme di fattori psichici e rìsici in stretta correlazione fra loro nel determinare uno stato di benessere.

Spesso, da noi, si condivide l’opinione secondo cui un bambino che piange o reclama attenzione è soltanto un bambino viziato, capriccioso, furbo o noioso che vuole distrarre l’adulto senza un motivo valido; come se i bisogni emotivi dei bambini fossero trascurabili o, addirittura, come se ignorarli servisse al bebè da palestra di vita per diventare grande, forte e indipendente. Nella nostra cultura si sottovaluta la possibilità che il bimbo sia competente tanto nel sentire quanto nel comunicare i propri bisogni; sembra cioè che i bambini siano “tabulae rasae” su cui i genitori devono scrivere regole e princìpi educativi. Ormai ci sono numerose prove del fatto che, già alla nascita, i neonati hanno competenze chiare “in termini di comunicazione, di conoscenza dei loro limiti e delle loro necessità, anche se spesso hanno bisogno di aiuto per tradurle in frasi comprensibili. Ma anche se sanno esprimere le loro necessità e i loro limiti, non sono in grado di difenderli da manipolazioni e violazioni da parte degli adulti. Perciò dipendono dalla capacità e dalla disponibilità di chi si prende cura di loro per riconoscere le proprie competenze e il diritto di prendersi le proprie responsabilità personali”2.


Se i genitori si aspettano di trovare “manuali di istruzioni” per l’educazione dei propri bambini, rischiano di entrare in un vortice che li distrarrà dall’importanza della relazione con loro. Non c’è così tanto da imparare dall’esterno, né alcun esperto o libro che si possa sostituire al ruolo genitoriale. A questo proposito il pediatra e psicoanalista inglese Donald Winnicott afferma: “La madre non può imparare a fare ciò di cui il bambino ha bisogno dai libri, né dalle infermiere, né dai medici. Può darsi che abbia imparato molto dall’essere stata a sua volta una bambina e anche dall’aver visto i genitori occuparsi di bambini piccoli e dall’avere essa stessa preso parte alla cura dei fratellini minori e, soprattutto, avrà imparato molte cose di importanza vitale giocando, in tenera età, a papà e mamma. [La madre] deve sapere queste cose a un livello più profondo e non necessariamente con quella parte della mente che dispone di parole per tutto. Le cose fondamentali che una madre fa con il suo bambino non si possono fare con le parole”3.


Oggi la normalità è invece quella di ricorrere all’esperto per qualsiasi cosa riguardi i bambini. Non viene incoraggiata l’autonomia del genitore. Ci sono libri, format televisivi, associazioni e siti web che promuovono la delega del ruolo genitoriale tout court, come a dire: “Non vi preoccupate, vi insegniamo noi un metodo per ogni cosa! Abbiamo la soluzione perfetta ai vostri problemi! Voi non dovete fare nulla, ci pensiamo noi”. Per esempio, in un inquietante e diffusissimo libro sul sonno dei bambini si ordina ai genitori: “Non fate nulla che non sia scritto in questo libro”4. Affermazione che toglie al lettore ogni libertà di scelta e di pensiero. Se i bambini imparano qualcosa da un metodo o da un esperto, lo fanno grazie ad altri e non grazie ai propri genitori. Sembra che il rapporto fra genitori e figli debba essere sempre mediato da qualcuno più competente e autorevole di loro stessi.


Genitori e bambini, invece, sono competenti per portare avanti una sana relazione reciproca nel rispetto dell’individualità di ognuno. Come potrebbe essere altrimenti? Come è possibile che esistano metodi uguali per tutti che riducono i bambini a oggetti? Jesper Juul, terapeuta familiare, afferma a questo proposito: “Secondo i medici e i ricercatori è ormai tempo di cambiare il nostro tipo di relazione nei confronti dei bambini, modificando il rapporto da soggetto/oggetto a soggetto/soggetto”5.

Quindi, se partiamo dal presupposto che genitori e figli sono persone a tutti gli effetti con diritti, bisogni e competenze, tutto sta nel trovare modalità di educazione e convivenza che rispettino il più possibile ogni membro della famiglia, indipendentemente dall’età. I genitori poi, attraverso il riconoscimento delle proprie capacità e potenzialità, potranno avere più fiducia in se stessi e meno necessità di ricorrere ai consigli degli esperti. Rivolgersi all’esterno non è certo un problema o un segno di debolezza, ma credo che oggi sia diventato necessario recuperare una cultura dell’individualità e dell’unicità di ogni famiglia, per contrastare la tendenza dei genitori a delegare il proprio ruolo agli esperti e a diventarne quindi dipendenti. Il problema nasce, per esempio, quando un pediatra esce dal suo ruolo di medico che cura o previene le malattie e comincia a dare indicazioni rigide al genitore circa le modalità di relazione e di accudimento del bambino.

Scrive Winnicott a tale proposito: “Nell’ambito della mia professione ho naturalmente occasione di ascoltare molte madri riguardo la sofferenza provocata da medici e infermiere che, mentre danno prestazioni di prim’ordine nelle cure di tipo fisico, non sono in grado di evitare di interferire e di essere tutt’altro che utili quando si tratta delle relazioni reciproche fra madre, padre e bambino. Se cominciano a dare consigli circa l’intimità si muovono su un terreno pericoloso, perché né la madre né il bambino hanno bisogno di consigli. Anziché i consigli è loro necessario un apporto ambientale che incoraggi la fiducia della madre in se stessa”6.


Spesso ho incontrato mamme che di fronte alla domanda: “Lei cosa pensa che sia meglio per suo figlio?” si stupivano di essere in grado di trovare una soluzione propria. Molte volte, invece, fornendo al genitore un ascolto attivo ed empatico7, è lui stesso che trova la sua soluzione, aumentando così la percezione di competenza genitoriale e di autostima.


Questo concetto si può definire con la parola “empowerment” che, alla lettera, descrive un processo dinamico di riconoscimento e di accrescimento della fiducia in sé e nelle proprie capacità di gestire la vita: “Avere potere su se stesso, sentirsi ed essere efficace, avere la consapevolezza di potere incidere sugli eventi, godere di una buona autostima, considerare gli insuccessi come momento di apprendimento, sono parte di una condizione psicologica basata sull’empowerment. Tale condizione, però, non è data una volta per tutte, ma rappresenta un cammino che favorisce la speranza nel futuro e che permette di percepirsi come persone capaci di cimentarsi e riuscire. Queste non sono persone che hanno raggiunto tutti i propri obiettivi, persone arrivate, persone ‘di potere’, bensì individui capaci di affrontare la vita e le sue sfide, capaci di attraversare successi e insuccessi mantenendo saldo il potere su se stessi”8.

Il modello sociale che si basa sull’empowerment parte dall’assunto che le persone siano competenti e che debbano trovare servizi ed esperti che le incoraggino a effettuare scelte consapevoli e soprattutto autonome.


Ma allora, perché è così difficile trovare informazioni basate su fisiologia ed empowerment? Perché spopolano metodi ed esperti che si sostituiscono ai genitori per qualsiasi aspetto della vita con i bambini? Che ruolo ha la cultura di appartenenza nelle scelte educative dei genitori? Perché è sempre più diffusa la cultura della delega del ruolo genitoriale, fin dalla gravidanza?


L’idea di questo libro mi è venuta ripensando a tanto tempo fa, quando lavoravo come babysitter e mi domandavo che cosa fosse giusto o sbagliato fare con i bambini, ovvero se esistessero metodi perfetti da seguire per essere un bravo genitore. Osservavo i miei “piccoli clienti” e pensavo a che madre sarei stata.


Poi ho avuto la mia prima figlia e tutto è stato subito chiaro.

Perché quando vedi la tua creatura per la prima volta e la sfiori avendo quasi paura che si rompa, ti sembra che niente sarà più importante di lei… quando le offri il seno e lei si nutre da te… capisci che tutto quello che avevi in mente prima della sua nascita non conta più, e il presente non è come l’avevi previsto e immaginato.


Perché tutto cambia, ma proprio tutto. È un meraviglioso e imprevedibile punto di non ritorno dal quale si parte verso una vita insieme, in cui la tua creatura è un minuscolo essere nato da te e da te completamente dipendente.


Ed ecco la sorpresa: improvvisamente, la donna che ha appena partorito passa in secondo piano, dopo mesi di attenzione convogliata su di sé dall’attesa. Con una battuta si potrebbe dire che la donna in “stato interessante” interessa a tutti, ma dopo che è nato il bambino non interessa più a nessuno!


Dopo la nascita del bambino, infatti, l’interesse di tutti si rivolge al nuovo nato e alla sua candida bellezza e la mamma, con una facilità incredibile, viene inondata di giudizi e consigli su tutto ciò che deve ancora vivere, quando avrebbe solo bisogno di stare insieme al suo bambino e cercare di stabilire con lui un’efficace modalità comunicativa e relazionale. Il momento del parto rappresenta il debutto nel mondo di un bambino, ma anche il riconoscimento sociale della nascita di una madre che, con nove mesi di gravidanza alle spalle, passa dal fantasticare su come saranno i primi giorni di vita della sua creatura, a misurarsi con l’inizio dell’allattamento, coi ritmi che cambiano e col via vai gioioso in casa di parenti e amici.

Ogni cultura ha i propri rituali di accoglienza del neonato e di accudimento della puerpera, ma vale la pena ricordare che l’unica certezza fisiologica su cui basarsi è quella del bisogno assoluto di non separare la mamma dal suo bambino. Nella cultura italiana9, invece, è considerato normale fin dai primi giorni usare passeggini, ciucci e biberon, lettini con i cancelli, carrozzine, apparecchi per sentire e vedere il neonato a distanza da altre stanze della casa. Tutti oggetti che suggeriscono, quindi, un distacco fisico tra madre e figlio. In altre culture, al contrario, è normale utilizzare fasce porta-bebè anche per l’intera giornata, fare a meno di ciucci e biberon almeno per i primi mesi, dormire con i bambini nello stesso letto o nella stessa stanza, rendendoli partecipi della vita comune della famiglia. Si vive semplicemente con loro e non nonostante loro. In sintesi, ciò che a noi sembra normale acquistare quando aspettiamo un bambino riflette più un’abitudine socio-culturale che i reali bisogni del neonato.

A questo proposito, tempo fa ho conosciuto una signora di origine italiana che vive in Germania da molti anni. Abbiamo parlato di come, in quel Paese, fasce porta-bebè e pannolini lavabili siano considerati normali nell’accudimento dei bambini e di come si trovino ovunque nei negozi. Mi ha fatto notare, poi, come dieci anni fa, quando tornava in Italia e passeggiava con la sua bimba piccola portata nella fascia, le sembrava di essere un’extraterrestre, tanto la guardavano e le chiedevano cosa fosse quel pezzo di stoffa!


Perciò, anche vicino a noi, le “normalità” cambiano. Quello che ci sembra scontato e ovvio, non lo è più. E ciò accade soltanto perché cambiano le culture, non certo i bambini.


Anche se osserviamo le pubblicità di prodotti per neonati c’è di che riflettere. Si può crescere un bambino ricorrendo soltanto qualche volta (o addirittura mai!) a omogeneizzati, pappe pronte, biberon, ciucci, prodotti cosmetici di dubbia certificazione, sdraiette e contenitori vari? Ebbene sì, questo è possibile. Ma tali informazioni non sono diffuse nella nostra società e sembrano stranezze di mamme “alternative”. Ci troviamo di fronte a un fenomeno che oso definire la “mercificazione della nascita”. Si pensa che il neonato sia un piccolo consumatore di oggetti e gadget indispensabili, quando, invece, i suoi veri bisogni sono ignorati dalla maggior parte delle persone e, per interesse, dal mercato. Ci si dimentica facilmente che, in realtà, è appena nato un piccolo di mammifero che necessita soltanto di latte, calore e amore.


Non desidero certo indicare al lettore un articolo piuttosto che un altro, né limitare la sua libertà di scelta o di acquisto; ma è mia intenzione far notare quanto la percezione di normalità delle pratiche e degli oggetti per l’infanzia dipenda dalla cultura a cui apparteniamo molto più che dalle reali e oggettive necessità dei bambini. I genitori che non aderiscono ai modelli sociali, culturali ed economici dominanti rischiano di sentirsi come la mamma che ho citato all’inizio di questo paragrafo: degli extraterrestri, delle persone “diverse”, che daranno adito a commenti e giudizi, e che saranno spesso tentati di nascondersi o dubitare di sé e delle proprie scelte, soltanto perché non sono usuali. Ecco quindi che l’empowerment del genitore è messo a dura prova sia dalle credenze culturali sia dal mercato dell’infanzia, e questo non agevola di certo la relazione con i propri figli.


Ogni genitore dovrebbe sentirsi libero di scegliere la propria modalità di educazione dei bambini, senza condizionamenti culturali e senza pregiudizi sugli ipotetici danni eventualmente causati dall’assecondare il proprio istinto.

Senza grande sforzo, ragionando con la nostra testa e con maggiore autonomia, potremmo allevare le nostre creature in maniera molto più libera e avere con loro una relazione basata sul rispetto reciproco e sulla fiducia nelle competenze di tutti. Avremmo anche la possibilità di aiutare i bilanci familiari, ma ancora di più quelli dell’ambiente in cui viviamo e dell’intero Pianeta, sia a livello economico sia, soprattutto, affettivo.

I bisogni dei bambini non sono vizi

La parola ‘viziare’ riferita ai bisogni primari dei bambini
mi fa intorcinare le budella.

Adriana, mamma di Mattia

La Rivoluzione Industriale ha portato con sé l’illusione di poter dominare la natura attraverso l’uso delle macchine, prima, e dei calcolatori, poi. Grazie al progresso, nei paesi cosiddetti civilizzati, ognuno di noi gode di innovazioni che hanno cambiato radicalmente la vita. Internet, i telefoni cellulari, i mezzi di trasporto sempre più veloci annullano le distanze e possono provocare nell’uomo una sensazione simile all’onnipotenza. Tutto questo però, negli anni, ha reso evidente quali sono i limiti di un tale progresso scientifico. I disastri climatici ed ecologici, l’esaurimento delle risorse naturali della Terra, lo sfruttamento intensivo del suolo, le malattie nate dalle abitudini consumistiche, l’impoverimento affettivo delle relazioni interpersonali mettono sotto gli occhi di tutti che c’è qualcosa che non va. Dobbiamo correre ai ripari.


Le innovazioni tecnologiche e la ricchezza non sono per tutti e, soprattutto, non sono sufficienti per una vita serena. Esistono ancora Paesi dove si muore di fame, dove l’acqua non è disponibile e dove gli aiuti umanitari fanno fatica ad arrivare. Il progresso è limitato, le nazioni povere esistono e sono molte di più di quello che pensiamo.

Michel Odent10, medico di fama mondiale, ci fa notare come l’industrializzazione abbia creato conseguenze molto gravi anche nelle pratiche occidentali che riguardano la nascita; propone addirittura di valutare una nazione in base alle modalità in cui nascono i bambini. Non vi è una diffusa consapevolezza, infatti, che la nascita è diventata un oggetto di marketing tanto quanto gli articoli per la prima infanzia; per questo i professionisti che lavorano per comunicare tali informazioni vengono spesso considerati ciarlatani, visionari o, come direbbe Odent stesso, “politicamente scorretti”.


Questo è anche il motivo per cui i reali bisogni e le competenze della donna gravida e dei neonati sono praticamente ignorati dalla maggior parte dei genitori e, purtroppo, anche da molti professionisti del settore. Per fare un solo esempio di quanto voglio dire si pensi all’idea comune secondo cui il bambino viene “fatto nascere” dall’ostetrica o dal medico, piuttosto che considerare la donna e il nascituro come protagonisti attivi e competenti del parto.


Parlerò più ampiamente nel prossimo capitolo di questi aspetti legati alla nascita e a tutto il periodo perinatale.

Tornando ai bisogni primari dell’essere umano in generale, Erich Fromm11, psicoanalista e sociologo tedesco, propone una distinzione tra bisogni soggettivi e bisogni oggettivi.

I bisogni soggettivi sono avvertiti solo dal soggetto e la loro soddisfazione comporta un piacere momentaneo; i bisogni oggettivi invece sono radicati nella natura umana e la loro soddisfazione comporta uno sviluppo dell’uomo che ha per effetto il “vivere bene”. I primi possono essere dannosi almeno in parte allo sviluppo dell’individuo, mentre i secondi sono sempre in accordo con le esigenze della natura umana; in altre parole, sono necessari per la sopravvivenza della specie. Quelli oggettivi sono quindi irrinunciabili e comprendono gli aspetti legati all’affettività e al bisogno di appartenenza. Sono proprio questi, dunque, che ci rendono simili a ogni altro essere umano, indipendentemente dall’età, dallo status e dalla cultura di appartenenza.


Entrambi questi autori ipotizzano una catastrofe imminente se non si comprende che la sopravvivenza della specie dipende dalla trasformazione del cuore umano, dall’importanza che si dà all’amore e all’affettività e dal ridimensionamento del valore che si è riconosciuto finora alle leggi dell’industria e dell’economia. Oggi si dà più importanza a ciò che si possiede, alla produttività, alle leggi del mercato, piuttosto che a quello che siamo e all’esempio che diamo ai nostri figli.


Il disastro economico, industriale e ambientale è noto ormai a tutti: ma quello affettivo? L’aumento della sterilità di coppia, l’impoverimento della qualità delle relazioni, la difficoltà nel salutare il nostro vicino di casa, la crescita delle malattie relazionali (autismo, anoressia, depressione…) e le dipendenze da sostanze stupefacenti, o da alcool, dovrebbero farci riflettere.


Forse potremmo considerare l’ABC della sopravvivenza umana proprio a partire dal rispetto della natura, dall’amore e dall’affettività, scoprendo che, ancora una volta, la fisiologia viene in nostro aiuto.


Niente di più facile e immediato, quindi, che concentrarsi sull’inizio, quando un bimbo viene concepito e nasce, passando dall’equilibrio e dall’avvolgimento totale nel corpo caldo di sua madre al caos della vita extrauterina, fatta di luci, suoni e spazi vuoti che prima della nascita non erano nemmeno lontanamente immaginabili.

Quali sono allora i bisogni oggettivi di tutti i neonati, validi come universali12 di ogni cultura e necessari per la sopravvivenza dell’individuo e della specie?

Primo fra tutti il bisogno di contatto fisico e di contenimento13, a cui dedicherò un capitolo intero in questo libro – il terzo – data la sua importanza fondamentale e spesso trascurata dalla nostra cultura.


Qui basti accennare che il contatto è uno dei requisiti principali per la sopravvivenza. Serve al neonato per regolare il proprio metabolismo, la temperatura corporea e per provare sicurezza, contenimento, fiducia in sé. La parola “contatto” deriva, infatti, dal latino contingere che significa toccare; quindi parlare di contatto implica anche la considerazione del senso del tatto e dell’importanza della pelle come organo che ha funzioni di base per la vita intera dell’individuo.


Fin da neonati, il tatto e le sensazioni di piacere che derivano dalla propria pelle danno un confine, un limite che aiuterà l’acquisizione del senso di identità.


Il bisogno di contatto e di contenimento è una condizione necessaria ma non sufficiente per la vita, in quanto il piccolo d’uomo nasce del tutto dipendente dalla madre e ha bisogno di lei per sopravvivere. In altre parole, contatto e contenimento si collocano all’interno di una relazione di dipendenza fra madre e bambino, che rappresenta il prototipo di tutte le relazioni future: un imprinting emozionale di straordinaria importanza, fisica ed emotiva. Alexander Lowen, psicoanalista e padre della bioenergetica, afferma a questo proposito: “Alla nascita il bambino dipende dalla madre per il sostentamento. Il sostentamento per il neonato e per il bambino è qualcosa di più del nutrimento, il bambino ha bisogno di amore, di sicurezza […]. Il rapporto del bambino con la madre implica un processo energetico. Il contatto del bambino con il sistema energetico della madre eccita l’energia del suo sistema e lo induce ad avvicinarsi al punto di contatto. Se questo è il petto, la carica energetica alla bocca del neonato diventa molto forte […]. Il neonato ha bisogno del contatto fisico con la madre, così come ha bisogno del cibo e dell’aria. L’intimità necessaria si raggiunge soprattutto attraverso la funzione dell’allattamento al seno; l’allattamento artificiale indebolisce notevolmente il contatto […]. Il bambino allattato dalla madre ha un controllo maggiore sull’ingerimento del cibo; ne può prendere la quantità che desidera, piccola o grande che sia. Più importante ancora è il fatto che il capezzolo è succhiato profondamente dalla bocca per l’azione della lingua contro la parte posteriore del palato duro, mentre sulla tettarella di gomma agiscono prevalentemente le labbra. Ora qui nascono gli interrogativi fondamentali. Di quanto contatto con la madre ha bisogno il bambino per evitare sensi di privazione? […] Le mie risposte traumatizzeranno qualche lettore, ma spiegheranno anche i numerosi problemi della salute mentale. Le risposte esatte dipenderanno dal singolo bambino. Soltanto il bambino realmente sa o sente di quanto contatto ha bisogno.[…] Sebbene a tre anni non accada nessun evento biologico importante, questa è un’età importante nella storia dell’individuo. Le madri primitive generalmente allattavano e trasportavano i bambini fino a quell’età. [...] Bioenergeticamente, questo è il momento in cui il bambino è uscito dallo stadio della prima infanzia e mostra una certa indipendenza”14.

Non soltanto le madri primitive allattavano e portavano addosso i loro bambini fino a tre anni; anche oggi, per molte popolazioni, questi sono comportamenti normali ed è riconosciuto che agevolano il bambino verso l’acquisizione di un buon senso di identità e di autonomia.


Il bisogno di contatto, per di più, è superiore a quello di nutrimento, come ci dimostrano i famosi esperimenti di Harlow15 sulle scimmie Rhesus, effettuati in laboratorio. I cuccioli appena nati, difatti, preferiscono il contatto con una finta mamma ricoperta di pelo sintetico che avvolge ed emana calore, piuttosto che il biberon offerto da una fredda madre metallica.


In psicologia questo concetto si esprime con la parola attaccamento e ha dato origine a una vera e propria teoria di cui l’esponente principale è stato lo psicoanalista John Bowlby.


Si può definire l’attaccamento come “la condizione primaria nella quale un individuo è legato emotivamente a un’altra persona di cui ricerca la vicinanza, considerandola una base sicura e protestando se viene separato da lei”16.

L’attaccamento, come il bisogno di contatto e di contenimento, è quindi un bisogno primario, oggettivo e universale del cucciolo d’uomo; attaccamento, contatto e contenimento sono parti di un tutto che sta alla base di una sana crescita emotiva.

Abbiamo detto che ogni neonato desidera essere tenuto in braccio: sentire che qualcuno lo sorregge gli dà un confine nello spazio e lo aiuta a percepire i propri limiti fisici; inoltre gli fa avvertire calore e sostegno, che soddisfano il suo bisogno di protezione, così come facevano le pareti uterine materne prima della nascita.


Col passare dei mesi e degli anni quel bambino procederà a una sempre più ampia esplorazione del mondo a partire dalla base sicura che l’adulto, soprattutto la madre nei primi mesi, avrà rappresentato per lui. Con i suoi tempi, senza poter stabilire a priori età precise, il piccolo guadagnerà la sicura indipendenza. Forzare l’acquisizione di questa conquista significa non avere fiducia nelle spontanee capacità del bambino di percorrere la propria strada verso il cammino della vita, non accettandone i tempi e le modalità infantili, ma imponendo al contrario schemi di crescita rigidi, adulti e razionali. È ben arduo, infatti, trovare libri di puericultura o di psicologia che non indichino date e tempi di svezzamento dal seno materno, di esilii dal lettone e/o dalla camera dei genitori, di limiti imposti sul tenere in braccio i piccoli: sembra che i tempi debbano sempre essere stabiliti da altri più competenti. Sarebbe ora di comprendere che la definizione di tempi universali e limiti di relazione fisica con i bambini impedisce ai genitori di riconoscere l’unicità del proprio figlio e della propria storia familiare.


Il bambino costruisce la fiducia in sé attraverso il successo nel comunicare i propri bisogni e l’adeguatezza delle risposte ricevute. Nella nostra cultura, basata sulla separazione madre/bambino, si ritiene che il neonato debba essere da subito “bravo”, cioè che non disturbi, che dorma tutta la notte, che sia autonomo e indipendente. Si ignora, spesso, l’importanza della necessaria e fisiologica relazione di dipendenza fra madre e neonato, indispensabile per conoscersi e crescere, fin dai primi momenti di vita. Già in utero la madre si era abituata a riconoscere i movimenti attivi fetali, attribuendoli alla propria creatura; dopo la nascita, giorno dopo giorno, stare con il proprio figlio servirà a trovare modalità di comunicazione e relazione che diano sicurezza, sia al bambino che segnala i propri bisogni, sia alla madre che li interpreta e risponde sempre più adeguatamente, sentendosi in grado di espletare il ruolo che la natura le ha dato.


La nostra cultura promuove l’idea che la donna in gravidanza possa fare tutto come se non fosse incinta: che possa lavorare fino alla fine del tempo di gestazione, che sia pronta e scattante fisicamente, senza dare sufficiente considerazione alle sensazioni dovute al suo particolare stato. Questi malintesi possono creare nelle donne una pericolosa scissione tra ciò che sentono istintivamente e ciò che la società impone loro. Allo stesso modo, dopo la nascita del bambino la donna si sentirà in dovere di continuare a svolgere le attività lavorative e domestiche come prima che restasse incinta, per non cedere a un bambino bisognoso di cure che altrimenti crescerebbe sicuramente viziato e dipendente fin dall’inizio dei suoi giorni.


Quante volte, fin dai primi istanti di vita di un bimbo, la madre si sente rivolgere commenti del tipo: “Ma lo tieni sempre in braccio! Se non lo abitui a stare giù, non te lo levi più di dosso!”, “Dorme con voi? Quando pensi di togliergli questo vizio?”, “Ma come sei sciupata! Da quando hai partorito, non ti riconosco più...”, “Non dargli sempre la poppa ogni volta che piange, devi abituarlo a trovare altri modi di consolazione, non vorrai mica tenerlo sempre attaccato!”.


Affermazioni di questo tipo (in fondo a questo capitolo ne elenco molte altre) inducono le madri a pensare che il bambino chieda troppo e che stia a loro limitare le occasioni di contatto. Niente di più infondato da un punto di vista puramente fisiologico. Al contrario, è normale e sano che i bambini cerchino la vicinanza fisica e il contatto con la madre: è un bisogno irrinunciabile di tutti i neonati e rappresenta un’iniezione di fiducia essenziale per l’acquisizione dell’autostima. Non esistono evidenze scientifiche che affermino il contrario.

Quindi, in sintesi, un altro bisogno fondamentale dei neonati è la creazione di una relazione di dipendenza, che permetta loro la libera espressione delle proprie necessità, fisiche e psichiche. Questo non significa che le mamme debbano essere “ostaggio” dei bambini, ma semplicemente che i pregiudizi della nostra cultura non sono altro che stereotipi privi di verità.

Un altro equivoco è quello di pensare che il neonato abbia bisogno di essere stimolato per apprendere. Maria Montessori afferma in molte sue opere che “i neonati hanno bisogno di risposte, non di stimoli”17. Eppure il mercato ci offre gadget e arredamenti per bambini, coloratissimi e pieni di attività per stimolarli, come se né loro, né i genitori fossero più capaci di stare insieme in semplicità.

Madre e bambino, quindi, hanno bisogno di stare insieme: l’indipendenza reciproca non ha basi fisiologiche, né serve a nessuno. La relazione di dipendenza che si crea fra genitori e figli e l’ambiente che li circonda sono più che sufficienti per l’ottimale sviluppo psicofisico dei bambini. E poi, siamo proprio sicuri che gli adulti di oggi siano così indipendenti? Che cosa pretendiamo dai bambini se non diamo il buon esempio? L’indipendenza è davvero un valore? E quando invece diventa incapacità di relazionarsi col prossimo? Molti adulti di oggi sono figli dell’epoca in cui se un bambino piangeva, una volta pulito, nutrito e coperto, allora “si faceva i polmoni”. Il bravo genitore era colui che “domava” i propri figli fin dal principio; i bravi bambini quelli che non disturbavano gli adulti. Ancora oggi alcune madri sono convinte di dover “impostare” i neonati e puntualmente compaiono associazioni ed esperti che propongono metodi e corsi a tal fine. Ricordo mia madre che spesso mi ha raccontato: “Hai pianto la notte solo tutto il primo mese di vita, poi non hai pianto più e hai dormito fino alla mattina dopo”; questa era la triste normalità quaranta anni fa. Ma, a guardarsi un po’ intorno, la generazione di adulti così allevati può rivelare carenze affettive che si esprimono nelle vaste dipendenze da fumo, alcool, gioco, cibo, shopping compulsivo e nei rapporti affettivamente non equilibrati, basati su una dipendenza relazionale chiaramente infantile. Tutte queste dipendenze sembrano riempire vuoti le cui origini sono ben più lontane. Se gli adulti cresciuti allora come neonati indipendenti sono oggi così dipendenti, forse dobbiamo rovesciare la medaglia e cominciare a fidarci di ciò che è più grande e più potente di noi: la fisiologia, la natura e ciò che ogni bambino ha la capacità di comunicare fin dai primi istanti di vita.


Dobbiamo fidarci del nostro istinto di genitori e di ciò che i bambini ci comunicano.

L’indipendenza si acquisisce a partire dalla dipendenza.


Già la nascita è una prima importante tappa di autonomia. Consideriamo anche solo il primo respiro che improvvisamente il neonato compie da solo e che gli servirà da “allenamento” per il resto di tutta la sua esistenza: nessuno ancora ha pensato di insegnarglielo!


Il bambino ha necessità che si abbia fiducia in lui e nelle sue capacità di segnalare i propri bisogni, avendone una risposta adeguata.

Perché questo non significa viziare?

La buona notizia che stupirà molti è che tutti, ma proprio tutti i bambini, a un certo punto e con i propri tempi – e cioè quando saranno pronti e il loro bisogno di sicurezza sarà appagato – si staccheranno dal seno della propria madre, mangeranno da soli senza sporcarsi, dormiranno sereni nel proprio letto, cammineranno e correranno felici, stabili e senza farsi male, non useranno più pannolini. Ma non è finita qui. La notizia sensazionale, almeno così sembra a guardarsi un po’ intorno, è che ogni genitore può esplicare con tranquillità il proprio ruolo in maniera libera e autorevole, senza ricorrere a punizioni, minacce, ricatti, piccole corruzioni, regole coercitive basate sul potere, metodi inventati da altri, tate multimediali, figure professionali che a pagamento si materializzano in casa notte e giorno. I bambini cresciuti nel rispetto dei loro bisogni non avranno nulla a che vedere con i bambini tiranni o con i neonati maleducati citati in famosi testi di puericultura presenti sugli scaffali delle librerie delle nostre città.


La mia sensazione è che siamo di fronte a un paradosso, a un circolo vizioso.

I genitori, infatti, sono stati espropriati del proprio ruolo più fine, quello di essere esempio autorevole di vita per i propri figli e non soltanto uno strumento di applicazione di modelli educativi altrui, imposti dalla società e dalla cultura. Il crollo della famiglia patriarcale ha poi lasciato i genitori soli ad affrontare le richieste della società in termini di produttività lavorativa, inducendoli a trascurare la dimensione affettiva e relazionale nell’educazione dei propri figli. In più, l’ambiente scientifico e gli esperti continuano a sfornare manuali e teorie (peraltro spesso in contraddizione tra loro) basati sulle colpe dei genitori e dei bambini, creando di fatto un circolo vizioso dal quale emerge la perdita più totale della fiducia dei genitori in se stessi e nelle proprie capacità e competenze di accudimento.

Può essere divertente (o triste), dicevamo, scorrere gli scaffali delle librerie per accorgersi di come l’immagine della genitorialità, oggi, assomigli più a un ring di pugilato o a una guerra vera e propria. Ecco alcuni titoli di libri in ordine sparso (non me ne vogliano gli autori): Neonati maleducati, Manuale anti-ansia per genitori, Fate i bravi, Fai la nanna bastardo, Ero una brava mamma prima di avere dei figli, Manuale di sopravvivenza per neomamme. Troviamo manuali per essere coach (“allenatore”) dei propri figli, per non cedere a bambini tiranni, paragonati a spremiagrumi18 che sfiniscono i genitori senza farli dormire. Pullulano figure professionali “innovative”, come alcune puericultrici che vivono a casa delle famiglie con bimbi piccoli e li accudiscono giorno e notte a prezzi da capogiro; si sostituiscono del tutto ai genitori i quali trovano così “finalmente” tempo per sé.

Sembra che i bambini disturbino e basta. Per quale ragione si vuol far credere ai genitori che non è possibile divertirsi con i propri figli? Perché passa il messaggio che non si possa vivere in armonia con i bambini? Accendendo la televisione assistiamo a notissime trasmissioni in cui tate, in divisa da istitutrice di collegio, insegnano ai genitori come farsi rispettare dai figli e la famiglia diventa una struttura gerarchica di espressione di potere: ciò implica una confusione di ruoli, in cui le tate diventano genitori a loro volta, sia dei piccoli che dei grandi, imponendo regole e metodi che, a mio parere, offendono e compromettono la capacità personale di ogni genitore e di ogni famiglia di mettersi in discussione con serenità, fra le mura di casa, nel rispetto delle personalità di ognuno e con l’intimità necessaria. Si è perduta la dimensione privata, affettiva e relazionale connessa al mettere al mondo una nuova vita: tutto è sotto gli occhi di tutti. Sembra proprio che l’industrializzazione abbia come conseguenza diretta la globalizzazione e la standardizzazione delle persone, genitori compresi.


I figli sono diventati target di mercato, non-persone, piccoli tiranni che devono fare i bravi; come se un neonato nascesse maleducato, cattivo, despota, prepotente; come se si divertisse a non far dormire i genitori per puro sadismo, perché è furbo e intenzionalmente maligno! Dove sta il rispetto per la vita?


Non è certo mia intenzione colpevolizzare i genitori che guardano tali trasmissioni o si confrontano con simili modelli o metodi, desidero solo proporre spunti di riflessione per restituire a tutti un po’ di buonsenso e di capacità di risolvere in autonomia i piccoli-grandi problemi di ogni giorno nella vita coi bambini. Se un genitore, dopo essersi attentamente informato presso persone competenti, sceglie di aderire a un metodo perché per lui va bene così, nessuno si può permettere di giudicarlo. Ma se la normalità è diventata quella di farsi dire da altri come crescere i propri figli, non ci si può poi meravigliare se il ruolo genitoriale è così in discussione. Nessun genitore “nasce imparato”, questo è certo. Ed è altrettanto certo che i genitori siano attirati da soluzioni semplici, appositamente create per loro da chi ci guadagna soldi e fama; ma così perdono, forse, la possibilità di mettersi in gioco in prima persona, accogliendo l’ignoto e la necessità di trasformazione che ogni bambino porta con sé. Penso che la difficoltà sia proprio quella di accettare il fatto che i figli sono specchi in cui i genitori ritrovano i bambini che sono stati. Penso che la maggior parte di noi adulti non sia sufficientemente consapevole dell’importanza del proprio ruolo di genitore e del valore sociale della famiglia.


È fin troppo evidente invece che, se certi libri e certe trasmissioni televisive sono così diffusi e utilizzati, siamo di fronte a una domanda inquietante che sembra riguardare molti genitori: “Qualcuno, preferibilmente un esperto, mi dica per favore e con urgenza cosa devo fare, perché da solo sono incapace di allevare i miei figli”.

Ruoli genitoriali e società a confronto

Io non sgrido i miei figli non perché siano dei santi o perché sia una menefreghista, ma perché, forse, ne ho prese tante per imparare a star dritta a tavola che sono costretta a pensare che molti genitori non vogliono dei figli da amare, ma... immagini a propria somiglianza. I bambini sono esserini che ti costringono a cambiare vita e punti di vista, orari e priorità. Ma impari cosa è l’amore.

Rachele, mamma di Rebecca, Davide e Anna

I figli insegnano l’amore! Insegnano ciò che prima di loro non si pensava potesse esistere e non si conosceva! Se lo permettiamo è un’esperienza che ci trasforma completamente e profondamente! Ringrazio sempre mia figlia Sara per questo.

Giovanna, mamma di Sara

Cosa significa diventare genitori oggi?

La storia delle famiglie riflette la storia della nostra società. È fatta di enormi condizionamenti culturali che rendono difficile al singolo superare il conformismo e il pregiudizio. Quando nasce un bambino, immancabilmente, si schiera un “esercito di consiglieri” che sanno già tutto e pretendono di insegnare ai neogenitori come accudirlo. Troppo di frequente si crea una costellazione di persone che giudicano e danno indicazioni, invece di lasciare spazio all’ascolto e al sostegno pratico. Le famiglie di oggi sono spesso sole e con pochi aiuti nelle faccende domestiche. Spesso, non si può contare sui parenti per condividere la gestione dei figli, poiché la società si trasforma e cambiano i ruoli.

Diventare nonni oggi

I nonni, per esempio, non sono più a disposizione dei nipoti come tanti anni fa. Oggi hanno una loro vita fuori casa con molte più possibilità di svago e di gestione autonoma del proprio tempo libero. Inoltre, tra i nonni di oggi – che sono diventati genitori negli anni Settanta – e le neomamme c’è spesso un forte divario culturale: a livello pedagogico e per quanto riguarda l’accudimento di un bimbo piccolo sono cambiate davvero tante cose. Un esempio classico è quello dell’allattamento al seno: oggi sappiamo che il latte di mamma è la norma biologica nell’alimentazione dei neonati, ma a partire dalla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, con il boom del latte artificiale, intere generazioni non sono state allattate al seno. Per questo a molte nonne mancano sia l’esperienza personale sia le informazioni corrette e aggiornate sul tema, e si trovano in difficoltà nell’accettare il cambiamento. Anche per la gestione del sonno, dello svezzamento, dell’educazione in generale, i nonni trovano oggi differenze enormi rispetto a come hanno cresciuto i propri figli. Il neopapà e la neomamma si confrontano inevitabilmente con il loro essere stati bambini, e quindi con i loro genitori, e hanno bisogno di essere accettati nel nuovo ruolo. Se i nonni sono disponibili a rimettersi in gioco e a lasciare il ruolo di genitori ai figli, questi saranno certamente più a loro agio e si sentiranno più sicuri. Spesso succede, invece, che i nonni non colgano questa rinnovata dimensione genitoriale verso i propri figli cresciuti e che, al contrario, vogliano riproporre i propri modelli educativi anche ai nipoti. Va da sé che, in questa maniera, si possono generare conflitti familiari e nella coppia dei neogenitori, a cui mancano i riferimenti storici e affettivi necessari per trasformare la propria identità da figli a genitori. È più che comprensibile che i nonni possano trovare difficoltà a lasciare il testimone ai figli diventati genitori, ma ritengo fondamentale chiarire questo punto poiché, nella mia esperienza di conduttrice di incontri dopo parto, questi conflitti familiari sono molto frequenti. Se da un lato tutto questo è fisiologico, in quanto ci vuole del tempo perché gli equilibri familiari si riassestino, dall’altro è importante che i conflitti vengano ricomposti alla luce delle considerazioni appena fatte, e non vissuti in termini di ingerenza o di irrimediabile incomprensione. Il bisogno di confrontarsi con chi ci ha generato è una tappa naturale di crescita, che serve a maturare e a rielaborare i ruoli di tutti. Se i nonni accetteranno che i tempi sono cambiati rispetto a tanti anni fa, e che ognuno di loro ha certamente fatto quello che riteneva il meglio per allevare i figli, anche considerando le informazioni disponibili all’epoca, capiranno che non ha senso mettersi sullo stesso piano dei propri figli diventati genitori oggi. La ricerca scientifica è andata avanti e i neogenitori hanno diritto di misurarsi con l’esperienza dell’accudimento, confrontandosi coi propri genitori senza paura di essere giudicati o prevaricati. Anche perché attraverso i nipoti lo sguardo dei nonni si spinge avanti nel futuro. Per i bambini poi il nonno è una figura fondamentale, rappresenta le radici, la dimensione storica della famiglia: l’immagine del nonno che racconta storie del passato oggi corre il rischio di svanire. I nonni sono una risorsa preziosa, per i piccini ma anche per i grandi. Danno tanta sicurezza e fanno sentire la storia della famiglia sempre presente; i legami familiari sono così arricchiti dalla nuova generazione che convive con quelle passate in un intreccio di esperienze, passato e futuro che rafforza l’identità di tutti, adulti e bambini.


Nessuno conosce i bambini come chi li ha generati, perciò né il pediatra, né l’insegnante, né il nonno o la nonna, né alcun esperto del settore può e deve sostituirsi al genitore.


I genitori hanno bisogno di essere spronati a cavarsela da soli, a scegliere liberamente, ad avere fiducia in sé, ad accettare debolezze ed errori, a sperimentare l’ignoto, a considerare se stessi e i propri figli quali persone uniche e irripetibili, ognuno con i propri sentimenti.

Diventare madri oggi

Un bambino nasce da un incontro amoroso fra un uomo e una donna, perciò già da questo dato apparentemente banale si può evincere come il ruolo materno sia fatto per essere condiviso. Al contrario, è sempre più diffuso il problema della solitudine delle madri, che si trovano a dover accudire casa, figli e spesso a dover anche lavorare, completamente sole per gran parte del tempo. Troppo facile etichettarle come depresse se presentano ovvie difficoltà di gestione della giornata e della nottata!


Ma facciamo un passo indietro.

Appena ovulo materno e spermatozoo paterno si incontrano e avviene il concepimento, la madre fornisce lo spazio, l’ambiente in cui queste cellule possono replicarsi e dare origine a un nuovo essere umano. Quindi la madre, nelle prime fasi della vita di suo figlio, rappresenta lo spazio, il “contenitore” necessario alla sopravvivenza: la madre offre il suo ventre, il suo utero, come ambiente di crescita fisica del feto. Piano piano, con il crescere della pancia, la donna gravida cambierà completamente l’assetto ormonale, la postura, il sonno, la digestione. La giornata assumerà tempi più lenti, dovuti alle sensazioni legate al procedere della gravidanza. Col tempo, il baricentro della gravida si sposterà in avanti, verso il bambino, in un ripiegamento fusionale e simbiotico che è necessario per sintonizzarsi a poco a poco con lui; non a caso la gravidanza dura ben nove mesi. Approfondirò nel prossimo capitolo altri aspetti della gravidanza, ma per ora mi preme sottolineare come il ruolo materno in gestazione sia essenzialmente quello di fornire spazio, contenimento e protezione al feto che porta in grembo. Non cogliere queste trasformazioni e non andar loro incontro, sforzandosi di fare tutto come prima di restare incinta, non è fisiologico e può presentare rischi sia per il protrarsi della gravidanza, sia per affrontare il parto come evento che porta a termine l’attesa realizzandone la potenza. Nel dare la vita, aprendo il proprio corpo e donando al mondo e alla luce la propria creatura, separandosene naturalmente, la madre inizia la condivisione con gli altri del piccolo che finora era stato sempre protetto dentro di lei. Questo sta a significare come anche la mamma diventi tale dal momento in cui accoglie dentro di sé il seme di una nuova vita; non a caso, nei Paesi orientali, la nascita viene datata al concepimento e non al parto. Nella nostra società, viceversa, si tende fin dall’inizio a trascurare ciò che può aiutare una donna nel portare avanti la propria gravidanza in maniera fisiologica: il riposo, la ricerca della serenità, una corretta e sana alimentazione, un po’ di tempo per pensare e riflettere sia da sola sia con il compagno a mano a mano che i mesi passano e ci si avvicina alla data presunta del parto.

È usuale considerare una donna gravida come una “futura mamma”, ma in realtà quella donna ha già iniziato il suo percorso di maternità dal concepimento, e penso sarebbe più corretto considerare le gestanti come mamme a tutti gli effetti, fin da quando scoprono di essere incinte. La donna non partorisce dal nulla e il bimbo non nasce all’improvviso. Il giorno del parto è il culmine di nove mesi di attesa, nei quali profonde trasformazioni fisiche e psicologiche portano la donna verso l’abbraccio con la sua creatura. Questa si è formata giorno dopo giorno grazie all’utero materno che le ha fornito spazio, accoglienza e nutrimento. Si potrebbe considerare questo aspetto anche nel caso in cui la gravidanza dovesse purtroppo interrompersi o si dia alla luce un bimbo prematuro. Se la mamma è considerata e si considera già tale, potrà elaborare l’accaduto in maniera più semplice e reale. Come ho già affermato recentemente19, il bambino in utero è ancora pensato come “incompiuto”, così come sua madre non è vista tale finché non ha portato a termine la gravidanza. Il punto è che per il mondo esterno la madre è tale solo dopo il parto, mentre per lei il processo di acquisizione dell’identità materna è graduale e dilatato tanto quanto il suo ventre durante i nove mesi di gestazione.

Considerare il bambino come una persona fin dal suo concepimento e sua madre tale già dai primi istanti di gravidanza può, a mio avviso, restituire dignità a entrambi fin dall’inizio e facilitare l’elaborazione della perdita o della nascita prematura nel caso in cui queste purtroppo avvengano.


Ad ogni modo, la nascita rende reale e visibile il bambino a tutti e obbliga la madre a condividerlo con gli altri e col mondo. Il parto poi modifica ancora il ruolo materno, trasformando in pubblico ciò che prima era intimo e inattaccabile. Nove mesi servono per portare a termine la gravidanza, ma poche ore rendono la separazione fra madre e figlio una realtà. Fin dai primi istanti di vita della sua creatura la madre può, attraverso l’allattamento e le altre cure prossimali, preservare il suo rapporto intimo col bambino, ma deve fare i conti con il fatto di essere sotto gli occhi di tutti.


Essere madre significa anche essere flessibile, aperta ai cambiamenti continui e alla decodifica dei segnali che il bambino le manda. Le madri hanno dalla loro parte la secrezione ormonale e l’istinto: questi aspetti, se incoraggiati, ascoltati e rispettati, danno alle donne una capacità incommensurabile nella gestione del neonato. La condivisione del ruolo con il compagno, che finalmente partecipa in modo attivo alla gestione del bambino, rende lenta e graduale la crescita dello spazio fra madre e figlio, in maniera naturale e rispettosa dei tempi e delle abitudini familiari.


Ecco quindi che la difficoltà delle madri di oggi sta nel giostrarsi fra i propri istinti e i giudizi, i condizionamenti culturali e le indicazioni di chi le circonda. È questo che rende loro la vita difficile, non il bambino in sé o le sue richieste. Eppure, come abbiamo visto, la nostra società “civilizzata ed evoluta” ci fa credere che il bambino si debba adeguare ai ritmi degli adulti, piuttosto che il contrario. Sue Gerhardt, psicoanalista inglese, afferma a questo proposito: “Molte delle scoperte scientifiche nel campo delle emozioni sembrano reinventare la ruota. Affermano l’importanza del contatto, dell’ascolto, del concedere tempo alla gente. Come possiamo convertire queste cose in leggi? Forse è un sogno evanescente pensare che i politici possano occuparsi efficacemente della qualità delle cure parentali primarie? Non si tratta forse di un affare privato che si verifica nello spazio privato delle nostre case? […] La questione è: ci possiamo permettere o meno di lasciare che le cure parentali primarie siano confinate nell’ambito del privato e del personale? Sottolineare l’intimità dell’allevamento dei bambini piccoli rimane un presupposto. Penso che le cure materne siano qualcosa di innato. È vero che dare alla luce e allattare un bambino è un processo intensamente fisico e biologico quanto fare all’amore. C’è una “preparazione” biologica innata a vivere queste esperienze. Eppure, come l’attività sessuale, è anche culturale. Nelle società che vivono più semplicemente, i bambini sono sempre presenti. Ci sono ampie opportunità di tenere i bimbi in braccio, calmarli, imporre loro una disciplina e imparare a conoscerli. In altre parole c’è una preparazione psicologica a diventare genitori attraverso l’apprendimento sociale e l’osservazione. Ma nelle società occidentali, in cui le persone sono isolate le une dalle altre fisicamente dalle loro elaborate case e appartamenti, e dove il lavoro è rigidamente separato dalla vita domestica, queste opportunità non si presentano. Ci sono poche occasioni per osservare come una madre esperta tratta il suo neonato, o il suo bambino più grandicello, e minori opportunità di far pratica con i figli degli altri. In queste circostanze le uniche fonti di informazione sono i libri e i programmi televisivi.

Più spesso il neogenitore semplicemente si basa sul suo apprendimento inconscio, costruito sul proprio vissuto di bambino. Questi istinti lo orienteranno. Ed è in parte per questo che modelli scarsamente adattivi si trasmettono da una generazione all’altra”20.


Molte persone non hanno ricevuto ascolto e rispetto dei propri bisogni quando erano piccole e perciò trovano difficoltà nel farlo quando diventano genitori.

Il celebre pediatra William Sears scrive: “I bisogni che sono stati compresi e appagati da piccoli non chiedono più di essere risolti da adulti”21. Perciò, diventare genitori mette in contatto con il bambino che si è stati e con le esperienze vissute in età infantile. Ciò fornisce una cornice emotiva su cui si basa l’autostima delle persone e la loro capacità di far fronte agli eventi della vita: compreso il diventare genitori. Questi aspetti sono studiati dalla psicogenealogia, una branca della psicologia che chiarisce come “l’eredità familiare si inscrive nelle nostre cellule fin dal momento del concepimento con conseguenze a lungo termine importanti e significative. Il carico di situazioni irrisolte e ripetitive si trasmette inconsapevolmente di generazione in generazione fino a che un membro familiare riesce, attraverso un’analisi introspettiva e un impegnativo lavoro, a spezzare la catena, liberando così da un peso opprimente se stesso e i suoi discendenti”22.

Diventare padri oggi

Padri e madri hanno ruoli diversi per natura. Entrambi sono persone che riflettono la propria vita passata e le influenze culturali in cui sono vissuti. Entrambi, ovviamente, non sono perfetti e possono sbagliare. Spesso si pensa che diventare genitori significhi rasentare la perfezione, sia come individui sia come coppia, e soprattutto che tutto sarà sotto controllo e facilmente gestibile.


A un certo punto della loro vita un uomo e una donna si incontrano e decidono di diventare una famiglia. Un figlio è il coronamento dell’amore tra due persone; è il simbolo stesso, il frutto – il più grande e prezioso – del sentimento che lega la coppia. Con la sua nascita può rendere ancora più ricca e salda l’unione dei genitori, ma perché ciò accada è necessario che la coppia sia disposta ad andare incontro alla trasformazione degli equilibri e dei ruoli che l’accudimento di un neonato impone.


Molto spesso la nascita del primo figlio rappresenta un grosso scossone anche per le coppie più stabili e affiatate. I padri arrivano al momento del parto carichi di nove mesi in cui non hanno sentito dentro di sé il bambino, a differenza delle loro compagne. Non vedono l’ora di poter finalmente toccare e accogliere fra le loro forti braccia il piccolino appena nato. Gravidanza e parto sono tappe evolutive importanti in cui il padre può espletare immediatamente una funzione di protezione e sostentamento della propria donna.

Odent ci fa notare che “Lo stato emotivo della madre in gravidanza influenza la crescita del feto. Al giorno d’oggi si possono interpretare scientificamente i meccanismi che legano lo stato emotivo della madre alla crescita fetale. Quindi uno dei doveri di tutti coloro che circondano una donna incinta è di proteggere il suo stato emotivo”23. Dopo la nascita, un po’ come la placenta in gravidanza, il padre ha un ruolo di filtro nel proteggere madre e figlio dall’esterno. Nella nostra società non è noto a sufficienza quanto siano importanti i primi giorni e settimane di vita di un bambino per l’instaurarsi della relazione con entrambi i genitori. Talvolta si parla del padre come “mammo”, come se i due ruoli fossero pressoché sovrapponibili. A parte pochissimi esempi, tra i quali spiccano la gestazione di un figlio, il parto e l’allattamento al seno, sembra che sappiamo tutti fare le stesse cose. Di sicuro vi è stato un notevole cambiamento rispetto a qualche decennio fa, quando i padri stavano fuori casa a lavorare e le madri accudivano i bambini, magari con l’aiuto della donne di famiglia. Oggi, per necessità e forse anche per piacere, molti padri hanno imparato a cambiare i pannolini, a fare il bagnetto ai neonati e a gestire le pratiche quotidiane della famiglia. Tutto ciò rappresenta un’ottima occasione anche per il bambino di sperimentare persone, modi e stili diversi di accudimento. I ruoli però non sono gli stessi. Il bimbo nasce da due genitori distinti, che hanno percorso strade diverse, che vivono due mondi emotivi differenti. Questa è la sua ricchezza, la sua eccezionale opportunità di crescita.

Le madri hanno dalla loro parte un assetto ormonale che le rende dissimili per natura dai loro compagni, mentre i padri spesso riescono ad avere una visione più allargata dei confini simbiotici tra madre e neonato. Si instaura così una preziosa alternanza dei ruoli che serve al bambino e ai genitori per definire spazi e tempi comuni, ma anche per guadagnarsi momenti di indipendenza reciproca. A mano a mano che il tempo passa, il padre potrà gestire il bambino con più sicurezza e dare alla mamma la sufficiente tranquillità per potersi staccare anche solo pochi minuti dal neonato. Le mamme hanno tanto bisogno dei loro compagni! Anche solo la loro presenza è fondamentale. Invece è frequente che i padri si sentano impotenti e ostacolino, per esempio, l’allattamento al seno per paura che il rapporto simbiotico fra madre e bambino non finisca più. L’errore, a mio parere, è quello di non rispettare la distinzione dei ruoli e di pretendere subito di essere intercambiabili, quasi che essere diversi significasse essere più o meno importanti. La complementarietà dei ruoli invece è una risorsa fondamentale quanto il fatto che, quando nasce un bambino, tutto cambia e ogni genitore scopre parti di sé e risorse di cui ignorava totalmente l’esistenza. Spesso, quando sembra di aver raggiunto un equilibrio familiare, è già il tempo di trovarne un altro; dare ai genitori l’illusione che tutto sia controllabile, o incasellabile in metodi o definizioni, rischia di renderli poco flessibili e adattabili alle esigenze dei bambini e di tutta la famiglia.


Nei corsi di accompagnamento alla nascita si tende a parlare poco di questi aspetti, che arrivano quindi perlopiù inaspettati e sconvolgono gli equilibri della famiglia quando arriva un neonato. Di frequente, dopo la nascita dei bambini, i padri si aspettano di ristabilire l’equilibrio che c’era prima della gravidanza, sentendosi messi da parte e addirittura esclusi dal forte legame che si crea immediatamente fra madre e figlio. In realtà il padre ha un’importanza molto sottovalutata nella nostra società: ha la funzione basilare di proteggere la madre e il neonato, e di favorire una sana relazione fra loro. Più la madre si sentirà protetta e sostenuta dal compagno e più sarà a suo agio con il bambino comprendendone i bisogni; di conseguenza l’unità della coppia ne risulterà avvantaggiata. Diventa di fondamentale importanza che i padri riescano a comunicare alle compagne tutti i dubbi e i sentimenti legati ai nuovi reciproci ruoli, per evitare di stratificare incomprensioni che alla lunga potrebbero diventare ingestibili. Alle volte, tutti i cambiamenti che l’arrivo di un bimbo porta con sé possono far dimenticare ai genitori che è normale sentirsi insicuri e spaesati. Può essere utile, a questo proposito, frequentare incontri di gruppo dopo parto in cui siano compresi anche i papà, per condividere le proprie esperienze con altre persone che stanno affrontando lo stesso momento di vita.


Così, in un arco di tempo che all’inizio sembra smisurato ma che in realtà dura qualche mese nel corso di una vita intera, i padri vedranno aumentare sempre più le occasioni di trascorrere intere giornate con i propri figli. Inoltre, avranno contribuito fin dai primi istanti delle loro creature alla protezione del legame simbiotico che le unisce alla madre anche dopo la nascita, come fondamento biologico e naturale per l’acquisizione dell’autostima e della sicurezza di tutta la vita.

Modelli genitoriali a confronto

Molti bambini sono i risultati di una società a basso contatto. A me fa arrabbiare molto quando sento dire di non tenere in braccio un neonato perché altrimenti ‘prende il vizio’. Si parla tanto di bambini che devono essere ‘autonomi’ da subito, poi si vedono bambini che a tre anni ancora non sanno bere dal bicchiere o usano il ciuccio o mangiano ancora omogeneizzati... La vera autonomia un bambino la conquista se gli si permette di esprimersi e si risponde prontamente alle sue esigenze. Anatomicamente siamo fatte per tenere in braccio i nostri figli: abbiamo anche larghe per poter appoggiare meglio il loro peso e i neonati hanno gambe arcuate per chiuderle a pinza intorno alla nostra vita. Se così non fosse sarebbero in grado di camminare da subito come i puledri, per esempio.

Rossella, mamma di Angela

La cosa che più mi rattrista è sapere che la maggior parte della gente pensa ‘Tutti fanno così (o mi hanno detto così), quindi deve essere fatto così’, senza minimamente tener conto del proprio istinto di genitore e del proprio sentire (per non parlare della fiducia nei confronti del figlio). Sfido io a trovare una mamma a cui non si spezzi il cuore lasciando piangere il proprio cucciolo fino al vomito solo perché ‘un tale’ ha detto di fare così per insegnargli a dormire nel suo lettino. Ma in tutto ciò dov’è l’istinto? Il cuore di mamma? Il buonsenso? Finché la mia piccola mi comunicherà qualcosa cercherò di assecondare i suoi bisogni nel modo più dolce e protettivo che conosco: tramite l’amore.

Federica, mamma di Sophie

“Tutti i bambini sono buoni ma riescono a saperlo solo di riflesso, grazie al modo in cui vengono trattati”24. Perciò, anche tutti i genitori sono buoni genitori a patto che non ignorino i bisogni dei bambini. La cultura di appartenenza condiziona l’ascolto e il soddisfacimento di questi bisogni, considerandoli spesso vizi e invalidando l’istinto del genitore che, per questo, tende ad ascoltare maggiormente il mondo esterno piuttosto che sé e il bambino.


Spesso i genitori leggono e obbediscono ai libri o alle teorie di moda, senza fidarsi del proprio istinto e delle proprie capacità, anziché leggere il proprio bambino. Il contesto culturale influenza moltissimo lo stile genitoriale, creando norme a cui istintivamente pare di dover aderire soltanto per il fatto che tutti le seguono. Un celebre aforisma di Oscar Wilde afferma: “Nessuno può essere libero se è costretto a essere simile agli altri”. Anche i genitori che aderiscono a modelli culturali, limitando i propri istinti e la relazione con i propri figli, rischiano di non sentirsi liberi di trovare il proprio stile e le proprie modalità di relazione con i bambini.


In realtà, le uniche norme da seguire sono quelle dettate dalla fisiologia e dal rispetto della relazione fra genitori e figli. Insieme alla fisiologia e alla teoria dell’attaccamento, anche l’etnopediatria25 può servire da cornice teorica di riferimento per i genitori. Questa branca della pediatria studia i differenti modelli di cure parentali per valutarne l’effetto sulla salute globale del bambino, in una prospettiva transculturale. In questo modo, mettendo a confronto gli stili genitoriali nelle varie culture, è possibile ampliare la prospettiva di riferimento dei genitori, abbattendo le frontiere e rendendo nulli i pregiudizi delle singole culture circa l’accudimento dei bambini. A partire da questi studi sono stati individuati due modelli genitoriali riassuntivi: il modello a basso contatto e il modello ad alto contatto.

Vediamone le caratteristiche principali26:


A basso contatto Ad alto contatto
Nascita industrializzata con separazione madre/bambino. Nascita in ambiente protetto
Risposta ai bisogni del bambino non immediata e con surrogati (ciucci, biberon, oggetti sostitutivi della madre). Risposta immediata ai bisogni dei bambini tramite contatto fisico.
Interazione diretta principalmente visiva e verbale, solo occasionalmente fisica. Interazione basata sul contatto fisico.
Allattamento artificiale, o al seno solo per pochi mesi e non a richiesta. Allattamento a richiesta giorno e notte.
Durante il giorno bimbo in contenitori vari (ovetti, sdraiette, box, girelli, passeggini). Portare i bimbi in fasce e altri porta-bebè.
Sonno solitario. Sonno condiviso.
Madre sola, cure non condivise. Cure materne condivise.

L’approccio alla genitorialità basata sul contatto fisico col bambino “è quello che ha caratterizzato tutta la storia dell’uomo (…) È lo stile di accudimento tipico dei mammiferi e quindi quello più fisiologico e adatto alla crescita anche del cucciolo d’uomo. Soltanto in seguito alla rivoluzione industriale, negli ultimi cento anni della nostra storia, questo modello a contatto prossimale è stato soppiantato da uno a basso contatto, caratterizzato cioè da una distanza fisica tra il corpo della mamma e quello del bambino e da una relazione tra i due basata prevalentemente sul contatto visivo e uditivo anziché tattile”27.


È molto comune nella nostra cultura mettere i bambini nelle sdraiette, nei box o nei passeggini, e pensare che il solo parlargli o guardarli spesso sia sufficiente per farli stare tranquilli e sereni. Ogni genitore sa, al contrario, che i bambini stanno senza protestare nei vari “contenitori fatti apposta per loro” per tempi molto limitati e poi reclamano per essere presi in braccio. Spesso addirittura si pensa che i bambini siano maleducati o viziati se insistono a voler stare a contatto fisico con il corpo degli adulti. Nei modelli culturali a basso contatto non si (ri)conosce il valore fisiologico alla base della ricerca di prossimità fisica e tattile fra bambini e genitori, prossimità necessaria per la capacità del bambino di affrontare il mondo e progredire nei processi maturativi di sviluppo della propria identità e della propria autonomia. Winnicott parla di “esperienza essenziale, quella basata sul contatto senza azione, in cui ci si può sentire una cosa sola tra due persone che sono effettivamente due e non una. Queste cose danno al bambino la possibilità di essere, e da qui hanno origine le cose successive che hanno a che fare con l’azione, il fare e l’essere fatto per. Quando queste condizioni si verificano il bambino è in grado di sviluppare la capacità di avere sentimenti che corrispondono in qualche misura a quelli della madre che si è identificata con il suo bambino e che si è fatta coinvolgere dal bambino e dalla sua cura”28. Perciò, non solo è impossibile viziare un bambino tenendolo troppo in braccio, ma anzi, ciò gli servirà come un bagaglio di fiducia che rimarrà nella sua memoria per sempre.


Nel confronto fra i due modelli emerge che i bambini allevati nelle società ad alto contatto non piangono quasi mai, hanno meno coliche e godono di un attaccamento più sicuro; la percentuale di malattie mentali è estremamente bassa e tra gli adulti si registra una minore aggressività29. Inoltre, è un modello esteso in tutti i continenti, e di gran lunga il più diffuso in tutto il mondo.

I bambini delle società a basso contatto, viceversa, sono il frutto di un modello dettato dall’industrializzazione, senza alcuna base antropologica, ma solo economica. Vivono in ambienti basati su una cultura visiva, dell’immagine e dell’apparenza, in cui l’affettività e i sentimenti sono considerati valori secondari rispetto alla disciplina e al controllo.


Un altro concetto importante dell’etnopediatria è quello di nicchia di sviluppo30, che identifica un rapporto dinamico e interattivo tra ambiente e fattori genetici e innati. La nicchia di sviluppo viene influenzata da tre fattori: stile di maternage (con questa parola si intende l’insieme di cure e attenzioni rivolte al bambino nei primi anni di vita), rappresentazioni interne che gli adulti hanno dei bambini e ambiente fisico e sociale di appartenenza. Perciò, oltre al modello genitoriale a basso o ad alto contatto, anche altri fattori contribuiscono allo sviluppo del bambino, creando una nicchia in cui questa crescita si evolve nel tempo. Le rappresentazioni mentali dei genitori basate sulle proprie esperienze infantili e le norme sociali, culturali e ambientali a cui appartengono hanno un’importanza notevole nel determinare le pratiche di accudimento specifiche di ogni genitore.


In culture come la nostra, per fare un esempio, un bambino è difficile se ha il sonno irregolare: infatti interferisce nel modo di vita del genitore basato sull’indipendenza e sull’autonomia dei figli. In Africa, invece, è usuale dormire con i bambini e portarli addosso per quasi tutto il giorno; lo stesso bambino sarebbe quindi considerato normale.


Pertanto sarebbe limitativo suggerire al lettore questo o quel modello genitoriale, in quanto ognuno potrà trarre spunto da quanto detto finora per riflettere e modulare di giorno in giorno il proprio stile educativo. Non esistono modelli assoluti che si possano adattare a ogni famiglia, così come non esistono metodi applicabili a tutti i bambini. Buonsenso e libertà del genitore, rispetto dei bambini e dei loro bisogni, insieme a una corretta informazione e alla possibilità di confrontarsi con professionisti competenti: ecco le uniche cose importanti da non scordare mai. Come disse la volpe al piccolo principe: “Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi. È il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante. Gli uomini hanno dimenticato questa verità. Ma tu non la devi dimenticare”31.

Non ha senso parlare di “tempo di qualità” con i bambini, né di sopperire alla mancanza di tempo con regali o libri sulla loro educazione; niente vale di più del tempo che trascorriamo con loro e del magico ricordo che ne avremo tutti quando saranno cresciuti.

(Li)miti e regole

Io provo una gran tenerezza per quelle persone convinte che il mondo si controlli con l’applicazione esatta e indistinta delle regole. La cosa più importante che ho capito da mio figlio e dagli altri bimbi è che avere un figlio significa capire come sia tutto relativo e allo stesso tempo nuovo, meraviglioso e creativo. Ci sarebbe, insomma, tanto da imparare, tante rigidità da scrollarsi di dosso... Ascoltare, capire, quindi rispettare e amare un figlio, secondo me, ti apre le porte per comprendere tutto il resto più facilmente. Questo amore si impara, o meglio si re-impara, non siamo più educati a sentirlo e viverlo ma la genitorialità può farlo rinascere o riemergere in un secondo.

Beatrice, mamma di Corrado

I bambini viziati esistono. L’altra sera sono stata a casa di un’amica il cui bimbo di tre anni ha fatto il diavolo a quattro tutta la serata! A un certo punto, dopo cena, si è pulito la bocca sulle tende e nessuno gli ha detto niente! A me ha fatto tristezza, forse avrebbe avuto bisogno di più attenzione.

Paola, mamma di Elisa

Qualcuno potrebbe pensare che questo libro suggerisca di essere “permissivi” con i bambini e di non considerare la questione dei capricci, delle regole e dei limiti da imporre loro. Una vita senza limiti e regole non esiste e l’idea di dover “porre limiti ai bambini è un’altra delle mode in puericultura.”32 Non esistono bambini senza limiti o regole: esistono bambini che, per innumerevoli motivazioni, cercano di attirare l’attenzione degli adulti per avere un punto di riferimento che sfugge loro. Sono spesso bambini in cui non si crede a sufficienza o a cui non si dà abbastanza spazio per esprimersi. Tutti i bambini hanno bisogno della guida autorevole degli adulti, per distinguere i comportamenti desiderabili da quelli non desiderabili, e di sentirsi dire “no” quando serve. Eppure molte famiglie sembrano fondate sul potere, sulla disciplina e sull’ordine gerarchico più che sull’amore e sul rispetto. I genitori sono l’esempio fondamentale da cui i figli attingono per capire le norme su cui si basa la loro prima società: la famiglia. Perciò diventa prioritario che regole e limiti siano posti insieme e senza pronunciare le classiche frasi tipo: “Si fa così e basta”, “Lo faccio per il tuo bene”, “Devi essere ubbidiente”, “Quando sarai grande capirai”, “Vergognati di quello che hai fatto”. Tutte queste frasi suggeriscono al bambino di doversi reprimere e controllare, oltre al fatto che la sua opinione o anche solo l’aver avuto un’iniziativa sia sbagliato. Scrive ancora Juul a questo proposito: “Le priorità dei nostri genitori si fondavano su valori esteriori, i figli imparavano a ‘rigare dritto’, ‘comportarsi bene’, ‘andare d’accordo’, ‘parlare educatamente’. Non si pensava che potessero essere se stessi. Ci si aspettava che recitassero, esattamente come in una commedia. E ci si aspettava che imparassero la loro parte proprio come dei veri attori”33.
Quei genitori che ancora pensano alla famiglia come a una struttura in cui esercitare un potere sui figli sono certamente in buonafede, così come lo erano i genitori trent’anni fa. Ma non tengono conto del fatto che per avere figli autentici, che fanno proprie le regole e i limiti, l’elemento fondamentale è il tipo di interazione familiare, in cui dovrebbe regnare un clima di stabilità, autorevolezza e sicurezza. I figli non dovrebbero avere la responsabilità di essere l’ago della bussola della famiglia poiché il loro ruolo non è uguale a quello dei genitori, se non per dignità e rispetto. Temo molto l’affermazione secondo cui “il genitore è il miglior amico del figlio” in quanto postula una confusione di ruoli nella quale il figlio non ha più una guida autorevole a cui riferirsi e si sente perso. Viceversa, se la famiglia fosse una struttura di potere vorrebbe dire che esistono vincitori e vinti, non persone con uguale dignità. Se i bambini percepiscono di essere considerati inferiori, prima o poi si ribelleranno all’autorità per potersi sentire integri e non subordinati. I bambini, inoltre, non fanno che riproporre comportamenti e frasi dei genitori in contesti diversi, e questo non viene riconosciuto ma di solito travisato come maleducazione. Spesso si negano i sentimenti dei più piccoli come se fossero di poco conto rispetto a quelli degli adulti. Di fronte a un bambino che piange gli si chiede di smettere, di controllarsi, di reprimersi. I bambini imparano così ad attirare l’attenzione con altri mezzi, visto che i propri sentimenti, l’espressione dei propri bisogni e le proprie iniziative non sono accettabili. La conseguenza diretta è la perdita di autostima del bambino e dell’autorevolezza del genitore, che non sa più leggere le emozioni del figlio e forse nemmeno le proprie.

Scrive ancora Juul: “Il comportamento dei figli, che sia collaborativo o distruttivo, è importante per il loro sviluppo e la loro salute, ma lo è altrettanto per quella dei genitori. L’interazione tra genitori e figli è un processo di mutuo apprendimento, e quanto più trattiamo gli altri con dignità, tanto più ne otteniamo un vantaggio reciproco”34. Dare valore ai sentimenti di tutti e alla relazione che si instaura fra genitori e figli rappresenta una svolta fondamentale per assumere un ruolo genitoriale autorevole, fondato sul rispetto reciproco e sull’integrità personale.


Nel quarto capitolo di questo libro illustrerò come comunicare con i bambini in maniera efficace facendo emergere i loro sentimenti e i loro bisogni. Ogni genitore è in grado di “mettere i paletti” che ritiene più giusti per accompagnare il cammino dei propri figli e, come sempre, non è obbligatorio aderire ai vari modelli etichettati come “permissivi”, “democratici” o “autoritari”. In ogni famiglia le regole verranno definite anche in base alle esperienze infantili dei genitori, a chi si occupa per la maggior parte del tempo dei bambini, alla situazione socioeconomica della famiglia stessa e a mille altre variabili. Non si può generalizzare sulle regole e sui limiti, ma si può certo affermare che un bambino cresciuto nel rispetto e nell’autorevolezza, all’interno di una interazione familiare che si adatti alle situazioni della vita come esempio di flessibilità, sarà un bambino ascoltato, rispettato e guidato verso l’autonomia e l’autostima. Se noi genitori siamo i primi a non credere nei nostri figli e nelle loro capacità, come potranno loro stessi acquisire sicurezza e fiducia in se stessi? Sovente rimproveriamo i bambini senza reale motivo o imponiamo loro limiti non necessari che comunicano solo intransigenza e mancanza di ragionevolezza; oppure non siamo disponibili a tornare sui nostri passi quando ci accorgiamo di aver esagerato un po’ o addirittura di aver sbagliato. Si pensa che i genitori debbano essere sempre d’accordo fra loro e “tutti di un pezzo” altrimenti perderanno il rispetto dei loro figli. Il pediatra spagnolo Carlos González ci fa notare invece che “quando cediamo, quando negoziamo, quando riconosciamo i nostri errori, non perdiamo il rispetto dei nostri figli. Anzi, è proprio in quel momento che lo guadagniamo maggiormente”35.

Come difendersi dai suggeritori indesiderati

Purtroppo, per esperienza personale, so sulla mia pelle che avere dei figli, lavorare e gestire una casa è davvero un’impresa immensa. Ritengo che per una madre, che si dedica in prima linea alla crescita del proprio piccolo (intendo anche madri che lavorano), può essere utile un supporto del tipo: dimostrazione del cambio pannolino, dimostrazione della medicazione ombelicale, illustrare il giusto attacco per nutrire il proprio piccolo, aiutare nella gestione delle faccende domestiche, portare una bella teglia di lasagne già pronte! Aiutare le madri significa incoraggiarle quando sono stanche, consigliarle quando credono di aver smarrito la strada, ma assolutamente non sostituirsi a loro. Aiutare le madri significa permettere loro un giusto confronto con altre mamme, informarle adeguatamente, e a questo può essere anche utile la figura di un professionista... ma poi bisogna sapere seguire, e soprattutto ascoltare il nostro innato senso materno! Le nostre nonne sì che sapevano ascoltarlo!

Ester, mamma di Roberto ed Emanuela

Il mio nipotino si è appena addormentato. Come sempre (o quasi sempre) desidera che io mi sdrai accanto a lui in modo da poter toccare la mia faccia fino a che lo vince il sonno (lo stesso avviene alla sera con la mamma). È questione di pochi minuti ma sembra proprio che lui abbia bisogno di addormentarsi con la certezza che chi lo ama è lì accanto. La cosa tra alcune amiche e conoscenti desta scalpore perché in questo modo ‘prende l’abitudine’. Ovviamente il mio giudizio non è in alcun modo scientifico, ma mi chiedo: è proprio così grave che i nostri bambini prendano qualche abitudine che prima o poi perderanno ma che al momento dà loro qualche sicurezza in più? Provate a pensare con quanto accanimento nei primi mesi di vita cerchiamo di infilare il ciuccio in bocca ai nostri piccoli e con quanto altrettanto accanimento verso i tre anni cerchiamo di toglierglielo!

Voce di nonna
(tratta dal sito www.mammeacrobate.com)

Quando nasce un bambino improvvisamente un “esercito di esperti suggeritori” si schiera intorno ai genitori, incalzando per dare pareri e consigli spesso non richiesti. Quindi, oltre alle indicazioni ricevute in ospedale, ci sono quelle di parenti e conoscenti, per non parlare poi di tutto quanto sta scritto su libri e articoli. Di fatto, alla nascita il bimbo reale spesso si rivela molto diverso da quello immaginato nelle fantasie dei nove mesi dell’attesa. C’è la stanchezza per le fatiche del parto, a volte la situazione non è quella ideale (per esempio perché la donna ha subìto un cesareo o perché c’è confusione intorno a lei). E allora c’è bisogno di tempo, di pazienza, di vicinanza e di intimità per imparare a conoscersi. Nella nostra cultura, invece, per la gioia di conoscere il nuovo arrivato si accorre nelle case e si telefona a tutte le ore impedendo alla neomamma di rilassarsi e mettersi nelle condizioni migliori per decodificare i bisogni propri e del neonato. Per il particolare assetto ormonale che segue il parto e per una buona riuscita delle fasi iniziali dell’allattamento, la donna ha bisogno di sentirsi accettata, protetta e contenuta sia dal partner sia dal gruppo familiare. Sembra che il parto sia soltanto un punto di arrivo e non un punto di partenza verso l’instaurarsi di una relazione fra genitori e neonato. Il risultato è che le puerpere spesso entrano in uno stato di confusione e di incertezza che può compromettere la loro percezione di poter assolvere al ruolo materno che, già di per sé, richiede un bel ventaglio di risorse e disponibilità al cambiamento. Più la mamma sarà protetta e incoraggiata verso il contatto col proprio bambino e più sentirà di essere l’unica vera esperta di suo figlio. Ecco cosa suggerisce Winnicott a tale proposito: “Accadrà spesso che persone sconsiderate cerchino di insegnarvi come fare le cose che voi siete in grado di fare meglio di quanto chiunque possa mai insegnarvi a fare.
Se siete convinte di ciò, potete anche cominciare ad aumentare la vostra capacità di madri imparando da sole le cose che possono esservi insegnate. È mia opinione che non ci sia bisogno di dire alle madri che cosa devono fare o come devono essere. Ciò che possiamo fare è non interferire”36. In altre parole, è normale sentirsi incerte e smarrite di fronte a un piccolo bambino così bisognoso di attenzioni, ma le uniche risposte si trovano all’interno di se stesse e nella relazione con lui. Il divario culturale che c’è fra i neogenitori di oggi e i genitori di trenta o quaranta anni fa è molto profondo e non ci si può aspettare competenza su tutto dai propri genitori o dai conoscenti. È preferibile individuare poche persone che godono della nostra fiducia e confrontarsi con queste in caso di necessità, ignorando del tutto chi ci destabilizza, chi ci giudica e ci mette in confusione. Anche i rapporti familiari sono rimessi in discussione dalla nascita di un bambino: suocere, consuocere e parenti vari non tarderanno a esprimere opinioni e valutazioni che spesso accenderanno conflitti in un momento in cui la calma e la tranquillità sono fondamentali per la buona riuscita dell’allattamento e per la serenità di tutti. Come si è già accennato, il padre ha qui un ruolo prioritario: proteggere madre e bambino dalle ingerenze esterne e non mettersi in competizione con la compagna, rispettando il ruolo che la natura le ha donato.

Per concludere, ecco alcune frasi riassuntive da NON dire mai a una neomadre. Si noti come allattamento e sonno siano i due argomenti preferiti dai “dispensatori di buoni consigli” e come sia considerato scontato interferire nel contatto tra madre e bambino.

  • Ti dorme? (Come se il bambino facesse un piacere alla mamma se dorme).
  • Ti fa dormire? (Come se scegliesse di far dormire la mamma intenzionalmente).
  • Scambia il giorno per la notte? (Il ritmo basato sulla luce e sul buio è un’acquisizione graduale dovuta alla secrezione di melatonina. Non una scelta del bambino).
  • Dove dorme? (Per verificare subito che non dorma insieme ai genitori).
  • Ma si addormenta sempre al seno? (Come se ci fosse qualcosa di sbagliato).
  • Dorme ancora fra voi? (Cosleeping inteso come vizio quando invece non lo è).
  • Perché non lo stacchi? Sta dormendo! (Spesso i bambini si rilassano col capezzolo in bocca ma poi riprendono a poppare perché non hanno finito, stanno solo prendendo un po’ fiato).
  • Allatti tu? (Come se fosse strano! Allattare è la norma biologica decisa da centinaia di migliaia di anni per la sopravvivenza della specie umana).
  • Che bello il MIO bambino! Dammelo! (Come se il bambino fosse una proprietà di chi lo tiene in braccio).
  • È bravo ? (Non esistono bambini cattivi ! ).
  • Che fortuna! Hai il latte! (Tutte le mamme hanno il latte, quelle che non possono allattare rappresentano una percentuale inferiore al 5%.37).
  • Non lo fai mai piangere! Appena fa “Uè” gli dai la poppa! (La suzione non è solo nutritiva ma anche consolatoria e il pianto è sempre un segnale di disagio del bambino).
  • Ha sempre la poppa in bocca questo bambino, per qualsiasi motivo! (Per un buon allattamento l’OMS raccomanda allattamento a richiesta sia di giorno sia di notte).
  • Ogni quanto mangia? (Non ci sono regole e orari nell’allattamento al seno a richiesta).
  • Come sei sciupata! (Piuttosto si potrebbe offrire il proprio aiuto per permettere alla mamma di farsi una doccia o di sistemarsi un po’, se ne ha voglia).
  • Non avrà freddo/caldo? (Di solito queste domande sono frutto di condizionamenti culturali più che di reali pericoli per i bambini. Nessun genitore espone il proprio neonato a freddi e caldi intensi).
  • Ai miei tempi... (I tempi sono cambiati e nel rispetto di tutti si devono accettare le novità…).
  • Non lo viziare, eh! Poi non lo ripigli più! (Riconoscere e rispondere ai bisogni dei bambini non significa viziarli).
  • Ma sta sempre in braccio questo bambino! (Il contatto fisico non è mai dannoso!).
  • Non ti preoccupare, se piange si fa i polmoni! (Pregiudizio culturale privo di fondamento scientifico).
  • Ma lo tieni sempre in braccio tu! Non ce lo dai mai! Dallo a me! (È normale che la mamma abbia l’istinto di tenere con sé il bambino, è stato nove mesi dentro di lei! Spesso le mamme sono profondamente infastidite se non hanno sott’occhio il bimbo).
  • Lascia fare a me, tu sei inesperta ancora, ti faccio vedere io come si cambia, come si lava, come si medica il cordone, come si veste ecc.. (Le mamme imparano prestissimo e da sole come maneggiare il proprio neonato!).
  • Cosa ha? Perché piange? (Molte volte non si capisce all’istante perché il bimbo piange e questa domanda non fa che aumentare l’ansia di tutti!).
  • Crescono velocemente, non ti preoccupare, poi rimpiangerai questi momenti! (I primi tempi con un bambino sembrano infiniti e spesso sono pieni di incertezze. Alla neomamma serve concentrarsi sul bambino così come è sul momento, non immaginarselo ventenne!).
  • Ora non è nulla: bambini piccoli, problemi piccoli. Quando diventerà grande, invece... (Non serve a nulla far credere alla madre che i problemi iniziali siano di poco conto, per lei sono importantissimi!).

E se poi prende il vizio?
E se poi prende il vizio?
Alessandra Bortolotti
Pregiudizi culturali e bisogni irrinunciabili dei nostri bambini.I bimbi piccoli non hanno vizi. Hanno esigenze fisiologiche, ormai ben conosciute dalla ricerca scientifica, che è bene riconoscere e trattare come tali. Sono tanti i libri dedicati all’accudimento dei bambini piccoli, nella maggior parte dei casi spacciati come manuali di istruzioni, magiche ricette di felicità per genitori e figli.E si sa che la società odierna impone tempi e spazi basati sulla logica della produttività e del consumismo, senza curarsi di proteggere lo sviluppo psicofisico e affettivo dei più piccoli. I bambini si ritrovano così a crescere in un mondo adultocentrico che spesso si dimentica di loro o impone di diventare immediatamente autonomi e indipendenti, di non disturbare, di ignorare fin da subito i propri istinti e la capacità di comunicare i propri bisogni.E se poi prende il vizio? invece non propone metodi identici per tutti. Partendo dal presupposto che ogni genitore sia unico e, in quanto tale, debba mettersi in gioco in prima persona e compiere scelte libere, autonome e informate, per allevare esseri umani che mettano al primo posto le relazioni affettive e l’espressione libera dei sentimenti, il libro invita a riflettere sulla particolarità di ogni famiglia, sul diritto (e il dovere) di educare e allevare i figli in libertà, mettendo da parte i pregiudizi culturali e dando ascolto al proprio cuore e all’istinto.Alessandra Bortolotti, rinomata psicologa perinatale, nel suo libro tratta temi universali quali il sonno dei neonati e dei bambini più grandi, il bisogno di contatto e le più elementari forme di comunicazione tra genitori e figli, basandosi sulle più recenti scoperte nel campo delle neuroscienze. Le ricerche sulla fisiologia della gravidanza, del parto e dell’allattamento sottolineano infatti, in maniera chiara e inappellabile, che rispondere ai bisogni affettivi dei bambini non significa viziarli ma, anzi, costituisce un patrimonio irrinunciabile che può influenzare positivamente l’equilibrio fisico ed emotivo di tutta la loro vita. L’ebook di questo libro è certificato dalla Fondazione Libri Italiani Accessibili (LIA) come accessibili da parte di persone cieche e ipovedenti. Conosci l’autore Alessandra Bortolotti, psicologa perinatale, si occupa da anni di puericultura e fisiologia di gravidanza, parto e allattamento.È consulente di numerose riviste e siti internet dedicati ai genitori e scrive su varie pubblicazioni scientifiche.È ideatrice e curatrice del sito www.psicologiaperinatale.it e conduce incontri post parto in provincia di Firenze, dove vive.