Conclusioni

A scuola per imparare la “sconfitta”

Era il 1961 quando Pier Paolo Pasolini in occasione di un’intervista al settimanale Vie nuove aveva dichiarato:

Ma io sono un uomo che preferisce perdere piuttosto che vincere con metodi sleali e spietati. Grave colpa da parte mia, lo so! E il bello è che ho la sfacciataggine di difendere tale colpa, di considerarla quasi una virtù.

Molti anni dopo Rosaria Gasparro, una maestra di scuola elementare, posta sotto questo pensiero pasoliniano un suo commento che, a causa di una serie di copia e incolla superficiali – come accade di consueto sui social –, viene attribuito erroneamente allo scrittore e regista:

Penso che sia necessario educare le nuove generazioni al valore della sconfitta.Alla sua gestione. All’umanità che ne scaturisce. A costruire un’identità capace di avvertire una comunanza di destino, dove si può fallire e ricominciare senza che il valore e la dignità ne siano intaccati. A non divenire uno sgomitatore sociale, a non passare sul corpo degli altri per arrivare primo. In questo mondo di vincitori volgari e disonesti, di prevaricatori falsi e opportunisti, della gente che conta, che occupa il potere, che scippa il presente, figuriamoci il futuro, a tutti i nevrotici del successo, dell’apparire, del diventare. A questa antropologia del vincente preferisco di gran lunga chi perde. È un esercizio che mi riesce bene. E mi riconcilia con il mio sacro poco.1

Oltre cinquant’anni separano queste due riflessioni sulla sconfitta che, ieri come oggi, non appare ancora come un valore capace di arricchire una persona, nonostante, dalla letteratura ai fumetti, molti siano gli eroi “al contrario”.


“La sconfitta è il blasone dell’animo nobile” faceva proferire Miguel de Cervantes al suo sfortunato cavaliere Don Chisciotte; mentre Charlie Brown, disegnato dalla matita di Charles Schulttz sempre perdente a baseball, esclamava “vorrei parlare con l’inventore del gioco… per scusarmi”.


I genitori purtroppo sono spesso i primi che mal sopportano l’idea di avere un figlio che ha dimestichezza con la sconfitta: nell’attuale società performante, dove tutti devono essere dei numeri uno, anche i giovani sentono la pressione della famiglia che li spinge a primeggiare in qualsiasi campo, dallo sport alla scuola. A riprova di ciò, quando i figli assaporano il gusto amaro della sconfitta, mamma e papà cercano in tutti i modi di allontanare da loro qualsiasi ombra di responsabilità: la colpa del brutto voto è dell’insegnante, la colpa del goal subìto è dei giocatori in difesa. E così entrano in azione i genitori-spazzaneve, quelli che tentano di pulire la strada dove passano i figli, affinché siano ridotti al minimo gli inciampi e le asperità del terreno; in questo modo non fanno altro che rimandare il momento in cui i giovani si dovranno confrontare con i propri limiti, con la gestione del fallimento e della frustrazione che ne conseguirà.


A causa della paura di dire no, quei no che aiutano a crescere, si condannano i ragazzi nelle sabbie mobili dell’eterna adolescenza. Senza porre dei paletti non si permette loro di misurarsi con se stessi per superare il recinto che li trattiene all’interno della famiglia: non fantasticano più su progetti a lunga scadenza ma vivono nell’eterno presente di un mondo virtuale, all’apparenza senza confini e velocissimo, e nel quale la trappola risiede nel non riuscire a selezionare i contenuti e le esperienze, finendo per soccombere sotto il loro peso.


Da qualche tempo nella scuola italiana stanno nascendo progetti finalizzati a insegnare a saper perdere, progetti in controtendenza con il mito dell’eccellenza, del primo della classe, progetti che ambiscono a ridurre il fenomeno del bullismo e della dispersione scolastica, che mirano a trasmettere ai giovani un messaggio importante: nella vita non è importante il traguardo che si raggiunge, ma la strada percorsa per raggiungerlo; strada che deve essere lastricata di rispetto per le regole, per se stessi e per gli altri.

La scuola e la famiglia dovrebbero quindi coordinarsi nell’aiutare un giovane a rispettare se stesso, a rispettare il proprio sentire più intimo, comprese le insicurezze, le fragilità e i fallimenti.

La “cultura del rispetto” fin da piccoli

La parola rispetto deriva dal latino respicere e significa guardare indietro, soffermarsi a osservare quello che nella fretta si è perso, al quale non si è dedicato il giusto tempo, la doverosa attenzione. Guardare indietro per osservare nuovamente l’altro, con uno sguardo interessato alla sua storia, alle sue emozioni. Solo in questo modo è possibile coltivare la propria intelligenza emotiva, la propria capacità di accorciare le distanze con il prossimo e tentare di mettersi nei suoi panni sviluppando l’empatia, cioè l’attitudine a condividere il senso del comportamento altrui, intuendone le emozioni e il senso delle azioni. Stare nei rapporti facendo dialogare la propria voce più autentica, assumendosi la responsabilità di una relazione e mantenendo sempre vivi attenzione e rispetto.


L’empatia va sviluppata, coltivandola fin da piccoli. Lo psicologo Richard Weissbourd con il progetto Making Caring Common suggerisce le cinque regole auree dalle quali partire per insegnare ai propri figli l’altruismo e la gentilezza. La prima regola suggerisce di rendere per i figli una priorità l’occuparsi degli altri, la seconda mira ad abituarli a ringraziare per l’aiuto che ricevono, la terza tende ad allargare la cerchia di persone delle quali si preoccupano, la quarta induce a dare il buon esempio e la quinta insegna come aiutare i bambini a gestire i sentimenti distruttivi.


Il rispetto dovrebbe sempre essere annoverato fra i tre capisaldi educativi, insieme al senso di responsabilità per le proprie azioni e all’incoraggiamento a vivere con passione e impegno l’esistenza. Tali princìpi dovrebbero restare immutati, nonostante l’avvento della tecnologia alla quale non si può addossare alcuna colpa se non l’uso distorto che se ne fa e che deriva dall’assenza, nella vita reale, della trasmissione ai giovani dei fondamenti educativi per affrontare con correttezza la vita offline e online.


Internet non fa altro che riproporre quello che ogni giorno succede nella vita reale. Internet è lo specchio della nostra società: non si può addossare allo specchio la responsabilità per quanto riflette, non si può pensare di riparare lo specchio, è la società che va aggiustata. L’empatia può rappresentare una strada da percorrere per rimediare ai guasti della società, attraverso l’empatia è possibile aprire gli occhi su quanto non funziona nel mondo reale e in quello virtuale, attraverso l’empatia non ci si chiude in sé ma si lavora collettivamente per sorreggersi l’uno con l’altro.


Come scriveva il poeta John Donne “Nessun uomo è un’isola, intero in se stesso”, l’uomo ha bisogno di stringere legami con gli altri, necessita di mani rivolte verso di lui e di rivolgerle a sua volta per soccorrere.

Il coraggio di ricorrere alla “pausa”

Gli adolescenti sono tesi verso il raggiungimento di una pienezza che vorrebbero afferrare subito: non hanno la pazienza di attendere che il seme germogli, come noi genitori non abbiamo la tolleranza per osservare e curare la piantina che cresce. Il verbo curare corrisponde al latino colěre dal cui participio passato, cultum, proviene il termine cultura che, come ben tratteggia lo scrittore D’Avenia,

vuol dire stare nel campo, farlo fiorire, a costo di sudore. Significa conoscere la consistenza dei semi, i solchi della terra, i tempi e le stagioni dell’umano e occuparsene perché tutto dia frutto a tempo opportuno. Nella cultura ci sono il realismo del passato e del futuro e la lentezza del presente, cosa che il consumo non conosce: esso vuole rapidità e immediatezza, non contempla la passione e la pazienza.

Come sarebbe auspicabile invece, soprattutto in questa delicata fase della vita, rallentare insieme, perdere tempo per guadagnare tempo, per porsi all’ascolto del figlio, per tendergli una mano, per raggiungere l’equilibrio che quest’ultimo si affanna a trovare; e per sostenerlo nella riflessione volta a decodificare gli innumerevoli stimoli a cui è sottoposto.


Educarci ed educare i giovani alla pausa è davvero fondamentale sebbene sia complicato: richiede coraggio perchè si ha sempre fretta di eseguire, conoscere, rispondere. Senza riflettere con la dovuta calma su come agiamo, sulla possibilità che abbiamo di scegliere mettendoci in discussione. Bisogna rintracciare il tempo essenziale per costruire relazioni educative che permettano ai ragazzi di avere accanto qualcuno con cui confrontarsi, con cui meditare sui propri desideri, sulle proprie insicurezze, sulle proprie azioni senza sentirsi soli. Nell’attuale società pervasa dalla tecnologia è diventato imprescindibile allenarsi per instaurare la slow tech: una conversazione personale richiede tempo, richiede una pausa, richiede attenzione nell’ascolto, richiede un luogo tranquillo dove parlare, possibilmente di persona, impegnati a fare solo quello. Sono soprattutto i giovani che stanno perdendo la possibilità di concedersi delle pause, di ritagliarsi del tempo per essere offline, per perdersi in riflessioni familiarizzando con il vuoto e il silenzio che inducono, finalmente, a connettersi con se stessi.


La continua connessione del moderno homo smartphonicus crea dipendenza, crea una schiavitù che diventa irreversibile nel momento in cui non si riesce più a prescindere da queste catene, da queste protesi degli arti superiori che inchiodano in un mondo virtuale rubando attenzione senza esserne consapevoli.


Educare i ragazzi a una pausa è utile per sottrarli al diktat di interagire senza interruzioni, suggerendo loro di aspettare prima di dare una risposta online, di concedersi lo spazio per farsi delle domande, di accogliere e apprezzare il silenzio. Ci sono momenti in cui il silenzio va ricercato poiché si sta bene anche avvolti dal suo abbraccio, dopo aver allentato la corda alfabetica che ci lega agli altri, talvolta ferendoci talvolta consolandoci: siamo scolpiti dal silenzio.

Italo Calvino parlava di scelta del silenzio da ricercare in un mondo nel quale tutti parlano troppo. Lo scrittore italiano che amava nascondersi non avrebbe apprezzato i social, luoghi dove prolifera un’imprecisione ingannevole e una solitaria moltitudine di individui in quanto, come scriveva, Rainer Maria Rilke,

non si deve solo alla pigrizia se le relazioni umane si ripetono così indicibilmente monotone e senza novità da caso a caso, ma alla paura di un’esperienza nuova, imprevedibile, a cui non ci si crede maturi. Ma solo chi è disposto a tutto, chi non esclude nulla, neanche la cosa più enigmatica, vivrà la relazione con un altro come qualcosa di vivente e attingerà sino in fondo la sua propria esistenza2.

Nella comunicazione digitale le relazioni umane sono monotone, in alcuni casi foriere di sofferenza, poiché l’enorme quantità di informazioni che si gettano in rete restano lì, non vengono accolte e metabolizzate dall’altro con meditazioni che richiederebbero una pausa di riflessione che il web non concede.


La tecnologia ha contribuito ad accelerare le comunicazioni ma il nostro cervello resta una macchina lenta, come afferma Lamberto Maffei: il consumismo, anche delle relazioni, è figlio del pensiero rapido e conduce alla bulimia dei consumi. A questo si associa poi una grave anoressia delle idee e dei comportamenti civili sostenuti dal pensiero lento, ma quest’ultimo è

un pensiero pesante da portare, che trascina con sé il fardello della memoria e il peso dei dubbi e le incertezze dei ragionamenti3.

La nuova “generazione hashtag” riduce la comunicazione a poche parole chiave, con la conseguenza che il dialogo si impoverisce e le relazioni interpersonali online diventano trappole emotive nelle quali viene catturato il più fragile. Ma i giovani, nonostante tutto, non possono prescindere da questo strumento, per cui è impensabile sottrar loro il cellulare chiudendo così la loro finestra sul mondo. La strada da percorrere, ancora una volta, è quella dell’ascolto e dell’esempio autorevole nella consapevolezza che, molto sovente, siamo noi adulti i primi a essere dipendenti dallo smartphone e dalle maschere che indossiamo sui social.


Il dialogo con i giovani dovrebbe essere sostenuto da un ambiente famigliare il più possibile disconnesso, vale a dire un terreno ben più favorevole ad alimentare le relazioni all’insegna della lentezza e dell’autenticità.


Secondo la ricerca Social Media Use and Children’s Wellbeing, effettuata da quattro professori di economia dell’università di Sheffield, i ragazzi di età compresa fra i 10 e i 15 anni che spendono un’ora collegati ai social riducono del 3 per cento la loro probabilità di essere felici. I giovani connessi risultano stressati e amareggiati dal costante paragone con modelli esterni irraggiungibili, dall’esposizione a critiche pubbliche, dal dover aderire alle richieste del gruppo, omologandosi per non rischiare di esserne esclusi o di diventare vittime del cyberbullismo.


Nell’epoca in cui l’autostima, e non solo quella degli adolescenti, si nutre e si consolida con i like ricevuti che aumentano quando ci si uniforma al gruppo, appaiono quanto mai di attualità le parole scritte da Seneca nel De vita beata:

Nihil ergo magis praestandum est quam ne pecorum ritu sequamur antecedentium gregem.

(A nulla dunque bisogna badare di più che a non seguire come pecore il gregge di chi ci precede)


Il rispetto per se stessi e per gli altri, che affonda le sue radici nella pausa e nella lentezza, va trasmesso ai figli fin da piccoli attraverso l’esempio e deve essere la cifra quotidiana sulla quale noi adulti improntiamo il nostro agire.

Nelle pagine seguenti trova spazio una breve favola, Il gregge multicolore, da leggere ai più piccini che potranno, dopo averla ascoltata, dar libero sfogo alla loro fantasia disegnando, non con il mouse ma con le matite colorate, il loro mondo dalle mille sfumature.


Basta prendersi una pausa, disconnessi, e dedicarla ai nostri figli, il risultato ci sorprenderà…

Il gregge multicolore

Gigina è un pecora dal vello grigio perla.

La sua lana ha assunto quell’insolito colore dopo aver ascoltato con attenzione le parole della furibonda Nerina, la pecora nera, che è uscita dal recinto sbattendo con la zampa il cancello di legno dello steccato.


Le altre pecore del gregge hanno continuato a brucare l’erba imperterrite, con il capo chino sul prato, senza interrogarsi in merito a quella sorprendente fuga.


D’altronde non si sono mai soffermate a osservare con interesse le compagne accanto a loro, figurarsi se prestavano attenzione a Nerina così diversa!

Ognuna segue sempre il gruppo quando si sposta dal recinto al pascolo e poi, successivamente, dal pascolo al recinto senza sentirsi mai realmente parte di un insieme.


Gigina, al contrario, ama alzare la testa ricciuta per guardarsi intorno e non solo per riflettere, con invidia, come l’erba che sta brucando la vicina sia sempre più verde e, dunque, più saporita.

Solleva lo sguardo sul mondo che la circonda per perdersi ad ammirare l’incanto delle sue colleghe nuvole che si rincorrono nel cielo, mutando forma senza sosta.


Osserva con rispetto la quercia centenaria, riflessa nel laghetto dove si reca ad abbeverarsi, invece di bearsi della propria immagine che lo specchio d’acqua le rimanda, belando inorgoglita per la soffice lana come fanno le altre pecorelle sempre attente ad afferrare il filo d’erba più gustoso, capace di regalare un manto morbido e pregiato del quale poi pavoneggiarsi.


Gigina ha trovato il tempo e la voglia di raccogliere lo sfogo e le ragioni di Nerina, iniziando a porsi mille domande.


Da quel momento è solita trascorrere le ore ai piedi del frondoso abete, ascoltando il gufo Rufo che racconta le storie del bosco.


Le parole del gufo saggio, se l’hanno soprannominato così un motivo ci sarà, si trasformano nella testa di Gigina in immagini che le offrono uno spunto per iniziare a cercare qualche risposta ai tanti suoi perché.


Poi, come di consueto, si allontana dalle radici dell’albero odoroso per sgranchirsi un poco e brucare qua e là, senza dimenticare di intrattenersi con l’allegria leggera della farfalla Azzurra, la rabbia spinosa del riccio Pungino, la paura timida del coniglio Pum Pum trovando nuove risposte ai suoi perché.

Intanto nel gregge si è sparsa la voce che Gigina sa ascoltare senza giudicare e lentamente, una alla volta, tutte le pecorelle vanno a brucare l’erba vicino a lei per essere libere di esprimere la loro allegria, la loro rabbia, la loro paura, per sentirsi meno sole in mezzo alle altre.


E quel parlarsi, confidarsi, ascoltarsi a poco a poco le contagia tutte, facendo scoprir loro come sia bello stare insieme nonostante le differenze.

Un caleidoscopio di pensieri, gusti e sentimenti che le rende differenti ma unite, come le sfumature di colore che adesso ha assunto la loro lana ricciuta.

Ormai nel prato c’è uno splendido gregge arcobaleno, i cui colori fanno concorrenza a quelli che si dipingono nel cielo dopo un acquazzone!

Cyberbullismo
Cyberbullismo
Ilaria Caprioglio
La complicata vita sociale dei nostri figli iperconnessi.Un’analisi del fenomeno del cyberbullismo, per aiutare i genitori a comprendere quali sono i rischi del web per il bambino e capire come affrontarli. Il fenomeno del cyberbullismo è in forte crescita nella complessa vita sociale dei giovani iperconnessi. A ciò contribuisce la complicità degli adulti che, illudendosi di avere figli perfettamente equipaggiati per affrontare il mondo del web senza rischi, non si preoccupano di fornire loro un’adeguata educazione ai media, capace di sviluppare il senso critico e la cultura del rispetto, indispensabili anche online. A partire dagli anni Settanta si iniziò a esaminare il fenomeno del bullismo (caratterizzato da un’aggressione fisica o psicologica che si ripete e da uno squilibrio di potere fisico e sociale tra vittima e carnefice), ma, ai nostri giorni, i bulli possono passare dalla tradizionale modalità offline a quella online, utilizzando canali digitali come social network e programmi di messaggistica.Il conflitto si manifesta in un luogo fisico, ma se non si risolve può trasferirsi nel mondo virtuale, che enfatizza la persecuzione, condita dall’anonimato. Il problema del bullismo digitale nasce quindi fuori dal web, si genera a causa della complessità dei rapporti che sempre più spesso vengono affrontati con superficialità e scarsa attenzione da parte del mondo adulto che non si assume la responsabilità di questo crescente analfabetismo emotivo. La sfida per noi genitori e educatori è provare a intercettare e decodificare quei segnali di disagio giovanile che online diventano visibili perché messi in scena attraverso il drama, una sorta di rappresentazione dei conflitti interpersonali che gli adolescenti faticano a gestire. Ilaria Caprioglio, nel suo libro Cyberbullismo, aiuta i genitori a comprendere quali siano i rischi del web per il bambino o per il ragazzo e suggerisce come affrontarli. Conosci l’autore Ilaria Caprioglio, avvocato e scrittrice, è sposata e madre di tre figli. Sostiene iniziative sociali rivolte ai giovani e promuove, nelle scuole italiane, progetti di sensibilizzazione sugli effetti della pressione mediatica e sulle insidie del web.È vice-presidente dell’associazione Mi nutro di vita e ideatrice della Giornata Nazionale del Fiocchetto Lilla contro i disturbi del comportamento alimentare.