seconda parte - iv

Il gioco

Il tono emotivo naturale di un essere umano è un godimento entusiasta della vita. La relazione naturale fra due qualsivoglia esseri umani è di amorevole affetto, comunicazione e cooperazione.

Harvey Jackins

Più l’animale è intelligente, più gioca.

Manitonquat

Di norma, si viene alla luce in questo mondo aspettandosi di non avere problemi, a meno di non sperimentare serie difficoltà in utero o alla nascita; in tal caso il legame immediato con il calore e il conforto del corpo materno di solito ripristinerà presto il senso di benessere del neonato. Libero dall’ansia, il piccolo inizierà a osservare con meraviglia ciò che gli rivelano i sensi, e poi con curiosità e grande interesse. Sarà presto evidente che anch’egli possiede un senso del divertimento. Inizia prima a sorridere e poi passa presto alla risata vera e propria. Al crescere delle azioni che suscitano il riso è palese quanto noi esseri umani amiamo ridere e giocare.


Nella nostra antica lingua non esiste una parola per esprimere l’idea di “lavoro”, esistono parole per ogni genere di attività, ma nessuna di esse si adatta al concetto generale di lavoro. Si definisce solo l’attività del momento, e se ciò che si fa in quel momento diventa stancante o noioso, si passa per un po’ a qualcos’altro. Quando da ragazzo avevo un lavoro da fare lo trasformavo sempre in gioco, mi ci divertivo in qualche modo. Da bambini è questo il modo di affrontare il mondo.


Un giorno portai mio figlio minore a vedere le tane dei castori nel vicino lago e restai sorpreso scorgendo sei grossi aceri abbattuti al suolo da dentini affilati e aguzzi. “Tashin”, dissi, “chissà perché il castoro ha tagliato questi alberi così grandi che per lui sono immensi e non può trasportarli né farci alcunché?”


Tashin osservò gli alberi pensieroso, poi se ne uscì con una perla di saggezza da bambino di quattro anni: “Forse è stato divertente” mi disse.


L’impegno dei bambini è quello di giocare, è il loro lavoro. È il modo in cui imparano a proposito di sé, degli altri e del mondo. È anche il loro modo di comunicare: comunicano pensieri e sentimenti a se stessi e agli altri attraverso il gioco. Soprattutto quando sono molto piccoli, incapaci di articolare le proprie esperienze attraverso la parola.


Se prestiamo la dovuta attenzione, possiamo capire molto di ciò che pensano e sentono osservandoli mentre giocano e partecipando anche noi.


Per questo se li limitiamo nel gioco ostacoliamo anche il loro apprendimento. E quando cerchiamo di controllare il gioco stiamo anche controllando la loro comunicazione. Se evitiamo di esercitare un controllo e ci limitiamo a incoraggiare il bambino a restare alla guida del gioco, lui ci mostrerà ciò su cui sta lavorando, cosa cerca di capire, cosa è importante per lui e come si sente. Giocare insieme ai bambini è una parte importante dell’entrare in relazione con loro. Crea intimità e regala divertimento e momenti felici che conserveranno nel ricordo per il resto della loro vita.

Giocare rafforza il legame fra noi e loro e può anche aiutare a guarirlo nel caso si logori o si spezzi.


Non è facile per noi adulti, ma è forse la capacità più importante da sviluppare quando ci si prende cura di un bambino. Lawrence Cohen la pensa così, e se leggerete il suo libro, Gioca con me1, ne capirete il motivo. Sono tentato di chiudere qui il capitolo e dirvi di procurarvi il libro, ne ricaverete tanto oltre al ricco sapore della sua speciale giocosità: è un corso completo di accudimento per bambini di ogni età, rivolto non solo ai genitori, ma utilissimo a chiunque assista i più giovani o semplicemente li frequenti.

È però un argomento di tale importanza che devo provare a darvi almeno un’infarinata di ciò che vuol dire giocare con i bambini. Come adulti è probabile che non giochiate abbastanza neppure voi, e quando lo fate è forse il tipo di gioco sbagliato, pieno di competizione, con vincitori e perdenti: “Il brivido della vittoria e l’agonia della sconfitta”. Ma quando avrete colto l’idea, potrete esercitarvi e mettere alla prova le vostre nuove abilità di gioco con i bambini ad ogni occasione.


Come si inizia? Un buon consiglio è quello di iniziare facendo i pagliacci. C’era una canzone di Cole Porter in The Pirate con Judy Garland e Gene Kelly che cantavano e danzavano con scarpe grandi e flosce, pantaloni larghi e nasi rossi: “Fai il clown, fai il clown, tutto il mondo ama i clown”. O almeno quasi tutto. I bambini piccoli possono spaventarsi molto con il trucco pesante e bizzarro e le pagliacciate folli dei clown da circo. Ma persino i più piccoli ridono quando facciamo le facce buffe, perché capiscono che si tratta di un gioco e non di una minaccia.


Larry Cohen suggerisce di perdere la propria dignità e ritrovare i propri figli. Potrebbe non essere facile, lo capisco, ma dite a voi stessi che è per una buona causa, lasciatevi andare. I bambini ne andranno matti e vi adoreranno. Altri adulti vi osservano? Vi sentite in imbarazzo? Gran parte di loro sarà invidiosa della vostra capacità di fare i mattacchioni e suscitare il riso. La transizione improvvisa da un contegno serio alla più assoluta stupidità è divertente fino all’isteria per i bambini.


Mia madre, una bella donna dal contegno imponente, riusciva a farmi sbellicare dalle risa con una semplice espressione facciale. E non solo me; dieci anni dopo mio fratello e mia sorella più piccoli si piegavano in quattro dalle risate quando cedeva alle nostre richieste di fare “la faccia da scimmia”.


Quale comico vi faceva ridere quando eravate ragazzini? Forse Robin Williams che impersonava il mio amico, il dottor Patch Adams, in quel film. Da bambino mi piaceva Ray Bolger nello spaventapasseri del Mago di Oz e mi perfezionavo in quella sua camminata tanto elaborata, goffa e instabile, che uso ancora con i bambini. Ma il mio vero comico di riferimento era Danny Kaye. Studiavo le sue espressioni facciali quando parlava ai bambini e raccontava storie, i suoi trucchi vocali e i movimenti caricaturali (come in Hans Christian Andersen, The secret life of Walter Mitty, e nel migliore di tutti, The Court Jester). Imparai a memoria tutte le canzoni del suo disco e fu un momento davvero alto della mia vita vedere e assaporare il suo spettacolo come unico artista al Palace di New York. E poi un po’ di Chaplin, di Buster Keaton e un tocco di Dick Van Dyke sono passati nel mio stile di racconto e di gioco con i bambini.


Non è necessario essere dei professionisti, basta pensare in modo teatrale, scimmiottare l’opera e il melodramma, gigioneggiare, esagerare con le emozioni, gridare, ridacchiare, strabuzzare gli occhi, cadere a faccia in giù, ostentare una dignità esagerata mentre si fa qualcosa della massima stupidità. I bambini si sentono spesso stupidi; ricordate come ci si sentiva a non sapere qualcosa che tutti sembravano sapere? Per questo adorano vederci fare la parte degli idioti senza speranza. Il consiglio di Larry: “Sbaglia, Sbanda e Inciampa”.


Se vi sentite infastiditi da quello che sta facendo un bambino, esagerate la vostra esasperazione fino al ridicolo, prendetevi gioco di voi stessi – capirà da dove nascono i vostri sentimenti. Sono talmente arrabbiato che metterò la testa nel water! (non è necessario farlo – se non strappate una risata continuate, più immaginate cose assurde, meglio è). Come dice Larry: “Ci vuole un villaggio di idioti per crescere un bambino”.


È meraviglioso ridere insieme ai bambini, loro ne vanno pazzi e lo stesso vale per noi, è gioia allo stato puro. Potete farli ridere facendovi acchiappare, cadendo e piangendo mentre implorate pietà! Quando siete voi a inseguirli, sarete talmente goffi che un istante prima di acciuffarli inciamperete e cadrete e loro fuggiranno gridando e ridendo.


Quando vi colpiscono con la pistola laser o la spada di luce morite con lenta magnificenza. Un altro suggerimento di Larry quando vi sparano è quello di gridare: “Oh no! È la pistola dell’amore! E ora come faccio? Ti voglio troppo bene… fatti abbracciare! Ti prego, fatti baciare le dita dei piedi… ti prego ti prego ti prego!”


Il gioco non è mai troppo, soprattutto in età scolare. Già durante l’asilo iniziamo a controllare il gioco dei bambini: non vi agitate troppo, non vi fate male! State calmi! Non vi scalmante dentro casa! Notizia flash: i bambini sono sfrenati e chiassosi, pieni di energia che deve essere buttata fuori.


Quando proviamo l’impulso a porre un freno al gioco dovremmo riconsiderare la cosa con il beneficio del dubbio: esiste una minaccia reale, rischiano davvero di farsi male? O forse sono solo troppo vivaci, chiassosi e turbolenti per i nostri gusti? Vogliamo che siano dei piccoli manichini beneducati? O preferiamo che siano bambini veri? I bambini a volte fanno baccano e creano scompiglio, ma se non possono farlo tutta quell’energia che fine fa? Alla mia età posso solo essere molto invidioso di tanta vitalità!


Se esiste il rischio che il gioco sfugga di mano o diventi violento e qualcuno si possa far male, possiamo irrompere con il nostro clown mattacchione o con lo scemo del villaggio e deviare le energie. Se litigano per un giocattolo possiamo afferrarlo noi e farci inseguire, possiamo acchiappare uno dei bambini e cadergli sopra facendoci saltare addosso dagli altri.


Il contatto fisico, la lotta, le strette, il rotolarsi addosso sul divano o sul pavimento stabiliscono un’ottima intesa fra tutti. Esiste il problema che quando si tratta dei figli di altri la minaccia tanto reale della pedofilia possa trattenerci dal sano contatto fisico, espressione del puro affetto umano. Parliamone con altri adulti, assicuriamoci che gli ambienti frequentati dai nostri figli siano sicuri e controllati, e se lo sono ricordiamoci l’importanza del contatto fisico e di un sano affetto per il benessere emotivo di ogni bambino. Darsi pacche sulle spalle, arruffarsi i capelli, tenersi per mano, sedersi in braccio, abbracciarsi, accoccolarsi, fare la lotta per gioco, fa tutto parte di un legame e un’intesa che tutti desideriamo.


In un cerchio recente, un bambino di quattro anni con tanta energia risolse il suo bisogno di gioco attivo e di attenzione correndo in tondo dentro al cerchio dei partecipanti. La sua audacia ispirò altri due bambini, di poco più piccoli, che si unirono a lui. Correvano in cerchio alla massima velocità, era chiaro che si divertivano e sarebbe stato anche divertente da guardare se non avessimo avuto un programma diverso, sembrava di stare alle corse. Non volevo interrompere il divertimento ma era difficile concentrarsi e riuscire a parlare e ascoltare. Decisi che la cosa migliore da fare era unirsi al gioco.


Saltai su e iniziai a correre con loro; gridavano ridendo entusiasti e mentre continuavamo a correre tutto il cerchio rideva con noi. Poi presi la mano del piccolo che aveva dato l’avvio al gioco e gli feci fare una giravolta sollevandolo da terra, lo rimisi giù e lasciai che facesse fare una giravolta anche a me. Continuammo così e ogni volta che mi faceva fare una giravolta mi muovevo in modo buffo e goffo inciampando dappertutto, poi mi ricomponevo per farlo volteggiare. Per aumentare il divertimento, lasciavo andare la sua mano, roteavo e capitombolavo steso a terra. Allora gli altri due bambini si unirono al gioco e tutti e tre mi saltarono addosso. Li acchiappai e ci rotolammo facendo la lotta sul pavimento, io che facevo l’idiota e loro che ridevano a crepapelle.


Alla fine strisciai verso la mia sedia, trascinandomeli tutti appresso, mi sedetti e ne presi uno in braccio ma avevano capito che ero esausto, così corsero tutti a giocare in un’altra stanza, e il cerchio proseguì con il programma.

A caccia di risate

Suscitare il riso è un modo per sciogliere la tensione della paura, dell’ansia e della confusione; se lo farete prestando la dovuta attenzione riceverete informazioni sui sentimenti del bambino.


Si è scoperto che i bambini dell’asilo ridono tre o quattrocento volte al giorno. Quando è stata l’ultima volta che avete riso almeno cento volte? Forse a un festival cinematografico su Chaplin.


Ogni giorno i bambini elaborano miliardi di dati, sono bombardati da nuove esperienze e informazioni. Il gioco dà un senso a tutto questo.


È un bene quando giocano da soli, è allora che approfondiscono la conoscenza di se stessi e imparano a relazionarsi con ciò che accade loro nella vita. Sono stato figlio unico per tredici anni, e per la maggior parte di questo periodo ho giocato da solo. Non ricordo mai di essermi sentito solo o annoiato, era tutto troppo interessante per annoiarsi, la mia mente e la mia immaginazione erano sempre coinvolte. Tutto mi raccontava una storia.


Ero molto piccolo e avevo questa enorme scatola di burattini da dito con cui mi intrattenevo per ore inventando storie che facevo recitare ai miei personaggi. Più tardi, verso gli otto anni, mi venne regalato un teatrino con un sipario rosso che si arrotolava e un palcoscenico scanalato in cui potevo inserire scenari fatti da me e muovere da sotto i burattini, mettendo in scena spettacoli per mia zia e i miei nonni.


Giocare con gli altri bambini è importante per sviluppare sicurezza e abilità sociali. Di solito i bambini se la cavano molto bene nell’organizzare i propri giochi e apprendere gli uni dagli altri, ma ci sono momenti in cui potrebbero bloccarsi e aver bisogno dell’assistenza e della comprensione di un adulto.


Adorano quando gli adulti giocano con loro, se sono davvero con loro e non contro di loro. Ci uniamo ai loro giochi così di rado che sono abituati a pensare che non vogliamo farlo, perciò non ce lo chiedono. Siamo noi a dover prendere l’iniziativa e chiedere di giocare.


Il nostro atteggiamento verso lo sport è stato rovinato dalla competitività; ogni volta che gioco a tennis devo ricordare a me stesso di non lasciarmi prendere dall’ansia della competizione ma di fare del mio meglio in ogni momento e godere dei successi dell’avversario, in tal modo la partita è molto più divertente. Però ho sempre bisogno di ricordarmelo, tanto è radicato questo atteggiamento. Quando facciamo giochi a somma zero con i bambini è necessario ricordare che il momento del gioco è il loro, non il nostro.


Molto dipende dall’età del bambino, quelli molto piccoli di solito soffrono sentimenti di impotenza: tutto è costruito per i grandi, non possono guidare un’auto, di rado possono scegliere cosa fare, dove andare, cosa mangiare. Perciò, quando giochiamo con un bambino piccolo e riusciamo a perdere per lui sarà una vittoria immensa! Gli farà bene gloriarsi e ricevere le nostre congratulazioni.


Quando crescono e posseggono maggiori abilità, sarà nostra cura offrirgli occasioni per misurare la propria resistenza, estendere le proprie capacità e rendere la vittoria più dolce. Ammetto di aver fallito in questo con mio figlio maggiore. Prima di sapere queste cose gli insegnai a giocare a tennis nella speranza di avere un compagno con cui tornare a praticare il gioco della mia giovinezza. A tredici anni Tokeem era forte e coordinato ed era davvero in grado di rispondere alla battuta. Ma quando giocavamo la mia superiorità mi consentiva di batterlo nei match. Per lui non era certo divertente, e fu così che perse interesse al tennis.


Poi iniziò a chiedermi di giocare con lui a basket e ben presto fu in grado di stracciarmi. Ecco cosa ci avevo guadagnato a giocare a tennis per me stesso e non per lui!


Gli sport competitivi non sono fantasiosi, liberi e spontanei come il gioco creato dai bambini o qualsiasi altro gioco che non abbia vincitori e perdenti. Nei nostri campi, organizziamo ogni giorno un momento di gioco in cui tutti gli adulti si danno una bella stiracchiata, abbandonano la competitività e l’imbarazzo e giocano a quello che vogliono i bambini. Ogni bambino deve avere almeno un compagno di giochi adulto a sua disposizione, che faccia quello che lui desidera e nel modo in cui lo desidera, così che a tutti i bambini venga data la possibilità di eccellere e affermarsi. Il che significa un bel po’ di gattonamento e di bubusettete con i più piccoli, salti sul trampolino elastico, pagaiate in gommone, cavallucci sulla schiena e battaglie fra cavalieri armati di spada a cavalcioni su uomini di mezza età, battaglie di cuscini e la preferita: una gigantesca lotta di gavettoni che termina con adulti zuppi e gocciolanti.


Ci sono molti altri giochi divertenti, esistono tante variazioni regionali di nascondino, acchiapparello, muffa rialzo o il gioco delle sedie musicali, potete inventarne anche di vostri. Uno dei giochi preferiti della nostra comunità era “Mi ami, tesoro?”. Chi sta “sotto” deve andare da un altro e dirgli “Mi ami, tesoro?”, cercando di farlo ridere con il modo e l’espressione con cui lo dice. L’altro deve rispondere con una faccia seria: “Ti amo, tesoro, ma non posso ridere”. Se non resiste e ride o sorride va lui “sotto”. Se invece riesce a stare serio, chi è “sotto” ha ancora due possibilità di rifargli la domanda e provocare il riso. Se non ci riesce deve passare a un altro.


Durante i giochi ci saranno molte grida di gioia e, naturalmente, anche qualche lacrima. Ma non è una una brutta cosa, ricordate? La fatica, il disorientamento, il puro divertimento e le risate possono essere un’occasione per far scorrere delle lacrime che erano proprio in attesa di un simile momento di tensione o di liberazione per poter sfogare un’angoscia repressa. Quando succede, gli adulti sono pronti e comprensivi, si inginocchiano o siedono accanto al bambino, gli mettono un braccio attorno alle spalle, il che vuol dire che va tutto bene, è un bene lasciarsi andare e piangere. Bisogna solo ricordarsi che ogni volta che un bambino piange, ciò di cui ha bisogno è qualcuno che gli stia vicino e capisca quali sono le necessità del momento, che potrebbero essere anche solo quelle di sentirsi al sicuro e accudito. Magari il bambino appoggerà la testa sul petto dell’adulto e urlerà piangendo finché non avrà dato fondo alla propria disperazione e potrà correre di nuovo a giocare tutto allegro e raggiante.


Mi torna in mente la storia di un bambino di circa otto anni, che mi piaceva molto per via della sua vivacità e del suo spirito. Provavo però anche pena per lui perché era tormentato e lottava da morire quando il suo lato oscuro emergeva. Osservavo la sua sicurezza spavalda venir meno ogni volta che doveva tornare a casa, dove sapevo che sarebbe stato soggetto all’asprezza di quegli atteggiamenti violenti e umilianti che lui stesso riproponeva con gli altri bambini. Un giorno, un bambino più piccolo piangeva e tutti gli altri, capeggiati da lui, lo schernivano: “Un bebè che frigna, un bebè che frigna!”. Perciò intervenni, abbracciai la vittima e dissi agli altri che quella era proprio la cosa giusta da fare, quando le persone sono tristi o ferite hanno bisogno di piangere. Dissi che sapevo che tutti loro qualche volta piangevano, e che era un bene, perché se non avessero pianto abbastanza ora che erano giovani, da grandi avrebbero dovuto dare un sacco di soldi agli psichiatri.


I bambini accolsero pensosi l’informazione. Avevano già avuto modo di capire che ero loro alleato e stavo dalla loro parte, perciò raccoglievano quello che gli offrivo, anche se spesso differiva da ogni altro messaggio ricevuto a casa o a scuola.


Uno dei giorni seguenti rimasi scioccato nel vedere il bambino più piccolo che gridava mentre il mio piccolo bulletto lo prendeva a pugni. Lo tirai indietro e lo guardai negli occhi.


“Che stai facendo?” gli domandai. “Be’”, replicò quel monello con un lampo birichino nello sguardo, “ci hai detto che piangere ci faceva bene, quindi io lo stavo aiutando!”


Scoppiammo tutti a ridere, abbracciai entrambi i bambini e dissi: “Forse non vi ho detto che non si aiuta nessuno facendogli male. Visto che a tutti capita di farsi male, credevo che lo aveste capito. Fare la lotta ogni tanto può essere divertente, ma senza picchiare, perché fa male. Quello che dovete imparare non è come aumentare il dolore, ma come aiutarvi reciprocamente. Come fermare uno che fa male a un altro e come ascoltare chi sta male.”


Credo e spero che abbiano ricevuto anche il mio messaggio di ammenda. Molti anni dopo avrei rivisto alcuni dei miei studenti, ormai adulti e con famiglia, e tutti mi dissero che ero l’insegnante che davvero ascoltavano, e ciò che avevo detto loro li aveva accompagnati sempre e ora li aiutava con i loro stessi figli.


Dopo la nascita del nostro secondo bambino, Emmy e io trasformammo la nostra casa in una succursale dell’asilo, e per una stagione trascorremmo le giornate non solo con i nostri due figli, ma anche con altri sette o otto bambini di genitori che lavoravano fuori casa. Potete ben immaginare come fosse una condizione ideale e sfiancante per mettere in pratica il programma di Gordon sui genitori efficaci e gli insegnamenti del Re-evaluation Counseling che stavamo giusto imparando.


Quegli insegnamenti rafforzavano il nostro desiderio di rispettare i sentimenti dei bambini ed erano più efficaci di altri metodi di cui avevo letto, perché non solo inducevano a comprendere e accettare tali sentimenti, ma anche a incoraggiarli e a gioire della loro espressione. Osservavamo come la nostra attenzione paziente desse ai bambini la sicurezza di urlare la propria rabbia, e con quanta rapidità quella tensione si sciogliesse e ritornassero del loro consueto umore vivace e giocoso.


Non avendo una grossa esperienza con bambini di quell’età, cercavo solo di star loro accanto e di essere una risorsa quando chiedevano aiuto. Con Tashin che non aveva ancora un anno, Tokeem che non ne aveva ancora quattro e la casa piena di bambini vivacissimi fra i quattro e i cinque anni, facemmo un corso accelerato sul gioco e i sentimenti dei più piccoli. Mi resi conto che non importava il fatto che non avessi conoscenze specifiche ed esperienza; quello che importava era che restassi calmo, fossi paziente e capace di ascoltare e dar loro un’attenzione autentica, ma soprattutto, che dimostrassi di comprenderli e averli a cuore. Scoprii anche che quando riuscivo a essere buffissimo quella era la medicina quasi perfetta per quasi ogni situazione.


L’estate successiva comprammo insieme al nostro gruppo un vecchio scuolabus. All’epoca ci incontravamo una volta al mese per formare la comunità di Mettanokit. Nel luglio del 1980 andammo tutti al Raduno Internazionale del Rainbow che quell’anno si teneva in West Virginia. Con l’aiuto della nostra nuova comunità, Emmy e io ci prendemmo l’incarico di gestire l’intrattenimento dei bambini durante il raduno.


L’estate prima in Arizona, con la mia amica Joanne che chiamavamo mamma Swami, avevo già aiutato a organizzare l’accudimento dei bambini per quel grande raduno. L’intrattenimento dei bambini al Rainbow è stato inaugurato nel 1977 dal mio vecchio amico, poeta e clown, Wavy Gravy, fondatore della comune Hog Farm che diede da mangiare muesli a 400.000 persone durante il festival di Woodstock del 1969. Wavy ha fondato e diretto anche Camp Winnarainbow per bambini con bisogni speciali. Al Rainbow aveva dato vita alla Kiddie City, la Città dei piccoli, ma data la mia avversione per la vita urbana alterai il nome e la chiamai Kid Village, Villaggio del bambino.


I nostri amici di Mettanokit, sotto la direzione di Emmy, insegnarono ai volontari il nostro modo di essere pazienti, amorevoli e attenti e di unirsi al gioco dei bambini quando si fossero accorti che avevano bisogno di aiuto. Una delle volontarie, Esther, adorava talmente il nostro nuovo modo di stare con i bambini che in seguito si fece in bicicletta tutta la strada da casa sua al New Hampshire per unirsi alla nostra comunità e aiutarci con i nostri figli.


Un altro degli amici che conoscemmo al raduno era il piacevolissimo clown dottore Patch Adams, che venne per istruirci su salute e igiene attraverso una rappresentazione comica. Imparammo molto, soprattutto sul potere contagioso dell’umorismo! Tutti i bambini adorarono la sua presentazione e fu importante per la nostra comunità e per il nostro lavoro al Villaggio del bambino, che andò avanti dal 1980 fino al 1989. Da allora non sono riuscito a trovare il tempo di andare ai raduni del Rainbow se non una volta ogni cinque anni, più o meno, ma il Villaggio del bambino esiste ancora ed è un servizio importante, e spero che questo libro possa essere una risorsa anche per loro.


La primavera successiva, la nostra Mettanokit si trasferì nella nuova dimora di Another Place, il centro conferenze in New Hampshire dove ci eravamo riuniti all’inizio, tre anni prima. Esther portò la sua amica Kate e si unì a noi anche Donny, che aveva già lavorato con i bambini. Come ho detto, il nostro impegno più importante fu quello di far venire un insegnante di Reevaluation Counseling una volta a settimana per insegnare a tutti questa tecnica. Una mossa molto saggia. Imparammo molto altro anche grazie alle conferenze che ospitammo ad Another Place, fra cui il Convegno delle comunità del New England, la Fiera delle Arti Terapeutiche e i convegni su temi specifici come il parto in casa, la scuola familiare, la permacultura, l’orticultura biologica e, soprattutto per noi, il Reevaluation Counseling Family Workshop.


I seminari sul co-counseling familiare che Patty Wipfler e Chuck Esser avevano ideato sono alla base dei momenti di gioco che Ellika e io orchestriamo nei nostri campi estivi. Gli adulti si dividono in due gruppi, uno impegnato in un cerchio di condivisione sui ricordi della propria infanzia, l’altro nel gioco con i bambini. L’idea che sostiene il gioco è quella di dare il più possibile ai bambini il completo controllo della situazione, lasciandoli decidere cosa e come giocare, e dando istruzioni agli adulti. Con i bambini molto piccoli e quelli che ancora non parlano gli adulti sono stimolati a immaginare giochi che permettano loro di agire in modo incisivo. I miei figli sono molto bravi in questo, ho visto spesso Tashin, il minore, mentre un bimbo seduto lo spinge a terra in preda alle risate ogni volta che Tashin cade impotente, ripetendo la cosa anche per mezz’ora o più! Potete immaginare quanto i più piccoli adorino Tashin!

Quando il primo gruppo ha terminato il momento di gioco stabilito, di solito esausto dopo cacce sfrenate, duelli con sciabole luminose, salti sul trampolino elastico, corse con bambini a cavalcioni o battaglie d’acqua, il gruppo che ha fatto counseling lo sostituisce e si scambiano i ruoli. Il primo gruppo avrà molti antichi sentimenti da sfogare, stimolati dall’esperienza del gioco. Nessuno ha mai giocato così con noi quando avevamo quell’età!2

C’è una vocina nella vostra testa che vi dice: “Va tutto bene ma non ho proprio il tempo per questo. Come trovo il modo di giocare così tanto?”. Se siete un genitore unico o fate parte di una famiglia nucleare in cui entrambi i genitori lavorano, non posso che accordarvi tutta la mia comprensione. È il motivo principale per cui ho deciso di scrivere questo libro. I genitori hanno bisogno di aiuto. I nostri figli non dovrebbero trovare la loro strada senza una famiglia estesa e una comunità. Ne riparleremo meglio nell’ultimo capitolo.

Nel mentre, potete trovare molto sollievo e una nuova visione del vostro ruolo genitoriale se fate dell’atteggiamento giocoso la vostra modalità di fondo. So che è uno sforzo, lo è per me nonostante sia un individuo piuttosto scanzonato che prende la vita con grande umorismo.


L’energia di mio nipote è tale, e i suoi gusti in fatto di giochi e giocattoli talmente lontani da me, che devo forzarmi per farmi coinvolgere con entusiasmo. Ma ci provo, richiamo alla mente i miei soldatini e aeroplanini da guerra quando avevo la sua età, e fa bene a entrambi, almeno finché non sono troppo stanco e allora ho bisogno di riposo e di poter lasciar andare i miei sentimenti con un adulto che sappia capirmi. Unendomi a Linus nella sua battaglia contro l’Impero del Male posso coinvolgerlo in pensieri e idee, e domandare, in veste di luogotenente, quali siano i suoi sentimenti a proposito di tale coinvolgimento.


Siate attenti, coinvolti e comprensivi ma prendete le cose con leggerezza. Del resto è più semplice farlo quando si è rilassati e giocosi, quando si riesce a reagire con un po’ di umorismo e allegria.


Io continuo a esercitarmi, uscendo per un momento dalla mia consuetudine introspettiva di scrittore per lasciarmi coinvolgere: saluto con facce deliziate o attonite i bambini che guardano dai finestrini delle auto di passaggio; mi piego sui passeggini per strada e faccio segni di complice assenso; coinvolgo i piccolissimi in brevi conversazioni; mi siedo e ascolto stupefatto le storie dei bambini di quattro anni. Rassicuro sempre gli adulti responsabili e altri adulti nei paraggi che sto solo facendo il nonno e non sono niente di strano. È il brutto di questa nostra vita moderna, ma è necessario esserne consapevoli.

Adoro andare nei parchi giochi, di solito con mio nipote che mi offre così un valido motivo per stare lì, e poi spingo anche le altalene degli altri e aiuto i piccoli sullo scivolo. Se un bambino ha la palla, gliela lancio o la rimando indietro con un calcio per dare il via a uno scambio.


La casa di Ellika a Copenhagen è in una comunità di circa dodici famiglie, Børneengen – la radura dei bambini. Per trent’anni abbiamo visto nascere bambini in queste famiglie e crescere liberi e protetti, correre avanti e indietro da una casa all’altra, coinvolgendoci nei giochi, condividendo la loro percezione della vita. Molti sono ora giovani adulti e alcuni sono già andati a vivere per conto proprio. Børneengen prevede una cena comune a settimana, ospitata da famiglie diverse.


Il centro di questa comunità è un’area giochi, che fa parte dell’asilo che ne occupa il lato occidentale. Sul lato di sud-est la casa di Ellika si affaccia sul parco e seduti al tavolo della colazione possiamo osservare i piccoli entrare a frotte e rincorrersi per tutto il giorno in giochi spontanei inventati da loro. I giovani adulti che fanno da aiutanti, non troppo distanti dai bambini come età, hanno un talento meraviglioso per intervenire rilassati nei giochi quando l’aiuto è necessario o voluto, rincorrendo e facendosi rincorrere, dispensando abbracci e aiuti. Questo continuo movimento non ha mai fine finché i genitori non vengono a reclamare la prole.


Augurerei a tutti una simile vista dalla cucina. Le chiacchiere dei bambini nelle piccole casette, il movimento incessante delle altalene, il rimbombare degli scivoli, l’inventiva dei giochi nella sabbiera, le corse dei tricicli e degli skate board, le grida di gioia e i pianti di dolore, le esplorazioni, il lavoro di squadra.


Quando avete il cuore pesante, quando disperate per il mondo, non dovete far altro che affacciarvi alla finestra per ritrovare fede e speranza.


Vi passo un ultimo suggerimento di Larry Cohen: date potere alle bambine e create una comunicazione affettiva con i maschietti. Non devo spiegarvi altro, vero? La nostra cultura non incoraggia l’assertività e la competenza nelle ragazze e scoraggia la tenerezza e l’intimità nei ragazzi. Prestate attenzione a questo. Spingete le bambine ad affermarsi, a fare cose per se stesse, e lodatele quando lo fanno. Soprattutto se siete uomini, fate la lotta con i maschi e rotolatevi con loro (un modo maschile accettabile di creare intimità fisica) ma abbracciateli anche, specie se piangono, e fategli sapere che è una cosa meravigliosa piangere e voi siete davvero felici che possano farlo.


Dunque, giocate! Concedetevi di giocare con i vostri figli e con tutti i bambini ogni volta che potete. È un grande onore quando vi lasciano entrare nel loro mondo, il mondo del divertimento, della creatività e del “facciamo finta che”.

Adorano che un grande voglia giocare con loro e lo faccia in modo rispettoso, considerando i loro desideri e sentimenti. Desiderano mostrarvi e insegnarvi, voi entrerete più in sintonia con loro, e sarà un bene per tutti.


Il tempo dedicato al gioco è importante sin dal principio, da quando si nasce a… be’, ho ottantaquattro anni e il gioco è ancora una parte importante della mia vita. Mi piace non solo tenermi in forma, ma il divertimento e il cameratismo, stare qualche ora insieme a un gruppetto di altri vecchi ragazzi un giorno sì e uno no, sono certo che ci aiuti a star bene.


Ora voglio parlarvi di uno dei modi migliori per stare più vicini a ogni bambino, rafforzare la fiducia, la comprensione e l’affetto duraturo.


In realtà sarebbe una cosa bella da condividere con ogni persona, amico, compagno, o parente che sia.

Crescere insieme nella gioia
Crescere insieme nella gioia
Manitonquat (Medicine Story)
Prendersi cura dei bambini nella via del cerchio.Manitonquat, storyteller nativo del Nord America, ci insegna a trasformare la vita quotidiana con i bambini in un’avventura consapevole e gioiosa. Crescere insieme nella gioia è un progetto meraviglioso che per noi genitori del ventunesimo secolo è difficile anche solo immaginare, ma si può realizzare. Significa vivere con piena consapevolezza il nostro coinvolgimento con l’ambiente che ci circonda e gli accadimenti del momento; quando siamo con i bambini, in una sintonia profonda, loro ci rendono partecipi del loro coinvolgimento, ci aprono le porte per esplorare nuovi mondi, e l’esperienza può essere condivisa a tutto tondo. Presi dal vortice frenetico delle preoccupazioni, dei ritmi di lavoro e delle esigenze familiari, non siamo neppure consapevoli dell’immensa solitudine che ci circonda, dell’incredibile e innaturale condizione dell’essere adulti del tutto soli (o quasi) a mandare avanti una serie di compiti che richiederebbe invece la presenza di un’intera tribù di persone, le quali, un tempo, sentivano l’urgenza di legarsi, di stare vicine, di cooperare e di unirsi in entità più grandi. Gli esseri umani hanno bisogno di legami affettivi e della vicinanza dei loro simili.Il processo di apprendimento per diventare un essere umano completo richiede quindi legami che forniscono un aiuto prezioso per guidare e proteggere il bambino fino alla sua trasformazione in un vero e proprio adulto; chi lo circonda dovrebbe instillare in lui fiducia e autostima e offrire il necessario senso di appartenenza. Manitonquat, storyteller nativo del Nord America, con la sua esperienza quarantennale a contatto con i bambini e le loro famiglie, ci illustra un bellissimo percorso alla scoperta dei tanti strumenti a nostra disposizione per trasformare la vita quotidiana con i bambini e i ragazzi in un’avventura divertente, consapevole, gioiosa; offre ai genitori aiuti preziosi per prendersi innanzitutto cura di loro stessi, per guarire le proprie antiche ferite e guardare alla relazione con i più giovani da una prospettiva nuova, pervasa da un profondo sentimento di rispetto e di amore incondizionato. Conosci l’autore Manitonquat, il cui nome tradotto in inglese è Medicine Story (la storia che cura), è narratore, poeta e guida spirituale della nazione nativa americana Wampanoag. Svolge attività di insegnante e formatore sui temi della pace e della non violenza, della giustizia, dell’ambiente e della presa di coscienza per una società più giusta.Negli Stati Uniti è responsabile di un programma di sostegno per nativi nelle carceri. Ha pubblicato numerosi libri e articoli.