seconda parte - vi

L'arte dell'ascolto

…le esperienze traumatiche represse nell’infanzia restano custodite nel corpo e, sebbene inconsce, esercitano la loro influenza persino nell’età adulta.

Alice Miller

Il pensiero individuale è accresciuto grandemente da un ascolto attento e discreto.



Harvey Jackins



Vorrei ora spiegare la teoria della liberazione emotiva che è stata parte di quanto discusso fin qui. Per più di sessant’anni, questa teoria è stata sviluppata da molti attraverso il processo dell’“ascolto empatico”, costruendo fiducia e intimità, dando vita a un sentimento comunitario. Ci siamo tenuti al corrente di quegli sviluppi e di quelle esperienze attraverso i cerchi comunitari, le newsletter, i seminari, i convegni, le riviste, i libri e le registrazioni audio e video.


Questo processo di sviluppo è stato al centro della mia personale esperienza di genitore e maestro, perciò tenterò una brevissima descrizione di quelle che considero le idee principali in grado di farvi comprendere perché funzionino tanto bene nella pratica e vi facciano da guida nell’approccio relazionale con i bambini e le altre persone.


Nel primo capitolo ho descritto ciò che vedo in ogni neonato e che indica le qualità fondamentali intrinseche nella natura umana. Rappresentano una base di conoscenza per scoprire chi siamo. Siamo creature innocenti, curiose, giocose, amanti del divertimento, creative e premurose, che amano stare vicine e toccarsi, raccontare storie, ascoltare, ridere, fare, creare, danzare, cantare e, in un modo o nell’altro, essere d’aiuto, rendere la vita migliore a se stessi e agli altri.


Ci piace cooperare e fare le cose insieme. Ci piace fare esercizio, con il corpo e la mente, sperimentare l’amore, la bellezza e la gioia. Siamo interessati agli animali, ci piace stringere amicizia con loro, ci piacciono le piante, i fiori, gli alberi, i frutti e il cibo. Tutte cose positive. Non ci piace essere feriti e, quando ne comprendiamo il nesso, non ci piace ferire gli altri. Sentiamo una compassione naturale per coloro che amiamo e persino per gli estranei, che aumenta man mano che cresciamo e conosciamo il mondo.


Tutto ciò che ho imparato nella mia lunga vita osservando i bambini a casa, nei nidi, negli asili e nei parchi giochi, oltreché ascoltando le storie delle persone in sedute private, in gruppi, nelle carceri, grazie ai colleghi di counseling, attraverso le riviste e la letteratura, incluse ricerche psicologiche e sociali, mi è servito per confermare le mie osservazioni.


Perciò, se questo modello positivo della nostra natura primigenia è valido, com’è possibile che abbiamo tanti problemi con noi stessi e con gli altri? Come è facile intuire, la risposta è complessa, difficile e senza dubbio incompleta, ma la spiegazione che abbiamo elaborato finora funziona molto bene nella pratica e, visto che secondo me l’efficacia è la misura migliore della verità, la considero abbastanza buona.


Sembra che la costituzione umana sia alquanto adattabile e possieda sistemi automatici di guarigione. Quando la pelle si lacera o le ossa si rompono, si salderanno e ricostituiranno di nuovo, e certo il tenerle unite aiuterà il processo. Quando sviluppiamo delle infezioni il nostro corpo lavora per espellerle, attraverso la tosse, gli starnuti, il pus o il muco, il sudore, il vomito, le secrezioni e così via. In modo analogo, quando le nostre emozioni sono prese d’assalto e traumatizzate, esiste un processo naturale di sfogo che ne facilita la guarigione. I neonati ne fanno mostra ben presto. Quando piangono non è solo e sempre perché hanno fame o percepiscono un disagio fisico. Non possiamo sempre sapere, né è possibile chiedere quale sia la causa, ma se li teniamo in braccio mentre piangono, se parliamo loro con dolcezza e li trattiamo con premura e affetto, piangeranno le loro lacrime e poi si rilasseranno, di solito addormentandosi, e saranno vigili e felici al risveglio.


Le ferite emotive hanno una componente sociale perché implicano la presenza di altre persone. Gli altri giocano un ruolo preciso in questo processo, analogo alla fasciatura nel caso delle ferite del corpo. La paura, la tristezza, la rabbia e altri sconvolgimenti di solito hanno una causa che coinvolge una o più persone che hanno o non hanno fatto qualcosa. Possiamo anche essere spaventati da minacce naturali come un tuono, resi tristi dalla perdita di oggetti cari, o frustrati da un macchinario, ma persino in questi frangenti è il conforto e la comprensione umana che meglio ci aiutano a riprenderci.


Perciò, quando un neonato o un bambino è ferito e piange, forse urla o sussulta, avere una persona premurosa e di cui si fida che lo abbracci, gli dia attenzione e lo rassicuri della propria disponibilità e presenza, farà sì che i sentimenti vengano sfogati fino a scemare. Se nessuno gli è accanto per offrire conforto e rassicurazione, o se il pianto viene ignorato o biasimato, il processo di liberazione potrebbe fermarsi prima del tempo e la ferita essere registrata nella memoria. Nel caso di bambini abbandonati o maltrattati le memorie delle ferite emotive possono accumularsi fino a rendere necessario un ciclo di terapia, oppure, se trascurate, provocare sociopatie o psicopatie.


Molti, pur non avendo sperimentato maltrattamenti estremi, portano con sé un certo carico di angoscia non risolta, ma riescono a tirare avanti, a organizzare e mantenere la propria vita a un livello tollerabile. Abbiamo cose di cui lamentarci, non è l’ideale, ma possiamo sopportare. Per chi può permettersi di affrontare una psicoterapia potrebbero esserci opportunità di miglioramento. Tuttavia, per il tipo di aiuto necessario, non è indispensabile trovare un esperto che esiga alte parcelle a risarcimento dei suoi anni di studio e del suo stile di vita dispendioso. Tutto quello che serve davvero è qualcuno con cui sentirsi al sicuro, di cui fidarsi, che scambierà la sua attenzione e la sua naturale propensione all’aiuto compassionevole con un aiuto analogo da parte vostra.


La medicina è l’amore, questo è certo. La premura, la compassione, l’augurio di ogni bene, comunque vogliate chiamarlo, è naturale in tutti noi. Desideriamo davvero aiutare le altre persone, per quanto i nostri condizionamenti rendano arduo, quasi impossibile chiedere aiuto agli altri. Ma se ci accordiamo nel volere e nel sentire la necessità di un aiuto reciproco, non serve altro che imparare ad ascoltare in un modo che permetta e incoraggi le persone a sfogare le antiche emozioni che continuano a premere per risalire in superficie e angosciano, confondono, ostacolando la chiarezza di pensiero e l’agire deciso.


Dobbiamo imparare l’arte dell’ascolto. Un ascolto siffatto permette all’altro di localizzare le antiche angoscie registrate dal corpo e liberarsene. In quest’arte sono due le modalità generali dell’ascolto. Potremmo chiamarle attiva e passiva, o permissiva e non-permissiva.


Il modo passivo, o permissivo, può essere molto efficace. Nel momento in cui si apprende quest’arte è possibile restare solo attenti ed empatici, senza preoccuparsi di dire o fare la cosa giusta. I risultati della vostra attenzione saranno degni di nota. Se state ascoltando qualcuno che a sua volta è nuovo a questo processo, potete star certi che, come tutti, non avrà avuto spesso l’occasione di una tale attenzione ininterrotta. Molti sono troppo preoccupati o troppo presi dalle proprie sofferenze e storie per voler ascoltare a lungo senza interrompere. Per questo, quando trovano qualcuno che vuole davvero ascoltare le loro storie e simpatizzare con i loro sentimenti, tutto trabocca, e questo sfogo straordinario spesso porta con sé delle trasformazioni considerevoli.


L’ascolto attivo, o non-permissivo, può essere molto utile quando la persona che viene ascoltata non riesce a ricordare o perde il filo della memoria. Tabula rasa. Nessun pensiero o sentimento; la persona è confusa, perduta o offuscata. Il parlare diventa allora superficiale, senza saper cosa dire.


Che l’ascolto sia attivo o passivo, è sempre meglio pensare con molta attenzione a quello che l’altro sta dicendo, cercando di entrare in sintonia con i suoi sentimenti. Anche se si resta passivi, è comunque sempre bene reagire a ciò che ci viene detto mediante un cenno della testa, una stretta di mano, un sospiro o una breve risata di simpatia. Se l’altro è confuso a proposito dei suoi sentimenti, o non ne è consapevole, potete passare a un ruolo attivo per aiutarlo a riconoscerli e a esprimerli. Lo sfogo e la liberazione è ciò a cui entrambi state mirando. È l’agente dell’intuizione e del nuovo modo di pensare che produrrà una ri-valutazione, una maggiore consapevolezza e un cambiamento.


L’aiuto potrebbe arrivare sotto forma di domande volte a suscitare ricordi e sentimenti sepolti dalla coscienza, o affermazioni sulla vita e il carattere dell’altro che aiutino a contraddire quelle angosce e sofferenze tanto radicate in lui da bloccare la piena espressione dell’intelligenza, della creatività, della vitalità e dinamicità, la sua propensione amorevole, la sua gioia e passione di vivere.


Con la riflessione, la pratica e l’ulteriore comprensione della persona, saprete sempre meglio ciò che l’aiuta a sfogarsi. La liberazione attraverso lo sfogo può avere molte manifestazioni.


Prima fra tutte, quella del semplice parlare della propria vita. Non abbiamo molte occasioni di farlo con ascoltatori empatici, e la sola narrazione delle nostre esperienze alleggerisce molto il peso che abbiamo sul cuore. Le lacrime sono uno sfogo che può venire dalla tristezza, talvolta dalla felicità o dal sollievo, altre volte da una dimostrazione di amore, compassione, affetto o generosità che contraddica l’apatia inumana che ci circonda.


Ridere è uno sfogo anch’esso, e può seguire alla destabilizzazione comica dell’arroganza, della pomposità, della stupidità aggressiva, ma spesso origina anche dalla paura. Piccoli timori o imbarazzi a cui si dà espressione. Paure maggiori di solito provocano sudore freddo, tremiti, a volte pelle d’oca, ma anche risa, tanto che ho conosciuto persone che evitano i funerali perché provocano in loro scoppi di risa incontrollate.


Anche sbadigliare è un modo per lasciar andare, di solito la tensione fisica. Da giovane, a una lezione su come tenere discorsi in pubblico, imparai a sbadigliare per provocare un rilassamento della laringe e ottenere un tono di voce profondo e risonante. Quando mi esibivo a teatro c’erano sempre, nel momento di massimo nervosismo proprio prima che si alzasse il sipario su un vasto pubblico, un’intera fila di attori e cantanti che si esercitavano sbadigliando dietro le quinte per rilassarsi. Le persone esperte in questi sfoghi liberatori sbadiglieranno spesso per allentare la tensione e forse anche per aprire sentieri a sentimenti e ricordi che potrebbero provocare uno sfogo maggiore.


Quindi, se qualcuno che state ascoltando sbadiglia, o ridacchia, o se notate che gli occhi si inumidiscono o la mano che tenete inizia a sudare, potete esser certi che qualcosa si sta muovendo dentro di lui.


Potete applicare questa conoscenza per comprendere gli sfoghi spontanei e inaspettati che a volte riguardano noi o gli altri, neonati o bambini, gli improvvisi scoppi di pianto, risate, rabbia, tremiti, sbadigli o pelle d’oca. Se non esiste una ragionevole causa apparente, si può pensare che il motivo sia il risveglio di memorie sottaciute alla coscienza. Dai neonati agli anziani, quando qualcuno si sta liberando è meglio non interferire, non distrarre o intavolare un dialogo, ma solo esserci con partecipazione e compassione permettendo allo sfogo di seguire il suo corso naturale. In quel momento è in atto una guarigione. Ridete, piangete o scuotete la testa in segno di simpatia mentre ascoltate, ma non tanto da attirare l’attenzione su di voi.


Dopo, è utile ascoltare i pensieri della persona a proposito dei sentimenti e dei ricordi suscitati, nonché i nuovi pensieri o decisioni che potrebbero scaturire da essi.


È importante avere un occhio di riguardo verso i bambini, sapere che non sono equipaggiati per affrontare i nostri sentimenti negativi, né dovrebbero esservi obbligati. Possiamo utilizzare il processo liberatorio per chiarire i nostri sentimenti e impedire che questi gravino sui nostri figli. Di conseguenza, non utilizzate i figli come confidenti o terapeuti.


I sentimenti negativi che vi angosciano nel presente sono attivati da schemi derivati da vecchie esperienze che risalgono all’infanzia, e possono essere fronteggiati al meglio dando loro il giusto sfogo con un ascoltatore adulto. Per questo è meglio avere un amico che vi ascolti con regolarità, che conosca la vostra storia e possa capirvi e sostenervi al meglio. Con l’incoraggiamento del vostro ascoltatore potete consegnare quei sentimenti al passato e fare scelte limpide e tranquille insieme ai figli nel presente.


Se, per esempio, un bambino ha fatto qualcosa o si comporta in un modo che vi disturba, chiedete ascolto al vostro amico per sfogarvi prima di cercare un contatto con il bambino. E se non c’è tempo, potreste provare con una breve sessione telefonica: “Puoi ascoltarmi cinque minuti? Sto per perdere davvero la pazienza!”


Se nessuno è disponibile, uscite a fare due passi o gridate dentro un cuscino, o fate dei respiri profondi che vi calmeranno: cinque secondi inspirate, cinque secondi espirate. Ricordate a voi stessi che il miglior modo di gestire qualunque situazione con i bambini è cercare di sentirvi in sintonia con loro, ritrovare la calma, l’amore incondizionato e il desiderio di cura – ascoltarli e abbracciarli.


Nelle emergenze è anche possibile talvolta chiedere a un estraneo di fare da ascoltatore empatico. Ero da solo in una piccola cittadina della Pennsylvania dopo aver fatto visita a un cerchio di nativi in una prigione della zona. L’unico motivo di interesse in città era un cinema teatro dove proiettavano Platoon, di cui avevo sentito dire che era un bel film, perciò decisi di andare. Non solo era bello, ma realistico, e si dimostrò un’esperienza emotiva straziante che mi lasciò distrutto. Barcollai fuori dal teatro, tremante e scioccato, mi avviai verso il parco cittadino dove una donna sedeva da sola su una panchina.


“Potrei parlarle per qualche minuto?” le chiesi, “ho appena visto un film che mi ha sconvolto e ho bisogno di parlare con qualcuno dei sentimenti che mi ha provocato”. Annuì un po’ esitante, mi sedetti e iniziai a parlarle del film. Poco dopo ero in lacrime e singhiozzavo, lei mi prese la mano e la tenne confortandomi finché non mi fui sfogato e potei riflettere e discutere sui miei sentimenti e pensieri a proposito della guerra in generale e di quella del Vietnam in particolare. La ringraziai dell’ascolto e lei mi ringraziò per aver condiviso i miei pensieri e sentimenti. A mia volta, la ascoltai mentre mi metteva a parte di sentimenti che disse di non aver confidato a nessuno prima di allora.


Tornai all’albergo sentendomi arricchito da una semplice mezz’ora di autentica intimità con un’altra anima umana che non avrei più rivisto ma che non avrei mai più dimenticato.


Se vi accorgete che amici o estranei sono in difficoltà, potete diventare un ascoltatore empatico e offrir loro un aiuto meraviglioso. Un giorno, passeggiando nel parco di una piccola città, Emmy e io osservammo una donna che, tutta di fretta, gridava furibonda al figlioletto, ancora molto piccolo, strattonandolo per un braccio e marcando il passo con sculacciate energiche sul pannolino, sollevando ogni volta un po’ da terra il bambino.


Per tutto il parco la gente si fermò a guardare, forse chiedendosi cosa dovessero fare, se intervenire o meno. Come immaginavo Emmy entrò subito in azione e si diresse verso la donna per poterla incrociare più avanti.

La madre placò un istante la rabbia per gettare uno sguardo alla gente che la osservava, sfidando chiunque avesse osato interferire. Vedendo Emmy che le si avvicinava decisa, e me che la seguivo, si mise subito sulla difensiva, preparandosi a una secca reazione del tipo: “Questo è mio figlio, non vi permettete di…”


Sarebbe stato un incontro educativo, lo sapevo bene, e mi tenni distante ma abbastanza vicino per poter carpire la risposta. Prima che la donna potesse dire alcunché, Emmy le sorrise:


“È proprio difficile essere madri alle volte, vero?” “Non me lo dica!” rispose la madre con fare stanco, ovviamente sollevata dalla prospettiva di un contatto umano non giudicante.


“Perché non ci sediamo su questa panchina e ne parliamo?” ribatté Emmy.

E così fecero. Emmy accolse con simpatia il fiume dei lamenti, sul figlio, il marito, la società – la lotta per riuscire a fare tutto per tutti senza aiuto, senza sostegno, senza apprezzamento alcuno.


Dopo aver dato sfogo a tutte le pressioni represse, il suo atteggiamento era del tutto cambiato. Parlava con Emmy come fosse una vecchia amica, e rise persino mentre Emmy le dava qualche suggerimento per gestire lo stress e il figlio, avvalorando il suo amore e le sue speranze di madre, e l’importanza e il valore del suo ruolo per il bambino e la famiglia.


Con i bambini più piccoli, è sufficiente mostrare che si sta bene con loro, abbracciarli e giocare, infondere un senso di sicurezza che tutto sta andando bene, perché vivano pensando solo al momento presente con fiducia e gioia.


Se un bambino ha dei sentimenti ma non riesce a sfogarli, può essere aiutato chiedendogli di raccontare l’accaduto a un pubblico di simpatizzanti, persino estranei. Ero in un parco, un giorno, per una conferenza, e al termine mi si avvicinò una donna con una bambina piccola per mano. Mi disse che la figlia era stata punta da un’ape, non che fosse allergica, ma sembrava troppo calma, non era se stessa. Mi accorsi che la bambina era molto chiusa, non pareva una normale bambina di quattro anni libera da oppressioni. Non c’era luce in lei, era come se si fosse smarrita e si nascondesse.


Immaginai che non avesse dato sufficiente sfogo alla paura e al dolore e pensai anche che la madre, che sembrava molto preoccupata, avesse cercato di confortarla ma che la bambina si fosse chiusa per non angosciarla. Accade spesso che pur non cercando di distrarre o sviare la sofferenza di un bambino, questi percepisca la preoccupazione della madre e faccia finta che tutto va bene per non angustiarla.


Mi chinai al suo livello e dissi con calma, usando un tono pacato e molto interessato: “Ah, sei stata punta da un’ape!”.


La bambina scoppiò subito a piangere e mi fece vedere il segno della puntura sul braccio, ma presto riprese il controllo di sé, si chiuse e tornò al volto passivo e inespressivo di prima. Dissi alla madre di portarla da ognuno dei gruppetti sparsi sul prato per il picnic e chiederle di raccontare la storia dell’ape.


Dopo circa un’ora la madre tornò, sola, a dirmi cos’era successo. All’inizio la figlia aveva ripetuto la storia fra molte lacrime, mostrando il rigonfiamento della puntura; dopo diverse volte la storia divenne via via più breve, un veloce e stringato resoconto in tono annoiato e monotono, e poi finalmente la piccola era corsa a giocare con altri bambini avendo ritrovato la sua consueta gioia e vivacità.


Questa storia ci ricorda anche che persino quando pensiamo di aver dato sufficiente sfogo a un sentimento o a un incidente, con ogni probabilità potrebbe esserci ancora dell’altro se continuiamo a rivangarlo fino a sentire che davvero è acqua passata e non ci appartiene più.


Una recente ricerca ha indicato che persino bambini piccolissimi nella fase pre-verbale percepiscono le nostre ansie dal tono di voce, e che questo comporta cambiamenti misurabili nel loro cervello. Non è sano neppure esprimere i nostri sentimenti negativi accanto a un bambino che dorme; quegli stessi cambiamenti sono infatti stati misurati quando suoni angoscianti di rabbia o dolore venivano trasmessi ai bambini tramite auricolari.


Tuttavia nessuno è perfetto, possiamo solo continuare a imparare e cercare di migliorare le cose. I bambini comprendono la nostra imperfezione e se restiamo in contatto con loro, li ascoltiamo e ce ne prendiamo cura, ci perdoneranno ogni cosa. Avete sempre fatto del vostro meglio, e le cose continueranno a migliorare, lo so, perché siete qui ora!

Eccone un esempio.

Un giorno, quando mio figlio maggiore aveva nove anni, arrivai nella stanza dei ragazzi mentre si azzuffavano. Avevano i loro bisticci ma di solito lasciavamo che li risolvessero da soli; stavolta però la cosa era diventata molto fisica e Tokeem gridava con rabbia verso Tashin che non aveva ancora sei anni e cercava di schivare i colpi avendo la peggio. Il mio senso di giustizia era stato offeso, ma ancor peggio era pensare che il mio adorato primogenito fosse diventato un bullo. Perciò, sopraffatto da sentimenti brucianti mai liberati suscitati dai ricordi dei bulli della mia infanzia, saltai nella mischia senza pensare, afferrai Tokeem per le spalle scuotendolo con forza per enfatizzare il mio disappunto.


“Che fai Tokeem?”, domandai. Scioccato dal mio gesto inaudito (nessuno di noi aveva mai toccato un bambino con rabbia) mi fissava soltanto, per regolarsi rispetto a un comportamento senza precedenti da parte mia, e poi con durezza indicò la porta: “Fuori!” ordinò, “fuori dalla mia stanza!”. Questo mi fece tornare presto in me, e compresi l’enormità di ciò che avevo fatto, annuii senza parole e con la coda fra le gambe come un cucciolo castigato, me ne andai.


Fu sufficiente a cambiare il tenore della lotta, qualunque ne fosse stata la causa ormai era finita. Trascorsi l’ora seguente a vagare confuso e pieno di vergogna per l’edificio principale della nostra comunità. Sentivo di aver spezzato il forte legame fra me e Tokeem e mi chiedevo se e come potesse essere riparato. Come avevo potuto fare una cosa simile? Ero affranto.


Riflettendoci, capii che certo, dei due, era Tokeem quello che aveva bisogno di essere ascoltato, compreso e apprezzato nei suoi sentimenti. Avrei dovuto ricordare dal mio lavoro nelle prigioni che il colpevole è anche una vittima. Avrei dovuto capire che Tokeem stava soffrendo e aveva bisogno della mia comprensione, non del mio sdegno e della mia rabbia.


Quando tornai nell’enorme cucina lo vidi seduto all’altro capo della stanza che parlava con un altro membro adulto della comunità. Mesto e abbattuto riflettei su come avrei potuto chiedere scusa e dare spiegazioni, ma in quel mentre lui alzò lo sguardo e mi vide. Senza esitare saltò su, corse attraverso la stanza e mi gettò le braccia al collo, ci abbracciammo e piangemmo insieme.


Un vincolo affettivo tanto profondo e formatosi sin dalla nascita non si sciupa facilmente. Mi conosceva abbastanza da capire il mio disappunto e perdonare la mia reazione inconsulta. È stata l’unica volta nella nostra vita che il mio tocco non sia stato amorevole e premuroso. Quando il legame è così forte i figli vi capiranno e perdoneranno gli errori. Soprattutto se domanderete scusa.

Crescere insieme nella gioia
Crescere insieme nella gioia
Manitonquat (Medicine Story)
Prendersi cura dei bambini nella via del cerchio.Manitonquat, storyteller nativo del Nord America, ci insegna a trasformare la vita quotidiana con i bambini in un’avventura consapevole e gioiosa. Crescere insieme nella gioia è un progetto meraviglioso che per noi genitori del ventunesimo secolo è difficile anche solo immaginare, ma si può realizzare. Significa vivere con piena consapevolezza il nostro coinvolgimento con l’ambiente che ci circonda e gli accadimenti del momento; quando siamo con i bambini, in una sintonia profonda, loro ci rendono partecipi del loro coinvolgimento, ci aprono le porte per esplorare nuovi mondi, e l’esperienza può essere condivisa a tutto tondo. Presi dal vortice frenetico delle preoccupazioni, dei ritmi di lavoro e delle esigenze familiari, non siamo neppure consapevoli dell’immensa solitudine che ci circonda, dell’incredibile e innaturale condizione dell’essere adulti del tutto soli (o quasi) a mandare avanti una serie di compiti che richiederebbe invece la presenza di un’intera tribù di persone, le quali, un tempo, sentivano l’urgenza di legarsi, di stare vicine, di cooperare e di unirsi in entità più grandi. Gli esseri umani hanno bisogno di legami affettivi e della vicinanza dei loro simili.Il processo di apprendimento per diventare un essere umano completo richiede quindi legami che forniscono un aiuto prezioso per guidare e proteggere il bambino fino alla sua trasformazione in un vero e proprio adulto; chi lo circonda dovrebbe instillare in lui fiducia e autostima e offrire il necessario senso di appartenenza. Manitonquat, storyteller nativo del Nord America, con la sua esperienza quarantennale a contatto con i bambini e le loro famiglie, ci illustra un bellissimo percorso alla scoperta dei tanti strumenti a nostra disposizione per trasformare la vita quotidiana con i bambini e i ragazzi in un’avventura divertente, consapevole, gioiosa; offre ai genitori aiuti preziosi per prendersi innanzitutto cura di loro stessi, per guarire le proprie antiche ferite e guardare alla relazione con i più giovani da una prospettiva nuova, pervasa da un profondo sentimento di rispetto e di amore incondizionato. Conosci l’autore Manitonquat, il cui nome tradotto in inglese è Medicine Story (la storia che cura), è narratore, poeta e guida spirituale della nazione nativa americana Wampanoag. Svolge attività di insegnante e formatore sui temi della pace e della non violenza, della giustizia, dell’ambiente e della presa di coscienza per una società più giusta.Negli Stati Uniti è responsabile di un programma di sostegno per nativi nelle carceri. Ha pubblicato numerosi libri e articoli.