capitolo iii

Esprimersi

Le crisi emotive dei nostri figli

La capacità di piangere, ridere, di esprimere sentimenti e pensieri a parole è unica e tipica dell’uomo. Esprimendo quello che ci passa per la mente, conserviamo il nostro benessere e siamo liberi di andare avanti. Per quanto alcuni siano capaci di far tacere la propria mente e procedere, la gran parte di noi vive in un tutt’uno con essa e perciò ha bisogno di strumenti per gestirne le reazioni e le ferite. Esprimerci è anche il nostro modo di creare legami con le persone che amiamo. I bambini si esprimono non solo per conservare il benessere emotivo, ma anche per il loro sviluppo intellettivo e sociale.


Impedire a un bambino di esprimere interamente i propri sentimenti non li cancella, ne blocca solo la manifestazione. Se un bambino è incapace di esprimersi appieno o non si sente al sicuro nel farlo, i sentimenti si accumulano finché non si arriva all’angoscia. Questo porta sempre ad alterazioni fisiche, comportamentali ed evolutive, incluse aggressione, depressione, tic, atteggiamenti compulsivi, difficoltà di apprendimento, disturbi del sonno e altri.


Molti di noi apprezzano e incoraggiano le risate, la creatività e altri piacevoli modi di esprimersi. Invece, quando un bambino dà libero sfogo al dolore, alla rabbia, alla gelosia, alla solitudine, al disappunto o al dispiacere, siamo pronti a fermare il sano flusso dei sentimenti, impedendo lo sviluppo della persona e interferendo con il suo benessere emotivo. La tendenza a cercare modi che rimettano a posto le cose può distrarci dal notare il bisogno del bambino di sfogare i propri sentimenti. Molti piccoli incidenti, come un ginocchio sbucciato, un incontro annullato, un insulto o una delusione non chiedono soluzioni, anche se il bambino reagisce con pianti e rabbia. Pur evitando di drammatizzare e di amplificare la risposta del bambino, possiamo ascoltare con calma, dare conferma e lasciarlo tranquillo. In questo modo saprà che è capace di gestire le proprie emozioni.


Quando un bambino è stato ascoltato fino in fondo, la sua capacità di riprendersi dai colpi emotivi ordinari è molto rapida. L’espressione di cui ha bisogno può risolversi in un breve sfogo o in una vera e propria crisi. Quale che sia, se ha la libertà di palesare i propri sentimenti di fronte a genitori o adulti attenti e amorevoli, può passare dalle lacrime e dalla rabbia al gioco, come se niente fosse successo. La mente dei bambini non ha ancora quella presa tenace che ha invece sulla maggior parte degli adulti; il bambino passa avanti con facilità, a patto di non bloccare le sue emozioni impedendogli di esprimerle, o gravandole delle nostre reazioni.


Nel raro caso in cui, nonostante l’ascolto e il sostegno, un bambino persista nell’esprimere il proprio turbamento, si può pensare che l’evento presente abbia evocato vecchi ricordi dolorosi, di cui all’epoca non ci si è curati abbastanza. La vostra presenza lo rassicura e approfitta dell’attenzione che riceve per far piazza pulita delle antiche sofferenze. Per questo piangerà o si infurierà più a lungo, ma grazie al vostro ascolto attento potrà guarire il suo dolore. Più avanti, in questo stesso capitolo, troverete esempi del modo in cui un bambino utilizza un evento presente per sfogare il dolore di antiche ferite.

Evitate di instillare sentimenti nella mente del bambino. Aspettate che sia lui a esprimere le sue considerazioni su ciò che è successo. Esclamazioni del tipo: “Oh, fa male vero?”, prima che il bambino abbia dato la sua versione, o: “Devi essere triste!”, prima che abbia dato voce alle sue emozioni, non sono di aiuto. Potrebbe aggrapparsi a ciò che gli offrite, a volte impostando un atteggiamento che gli apparterrà per il resto della vita. Abbiate fiducia in lui.


Se ha bisogno di esprimere dei sentimenti lo farà, altrimenti no. Non sta a voi decidere, né essere la causa delle sue manifestazioni o della mancanza di esse. Qualsiasi cosa faccia sarà la sua espressione autentica. Non insegnategli a restare sconvolto se è in grado di scrollarsi le cose di dosso, e, se si confida o piange, avvalorate i suoi sentimenti senza drammatizzare. Perlopiù i bambini si esprimono in fretta e poi tutto è passato; è solo il nostro tentativo di interromperli o di drammatizzare che allunga il processo.


In veste di counselor ho spesso udito storie di bambini che si riprendono in fretta. In uno degli esempi del primo capitolo, Orna si calmava presto dopo esser dovuta uscire dalla piscina. Era di nuovo pronta ad abbracciare il presente dopo che la madre aveva legittimato la sua esperienza. Quando i genitori proiettano le loro preoccupazioni, il bambino fa loro da specchio restando aggrappato al dramma. Una volta che i genitori abbiano imparato a lasciar passare le crisi o la tristezza, osserveranno stupiti come il bambino passi oltre.


Tamara mi chiama per sapere come rispondere alla rabbia ricorrente della figlia Sarah. “La torre cade, lei piange; la banana si rompe, lei grida. Ogni cosa la sconvolge.”


Chiedo a Tamara come reagisce a questi eventi.

“Cerco di mettere le cose a posto il prima possibile, le dò un’altra banana, ricostruisco la torre, o trovo una compensazione”, mi dice.


“È davvero tutto così sconvolgente per tua figlia?”, le chiedo.

“Così sembra”, risponde Tamara.


“Sì, la vedi incapace di affrontare queste situazioni perché credi che non riesca a tollerarle. Ma sei certa che non le sappia gestire e voglia che tu sistemi le cose?”

“No.”


“Quando corri in suo aiuto pensando che non ce la faccia da sola, TU cosa senti?”


“Oh, capisco,” ribatte, scoppiando a ridere, “Sono io che non riesco a sopportare la sua frustrazione. Sono io che mi lascio sconvolgere da tutto. Tutto quello che le capita mi sconvolge troppo, vado nel panico, sistemo tutto per il mio bene!”


Una volta compreso che la sua reazione ha a che fare con un bisogno suo e non della figlia, Tamara riesce a vedere che non è la bambina a dover essere aiutata. Capisce che Sarah ha bisogno di sperimentare la caduta della torre, se deve trovare la forza di farle fronte; che può piangere per un appuntamento mancato o una banana irrimediabilmente spezzata; e se la mamma non dà per scontato che per lei sia troppo, Sarah riuscirà a superare la cosa e saprà che è in grado di sentire, esprimersi e passare oltre.


Impedirle lo scoppio di una crisi è la vera ragione per cui Sarah potrebbe sentirsi indifesa e smarrita, esplodendo per qualsiasi disavventura; userà qualsiasi pretesto, per quanto minimo, pur di sperimentare appieno i suoi sentimenti. Quando viene salvata si sente piccola e impotente; il suo piano è sventato. Poter mettere alla prova le sue capacità di superamento delle sfide la farà sentire forte e capace.


La settimana seguente Tamara fa passi da gigante, mi racconta che Sarah stava dipingendo quando il vaso dell’acqua si è rovesciato e ha distrutto il disegno. Sarah ha gridato, Tamara ha raccolto il vaso e stava per offrire una compensazione al danno e arginare la crisi. Poi si è ricordata di prestare attenzione, e anziché salvare la figlia dalle difficoltà, la ascolta e avvalora i suoi sentimenti.


“Era il mio disegno migliore!”, grida Sarah gettandosi sul divano piangendo e scalciando.


“Vuoi che il disegno sia asciutto”, dice Tamara sedendole accanto.


“Sì, lo rivoglio com’era, era quasi finito!”


“Ti preoccupi di non riuscire a farne un altro altrettanto bello?”


“Non posso farne un altro uguale!” Sarah trasforma le grida in singhiozzi e Tamara l’abbraccia, lei rifiuta ma continua a piangere e piano piano si avvicina alla mamma.


Piange ancora per un paio di minuti e poi si tranquillizza, Tamara non dice niente ma resta attenta.


“Vedevo che Sarah stava pensando e appariva calma”, mi dice. Dopo un minuto di contemplazione Sarah si alza e va a giocare con la bambola. Più tardi, quel giorno, torna persino a dipingere ed è entusiasta della sua creazione.


Tamara ha fatto un enorme cambiamento, è passata dal tentativo di trasformare la realtà per Sarah al sostenere la sua capacità di farle fronte. È entrata nella realtà delle cose insieme alla figlia, sostenendola anziché tentare di sottrarla agli eventi. Invece di negare i sentimenti della figlia con un “Oh, pazienza, farai un altro disegno!”, ha ascoltato e avvalorato le possibili preoccupazioni di Sarah. Sentimenti veri non significano fatti reali. Sarah è messa in condizione di poter fare altri disegni, senza aggirare i sentimenti, bensì facendo pace con la sua perdita. Garantita la libertà di esprimersi, può passare oltre con facilità. La felicità è ciò che sperimentiamo quando apprezziamo la realtà, non quando ci opponiamo ad essa nell’attesa di essere salvati. I bambini imparano a sentirsi soddisfatti quando sperimentano il potere di scegliere ciò che è.


Quando sentono la nostra presenza tranquilla sono portati a concludere che provare emozioni intense faccia parte del nostro essere umani. Sentirsi a proprio agio con le emozioni li aiuta a sviluppare un senso di pace interiore, sapendo che le sfide e i sentimenti che le accompagnano non sono da temere. Imparano a lasciarsi pervadere dalle esperienze e a risolvere le situazioni con capacità responsabile. Solo dopo che la tempesta è passata è possibile agire con chiarezza ed efficacia.


Guardandosi indietro, i bambini possono anche scoprire che il proprio sé è ben più forte e capace rispetto alle “storie” negative che la loro mente racconta, proprio come nel caso del dodicenne Luke.


Luke è a casa nostra per un soggiorno di consulenza familiare. La sera precedente abbiamo fatto una chiacchierata sulla mente e su come i pensieri ci inducano a fare cose che non vogliamo.


Luke e suo fratello minore Timmy siedono a tavola in cucina; tutto a un tratto si precipitano al pianoforte e iniziano a gridare e spingersi per accaparrarsi lo sgabello.


“L’ho detto prima io che avrei suonato e appena l’ho detto tu sei corso al piano e sei arrivato prima, ma è il mio turno!” dice Timmy.


“Io avevo intenzione di suonare prima che lo dicessi tu!”, gli risponde Luke.

“No, sei corso dopo che l’ho detto io, tu stavi ancora mangiando!”


“L’idea l’ho avuta prima io e quindi sono arrivato prima, mentre tu parlavi!”

D’improvviso Luke si alza e lascia il pianoforte. Mentre si dirige verso l’altra stanza mi vede, sorride e dice: “Me ne sono accorto, è quella vecchia storia del voler scocciare Timmy. Non avevo davvero voglia di suonare il piano.”


È raro che un ragazzo tanto giovane sia in grado di distinguere i suoi legittimi pensieri dal suo sé autentico. Si può dare una mano a questo tipo di consapevolezza con il buon esempio e assecondando le scelte espressive dei figli anziché contrastarle.

Il coraggio di sentire

Quando si presta attenzione a un bambino che singhiozza o dà in escandescenze, è possibile sentirsi a disagio se non addirittura nel panico. Magari vi sembra che egli soffra oltre ogni capacità di sopportazione. Questa percezione, in realtà, non rispecchia altro che il vostro personale disagio. È per questo che vi precipitate a distrarlo dal suo dolore o dalla sua frustrazione, a compensare una delusione o a minimizzare l’importanza della difficoltà che sta attraversando; è la risposta alla vostra ansia, non alla sua. La cosa non aiuterà il bambino a sviluppare una maggiore resilienza emotiva e una buona capacità di affrontare e risolvere le situazioni difficili. Bisogna sapere cosa vuol dire vivere con le tempeste emotive se si deve imparare a padroneggiarle.


Se provate l’impulso a frenare l’espressione di emozioni spiacevoli, chiedetevi quale sia il vero motivo. Forse volete che i figli siano sempre felici perché il loro dolore è insostenibile per voi e, pertanto, presumete che sia lo stesso per loro? Se una scenata avviene in pubblico, temete forse di non fare la parte del bravo genitore? O forse sentite il bisogno di sopprimere la manifestazione del disagio perché andate di fretta, o vi serve chiarezza e in quel momento siete frastornati dalla reazione esplosiva? Tuttavia, ricordate che quando impedite a vostro figlio di esprimere la sua sofferenza, egli seppellirà il dolore e si sentirà solo e confuso. Nel frattempo, avrete perso l’occasione di creare con lui un legame profondo e di conoscere le cause del disagio. Quello che vostro figlio imparerà sarà la fuga dai sentimenti e il celarli agli altri; interiorizzerà la sensazione di essere troppo debole per sopportare una qualsiasi sofferenza. In sostanza, con le migliori intenzioni, molti di noi insegnano ai figli che i sentimenti di dolore sono spaventosi e vanno evitati.


Alcuni uomini mi dicono di non avere alcun problema con le manifestazioni emotive, e che possono lasciare i figli a infuriarsi quanto vogliono. Ma non è questo che suggerisco. Restare indifferenti e ignorare le preghiere dei figli non è lo stesso che offrire un’attenzione amorevole. Se riuscite a mantenere il sangue freddo di fronte alle espressioni appassionate è più probabile che siate repressi sul fronte delle emozioni, anziché davvero presenti. Il risultato è lo stesso di quando si vorrebbe frenare lo sfogo, perché la vostra indifferenza afferma anch’essa che i sentimenti non andrebbero espressi.


Per capire ancora meglio quanto sia inefficace distrarre un bambino dal suo tumulto emotivo, immaginate che vi abbiano appena detto che vostra madre sta morendo o che vostro marito ha intrapreso le pratiche per il divorzio. In preda alla disperazione andate da un amico, col bisogno urgente di parlare, piangere o arrabbiarvi in un ambiente protetto che vi dia sostegno, ma non appena iniziate a lasciar andare le vostre emozioni, l’amico vi offre dei consigli o suggerisce una distrazione: “Andiamo al cinema, così non ci pensi!”. Ma voi avreste desiderato che il vostro amico vi ascoltasse attento, ignorasse le telefonate o altre intrusioni e si concentrasse su di voi.


Un bambino è una persona con gli stessi esatti bisogni. Se, quando eravate bambini, siete stati “salvati” dai vostri subbugli emotivi con compensazioni e distrazioni, o se non vi sentivate al sicuro per poterli esprimere, allora potreste provare inquietudine al cospetto di un figlio sconvolto. Ciò nonostante, ascoltando la rabbia o la tristezza di vostro figlio, mentre al contempo notate i pensieri e i sentimenti che vi suscita, potreste riguadagnare la capacità di provare l’intera gamma delle emozioni anziché fuggire da esse. Sarete allora in grado di indagare i pensieri che alimentano le specifiche emozioni e iniziare a capire come funziona la vostra mente. Comprendendo le cause (pensieri) e gli effetti (sentimenti e reazioni), capirete meglio voi stessi e acquisirete maggiore chiarezza. Recupererete la capacità di sentire senza paura, sapendo che le ansie sono un vantaggio da sfruttare per avere maggiore consapevolezza.


Le persone temono i sentimenti dolorosi proprio perché è stata negata loro la possibilità di esprimersi. La negazione li ha fatti sembrare più spaventosi e potenti, e il risultato è che molti adulti prendono le emozioni troppo sul serio. Invece, quando i bambini sono liberi di esprimersi possono accettare le emozioni come parte della propria natura. Se non insegniamo loro che avere un sentimento di dolore è un problema, presumeranno, senza sbagliare, che si tratta di esperienze appartenenti alla vita, che le emozioni non hanno nulla di temibile, non vanno evitate, non sono una minaccia e non è necessario preoccuparsi più del dovuto. Una volta espressi, i sentimenti se ne vanno così come sono venuti; è a quel punto che si possono fare scelte coerenti, non fondate sulla paura e il bisogno di evitare il dolore.


Quelle che seguono sono alcune strategie che i genitori usano per bloccare l’autoespressione nel bambino, e i consigli per evitarle.

La negazione

La negazione è il primo modo per azzittire l’espressione di un bambino, o anche la propria; molti di noi la usano d’abitudine, perché è qualcosa che a nostra volta abbiamo sempre subìto. Si può negare con il silenzio e l’elusione, o con le parole e le distrazioni. Lena a tre anni, per esempio, temeva gli uomini barbuti e dai capelli lunghi, un sentimento che la madre all’inizio rifiutava.


Un giorno Lena è seduta sul sedile posteriore dell’auto e il papà si ferma per parlare con un conoscente dai lunghi capelli scuri e con un grosso paio di baffi, il cui volto riempie tutto il finestrino. Per un po’ Lena resta tranquilla, ma poi chiede con ansia: “Ce ne possiamo andare ora?”. Senza riflettere la mamma dice che il signore con i capelli lunghi è un bravo ragazzo.


“No, non è vero!” replica Lena con certezza. È evidente che ha bisogno di esprimere il proprio disagio e non intende permettere alla madre di negarlo.

“Capisco”, risponde la madre, che si rende conto di aver sbagliato, “Non ti piace”.


“No”, ribatte Lena, “Me ne voglio andare”.

Dopo essersi lasciati l’uomo alle spalle, Lena dice: “Non è pauroso, è solo che non mi piace!”


Lena ha potuto indagare i suoi sentimenti perché non le sono stati sottratti o negati. È molto probabile che l’essersi potuta esprimere l’abbia aiutata a liberarsi dall’ansia nei confronti degli uomini barbuti.


Acquisire familiarità con le nostre frasi o negazioni abituali può aiutarci a individuarle prima di pronunciarle. Ecco alcuni esempi di linguaggio usato per negare i sentimenti e le espressioni dei bambini.

  • No, non era tanto male!

  • Che c’è che ti sconvolge tanto? 

  • Non ci vedo niente di sbagliato!

  • Non è mica la fine del mondo!

  • Oh, non è niente, stai benissimo!

  • Non è successo niente!

  • Va tutto bene, non ti sei fatto niente.

I bambini sono confusi, se non insultati, da simili commenti, perché le parole contraddicono la loro esperienza interiore. Per un bambino che si sente impaurito o ferito, qualcosa è successo per forza, non va tutto bene e l’esperienza lo ha sconvolto. Anziché negare potete legittimare, affermare l’esperienza del bambino o fornire informazioni utili se è il caso. Se un bambino piange dopo una caduta, possiamo tenergli la mano e dire: “Ti fa male la sbucciatura?” o “Hai paura che resti così?”; se fa cenno di sì fra le lacrime, potete rassicurarlo: “So che adesso ti fa tanto male, fra poco non brucerà più!”. Medicare il ginocchio sbucciato è necessario, fermare le lacrime e gli strepiti invece no. Il nostro compito è dare le informazioni di rilievo e ascoltare lo sfogo emotivo (L di S.A.L.V.E.). Possiamo far sapere al bambino che può piangere finché ne ha bisogno e che le sue emozioni sono legittime. Il nostro atteggiamento benigno, l’ascolto che non drammatizza, metterà il bambino in condizione di tirare fuori le proprie risorse (E di S.A.L.V.E.). Il dramma è rappresentato dalla storia che il bambino stesso potrebbe raccontarsi: “Non riuscirò più a camminare come prima!”. Non vogliamo offrire il destro al lavoro della mente in tal senso. Quando ascoltiamo e riconosciamo le sue paure con un semplice tono della voce, dando utili informazioni, egli sente la nostra fiducia nella sua capacità di superare la difficoltà.


La negazione si cela talvolta in commenti a cuor leggero che derubano il bambino del suo diritto di ascoltare e dare piena fiducia alla propria voce interiore, in totale autonomia. Se un bambino dice: “Bleah, non lo voglio”, e noi ribattiamo: “Oh, ma è buonissimo!”, dichiariamo nulla una decisione che ha già preso. Se la rapida occhiata di un seienne alla cena suscita il desiderio di non mangiarla, o se invece chiede una banana, il bambino ha fatto una scelta che siamo chiamati a rispettare. Se un adolescente dice che il cappotto che gli avete dato non è “fico”, la sua realtà non può essere negata convincendolo del contrario. Se al parco un piccolino ai primi passi, già in procinto di scendere dallo scivolo, è paralizzato dalla paura, le vostre parole “Non aver paura, dài che ce la fai!”, contraddicono la sua esperienza emotiva mentre osserva la lunga discesa fino a terra. In realtà, la sicurezza e la fiducia nelle proprie capacità si sviluppano proprio in cima a quello scivolo, quando il bambino valuta la situazione e prende una decisione per conto proprio. Dargli forza significa osservarlo rilassati e fiduciosi; se vi parla, dimostrategli di aver capito cosa prova: “Quindi hai un po’ paura e non sei sicuro di voler scendere dallo scivolo. Non c’è fretta, pensaci bene, solo tu puoi capire cosa vuoi fare!”. Dopodiché, seguite le sue indicazioni, che sia farlo scendere tenendogli la mano, guardando da un’altra parte o portarlo via.


Di seguito, ecco alcune frasi tipiche che negano le scelte dei bambini. Anche qui, essere consapevoli del linguaggio che utilizziamo è il primo passo per modificarlo:

  • Provaci lo stesso!

  • Perché non lo fai almeno questa volta?

  • Prendi quest’altro, è meglio!

  • Non vorrai mica questa schifezza, vero?

  • Ma hai già avuto un sacco di tempo per giocare! (quando non vuole smettere di giocare)

  • Sei stanco (se vuole continuare a correre)

  • Ma dovresti aver fame a quest’ora! (se rifiuta di mangiare)

  • Ma ti piace giocare con Susan! (quando manda via l’amichetta)

  • Ce la puoi fare (se ha dei dubbi)

  • Non aver paura / non essere timido / non ti arrabbiare / non piangere…

  • Non c’è bisogno di piangere

  • Ma avrai freddo (se si toglie il cappotto)

Anche nel caso in cui un bambino dovesse fare una scelta potenzialmente pericolosa, è importante dar valore alle emozioni di fondo. Per esempio, se vostro figlio rincorre il gatto in mezzo alla strada trafficata e voi lo afferrate gridando, potreste chiedergli: “Eri preoccupato che Jumbo scappasse via?”. È altrettanto importante dar voce alle emozioni suscitate dal vostro intervento repentino: “Quando ho gridato e ti ho acchiappato così di corsa sei rimasto sorpreso?”. Dopo la sua risposta, potete abbracciarlo e condividere la vostra esperienza: “Ho avuto tanta paura a vederti correre in mezzo alla strada! mi sono sentita così sollevata quando ti ho stretto al sicuro fra le mie braccia!”


I genitori tendono a rimproverare un bambino che ha fatto una cosa pericolosa. Con la rabbia, sperano di garantirsi il fatto che egli non la ripeterà più. Però, temere la rabbia del genitore è la ragione sbagliata per cui evitare un pericolo, senza contare che è una ragione che non durerà, cosa assai rischiosa. Di certo, tutti noi vorremmo che i figli avessero cura della propria incolumità perché capiscono cosa vuol dire e desiderano preservarla. Il bambino sarà mosso dai vostri sentimenti e ispirato dalla fiducia che riponete in lui. Durante una seduta familiare, venni a sapere del modo in cui Connie aveva reagito al gesto pericoloso della figlia, e di come avesse stabilito un legame con lei manifestando la sua personale vulnerabilità.


Jill ha due anni e osserva rapita il fuoco a casa dello zio. Non ha mai visto un caminetto e il padre le spiega perché deve restare a una certa distanza.


Osserva lo zio restando da parte mentre lui ammonticchia i ciocchi di legna sulla carta e accende il fuoco. Al termine dell’operazione si siedono tutti a cena.


Nessuno fa caso a Jill che si allontana dal tavolo e si avvicina al fuoco con un pezzo di giornale in mano. D’improvviso la mamma urla: “Jill! No!” e si precipita ad acchiapparla proprio un istante prima che si pieghi a infilare il giornale nel camino.


Jill scoppia in lacrime, Connie è pronta a redarguirla per non aver seguito le istruzioni del papà, ma i lamenti di Jill le danno il tempo di riconsiderare le proprie reazioni. Anziché esprimere rabbia, dice: “Ero così spaventata quando ti ho vista accanto al fuoco con un pezzo di giornale in mano, temevo che ti saresti bruciata!”


“Carta nel fuoco!” protesta Jill; non sembra spaventata dal brusco movimento della mamma quanto piuttosto contrariata perché la sua azione è stata mandata a monte.


Connie riconosce: “Lo so, stavi per mettere la carta nel fuoco e sono arrivata io, volevi vedere il fuoco che diventava grande?”


Connie tiene stretta Jill accanto al fuoco e Jill dice: “Mamma, tu metti la carta!”


Connie appallottola la carta e la mette nel camino con cautela, dice a Jill di stare lontana dal fuoco e di chiedere aiuto a mamma o papà se vuole farlo diventare più grande.


Quanto più è possibile, garantite ai figli la libertà di fare le proprie scelte. In ogni caso, quando è necessario limitare la loro libertà, fatelo con rispetto e gentilezza e poi spiegate perché avete agito così. Anche se la scelta di un figlio o la sua richiesta sono opinabili dal vostro punto di vista, se non sono rischiose trattenete l’impulso a indirizzarle. Usate la formula S.A.L.V.E., separate le vostre reazioni personali da ciò che sta accadendo a vostro figlio, esaminate i vostri pensieri per vedere se siano davvero rilevanti; prestate attenzione, ascoltate, avvalorate, mettete il bambino in condizione di tirar fuori le proprie risorse e fornite le informazioni necessarie. Vostro figlio ha il diritto di andare avanti per tentativi e di maturare dei sentimenti a questo proposito. Un bambino di tre anni potrebbe forse aver bisogno di scoprire da solo che non riesce a trasportare la vostra valigia; per un ragazzino di undici potrebbe essere opportuno capire da solo che non otterrà alcun lavoro al supermercato, tutt’al più verificate la vostra intuizione. Se, quando lo scopre, resta male, ascoltatelo e legittimate i suoi sentimenti.


Quando un figlio arriva da solo a certe risposte, impara a far fronte alle delusioni, di cui sarà causa e non vittima. Non ci sarà nessuno con cui prendersela o da biasimare, sarà lui il responsabile di ciò che è successo e imparerà per esperienza diretta cosa funziona e cosa no. Se potrà esprimere le emozioni che sorgeranno lungo il cammino e avrà la vostra attenzione affettuosa, queste esperienze saranno delle pietre di passaggio lungo il sentiero che porta a essere sicuri di sé e pieni di risorse.

Distrarre

La distrazione è un’altra strategia per evitare o negare i sentimenti. Offrire una caramella o un’attività divertente a un bambino scosso è come dirgli di fuggire dai propri sentimenti. Un ginocchio sbucciato o un giocattolo perduto suscitano dolore e tristezza. Il dolore non sparisce mangiando dolci o guardando una cosa che ci rapisce. Il messaggio che il bambino interiorizza quando viene distratto è che ci dev’essere qualcosa di sbagliato nel nutrire quei sentimenti. “Mamma non vuole che esprima il mio dolore, non dovrei sentirlo o esprimerlo, devo subito impegnarmi in qualcos’altro. Devo evitare ogni disagio emotivo e non correre mai rischi perché le cadute sono una brutta cosa”. Questo non lo condurrà alla felicità, ma alla debolezza e a un’esistenza pàvida. Distraendo un bambino gli comunichiamo l’idea che la realtà è brutta e dovrebbe essere superata, il messaggio sottostante è: “C’è qualcosa di sbagliato”. Tuttavia, la felicità è nell’imparare a vivere con la realtà e nel risolvere i problemi non perché si abbia paura di ciò che può accadere, ma perché si è liberi di rendere la vita più appagante.


Distrarre un bambino dalle emozioni può anche essere una delle cause del successivo uso di droghe, abuso di farmaci, e della tendenza a cercare sempre le soluzioni più semplici. Può forgiare adulti che si sentono subito sopraffatti perché la loro tolleranza alle difficoltà è bassa. La dedizione profusa a evitare il disagio restringe la libertà dei figli di dar vita a un’esistenza che sia appagante e piena.


Un bambino acquista resilienza di fronte alle difficoltà e ai colpi della vita quando li considera parte della vita stessa. Per questo, se scorgiamo in noi il bisogno di interrompere, mettere le cose a posto, distrarre, dare consigli, fermiamoci e indaghiamo questa nostra spinta interiore. Per quanto ci sembri di essere mossi dal desiderio di fare la cosa migliore, più spesso scopriamo che i figli se la cavano meglio senza il nostro intervento.

Far finta di niente

Far finta di niente significa fingere di non notare la manifestazione indesiderata del bambino nella speranza che scompaia da sé. I genitori sperano che non ponendo attenzione alla manifestazione, questa non sarà “rinforzata” e quindi diminuirà nel corso del tempo. Torniamo alla solita questione: perché vogliamo che i sentimenti e la loro espressione spariscano? Dopo tutto, non desideriamo forse, più di ogni altra cosa, vivere una vita piena di emozioni? L’umanità dedica molto tempo e risorse a evocare sentimenti forti senza i quali ci sentiamo svogliati e annoiati. Inoltre, le emozioni di un figlio suscitano le nostre, ci offrono l’opportunità di crescere; impariamo cose su di noi (S di S.A.L.V.E.) e la chiarezza che ne deriva è preziosa per conoscere i nostri figli.


Se vi scoprite in questo approccio elusivo, siate pazienti, perdonatevi, ma, al contempo, smettete di ripercorrere gli antichi sentieri, tracciati da altri prima di voi. È triste sapere che un bambino i cui sentimenti dolorosi vengono elusi ne diminuirà l’espressione o la sopprimerà del tutto, e potrebbe persino smettere di sentire, diventando insensibile, rendendo difficile stabilire un legame con lui. Nei bambini più sani, l’alternativa potrebbe essere un intensificarsi della comunicazione con la scelta di comportamenti provocatori che infine attirino la nostra attenzione. Inoltre, se un genitore fa finta di niente, i bisogni del figlio non vengono soddisfatti, la tensione aumenta e con essa i molti sintomi di un comportamento difficile. Gli scoppi emotivi dei figli richiedono, da parte nostra, il massimo della cura e dell’attenzione ai loro bisogni (il che non significa necessariamente a ciò che vogliono in quel momento, come vedremo in seguito).

Incutere paura

Incutere paura è un’altra strategia comune per reprimere la manifestazione di un sentimento nei bambini. La negazione, il far finta di niente e la distrazione sono già sufficienti a inibire l’espressione di sé, perché il bambino riceve il messaggio che quando manifesta le proprie emozioni l’approvazione svanisce. Se la rabbia, la frustrazione o le lacrime incontrano il rimprovero, apprezzamenti umilianti o punizioni, la paura del bambino si trasformerà quasi certamente in insicurezza e sottomissione oppure in rabbia attiva e aggressività.


Garantire a un figlio la libertà emotiva significa amarlo quando piange la perdita del gatto, quando si infuria per un giocattolo rotto o fa una scena per scegliere quale vestito indossare. Se apprezziamo la sua capacità di sentire e di lasciar andare, la accetterà come una cosa naturale. Indagate e guarite la vostra paura dei sentimenti così che vostro figlio si senta sicuro di poterli manifestare appieno quando è con voi. È così che svilupperà il coraggio di sentire e la capacità di passare oltre.


Alcuni riescono a vivere le emozioni dolorose e a superarle felicemente senza esprimerle. Ma è una cosa molto diversa dal reprimere i propri sentimenti. Reprimere vuol dire che il dolore resta sepolto, invece lasciarlo andare significa che la persona non ha un forte attaccamento ai pensieri e ai relativi sentimenti. Se riuscite a superare i vostri sentimenti con facilità senza prima doverli manifestare, considerate che la maggior parte delle persone, inclusi i bambini, non riescono a passare oltre se prima non esprimono le proprie emozioni, accolti con attenzione e riconoscimento. La vostra facilità aiuterà in ogni caso vostro figlio a percepire le sue stesse emozioni come passeggere, da vivere e poi lasciar andare.


Rispettare i sentimenti non vuol dire crogiolarsi in essi; al contrario, quando riusciamo a scioglierci dalle nostre emozioni, le superiamo e siamo liberi di agire in modo proficuo. Vivere la vita appieno nel presente dissolve il dolore e ci permette di spostarci con chiarezza nel momento successivo.

Piangere

Noi uomini siamo dotati di una grande capacità emotiva; per riuscire a far fronte all’intensità dei sentimenti ci è stata data la possibilità di piangere. I bambini usano il pianto in maniera naturale, siamo noi che dobbiamo imparare a capire la loro forma di comunicazione e sostenerli nell’uso delle lacrime come strumento di guarigione. Rispondere al pianto del neonato è ciò che gli farà capire il potere che ha di incidere sulla sua vita, che può fidarsi di noi e che lui è importante. Quando tenterà i primi passi, e poi quando crescerà e sarà più grande, userà anche le parole e i gesti, al pari delle lacrime.


Molti genitori fanno fatica a distinguere le manifestazioni emotive nei neonati. Perlopiù il pianto del neonato serve a comunicare un bisogno, tuttavia, anche nel caso dei neonati, ci sono volte in cui il vero bisogno del bambino è quello di piangere.


In uno dei miei seminari, viene fuori la questione del pianto nei neonati. Teresa è fuori di sé dalla frustrazione per il pianto inconsolabile del suo piccolo.


“Faccio tutto il possibile per consolarlo: lo allatto, lo cullo, gioco con lui e gli faccio i versetti, faccio scorrere l’acqua e gli faccio il bagnetto… ma, quando scende la sera, non fa che piangere e strepitare come un’anima ferita e non c’è nulla che lo calmi.”


Dopo il seminario Teresa decide di provare ad avvalorare i sentimenti del neonato.


“All’inizio ho provato ogni stratagemma per calmarlo, dal seno alla giostra, poi mi sono seduta con lui in braccio e ho abbandonato ogni tentativo di farlo smettere di piangere. Ho investigato i miei pensieri e ho capito che ero io ad aver bisogno di consolazione perché mi dicevo che se mio figlio piange così significa che sono una cattiva madre e c’è qualcosa che non va.


Quando fa delle brevi pause spero sempre che smetta, ma poi riprende i suoi vagiti. Stavolta, alla prima pausa, gli ho detto: ‘Sì, lo so, lo so’. Non l’ho cullato e non gli ho dato il minimo indizio per credere che volessi farlo smettere, e lui ha continuato. Ogni volta che interrompeva il pianto dicevo qualcosa che avvalorasse il suo sentire.”


“Ha pianto di meno?”, chiede un altro genitore (ancora in cerca di modi per fermare il pianto del bambino).


“No” risponde Teresa, “al contrario, una volta liberatami dal bisogno che lui fosse felice, ha pianto più del solito, approfittando del mio sostegno il più possibile. Ma, una volta terminato, anziché addormentarsi esausto, era sveglio, attento e felice. Più tardi, quando si è addormentato, non ha pianto e si è svegliato solo una volta nel corso della notte, non cinque, sei o sette volte come al solito.”


Nate è andato avanti a piangere la sera, fra le braccia amorevoli della mamma, per un paio di settimane. Il tempo dedicato al pianto si è accorciato via via, fino a sparire del tutto.


Rispondere al pianto e ai segnali del neonato è imperativo. Dopo che tutti i bisogni siano stati appagati, quando non ci sia disagio fisico o malattia e il neonato non abbia evidente bisogno di qualcosa, è necessario assecondare il suo bisogno di piangere. È possibile che pianga perché non abbiamo capito di cosa ha bisogno, tuttavia, se non abbiamo un’idea del perché, a lui resta una frustrazione per la quale ha la necessità di piangere. Potremmo indovinare il suo sentire ben sapendo che si tratta sempre di supposizioni fondate sulla nostra proiezione di ciò che percepiamo. Piange forse per la sua impotenza di neonato? O per la nostalgia del grembo? O forse si è ricordato del faccione che si è chinato su di lui un momento prima e lo ha spaventato… e così via.


Se il bisogno del neonato ci è ignoto, dobbiamo avvalorare la sua scelta di sentirsi come si sente, e fargli sapere che è giusta, e che mentre piange siamo al suo fianco, legati a lui da amore, affetto e comprensione. Tenete sempre in braccio un neonato che piange, la vostra incapacità a conoscere le ragioni del suo sconforto non cambia il suo bisogno di essere portato tutto il tempo, in modo particolare quando soffre. Il suo tentativo di entrare in contatto con voi deve essere coronato dal successo, così come quello di avervi al suo fianco o di ottenere la massima attenzione. Più riesce a generare le cure di cui ha bisogno, più troverà modi tranquilli per comunicare. Perché scatenare una crisi se basta il minimo richiamo o una parola per avere l’attenzione che serve?


Se il neonato è portato a contatto del vostro corpo con regolarità, è difficile che pianga per soddisfare i bisogni fisici fondamentali. Vi darà invece dei minimi segnali a cui risponderete con prontezza, e non ci sarà bisogno di ricorrere al pianto per comunicare. I neonati portati sempre in braccio e tenuti a dormire con voi di rado piangono per avvertirvi di un semplice bisogno. Se un bambino accudito così piange, e non è malato né si è fatto male, è molto probabile che abbia bisogno di piangere.


Man mano che crescono, i bambini usano sempre più le parole anziché il pianto o i richiami. Però, continueranno a usare le lacrime per esprimere il dolore fisico ed emotivo per il resto della vita. Mentre gli adulti sono in grado di esprimere un dolore che non sia eccessivo anche solo a parole, i bambini usano le lacrime con facilità ed efficacia.


Quando cresce, saprete con esattezza ciò che gli procura sofferenza, e potrete avvalorare i suoi sentimenti con maggior precisione. Per esempio, a un bambino i cui programmi siano andati a monte, potreste dire: “Hai aspettato tanto per andare al parco e invece si è messo a piovere!” Tenetelo stretto mentre piange finché non si sarà sfogato e vi farà capire che è pronto a passare oltre. Se vi respinge, restate vicini, attenti e disponibili.


A volte i genitori mi dicono che il loro desiderio sarebbe quello che i figli fossero sempre talmente felici da non dover piangere mai. Però, nel nostro sforzo di crescere bambini che non piangano, rischiamo di negare un bisogno che è fondamentale come l’amore, il cibo, l’aria.


Come un fiume a cui sia fatto argine, le lacrime troveranno altri sfoghi attraverso l’aggressività, i tic, i disordini alimentari e del sonno, e altre difficoltà. Le lacrime ci sono per restare, sarà meglio approfittarne e goderne i benefici anziché cercare di sopprimerle. Le persone vigorose non sono quelle la cui vita scorre senza dolori, ma quelle che hanno la tempra di attraversare il dolore e uscirne rafforzati.


L’esempio che segue, tratto dalla mia esperienza come consulente familiare, dimostra il potere di guarigione delle lacrime persino quando i sintomi sono piuttosto seri.

Tony, sette anni, inizia a picchiare la sorella maggiore quasi ogni giorno. I suoi genitori raccontano che, oltre all’atteggiamento aggressivo, la natura allegra del bambino è stata sostituita dall’impazienza e dalla rabbia. Cercano di venire incontro al bisogno di Tony di avere maggiore attenzione e provano a controllare la sua aggressività con rimproveri e restrizioni. Il risultato è che Tony riduce le botte alla sorella ma inizia a masticarsi la maglietta e a sbattere gli occhi senza potersi frenare.


Quando chiedo ai genitori se Tony mostra segni di tristezza, o di paura, o se piange, loro si rendono conto che il bambino non versa una lacrima da moltissimo tempo ormai. Nella seduta successiva Becky, la sorella, dice: “Il migliore amico di Tony lo ha preso in giro quando ha pianto!”


“Cosa fa quando si sente ferito?”, le chiedo.

Becky ci pensa su un momento e poi risponde: “Oh, è quando sbatte gli occhi per non piangere!”


Allora gioco con Tony al gioco Dire o fare1. Quando sceglie di dire la verità, gli chiedo: “A volte ti senti triste quando non ottieni quello che vuoi?”

Per rispettare le regole del gioco risponde di sì.


“E cerchi di trattenere le lacrime per non farlo sapere a nessuno?”, aggiungo.

“Sì”, risponde annuendo.

“Capisco”, rispondo, “Lo sai che trattenere le lacrime è come non andare in bagno quando ti scappa?”


Tony riflette su questa affermazione sorprendente.

“Davvero?”, e mi guarda con i suoi immensi occhi castani. “Che succede se non vai in bagno?”, mi chiede, e poi si precipita a rispondere alla sua stessa domanda: “Beh, non si può!”


“Sì”, gli dico, “Non si può, e così il corpo non si ammala!”

“Se trattengo le lacrime mi ammalo?”


“No”, gli rispondo (anche se è possibile) “Non puoi fermarle in ogni caso. È solo che i tuoi sentimenti troveranno un modo diverso per uscire!”


“E come?”

“Come fanno le lacrime a trovare un’altra strada? Vediamo… cos’è che fai e che non riesci a controllare?


“Oh, vuoi dire quando mi arrabbio o sbatto gli occhi?”

“Sì, quelli sono alcuni dei tuoi modi”.


“Cavolo, allora piangerò d’ora in poi. È meglio. Odio sbattere gli occhi!”

I genitori mi raccontano che il giorno seguente Tony riceve un regalo che lo delude e, con il sostegno della mamma, singhiozza fra le braccia di lei per circa quindici minuti. Il tic all’occhio scompare. I genitori di Tony lo mettono in grado di dar sfogo al suo bisogno di espressione fisica iscrivendolo a un corso di Karate, che il bambino adora. Ancora per qualche tempo continuerà a masticarsi la maglietta e poi smetterà del tutto. Tony ha ancora la tendenza a usare il proprio corpo per esprimere la rabbia, tuttavia succede molto di rado. Il riconoscimento e la fiducia offerti dai genitori gli hanno consentito di esprimere i propri sentimenti e la propria vulnerabilità. Ora è più facile stabilire un legame con lui e anche lui può piangere ed esprimersi quando ne ha bisogno.

Certi sintomi, o varianti di essi, potrebbero ricorrere ogni volta che il bambino trattiene le lacrime e i sentimenti. Quando lo conosciamo bene, possiamo leggere i segnali che ci invia e permettergli di sfogare in un contesto protetto l’ansia accumulata.


Lo scopo è di evitare che si accumulino emozioni represse; tuttavia, a volte vediamo le cose con chiarezza solo dopo che ci sono sfuggite di mano. Fa parte del nostro essere umani, cosa con cui i bambini sono destinati a convivere. Perciò, se scoprite che per qualche tempo siete stati ciechi di fronte ai bisogni di vostro figlio, sappiate che è spesso questo il corso normale degli eventi e passate al gradino successivo con tranquillità: andate incontro ai suoi bisogni e sciogliete la tristezza vostra e sua.

Ansia da separazione e bisogno di piangere

A volte, l’idea di liberarsi dal dolore attraverso le lacrime può spingerci troppo oltre. Una volta, un’amica mi chiese perché portavo con me a una conferenza mio figlio ancora molto piccolo. Le risposi che se lo avessi lasciato si sarebbe sentito impaurito e disperato (oltre ad aver bisogno di essere allattato). Sarei dovuta andare comunque, protestò la mia amica, con lui poteva restare il papà, che legittimandone i sentimenti lo avrebbe lasciato piangere per fargli sfogare anche il dolore delle passate ferite d’abbandono.


Mio figlio non aveva ferite d’abbandono su cui piangere e io non avevo nessuna intenzione di procurargliene di nuove. Di conseguenza, lo portai con me alla conferenza e anche nei viaggi seguenti, finché fu necessario. Quando fu pronto a lasciarmi, non ci furono lacrime; l’iniziativa era partita da lui, tranquillo ormai nel restare separato da me. Confidando nel fatto che le manifestazioni emotive di tutti i miei figli rappresentino bisogni affettivi reali e urgenti, non faccio altro che soddisfare il loro desiderio di vicinanza e sicurezza. Anche se sappiamo che esistono dolori del passato che hanno bisogno di essere guariti, come suggerito dalla mia amica, non ha senso mettere in scena delle opportunità di pianto per il bambino. Se si sente al sicuro e sa di potersi esprimere, sarà lui a creare le circostanze per dar voce alle antiche ferite. In questo stesso capitolo troverete l’esempio di un bambino che elabora le sue vecchie ferite.


Quando le circostanze rendono la separazione inevitabile (ospedalizzazione o altre calamità), allora, e solo allora, poiché la separazione non si è potuta evitare, offriamo sostegno e attenzione alle paure e alle lacrime del bambino; avvaloriamo i suoi sentimenti, lo mettiamo in grado di affrontare le circostanze della vita, ma certo non preconfezioniamo questo genere di eventi. In altre parole, accogliamo un bambino che piange ma non provochiamo apposta le sue lacrime.


Se la separazione è inevitabile, il nostro compito non è di distrarre il bambino dai suoi sentimenti ma piuttosto di legittimare la sua esperienza, in modo che possa egli stesso riconoscerne la validità e piangere tutte le sue lacrime. In modo analogo, quando torniamo e abbiamo di fronte un bambino furioso, non dobbiamo tentare di fermare la sua manifestazione o offrirgli un dono per placarlo; dobbiamo solo esprimere riconoscimento, dare validità a ciò che prova, mostrargli che ci importa di lui, manifestare il nostro stesso desiderio e affetto, perlopiù ascoltandolo e tenendolo stretto. Vostro figlio si riprenderà dalle sofferenze della separazione piangendo o esprimendo le sue paure e frustrazioni, grazie al vostro conforto attento e amorevole. Il vostro sostegno incrollabile gli trasmetterà il messaggio che è perfettamente in grado di superare l’esperienza negativa.

Scene e capricci. Piangere per bisogno o bisogno di piangere?

Un bambino in preda a una crisi si sente impotente e bisognoso di autonomia e dignità. Deve poter creare la propria vita dettandone le condizioni. Talvolta una scenata chiede la nostra attenzione a un problema specifico, talaltra il bambino ha bisogno di sfogare intense emozioni per ciò che non è possibile cambiare, e vuole la nostra attenzione amorevole. Quando guarisce le sue ferite attraverso la rabbia e noi ci offriamo di consolarlo e di distrarlo da essa, blocchiamo il processo di guarigione; ma quando controlliamo un bambino, siamo causa dei suoi scoppi di rabbia.


Se controllate vostro figlio e generate la sua rabbia, investigate nell’intimo del vostro cuore per chiedervi che tipo di persona volete essere con lui. Il genitore affettuoso e premuroso che siete non desidera controllarlo e indispettirlo. La mente vi suggerisce qualcosa che guida le vostre parole o azioni improduttive. Quali sono i vostri pensieri? “Dovrebbe venir via dal parco giochi appena lo chiamo…” Davvero? Seguireste chiunque tranne il vostro cuore mentre vi state divertendo tanto? Lasciate la festa all’istante quando vostro figlio inizia ad annoiarsi o ve lo chiede il coniuge? Sono pensieri onesti e premurosi? È la vostra rabbia interiore quella che viene espressa dal bambino. Il vostro bisogno di controllo è fuori controllo e potreste sentirvi scissi fra la spinta a impressionare qualcuno e quella a rispondere a vostro figlio. Chiedetevi come sareste con lui nella medesima situazione se questi pensieri non vi sfiorassero neppure. Provate a immaginarvi, liberi dai monologhi interiori, nello stesso frangente, e osservate come trattereste vostro figlio.


Le crisi non sono inevitabili e prevenirle è possibile iniziando dalla cura del neonato e da una propensione affermativa, al “sì”, verso il neonato prima e il bambino poi. Portate sempre il neonato a contatto con voi e svilupperà una comunicazione gentile. Fasce e condivisione del lettone consentono al bambino piccolo di mandare segnali senza piangere e senza sentirsi frustrato. Lo aiutano a sviluppare la distinzione fra chiedere con tranquillità e piangere per sfogare le emozioni forti. Più tardi, quando impara a parlare, è probabile che continui a usare le parole anziché farsi prendere da una crisi per comunicare i propri bisogni. Quando il bambino sa che le sue parole suscitano la risposta del genitore, come già gli succedeva da neonato quando inviava quei piccoli segnali delicati, non ha motivo di strepitare per richiamare l’attenzione. Pertanto, se dovesse farsi prendere da una crisi di pianto o di rabbia, è molto probabile che la premura e l’attenzione che vi sollecita riguardino qualcosa che non è andato per il verso giusto.


La confusione inizia quando il bambino fa una scena perché la sua comunicazione gentile non ha prodotto il contatto sperato. Non è una ragione per sentirsi in colpa o inadeguati, succede a quasi tutti i bambini, nonostante le migliori intenzione dei genitori di essere solleciti e premurosi.


Se la rabbia di vostro figlio nei confronti di ciò che non si può cambiare vi procura ansia, rischiate di precipitarvi a dare al bambino urlante qualsiasi cosa, a tentare di cambiare la realtà, a compensare e perfino fare cose contro ogni logica solo per fermare le scene. In questo modo non state ascoltando il suo messaggio e ostacolate il processo di guarigione messo in atto dal bambino. Una risposta simile gradualmente insegna al bambino che il pianto e le crisi non servono all’autoguarigione bensì a ottenere le cose. Non c’è nessuno che punti il dito verso un tale fraintendimento. È parte della condizione umana; genitori e figli sono intrappolati nelle proprie strategie mentali e fanno del loro meglio. I genitori percepiscono il figlio come un “manipolatore”, eppure egli non fa che rispondere ai segnali inviatigli con le migliori intenzioni possibili.


Per evitare il panico quando vostro figlio si infuria per una situazione immodificabile, usate la formula S.A.L.V.E.; investigate i vostri pensieri anziché lasciare che dettino le vostre azioni. È probabile che essi siano del tipo: “Devo renderlo felice!”, “Cos’ha che non va?”, “Sono un pessimo genitore!”, “Cosa faccio di sbagliato?”, “Oh no, povero piccolo, è terribile!”, “Se lo vede qualcuno penserà che non so fare il genitore!”, e cose del genere. Scrivete i vostri pensieri e osservateli dalla pagina scritta.


Quando credete in loro e pensate che siano veri, sono pensieri che vi mandano a combattere una crociata per sconfiggere la realtà della crisi avuta da vostro figlio. In quel momento siete lontani sia da voi, sia da lui. Analizzando i pensieri scoprirete che non hanno nulla a che vedere con la verità, la realtà o vostro figlio. Sono solo le ansie che avete ereditato perché siete umani. Senza di esse non avreste problemi ad amare vostro figlio in maniera incondizionata e dargli tutta la vostra attenzione.


Investigando questi pensieri noterete che riguardano solo voi, com’è naturale. Siete voi che pensate ci sia qualcosa di sbagliato, di terribile, o che vi figurate che la vostra immagine sia compromessa agli occhi degli altri. Siete voi che avete il desiderio di interrompere la scenata per il vostro stesso bene. Se guardate nel profondo di voi stessi, vi accorgerete che neppure per voi si tratta della verità. Sono pensieri automatici. Se aveste l’opportunità di osservare le vostre reazioni nel caso in cui questi non esistessero, la crisi di vostro figlio vi apparirebbe del tutto innocua e potreste reagire in modo molto più amorevole stabilendo un contatto con lui.


I capricci e le crisi sono un modo valido per sfogare intense emozioni represse, per questo si tratta di un processo di guarigione. Piangere, strepitare, infuriarsi per ottenere l’irraggiungibile è un comportamento facile da prevenire; è sufficiente sintonizzare le proprie risposte sui richiami tranquilli del bambino ed evitare la coercizione. Se invece la crisi è usata come strumento di guarigione, fermarla offrendo compensazioni lascia il problema irrisolto e il vero bisogno resta inascoltato.

Il prezzo del controllo

Se si impongono delle limitazioni al bambino, egli tenderà a opporre resistenza e a coltivare un risentimento, il che avrà come conseguenza capricci o aggressività. Il risultato potrebbe anche essere la compiacenza, quella che i genitori spesso confondono con il comportamento da “bravo bambino”. Il bambino compiacente di solito manifesterà il proprio disagio accumulato attraverso una serie di disturbi emotivi, oppure più tardi, nel corso dell’adolescenza o della vita adulta, con l’uso di droghe, aggressività, disturbi alimentari, depressione e altre difficoltà.


L’impotenza è l’emozione chiave che si cela dietro la rabbia. Possiamo prevenire il senso di impotenza evitando di privare il bambino della propria forza, e proteggendo la sua libertà di scelta e di autogoverno. Allo stesso tempo, è necessario evitare di dargli un potere che non gli compete e non può gestire, che è spesso il potere sugli altri. La combinazione di impotenza da un lato e eccessivo potere dall’altro annienta il bambino.


Esistono situazioni in cui l’esperienza ci torna utile per garantire la sicurezza e il benessere dei figli. Tuttavia, per quanto in rare occasioni sia indispensabile agire alla svelta e posticipare le spiegazioni, nella maggior parte delle circostanze della vita questo non è necessario. È invece possibile dare al bambino in procinto di compiere azioni sconsiderate tutte le informazioni per effettuare una scelta sana e avveduta. Si evita così di agire con azioni di forza, limitazioni e controlli che insultano il bambino e vi pongono al di sopra di lui.


Egli si sentirà forte se potrà scegliere in autonomia. È chiaro però che avere autonomia non significa esercitare un controllo sugli altri, cosa che spaventa il bambino. Se tremate di fronte alle emozioni di vostro figlio questo gli darà un potere su di voi, ma egli ne sarà sopraffatto e la cosa porterà a nuove crisi e capricci.


Se per la maggior parte del tempo al bambino vengono fornite informazioni per scegliere in autonomia, accetterà le situazioni in cui non può fare come desidera. Non può andare con il triciclo in mezzo alla strada, rompere piatti, giocare con il fuoco, far male agli altri, lanciare oggetti per casa, andare in auto senza seggiolino. Quando alla base c’è una comunicazione costruttiva, anziché fondata sul controllo, il naturale desiderio del bambino di fare la scelta giusta lo indurrà a fare ciò che è sano e avveduto poiché è ciò che egli stesso vuole.


Per natura i bambini non vedono l’ora di fare le cose giuste, di adeguarsi, di essere al sicuro e di farci piacere. Se vostro figlio vi resiste, è segno che avete esercitato un controllo su di lui, che avete attuato una resistenza nei suoi riguardi. Qualunque sia la cosa che giudicate in vostro figlio, è probabile che vi faccia da utile guida nel vostro processo di crescita personale; e vostro figlio migliorerà insieme a voi. Egli non fa che rispecchiare i vostri atteggiamenti. Se notate una resistenza da parte sua, siete voi che state resistendo. Se non collabora, chiedetevi quanto siete collaborativi nei suoi riguardi. Scrivete e investigate i pensieri che alimentano il vostro bisogno di controllo; quando getterete una luce sulle risposte automatiche della vostra mente, pian piano vi faranno essere il genitore che amate essere.


Quelli che seguono sono due esempi tratti da un laboratorio da me condotto, nei quali si illustrano due modi diversi di affrontare un problema legato alla sicurezza; da un lato esercitando il controllo, e dall’altro aiutandosi con la fiducia e il legame affettivo:

Il padre di Amber le ha detto che, se mamma e papà non sono con lei, non deve giocare mai vicino al ruscello che attraversa il loro giardino. Due settimane dopo, Amber, che ha tre anni, pensa di avvicinarsi un pochino di più al torrente per gettarvi un sasso. Il grido della madre la blocca subito: “No, Amber! Vieni subito via di lì!”

Amber si ritrae, impaurita e umiliata. La mamma continua a rimproverarla e minaccia punizioni se dovesse accadere ancora.

È possibile che Amber non si avvicini più da sola al ruscello, ma non perché abbia capito, né per la fiducia che nutre nei genitori, e neppure per quella che nutre in se stessa e nel suo desiderio di restare incolume. Se lo farà, sarà per la paura delle punizioni e della disapprovazione di mamma e papà. Se, presa un giorno dalla rabbia e dal desiderio di vendetta, volesse a sua volta “punire” i genitori, potrebbe scegliere di farlo andando al ruscello o compiendo qualche altra azione “proibita”. Oppure, se non vorrà più la loro approvazione ma desidererà invece sperimentare la propria autonomia, potrebbe pensare di dedicarsi a tutte le cose “proibite”. Che sia l’una o l’altra, è probabile che avrà accumulato molte esperienze oppressive con i genitori e un sacco di rabbia da sfogare attraverso capricci, scenate, aggressività o comportamenti autodistruttivi.


Se un bambino riceve le giuste informazioni e si sente al sicuro con i genitori, vorrà restare incolume e badare a se stesso. Si sentirà al sicuro con mamma e papà se questi non imporranno regole ma saranno piuttosto suoi alleati premurosi.

Il padre di Julian gli chiede se vuole giocare vicino al ruscello che scorre a ridosso della loro nuova casa, e Julian dice di sì. Si avviano insieme e il papà spiega al piccolo di tre anni i pericoli dell’acqua. Lancia foglie e pietre nella corrente e racconta di come la gente non respiri una volta caduta nell’acqua. Poi immergono i piedi nell’acqua e sentono la velocità della corrente. Dopo aver giocato ed essersi divertiti, il papà chiede a Julian di domandare sempre a lui o alla mamma di accompagnarlo a giocare al torrente.

Il giorno dopo Julian chiede alla mamma di andare con lui, ma la mamma gli risponde che in quel momento non può: “Però appena ho finito con questa telefonata ti accompagno!”. Venti minuti dopo mamma e figlio scendono al torrente. Trascorso un periodo in cui le avventure al torrente sono quasi quotidiane, Julian perde l’interesse iniziale e va al ruscello per giocare con mamma o papà solo di rado. Non si reca mai al torrente da solo perchè ha fiducia nei genitori e nel proprio senso di incolumità, acquisito in loro presenza.

Con una relazione di fiducia come quella del secondo esempio, Julian non ha motivo di sentirsi impotente perché non viene controllato. Non sviluppa neppure un desiderio di opporsi ai genitori. Nel corso degli anni continuerà a usare le informazioni dei genitori in tutti gli ambiti della sua vita, senza sentirsi spinto a violare gli accordi o fare cose sconsiderate e pericolose.


Ogni volta che sia possibile, informate ed evitate di mettere il bambino in situazioni troppo difficili per lui da capire e da gestire senza correre rischi. Se il bambino è inserito in un contesto fisico e sociale sicuro, potrà scegliere le proprie azioni con avvedutezza.

Quando i capricci servono per ottenere ciò che si vuole

Un bambino che utilizzi l’espressione emotiva come mezzo per ottenere qualcosa, si basa su due assunti che ha tratto dall’esperienza: non può ottenere quella cosa in nessun altro modo e, se strilla abbastanza forte e abbastanza a lungo avrà ciò che desidera oppure altre compensazioni. Ne risultano due stati mentali che generano inquietudine: l’impotenza dovuta al controllo genitoriale e il sentirsi sopraffatti dall’eccessivo potere quando le proprie lacrime gettano i genitori nel panico.


Sebbene i sentimenti siano sempre validi, non sono per forza una base di partenza per agire. Un bambino agitato perché gli è stato chiesto di non lanciare più la sabbia a un altro bambino, o deluso perché non è il primo della fila, hanno entrambi sentimenti che meritano di essere espressi, ascoltati e avvalorati. Questo però non significa che li incoraggeremo a lanciare la sabbia alle persone o a combattere per il diritto di essere i primi (e in ogni caso sarà bene scoprire se ci sono bisogni frustrati che guidano le loro intenzioni).


Forse vostro figlio sarà furioso perché non gli avete liberato il campo dal rivale e non è in prima fila, oppure perché al parco non ha potuto continuare a tirare la sabbia a un bambino più piccolo. Se ha sempre sperimentato molte sensazioni di impotenza e mancanza di libertà nel gestire la propria vita, la rabbia e la delusione potrebbero sfociare in una crisi. Analogamente, se si sente spesso sopraffatto dal potere che esercita su di voi o dalla licenza di fare come desidera, è probabile che si avvarrà delle crisi di rabbia per sollecitare il vostro ruolo di guida.


Anche se desideriamo evitare il controllo, ci sono situazioni in cui intervenire è un dovere e non c’è tempo per le chiacchiere. È dunque possibile che il bambino si senta ferito, sgomento o arrabbiato. L’esempio che segue illustra la libertà che si ottiene quando i propri lamenti non cambiano la realtà ma sono ascoltati e avvalorati.

Dave, cinque anni, chiede di stare con la sorella maggiore Lila, di nove, nella stanza di lei. Ma Lila vuole stare da sola. Dave la supplica e accetta la condizione di non spingerla più come aveva fatto prima, lo promette.
Dopo un po’ esce dalla stanza in lacrime: “Lila mi ha detto di andarmene perché l’ho spinta!”

Si scopre che Lila ha dato al fratello diverse possibilità di smettere di spingerla prima di chiedergli di andarsene.
Dave si getta per terra accanto alla mamma e urla che non spingerà più la sorella e che vuole tornare da lei.

La mamma riconosce i suoi sentimenti: “Volevi giocare con tua sorella, non hai potuto fare a meno di spingerla. Volevi fare la lotta con lei?”
“Voglio ritornare nella sua stanza!”, dice Dave scalciando e strepitando.

La mamma gli dice: “Capisco, resto qui con te così puoi piangere finché vuoi!”
Dave interrompe subito la scena e va a giocare con il triciclo.

Dave non aveva bisogno di piangere, sperava solo di cambiare la realtà. Quando ha capito che non sarebbe successo, si è dedicato a un’altra attività. Se l’obiettivo è ottenere qualcosa facendo una scena, l’informazione relativa all’intenzione di prestare attenzione al pianto del bambino fa cessare la crisi perché questa diventa uno strumento inutile.


Mentre fa i capricci per ottenere l’impossibile, potrebbe però anche avere bisogno di esprimere certe emozioni. In questi frangenti, il nostro compito è quello di ascoltare e dare riconoscimento fino a che la crisi non giunga alla sua naturale conclusione. A quel punto, il bambino si sentirà perlopiù soddisfatto e non gli servirà altro; se resta ancora qualche bisogno in sospeso, se ne potrà parlare dopo che la tempesta sia passata.


Quello che il bambino vuole in un preciso istante non corrisponde di solito al bisogno effettivo; noi genitori dobbiamo riuscire a guardare cosa si cela dietro il capriccio, di solito cose ben più grandi di un dolce o del voler essere primi. Per esempio, fare una scena per essere primi potrebbe indicare un bisogno di sicurezza, la necessità di sentirsi importanti e apprezzati. Costringere gli amici a farlo essere primo non risolverà il problema che si cela in profondità, anzi lo alimenterà. Il bisogno deve essere considerato, altrimenti ne deriveranno altre scene e capricci, alimentati da un’insicurezza crescente. Se l’unica cosa di cui il bambino ha bisogno è esprimere la sua rabbia, passata la tempesta non gli servirà altro. D’altro canto, se ha bisogno di amore, attenzione, o autonomia, quando avrà espresso appieno la sua rabbia, sia lui sia voi avrete raggiunto una maggiore chiarezza e scorgerete delle soluzioni pratiche, come dimostra la storia seguente:


Sheila, quattro anni, esce con i genitori per andare a trovare lo zio John in ospedale. Il viaggio dura due ore e quando arrivano Sheila è profondamente addormentata. Considerando che è molto stanca, i genitori decidono di non svegliarla. Il papà resta con lei in auto mentre la mamma va a far visita al fratello. Quando la breve visita finisce, Sheila dorme ancora.


Al risveglio è buio e sono quasi arrivati a casa, la bambina si guarda intorno: “Quanto manca per arrivare da zio John?” domanda.


I genitori la informano che sono quasi tornati a casa e lei esplode in una crisi. I genitori suggeriscono di ripetere il viaggio nel fine settimana seguente, ma non sono soluzioni quelle che servono a Sheila in quel momento. “No, lo voglio vedere adesso!” grida e scalcia con violenza. La crisi prosegue per il resto del viaggio con la madre che le sta accanto con premura e attenzione, riconoscendo i fatti e avvalorando i sentimenti della bambina: “Eri eccitata perché volevi vedere lo zio John e non ci sei riuscita, avresti voluto scegliere se svegliarti o dormire ancora.”


Quando la crisi è passata, Sheila sembra tranquilla. Arrivano a casa e discutono sul da farsi per includerla nelle decisioni future e rispettare il suo bisogno di autodeterminazione. La famiglia pianifica un’altra visita allo zio la settimana seguente e Sheila, ormai tranquilla, non vede l’ora. Decidono di comune accordo che all’inizio di ogni viaggio Sheila sceglierà se essere svegliata oppure no, nel caso in cui arrivino mentre ancora dorme. Se dimentica di dirlo, sarà svegliata comunque.


Queste situazioni lasciano i genitori perplessi, e molti darebbero fondo alla creatività per trovare un modo di far cessare la scena: tornare indietro, dormire in motel e rientrare il giorno seguente? Andare a mangiare fuori qualcosa di buono prima di tornare a casa? Comprare un giocattolo?


L’intento che si cela dietro queste soluzioni è quello di mettere fine alla crisi per risparmiare a noi stessi la storia spiacevole che ne deriva. Ci diciamo che nostro figlio è traumatizzato, che siamo colpevoli, che il bambino non può tollerare la delusione. Ciò nonostante, quello che è successo è irreversibile, i genitori non sono colpevoli, ma innocenti che fanno del loro meglio, e il bambino non è traumatizzato a meno che non gli suggeriamo noi di esserlo. Le soluzioni elencate prima non avrebbero in ogni caso tenuto conto dei sentimenti di Sheila. Non è la mancata visita che ha suscitato la parte più aspra della sua rabbia, bensì l’aver ignorato il suo diritto a prendere delle decisione autonome su ciò che la riguarda. Nessuna visita, gelato o parco giochi avrebbero potuto restituirle la dignità perduta. D’altro canto, ascoltare, riconoscere la realtà e legittimare la rabbia senza reprimerla, permettono a Sheila di superare i suoi forti sentimenti e di considerare soluzioni future. Avendo solo quattro anni, non ha bisogno di investigare i propri pensieri per capire che la fonte della propria rabbia è il desiderio dell’impossibile. Per far svanire il dramma è bastato dargli sfogo. Senza più il dramma per ciò che ha perduto, la bambina può attendere con trepidazione la settimana successiva.


Date ascolto alle crisi dei vostri figli e riconoscete l’accaduto, ma non salvateli né distraeteli dai loro sentimenti. Devono sapere che non c’è bisogno di andare nel panico e di trovare un’immediata compensazione per far cessare il dolore di quando le cose non vanno per il verso giusto. Devono sperimentare la propria capacità emotiva di sostenere le emozioni forti e far fronte al disappunto, alle cadute o ad altre ferite.

La guida del genitore

Come per il pianto, alcuni genitori potrebbero portare alle estreme conseguenze l’idea che le crisi hanno un potere di autoguarigione, rischiando di mettere a repentaglio i bisogni e l’autonomia del bambino. Anziché rispettare le sue scelte, potrebbero dire: “Facciamolo arrabbiare, gli fa bene!”. Rispettate il bisogno di arrabbiarsi, ma non provocatelo. Va bene sostituire una banana rotta se ce n’è la possibilità, oppure offrire un dolce sano senza incorrere in lotte di potere. Concedetevi di essere gentili, generosi e rispettosi.

Un padre mi disse: “Ma se soccombo, non mi rispetterà più!”. Essere gentili non significa soccombere; il bisogno del genitore di essere “rispettato” è un altro di quei pensieri utili da investigare a fondo. Crescere significa liberarsi dal bisogno che gli altri ci debbano qualcosa. Rispettate voi stessi e gli altri e sarete maestri del rispetto.


Il senso autentico del rispetto si sviluppa nel bambino grazie all’esperienza dell’amore e della gentilezza, non del controllo. Spesso scambiamo la sottomissione con il rispetto. Anche l’obbedienza non ha niente a che vedere con il rispetto, è solo un’altra manifestazione di paura mista a risentimento, e conduce pertanto alla stessa chiusura, all’incapacità di esprimere se stessi. Il timore che ha il genitore di essere sfruttato dai figli è più spesso il risultato di un dolore personale collegato al passato. Non ha niente a che vedere con il bambino e intralcia la nostra capacità di amarlo e dargli fiducia. Il bambino ascoltato e la cui vita scorre libera dal controllo degli adulti non ha bisogno di usare i suoi genitori. Li ama e li ammira, confida che siano dalla sua parte.


Quando un bambino si sente impotente e usa i capricci come strumento per ottenere le cose, in realtà sta chiedendo la guida del genitore. Ha bisogno di libertà e autonomia ma non può credere che le sue manifestazioni emotive spaventino i genitori. Non è equipaggiato per gestire un simile potere e quando scopre che i genitori temono i suoi pianti e le sue grida, si sente perso e bisognoso di una guida. Il bambino ha la necessità che i genitori siano leader a cui affidarsi, e al cui ascolto aprire il proprio cuore. In altre parole, vostro figlio conta sul fatto che la vostra forza faccia da cuscinetto ai suoi sentimenti senza che ve ne lasciate schiacciare.


Per prevenire l’uso dei capricci come strumento per ottenere qualcosa, bisogna modificare le due condizioni che suscitano la rabbia del bambino:

  1. Abbandonare il controllo: far sì che il bambino diriga la propria vita in modo autonomo e tranquillo.

  2. Quando il bambino è fuori di sé per qualcosa che non si può cambiare, avvalorate i suoi sentimenti senza dare alla sua manifestazione emotiva il potere di alterare la realtà.


Quando devono affrontare il disappunto e la frustrazione, i bambini fanno assegnamento sulla guida dei genitori. Le loro domande mute sono spesso del tipo: “Papà mi amerà abbastanza da ascoltare la mia rabbia, oppure cederà di fronte a me per via dei miei sentimenti così forti e cercherà di fermarmi?”. I vostri figli hanno davvero bisogno di sapere che in tutta sicurezza possono dare in escandescenze mentre voi avete la forza di conservare uno spazio d’amore per loro.


Se vi fate prendere dal panico in risposta a una crisi, non solo impareranno a giovarsene come strumento, ma anche a temere le emozioni e a prenderle troppo sul serio. Potrebbero aver paura di provare emozioni forti perché vedono che anche voi non siete in grado di affrontarle: “I sentimenti devono essere una cosa orribile, devo evitarli!”. Tutta questa reazione drammatica ai sentimenti assegna loro un significato esagerato e li rende temibili e potenti. Al contrario, se avvalorate le loro emozioni con animo sereno e pacato, senza farne un dramma, queste possono essere vissute in tutta tranquillità. I sentimenti sono passeggeri, possiamo liberarci dalla loro presa, è il negarli e il resistergli che genera la vera angoscia.


Compensare e distrarre non aiuta un bambino ad attraversare le proprie emozioni. Se ha bisogno di uno sfogo terapeutico, non lo soddisferà il fatto di aver ottenuto ciò che ha chiesto; troverà altre richieste impossibili o motivi di disappunto. Anche se riusciamo con successo a interrompere una manifestazione di rabbia, il bambino riprenderà il proprio accesso d’ira in modi diversi e creativi, di solito il giorno stesso. Quando diciamo: “Gli ho dato di tutto ma continua a fare un capriccio dietro l’altro!” è molto probabile che siamo in presenza di un bambino che ha bisogno di esprimere dei sentimenti intensi. Fare le acrobazie per dargli ciò che chiede a forza di urla e pianti, in realtà non farà che sabotare il suo vero intento e vi impedirà di conoscere la causa che si cela dietro il suo disagio. Usate la formula S.A.L.V.E. e i bisogni insoddisfatti appariranno con chiarezza:

  • S - Distaccatevi e investigate la voce interiore che vi dice di impedire la crisi di vostro figlio; ascoltatevi in silenzio. Se basta questo ad accettare le cose, procedete, se invece non basta, analizzate la pertinenza dei vostri pensieri. Se vi state dicendo: “Mio figlio dovrebbe smetterla” o “non può tollerare una simile frustrazione”, chiedetevi se davvero potete saperlo. Poi immaginatevi insieme a lui senza questo pensiero; potreste scoprire una tale pacata chiarezza da sorprendervi. Noterete che il pensiero stressante relativo a vostro figlio riguarda altrettanto bene, se non meglio, voi stessi. È un po’ come se aveste una crisi interiore a causa della crisi di vostro figlio. Nel frattempo, ciò che serve al bambino è il vostro ascolto e la vostra guida calma e pacata.

  • A - quando avete fatto un po’ di chiarezza dentro di voi, rivolgete l’attenzione al bambino.

  • L - ascoltate la sua rabbia.

  • V - avvalorate i suoi sentimenti.

  • E - mettetelo in condizione di sfogare le emozioni e sciogliere il nodo emotivo.

Quando lo ascoltate senza riserve, siete in contatto con lui, rilassati, e capaci di individuare i suoi reali bisogni, come nel caso dei genitori di Sheila nell’esempio precedente. Se la madre di Sheila non fosse stata in ascolto, si sarebbe forse lasciata vincere dal suo stesso rimorso, sarebbe tornata indietro fino all’ospedale o avrebbe compensato la figlia in qualche altro modo. Invece, l’ha ascoltata e ha capito che il suo bisogno era di essere inclusa e prendere parte attiva alle scelte che la riguardano.


Per osservare il bambino, non offuscati dalle nubi della nostra visione drammatica, è necessario imparare ad ascoltare con una consapevolezza che va oltre le semplici parole. “Volevo andare a trovare lo zio!” potrebbe apparire come il bisogno predominante, ma la ferita profonda deriva dal non aver voce in capitolo e dal non essere stati consultati. Gran parte della rabbia è un riflesso del bisogno di libertà e autodeterminazione. Sheila riesce ad accettare la perdita di quel giorno solo quando il suo bisogno di autonomia e inclusione viene accolto. Abbiate fiducia in vostro figlio e rispettate il suo bisogno di piangere senza confonderlo con il pianto legato ad altri bisogni.

Evitare il vittimismo

I bambini che ricevono sempre una compensazione al pianto e allo scoramento, imparano un’altra lezione: “Con la giusta dose di angoscia, posso ottenere ciò che voglio” oppure, “Essere disperato attira l’attenzione della gente”. Chi di noi ha imparato questa strategia nell’infanzia la ripropone anche nelle relazioni da adulto, dicendo a se stesso: “Se dimostro di essere disperato, mi tratterà con gentilezza o farà ciò che voglio.”


Adulti e bambini che si vittimizzano finiscono per trovarsi in circostanze spiacevoli per la convinzione inconscia che questo farà ottenere loro ciò che vogliono. Suscitare pietà è una strategia che affonda nel passato e prevede di assegnare a forze esterne le proprie facoltà di riuscita; ci impedisce di essere presenti e capaci. Vostro figlio impara da voi a essere una vittima oppure a essere nel qui e ora, capace di agire per il proprio bene con efficacia. Se impara che la sua felicità dipende dagli altri o dalle circostanze, sarà una creatura debole e inetta e non potrà aiutarsi. Le vittime devono continuare a cadere perché la loro mente vuole aver ragione a proposito della loro triste storia di vittime.


Quando vi scoprite intrappolati dallo sconforto per la rabbia di un figlio che si vittimizza, ricordate a voi stessi che egli si affida alla vostra guida. Non vuole vedervi invischiati nel suo dramma, sarebbe come affogare con chi affoga, anziché tirarlo fuori dall’acqua. Conta su di voi perché gli forniate la chiarezza necessaria a far emergere le sue facoltà e capacità (l’antitesi della vittima). L’esempio che segue, tratto da un laboratorio, illustra i pericoli insiti nel rinunciare alla propria leadership quando un bambino è sconvolto.

Qualche giorno prima del suo sesto compleanno, Nina scopre che Ron, il fratello di undici anni, ha un regalo per lei. Ron pensava di farle una sorpresa durante la festa, ma Nina non vuole aspettare. Inizia a disperarsi e a piangere perché vuole il regalo subito. Appena i lamenti di Nina invadono la casa, il padre Jack si irrita. Si precipita nella stanza di Ron e gli dice di dare immediatamente il regalo alla sorella.

Ron afferra il regalo e, in un impeto d’ira, lo lancia a Nina. A quel punto lei smette di piangere e Ron torna nella sua stanza sbattendo la porta.

La crisi emotiva di Nina ha fatto perdere il controllo a Jack. Nella fretta di fermare le sue grida, ha dimenticato di fornire la guida e il sostegno emotivo di cui entrambi i figli avevano bisogno. Ha mancato di rispetto alla scelta del figlio di dare il regalo alla sorella durante la festa, privandolo così del piacere di consegnarglielo quando voleva lui. Jack ha anche concesso alla figlia un potere che non è in grado di gestire, sola, senza nessuno a prenderla nella sua caduta emotiva. Quello che sarebbe servito a Nina era la comprensione del padre per la sua impazienza, così da permetterle di affrontare il presente per quello che era. Inoltre, entrambi i bambini hanno imparato che le urla e la disperazione sono un lasciapassare per arrivare dove si vuole.


Facendo del proprio meglio, in tutta innocenza, con il suo intervento Jack ha tenuto conto solo di se stesso, non senza pagare un prezzo. Aveva bisogno di pace ed era impaziente tanto quanto sua figlia. Anche lui anelava subito al suo “regalo”, e il regalo era la fine di ogni lamento. Le grida e i pianti lo hanno reso vittima e la sua pace è dipesa dalla resa di suo figlio a un’altra vittima. Senza volere, ogni partecipante alla scena è stato vittima, e per questo nessuno ha raggiunto la pace desiderata.


Come sarebbe stata una risposta più efficace da parte del genitore? Tanto per cominciare, Jack avrebbe potuto evitare di coinvolgersi nella questione tra fratelli; avrebbe potuto notare la propria conversazione mentale e capire che riguardava la sua ansia e la sua confusione personali. Ron non avrebbe dato a Nina il regalo prima del compleanno e le grida si sarebbero acquietate da sole, oppure Nina sarebbe andata dal padre con la sua storia. Oppure, Jak avrebbe potuto offrirsi di ascoltare la rabbia e l’agitazione di Nina e di avvalorare i suoi sentimenti: “Capisco, non vedi l’ora di vedere il regalo di tuo fratello, due giorni sembrano lunghissimi quando si è eccitati per qualcosa”.


Oltre a riconoscere l’ansia di Nina per l’apertura del regalo, avrebbe potuto dimostrare che teneva in conto la difficoltà della situazione per Ron, avvalorando anche i suoi sentimenti e le sue scelte. A quel punto, Nina si sarebbe sentita capita e capace di gestire le proprie emozioni, mentre Ron avrebbe percepito la fiducia e la stima di suo padre. Nina avrebbe persino potuto investigare la fonte del proprio disappunto, ossia il pensare che dovesse avere subito il regalo. Senza questo pensiero sarebbe stata eccitata per la sorpresa che l’attendeva.


E se Nina avesse strepitato per ore? Il Buddismo Zen ha una risposta utile: allora avrebbe pianto e strepitato per tanto, tanto tempo, avvolta nell’attenzione amorevole del padre.


I bambini talvolta si aggrappano al proprio sentimento di sconforto perché hanno bisogno di piangere, altre volte stanno forse inconsciamente tentando di spingere il genitore a prendere le loro parti o una posizione decisa e forte di guida. Ci sono poi situazioni in cui il bambino non è che lo specchio del genitore o della relazione fra i genitori. Qualunque sia la spinta inconscia al pianto, avvalorare le emozioni fa chiarezza e dona sollievo.


Un’utile linea guida è quella di non alterare il corso degli eventi, a meno che non sia in gioco l’incolumità o quando si renda necessario un cambiamento fatto con gentilezza. La realtà a casa di Jack era che Ron avrebbe dato il regalo alla sorella durante la festa di compleanno. Permettere a un bambino di venire a patti con la vita è un dono ben più grande che insegnargli a disperarsi e strepitare abbastanza da riuscire a rimodellare la realtà. La vita non offre rimaneggiamenti del reale per soddisfare i desideri umani e, alterando in un delirio di onnipotenza le circostanze sgradite, finiamo per sottrarre le sfide e le delusioni al percorso di vita di un bambino, che ne avrebbe invece tratto la propria forza. Detto altrimenti, la lezione che un figlio impara quando si altera la realtà a suo beneficio è: “Sei troppo debole per fronteggiare questa cosa!” e “C’è qualcosa di sbagliato a cui bisogna rimediare!”. È il punto di vista della vittima. Al contrario, la lezione che si impara dall’ascolto attento è: “Mi fido di te, hai la forza per attraversare questa difficoltà, che sia accettarla o risolverla!”. È così che vostro figlio impara ad amare la vita anziché temere i suoi molti, e inattesi, risvolti.


Fintanto che l’autonomia del bambino sia rispettata, egli avrà la capacità emotiva di reggere al disappunto e far fronte agli ostacoli occasionali al proprio volere. I bambini a cui è stato insegnato che le cose si possono ottenere per mezzo di esternazioni emotive, provano un grande sollievo quando i genitori finalmente ascoltano la loro angoscia.

Ascoltare la rabbia del bambino

La rabbia è un sentimento che esprime biasimo e costringe a focalizzarsi fuori di sé, lontano dall’intimità dei propri pensieri e sentimenti. È il risultato del percepirsi vittime. Un bambino può arrabbiarsi per un giocattolo perduto, per la pioggia che gli impedisce di giocare, o per aver perso a un gioco di competizione. Nel puntare il dito contro qualcuno o qualcosa si rende impotente perché non può cambiare il passato, né controllare gli altri; in sostanza egli dichiara che la propria felicità dipende da forze esterne e che non c’è nulla che lui possa fare. Concentrarsi sull’esterno gli impedisce di guardarsi dentro e scorgere quei sentimenti su cui potrebbe esercitare un potere.


Un bambino infuriato si concentrerà su quanto siete stati cattivi ad avergli dato un passaggio in ritardo, ed eviterà di sentire la tristezza per aver perso una buona parte della partita di pallavolo. Tuttavia, affrontare il fatto che non abbia visto una parte del gioco è molto meno doloroso del disperato bisogno di tornare indietro nel tempo e controllare le azioni del padre. In realtà, la verità del momento è molto meno terribile del dramma della colpa che la mente vi aggiunge. Come si vede nella storia del primo capitolo (pag. 15), quella in cui Lizzie ha perso il suo programma preferito in Tv, la bambina viene a patti col dover restare nel negozio e non vedere il suo programma non appena passa dalla rabbia (biasimare la madre e concentrarsi su quello che è andato storto) all’essere presente e accettare la sua perdita: “Dunque ho perso il mio programma preferito”. La realtà è migliore della storia che uno si racconta, ed è più facile farsene una ragione.


Per assistere un bambino arrabbiato, fategli domande che lo aiutino a capire i pensieri che l’hanno portato alla rabbia e che lo metteranno in contatto con quei sentimenti che non sono associati al biasimo. Questi pensieri dolorosi sono, di solito, negazioni della realtà come “Non dovrebbe essere così” o “Non avrebbe dovuto rompermi il bastone”, o il desiderio di cose impossibili: “Voglio andare a casa” (quando non avete l’auto e dipendete da qualcuno che vi dia un passaggio), “Voglio essere il primo”, e via così.


Fate al vostro bambino arrabbiato domande che lo aiutino a stabilire un contatto con se stesso e a concentrarsi su pensieri e sentimenti che non siano associati al biasimo. Se, per esempio, si lamenta che il passaggio per tornare gli è stato dato troppo presto, potete avvalorare il sentimento inespresso: “Sei deluso perché volevi restare ancora al parco?”. Oppure, se biasima il fratello che doveva andare a calcio, potreste dire: “Ti senti frustrato perché volevi andare in biblioteca e non all’allenamento di calcio di tuo fratello?”. Se reagisce male alle parole che descrivono emozioni e si chiude, sentendosi trattato con condiscendenza, non usatele. Descrivete solo l’accaduto e quello che il bambino avrebbe voluto: “Volevi restare più a lungo al parco?” e “Oh, volevi andare in biblioteca e non a calcio! Capisco”. Dopodiché, ascoltate il suo modo di descrivere la propria esperienza e non la negate.


Appena sposterà l’attenzione su ciò che è presente nel suo corpo e nei suoi sentimenti, spesso accetterà la realtà senza sforzo; oppure, è possibile che trovi da sé soluzioni creative o accetti le vostre.


Una delle ragioni per cui spesso cerchiamo di calmare un bambino arrabbiato o di bloccare la sua emotività è perché immaginiamo che l’ascolto porterà via troppo tempo. In realtà, ci vuole troppo solo se egli non sente alcun sollievo. Biasimare non gli dà alcun sollievo, per quanta ragione possa avere, e avvalorare il biasimo non fa che fomentarlo ancor di più. Mettere l’attenzione su forze che risiedono al di fuori della persona ci fa sentire deboli e inetti; più ci si infuria e più si sprofonda nella fossa emotiva e dolorosa della vittima impotente.


Ricordiamocelo quando abbiamo a che fare con situazioni ormai irreparabili (un ginocchio sbucciato, la nonna che non è venuta) o su cui non abbiamo alcun controllo. Non possiamo fermare la pioggia per il piacere dei nostri figli e non sarebbe un bene se anche potessimo. Non possiamo neppure cambiare le persone e per questo aiutare un bambino a riconoscere i propri sentimenti lo preparerà meglio a relazionarsi; non passerà la vita cercando di cambiare gli altri perché rispondano alle sue aspettative. Piuttosto, imparerà a vivere con gli altri e farà le sue scelte senza pretendere di controllarli in alcun modo.

Per l’emergere dell’autoconsapevolezza, fate domande che aiutino il bambino a scoprire i pensieri, i significati e le paure che hanno provocato la sua rabbia. Le domande utili sono quelle che lo aiutano a percepirsi come la causa dei suoi stessi sentimenti (non di quello che è successo). Una volta che sia consapevole del proprio processo mentale, e in contatto con i sentimenti che ne derivano, gli sarà più chiaro (e lo sarà anche a voi) quali siano le soluzioni più feconde.


Potete usare una di queste domande base, ideate per esplorare i pensieri che generano rabbia e altre emozioni dolorose:

“Cosa pensi che significhi?”
“Come sarebbe, se fosse andata come volevi tu?”
“Qual è la cosa peggiore che può succedere?”
“Come avrebbe dovuto essere?”

Anche un bambino molto piccolo può fare chiarezza osservando il modo in cui parla a se stesso e che gli procura rabbia. Con i piccoli è necessario essere più specifici:

“Pensi che se ti dice ‘stupido’ tu lo sei veramente?”
“Come ti sentiresti se ora non ti avesse detto ‘stupido’?”
“Qual è la cosa peggiore che ti può capitare adesso?”
“Pensi che non avrebbe dovuto chiamarti ‘stupido’?”

Non appena il bambino osserva i pensieri che gli causano dolore, potete chiedergli come si troverebbe nella medesima situazione senza quelle idee. Allora si accorgerà che la causa della sua rabbia non è ciò che è successo, ma i pensieri che ha nutrito in proposito. È molto più facile convivere con quello che è successo, per quanto non voluto, che con i pensieri dolorosi e paurosi creati dalla mente. Senza il biasimo e la tragedia il bambino non dipende più da nessun altro per essere felice ed è probabile che ritrovi tutta la sua forza. Quando la realtà è irremovibile, aggrapparsi a pensieri dolorosi e volere l’impossibile causa sofferenza. I bambini questo lo capiscono in fretta, a meno che non insegniamo loro che valga la pena restare attaccati al dolore.


L’esempio che segue mostra come la domanda “Cosa significa per te?” possa aiutare un bambino a riconoscere le sue più profonde emozioni e ciò che le ha causate. Quando la madre lo aiuta a investigare la validità dei suoi pensieri, lui scopre che i significati da lui aggiunti sono stati causa di dolore e senso di impotenza:


Mario, dodici anni, è stato offeso dai fratelli più piccoli. Racconta alla madre Beth, genitore single, che loro lo disturbano di continuo e lo fa arrabbiare il fatto che non ci siano mai conseguenze per il loro comportamento. Beth gli chiede: “Vuoi che impedisca ai tuoi fratelli di darti fastidio?”


“Credo di sì”, inizia a dire, poi prosegue con maggior astio: “Fai qualcosa, non so, non fai mai niente! Sono talmente fastidiosi!”


Beth si rende conto che Mario è concentrato sul biasimo, la vendetta, la punizione, e che le sue domande non sono d’aiuto perché lui dà per scontato che la soluzione dipenda da ciò che lei dovrebbe fare ai fratelli, anziché da una sua maggiore consapevolezza della relazione che ha con loro.


“Credi che questo significhi che non mi importa di te?” domanda la madre (ed è la prima delle quattro domande utili).


“Sì, e che tu non mi vuoi bene!”

“Oh tesoro! Questo fa male!”, “Credi davvero che non mi importi di te quando non intervengo?” (controllo della validità del pensiero).

“No, so che ti importa!”


“Come ti sentiresti se non pensassi che non mi importa?” (Si individua il significato aggiunto come causa di dolore).


“Oh, non saprei, sono sempre fastidiosi ma posso farcela a gestirli da solo!”

“Allora quello che fa più male è il pensiero che non mi importi di te?”

“Hmm, sì, credo di sì!”, dice Mario e inizia a piangere. Poi, senza essere sollecitato, ride e dice: “Beh, so che mi vuoi bene!”. Beth lo abbraccia.

“Anche io li infastidisco!”, prosegue Mario, “Forse ho solo bisogno di stare un po’ di tempo lontano da loro e, se mi infastidiscono ancora, saprò io come fare!”


Quella sera indicono una riunione di famiglia e discutono dei modi per risolvere le dispute tra fratelli e rispettare il bisogno di Mario per la privacy. Dopo qualche suggerimento, Mario dice: “Lasciamo perdere, posso gestire la relazione con voi ragazzi, mi ero solo fissato con questa sciocca idea che mamma non mi volesse bene!”


La vicenda del momento di rado è il vero problema. Mario ha fomentato la propria rabbia dicendo a se stesso che la mancanza di intervento della madre significava che non le importava di lui. La sua rabbia non aveva niente a che vedere con i fratelli. Finché coltivava l’interpretazione per cui alla madre non importava di lui o non gli voleva bene, il tentativo di Mario di risolvere le cose con i fratelli non poteva che fallire; se avesse gestito la sua relazione con loro, la “storia” che si raccontava sulla madre sarebbe andata distrutta. Non appena si è assunto la responsabilità del significato da lui inventato, non ha avuto problemi a risolvere le questioni con i fratelli. Beth in seguito mi disse di aver avuto la sua personale rivelazione sul modo di esprimere l’amore. Aveva capito di non trascorrere tempo a sufficienza con Mario e aveva deciso di passare più tempo a tu per tu con lui.


Spostarsi dal biasimo alla consapevolezza e realizzazione di sé non significa che non agiamo per alleviare le ferite se necessario. Al contrario, la chiarezza porta a soluzioni efficaci. Ad esempio, se un bambino è arrabbiato perché odia il nuovo corso di ballo, può decidere di fare qualcosa. Quando ha chiaro cos’è che lo addolora, saprà se dovrà abbandonare le lezioni o cercare una soluzione diversa come cambiare posto alla sbarra o parlare con l’insegnante. Anziché privarlo della sfida, lasciate che se ne serva per diventare più consapevole e affermarsi attraverso l’azione. Facendo chiarezza anche voi imparerete molto e capirete se dovete intervenire oppure no.


Evitate di dire qualcosa che possa invalidare la rabbia di vostro figlio, frasi del tipo “Stai esagerando!” o “Perché sei così agitato? Non è successo chissacché!” Un bambino la cui rabbia venga sminuita, interiorizzerà l’immagine negativa di sé e potrebbe diventare sempre più risentito e insicuro. Ma soprattutto, si metterà ancor più sulla difensiva, incapace di intravvedere soluzioni positive. Nella storia precedente, se Beth avesse sminuito o negato la validità della rabbia di Mario, ai suoi occhi sarebbe apparsa ancor più incurante, e lui si sarebbe tenuto sempre più stretto al proprio punto di vista su di lei.


Per trattare con un bambino arrabbiato in modi che gli consentano di scoprire se stesso, dovete trattenere le vostre reazioni ed evitare di controllarlo o di aggiustare le cose. La vostra capacità di lasciar andare il controllo è un esempio di forza perché non soccombete alla vostra reazione mentale; vi concentrate su vostro figlio, passate dalla reazione alla creazione e dalla debolezza alla forza. La vera forza non è violenta ma tenera.

Rielaborare le antiche ferite

A volte i bambini, come gli adulti, hanno bisogno di ritornare agli eventi del passato per liberarsi dalla presa dolorosa che essi esercitano su di loro. Quando un dolore del passato viene stimolato da un accadimento presente, si sfogherà anche l’antico insieme al nuovo, spesso senza rendersene conto. È possibile che i bambini siano inconsapevoli di come un turbamento presente si ricolleghi a un evento passato, oppure potrebbero addirittura essere gli ideatori consapevoli della propria terapia. Sono ingegnosi nel creare situazioni che permettano loro di esprimere le proprie emozioni quando hanno l’attenzione di un ascoltatore amorevole, come dimostrato dalla storia che segue:


Io e Michelle parliamo nel suo soggiorno mentre il figlio Billy, sette anni, e la figlia Thea, di tre, giocano fuori. Tutto a un tratto sentiamo Thea strillare. Usciamo per capire cosa è successo e vediamo il triciclo di Thea riverso su un fianco nel prato, poi Billy annuncia di aver gettato a terra la bici di sua sorella.


Michelle si arrabbia e lo rimprovera: “Fino a quando pensi di poter andare in giro a buttare biciclette per terra?”


“Ma tu lo hai fatto!”, grida Billy.

“Non significa che puoi farlo anche tu!”, gli risponde irata Michelle.


Resto affascinata dal ripescaggio intelligente di un evento fastidioso del passato per poterlo risolvere. Dopo aver avuto il permesso da Michelle di sostenerla per rispondere alla spontanea sessione terapeutica del figlio, le metto con calma una mano sulla spalla e le ricordo: “Qualunque cosa sia, riguarda Billy”.


A quel punto, Billy mette tutte le carte in tavola: “Quando siamo andati quella volta in Minnesota tu mi hai buttato la bici per terra e si è rotta!”, dice guardando la madre e scoppiando a piangere.


Michelle avvalora la rabbia di Billy e gli dice: “Ho fatto cadere la tua bici, vedo che sei triste e arrabbiato, vuoi rispetto per le tue cose!”


Billy prosegue: “Eri arrabbiata con il nonno e per questo hai fatto cadere la mia bici, non è giusto!”


Accogliendo benevola il torrente di emozioni represse che riguardano l’episodio, Michelle ascolta e non oppone resistenza. “Hai ragione”, gli dice, “non sono stata giusta, ho espresso la mia rabbia prendendomela con la tua bicicletta”, e a quel punto Billy si getta sul prato in preda ai singhiozzi. Poi, quasi d’improvviso, così come è iniziata, la sessione terapeutica di Billy finisce e lui dice: “Okay, possiamo andare al parco adesso”, che era il nostro programma per il pomeriggio.


Billy non ha avuto neppure bisogno di esplorare la propria rabbia perché, non avendo trovato resistenze da parte della madre, è passato da solo alla componente emotiva priva di biasimo (la tristezza e le lacrime). I bambini spesso elaborano in fretta se li assecondiamo senza ostacolare il loro pensiero. Molte delle espressioni, delle azioni e dei comportamenti dei bambini rappresentano la continua manutenzione di un equilibrio emotivo. A differenza di quello che è accaduto in questa storia, in gran parte dei frangenti non c’è modo di riconoscere quello che il bambino sta ricreando. Che sia durante il gioco, o a tavola, al momento di andare a dormire o al parco, il bambino che cresce bene è in grado di aprirsi una propria strada verso la liberazione emotiva. È perlopiù contento perché è autonomo e libero di dar sfogo ai propri dolori.

La libera espressione del genitore

I bambini per natura si esprimono e non hanno il desiderio di nascondere i propri sentimenti. Per coltivare questo tratto naturale è necessario dare l’esempio manifestando anche noi le nostre emozioni. Essere vulnerabili ci avvicina ai nostri figli, fare i duri ci allontana invece da loro e insegna a isolarsi e diffidare.


Alcuni genitori temono che le proprie emozioni possano ferire i figli. In ogni caso, si può evitare di ferire gli altri con le parole pur non nascondendo i propri sentimenti. Facciamo soffrire gli altri quando li graviamo della responsabilità dei nostri sentimenti, o quando li comandiamo a bacchetta e poi ci arrabbiamo se non sono compiacenti.


Parlate in qualità di autori delle vostre emozioni e preferenze, e le vostre parole non feriranno nessuno. Se i ragazzi lasciano il tavolo in disordine e voi dite: “Mi sento come uno schiavo in questa casa!”, o “Non mi sento apprezzato!”, è probabile che vostro figlio reagisca ribellandosi o alterandosi; sono parole che gettano biasimo e colpa sugli altri, come se fosse compito dei figli soddisfare i nostri bisogni emotivi. Se invece dite: “Non mi piace pulire da sola dopo cena, vorrei che qualcun altro partecipasse!”, non state biasimando nessuno e chiedete ciò che vi serve. Se vostro figlio non si sente responsabile per i vostri sentimenti, non sarà ferito dalle vostre parole. Non ammantate di moralismi le vostre necessità: “Dovreste aiutare!”, o “Dovete imparare a fare la vostra parte!” non rappresentano una comunicazione onesta. Parlate con onestà: “Ho bisogno del vostro aiuto, vi va di pulire il tavolo?”


Dopo aver comunicato così, rispettate la scelta autonoma di vostro figlio, qualunque sia. Non è suo dovere venire incontro ai vostri bisogni, anche se state facendo qualcosa per lui. Siete voi che volete pulire, a lui non importa. Deve poter scegliere senza rischi, senza il timore della vostra reazione o l’obbligo di compiacervi, agendo in base a un desiderio autentico che gli porterà gioia e soddisfazione. Quando la sua scelta confligge con le vostre aspettative, trattatelo con dignità e discutete le sue preferenze e le vostre finché non arrivate a una soluzione che rispetti entrambi. In genere, avere aspettative intralcia la capacità di abbracciare il fluire della vita, così come si presenta, e di amare vostro figlio senza condizioni. Se dite “sì” a quello che la vita vi offre, la relazione che avete con il coniuge, i figli e le altre persone prospererà. Ancor più importante, se vostro figlio sceglie di non aiutarvi, vi offre un’opportunità di imparare di più sui pensieri che vi causano dolore. Quando pensate: “Dovrebbe aiutare” e lui non lo fa, potete farne tesoro per riuscire a liberarvi dagli imperativi che coltivate dentro di voi. Senza quell’aspettativa come vi sentireste?


I genitori spesso protestano di fronte a questo genere di suggerimenti e dicono: “Ma deve prepararsi per uscire!”, o “Ma deve dormire all’ora giusta!” e “Non posso certo fare tutto io!”, o altri esempi di cose che sembrano del tutto inevitabili. Se vi esprimete in un modo che lascia libertà emotiva ai figli, loro possono collaborare, anziché essere soggetti compiacenti. A vostra volta, scoprirete che molte delle cose che si percepiscono come un dovere, si possono cambiare. Magari potreste andare a fare le commissioni quando vostro marito è a casa con i bambini, oppure rendere divertente l’uscita; magari è possibile trovare soluzioni per l’ora in cui si va a dormire, i pasti, le faccende di casa e altre fonti di conflitto. A volte fare le cose da soli richiede meno tempo ed è più rilassante. È più facile insegnare la tranquillità e la partecipazione se vi esprimete con autenticità, e l’unica persona in riferimento alla quale potete essere autentici siete solo voi.


Esprimete la vostra persona, non quella di vostro figlio. Non appena biasimate, moralizzate o comandate perdete il contatto con i figli. Se vi aspettate compiacenza, loro resisteranno, se invece avete cura di voi stessi loro vi ascolteranno e sceglieranno per sé. Potete rispettare le loro scelte perché il ruolo che impersonate è il vostro, non il loro.


La capacità di un bambino di rispondere ai vostri bisogni è in relazione diretta con il modo in cui vi esprimete. Se implicate che vostro figlio è responsabile dei vostri sentimenti, lui ne sarà sopraffatto e minacciato, al punto che potrebbe restare paralizzato dal peso di questa responsabilità e incapace di relazionarsi alle vostre aspettative. Ecco alcune frasi tipiche che attribuiscono al bambino la responsabilità dei nostri sentimenti:

  • Tu mi fai sentire…

  • Non mi sento apprezzata.

  • Mi fai arrabbiare.

  • Sei frustrante.

  • Non sopporto il tuo…

  • Quando sei così fastidioso, mi fai venire il mal di testa.

  • Mi fai impazzire.

  • Non ce la faccio a gestirti.

  • Io sono già esausto, non la smetti mai di…

Possiamo anche attribuire una colpa senza usare parole o in modi più sottili grazie alle espressioni del volto e al linguaggio del corpo. Fate una vostra lista personale diventando consapevoli delle frasi e delle espressioni che usate per generare il senso di colpa. La consapevolezza delle frasi che usate con tono di biasimo vi aiuterà a evitarne l’uso.


Talvolta i genitori desiderano proteggere il figlio dalle loro emozioni più intense, e nondimeno dirgli che state bene quando è palese che state per esplodere, gli insegnerà a reprimere o nascondere le emozioni forti, e a temerle. Inoltre il bambino, che deve indovinare il perché del vostro sconvolgimento, centrato su se stesso per natura, è possibile che pensi di esserne lui la causa, oppure concluderà che si debba essere insinceri quando ci si sente male, o immaginerà qualche altra interpretazione deprimente.


Se siete capaci di essere presenti con vostro figlio senza manifestare il vostro disagio interiore, non è necessario che lo mostriate. Se invece i vostri sentimenti sono palesi, evitate di spaventarlo con dettagli superflui e non trasformatelo nel vostro confessore o terapeuta. Potete condividere le vostre emozioni e tutti i dettagli che vostro figlio è in grado di conoscere senza traumi.


Parlate dei vostri sentimenti, senza lamentarvi o biasimare chicchessia. Ad esempio, se arrivate a casa pronti a esplodere, potreste dire: “Sono furioso per una cosa che è successa in banca, devo urlare!”. Oppure, se avete saputo che un vostro amico è malato, potreste dire: “La mia amica Tova è molto malata, mi sento spaventata, ho bisogno di un po’ di tempo da sola e di chiamare il mio counselor!”. A volte potreste aggiungere: “Non ha niente a che vedere con te, so come cavarmela!”, simili semplici spiegazioni impediscono al bambino di sentirsi in colpa e spesso, se si sente protetto da questo punto di vista, mostrerà premura e interesse.


È cruciale che riconosciate il vostro bisogno di sfogare le emozioni forti. Se avete un coniuge o un amico che può darvi tempo e attenzione fate in modo che vi aiuti. Se dovete prendere un appuntamento con un terapeuta potete spiegare a un figlio sbigottito che parlerete dei vostri sentimenti più profondi con qualcuno che vi aiuta, oppure che ve ne occuperete per conto vostro. Se lo fate da soli, seguite le linee guida indicate nel primo capitolo.


Non è solo il modo con cui vi relazionate ai figli che dà l’esempio di come ci si esprime. Anche l’interazione con il vostro coniuge o compagno, o con altri adulti e bambini, rappresenta un modello costante. Imparate a mostrare la tenerezza e la profondità dei vostri sentimenti senza ferire nessuno. Vederci piangere, lottare con l’ambivalenza e dar voce ad altre emozioni difficili, farà sì che il bambino mantenga la libertà di esprimere anche i suoi sentimenti più violenti, diventando più forte e libero dal punto di vista emotivo.


Non dovete proteggere i figli dai sentimenti forti, solo evitare di collegarli a un giudizio su di loro o su altri. Se giudicate o biasimate, riconoscete il vostro errore e fate ammenda. I soli sentimenti da non condividere con un figlio sono le ansie genitoriali, che lo spaventerebbero perché riguardano la salute e la sicurezza sue o di altri membri della famiglia: “Ho paura che si faccia male!”; oppure pensieri che possano alterare la percezione che ha di sé: “Temo che non ce la farà!”; o ancora preoccupazioni sul suo benessere: “Si ammala così facilmente, ho paura per lui!”


Osservando il modo in cui vi esprimete senza dare ad altri la responsabilità dei vostri sentimenti, imparerà che non ci sono rischi nell’esprimersi appieno, che si tratta di una cosa accettabile. Così facendo, conoscerà se stesso e sarà in grado di seguire la sua strada; avrà la capacità di esprimere le emozioni e andare oltre. Non possiamo far scudo ai nostri figli evitando loro le sfide della vita, ma possiamo essere d’esempio amando la realtà e dando loro quella libertà di autoespressione che è la pietra angolare della resilienza emotiva.

Crescere i nostri figli crescere noi stessi
Crescere i nostri figli crescere noi stessi
Naomi Aldort
Eliminare i conflitti e i litigi con i nostri bambini grazie all’amore incondizionato.Un approccio efficace per costruire relazioni autentiche e gratificanti con i propri figli, senza ricorrere a punizioni e minacce. Crescere i nostri figli, crescere noi stessi prende le mosse da una premessa radicale: né il bambino né il genitore devono dominare.Un libro di Naomi Aldort, famosa esperta di genitorialità, per tutti coloro che desiderano smetterla con i rimproveri, le minacce, le punizioni e vogliono rinunciare al controllo in favore dell’autenticità. Conosci l’autore Naomi Aldort è un’esperta di genitorialità; i suoi articoli, le sue conferenze e consulenze sono note a livello internazionale. Genitori da ogni parte del mondo approfittano della sua guida, per telefono o di persona.Cura il sito authenticparent.com