capitolo I

Parola per creare
un legame e risanare

Le parole che scegliamo quando interagiamo con i bambini hanno il potere di lenire o ferire, di creare un distacco o favorire l’intimità, di impedire l’espressione dei sentimenti o di toccare il cuore e aprirlo, di spingere alla dipendenza o tirar fuori la forza che è in ciascuno di noi.


Eccone un esempio:


Un giorno sono a fare la spesa in un negozio di prodotti biologici e sento piangere un bambino. Seguo il pianto e trovo una bimba, di quattro anni circa, stesa per terra a gemere e singhiozzare. Sembra sola; dò una rapida occhiata in giro e la commessa al banco risponde alla mia muta domanda:


“Non so dove sia la madre, forse quel ragazzino è suo fratello.”

Il fratello della piccola ha circa nove anni ed è in piedi in mezzo alla corsia, vicino a un carrello. Mi siedo sul pavimento accanto alla bambina, cercando di scoprire perché piange.

“È da tantissimo che aspetti di uscire da questo negozio?”, le chiedo.

“Sì”, mi risponde.

“Vorresti andare subito a casa?”

“Sì”, dice singhiozzando ancora più forte.

“Ci vuole un sacco di tempo e la mamma sembra tanto lenta”, aggiungo.

“Sì”, è la risposta, e stavolta la bambina mi guarda con i suoi occhioni pieni di lacrime.

“È dura starsene in un posto così noioso e aspettare tutto questo tempo”, ribadisco.

“Uh-huh.”

A quel punto il fratello viene verso di noi e con un gesto d’impazienza dice: “Forza, Lizzie, alzati adesso!”

Mi rivolgo a lui: “Anche tu sei stanco di aspettare la mamma?”

“Sì”, risponde, e poi aggiunge: “Soprattutto quando in Tv fanno il nostro programma preferito”.

“Oh”, dico, “vi state perdendo il vostro programma preferito?”

“Sì”, si fa avanti Lizzie, raccontandomi di cosa si tratta.

“Che disdetta!”, riconosco, “e quando lo trasmetteranno la prossima volta?”

“Domani”, rispondono all’unisono, “Lo fanno tutti i giorni”, aggiunge il bambino.

“Avete paura di non riuscire a capire cosa vi siete persi?”, domando, pensando che temano di non riuscire a seguire la trama.

“Sì”, dice Lizzie, e il fratello annuisce. Poi Lizzie si alza, io mi presento e la bimba mi abbraccia con trasporto. “Sono proprio felice di averti incontrata”, le dico. Lei sprofonda fra le mie braccia e io resto in piedi con lei in braccio. È tranquilla e suo fratello le si accosta per dirle: “Lizzie, sono sicuro che scopriremo quello che è successo nella puntata di oggi”. Lizzie fa un bel sorriso.


In quel momento arriva la madre e mi ringrazia dell’aiuto.

Le parole che leniscono non devono cambiare per forza lo stato delle cose. Lizzie non è potuta tornare a casa quando voleva e ha continuato a sentire la mancanza del suo programma preferito. Quello che è cambiato è il suo stato d’animo e il modo in cui ha trascorso il resto del tempo nel negozio. Di solito, il linguaggio comune tende a negare ogni affermazione dei bambini. Vediamo come sarebbe stata la conversazione con Lizzie se io, “con amore e gentilezza”, avessi negato i suoi sentimenti.


Supponiamo che, mentre era stesa sul pavimento a singhiozzare, le avessi chiesto: “Perché piangi?”. Chiedere “perché” mette il bambino sulla difensiva e implica che non vediamo un motivo per cui dovrebbe piangere, quando invece, di solito, ai bambini sembra ovvia la ragione delle proprie lacrime. “Perché” potrebbe persino implicare un’accusa ingiuriosa: “Ci dev’essere qualcosa di sbagliato in te se piangi per una cosa simile”. Ai fini dell’esempio, immaginiamo che Lizzie avesse risposto alla mia domanda con un “Voglio tornare a casa.”


“Sono sicura che la mamma non ci metterà molto”, avrei potuto dirle, “Ti faccio vedere una cosa?”


Di primo acchito, l’ultimo scambio di battute sembrerebbe innocuo, eppure nega i sentimenti di Lizzie non una, ma ben due volte. Anzitutto, secondo Lizzie la mamma ci sta impiegando tanto tempo a fare la spesa; affermando il contrario, avrei contraddetto il suo senso di impazienza. Inoltre, proponendole di distrarla dal suo disagio avrei sottinteso: “Facciamo finta che tu non ti senta disperata e facciamo credere che ti stia divertendo”. In questo modo, negheremmo sia il suo bisogno di essere presente alle proprie emozioni, sia il desiderio di parlare di ciò che la turba o le fa piacere.


Se Lizzie accetta la distrazione, questo potrebbe farla smettere di piangere per un po’, tuttavia, poiché il disagio che prova è ancora forte e i sentimenti sono ancora negati, la distrazione, per quanto accattivante, non potrà soddisfare i suoi bisogni emotivi.


Sempre ai fini della storia, supponiamo che Lizzie non ceda alla distrazione e pianga ancora più forte: “Voglio andare subito a casa, voglio vedere il mio programma in Tv!”


“Sono sicura che potrai vedere il tuo programma un altro giorno”, continuerei a negare, “E poi troppa televisione non fa bene!”


A questo punto, l’avrei talmente alienata da me che avrebbe solo voluto sfuggirmi. Avrei minimizzato il suo senso di impazienza, tentato di distrarla dai suoi veri sentimenti e implicato che non avesse motivo di disperarsi; di conseguenza, sarebbe stato improbabile che lei continuasse a esprimere le proprie emozioni o a chiedere ciò di cui aveva bisogno, perché non mi avrebbe sentito dalla sua parte.


La mia conversazione con lei sarebbe potuta durare all’infinito perché negare non risolve nulla, esaspera piuttosto le emozioni dolorose in quanto il bambino è costretto a difendere la propria storia. Alla fine, avrebbe trovato un modo per liberarsi di me, sentendosi ancor più disperata di prima.


Quando i bambini percepiscono che possono essere autentici, che va benissimo sentire quello che sentono, e quando vedono che teniamo al loro punto di vista, saranno spesso i primi a trovare una soluzione al problema, o a far pace con la realtà. Al contrario, quando i loro sentimenti sono negati e respinti, può diventare impossibile risolvere le difficoltà. Sono arrabbiati poiché si percepiscono come vittime.


Nello scenario che abbiamo immaginato, avrei alienato Lizzie a tal punto che sarebbe stata costretta a trasferire la sua giusta rabbia sulla madre, peggiorando lo stato di entrambe. D’altro canto, quello che invece è successo con me presente è che Lizzie si è sentita sollevata quando i suoi sentimenti sono stati legittimati, e ha infine accettato l’idea di dover perdere il suo programma preferito.

Legittimare i sentimenti funziona?

“Ho legittimato i sentimenti di mia figlia, ma non ha funzionato”, mi disse Annie con un sospiro affranto.


“Volevi che tua figlia smettesse di fare una scena e invece non è successo?”, le domandai.


“Sì”, ammise Annie, “e non ha rimesso a posto le costruzioni.”

Avvalorare le emozioni è di per sé un risultato, non è un metodo per controllare o modificare il corso di un comportamento o di un sentimento negativo del bambino. Al contrario, legittimare e concentrarsi nell’ascolto sono il nostro modo di permettere al bambino di esprimersi in tutta tranquillità; è il nostro modo di offrire amore, intimità e amicizia. Il risultato è che il bambino si sente al sicuro, entra in contatto con i propri sentimenti e si esprime appieno.


Il risultato immediato più probabile è magari il pianto, una crisi o altre forme di espressione di sé. Nella situazione reale con Lizzie, quando ho riconosciuto i suoi sentimenti, lei ha risposto singhiozzando ancor di più, e sfogando tutto il dispiacere. Solo dopo aver pianto tutte le sue lacrime e aver parlato dei suoi bisogni si è calmata e ha potuto affrontare la realtà. Se un riconoscimento simile proviene dal genitore anziché da un estraneo è possibile che il bambino pianga ancora più a lungo, sfogando gli antichi dolori insieme ai nuovi. I bambini le cui esperienze e i cui sentimenti sono avallati potrebbero piangere o arrabbiarsi di più proprio perché il vostro appoggio dà loro il permesso di esprimere sentimenti molto profondi. Una volta terminato lo sfogo, però, spesso procedono per la loro strada senza sentimenti negativi residui.


A volte legittimare i sentimenti porta a una risoluzione veloce perchè la difficoltà è momentanea e il bambino si sente subito sollevato. Se invece l’espressione del dolore si accresce, restategli accanto e sostenetelo. Non siate voi la causa dell’angoscia e offrite invece amore e appoggio perché si sfoghi quanto è necessario. Se vi sentite a disagio per via dell’intensità delle emozioni, ricordate a voi stessi che la dedizione in questo momento è tutta rivolta al bambino e al suo senso di fiducia in se stesso e in voi, non alla vostra tranquillità. Grazie a questo processo di autoconsapevolezza, il bambino impara a conoscere e aver fiducia in se stesso; le emozioni e la loro espressione, anche quelle molto intense, gli sembreranno meno spaventose.


Non solo il bambino diventerà padrone delle proprie emozioni e dei propri bisogni, ma quando questi vengono riconosciuti anche voi scoprirete di capirli meglio ed entrambi ne uscirete rafforzati e più uniti. Svilupperete un maggior rispetto per il percorso individuale del bambino e una visione più lucida del vostro essere genitori. Un profondo legame di fiducia si instaurerà fra voi e verrà trasposto nelle altre relazioni di vostro figlio per il resto della sua vita. Se avrà fiducia in se stesso e nessun timore dei propri sentimenti, potrà contare su doti di resilienza e compassione per affrontare gli alti e bassi della vita.


Quando avvalorate i sentimenti, evitate di drammatizzare o aggiungere le vostre personali reazioni emotive. Drammatizzando, il bambino tende a tuffarsi ancor più nelle profondità della propria storia; se percepisce la nostra benevolenza, potrà piangere e arrabbiarsi senza remore e poi osservare il proprio “dramma” e riderne, o almeno andare oltre con un atteggiamento positivo.


Lizzie e suo fratello si sono fatti una ragione della realtà perché hanno ricevuto pieno ascolto ma allo stesso tempo non è stato fatto un dramma della loro storia. Ho evitato di dare enfasi alla cosa, non l’ho giudicata, né ho offerto vie d’uscita, il che avrebbe implicato che la situazione era negativa. I bambini abbandonano la tristezza di slancio se vengono ascoltati con benevolenza, e dopo aver dato libera espressione alle proprie emozioni.

La comunicazione S.A.L.V.E.

Molti genitori mi chiedono quali siano le esatte parole che li aiuterebbero a passare da un atteggiamento che nega a uno che offre riconoscimento e rafforza. La formula S.A.L.V.E. può rivelarsi un utile strumento nel realizzare questo passaggio e offrire sostegno alle esperienze del bambino, così che esprima le proprie emozioni con forza e autenticità.


S - Separate (separare). Ossia distaccarsi dal comportamento e dalle emozioni del bambino con una silenziosa chiacchierata mentale. È il passaggio più difficile; una volta compiuto, il resto scorre con facilità. Fateci caso, quando le azioni di vostro figlio vi provocano una reazione, è la vostra mente a mettervi in bocca le parole. È come un computer che avvii un programma in automatico: il bambino fa qualcosa e nella vostra mente si apre subito una finestra. Sarebbe un meccanismo innocuo se quelle parole non venissero lette ad alta voce. Se siete sconvolti, saranno le cose sbagliate da dire o fare e aggraveranno solo la situazione. Non è quello che vorreste dire davvero. Non rappresenta le vostre vere intenzioni, perciò manca di autenticità. La prova dell’inautenticità è che in seguito vi pentirete delle vostre parole e delle vostre azioni, che erigono un muro fra voi e vostro figlio.


Per evitare di ferire vostro figlio, leggete in silenzio le parole che vi si affacciano alla mente, potete soffermarvici e lasciare che facciano il loro pieno corso, comprese immagini, azioni che vorreste mettere in pratica o ricordi del passato. Ci vorrà meno di un minuto e non farà male a nessuno. Quello che sentirete appartiene solo a voi e non c’è ragione perché si trasformi in azioni o espressioni verbali. È una vecchia storia e non rappresenta ciò che siete al momento.


All’inizio, questo processo di investigazione potrebbe richiedere più di un minuto; iniziate prendendo nota dei vostri pensieri e accettandoli, scriveteli per elaborarli con più agio in seguito. Col tempo, acquisirete un maggior controllo della vostra mente e sarete in grado di elaborare il tutto sul momento.

Investigazione:

  • Verificate la validità delle parole che vi scatenano rabbia, turbamento, preoccupazione o giudizi critici. Sono davvero le vostre parole? Credete davvero in esse? Pensieri come: “Non imparerà mai”, “Non dovrebbe comportarsi così”, “Dovrebbe sapersi prendere le sue responsabilità”, sono vecchie registrazioni con cui forse non siete più d’accordo. Forse sono modi di dire altrui, o rappresentano le vostre paure, i vostri ricordi, o ciò a cui aspirate per voi stessi. Che sia l’una o l’altra cosa, non fanno che intralciare la vostra capacità di amare e capire vostro figlio per quello che è.

  • Fate caso all’effetto che questi pensieri hanno su di voi quando li prendete sul serio. Osservate mentalmente il modo in cui trattate vostro figlio quando obbedite al loro comando.

  • Considerate chi sareste se quei pensieri non vi attraversassero la mente. Senza di loro, sareste liberi di rispondere a vostro figlio anziché ai vostri processi mentali. Immaginate di far fronte alla stessa situazione, ma senza il bisogno di negare e controllare indotto da quei pensieri. I pensieri resterebbero, sono i vostri, ma immaginate di non averli; senza il limite imposto da loro, l’amore incondizionato del vostro io reale riemergerebbe.

  • Provate a vedere se quello che la mente vi racconta a proposito di vostro figlio non sia altrettanto vero per voi. Di solito vediamo negli altri le cose che avremmo bisogno di ascoltare per il nostro bene. “Non dovrebbe comportarsi così” diventa “Non dovrei comportarmi così… con mio figlio”. “Non imparerà mai” potrebbe anche essere un richiamo all’osservazione del vostro ritmo di apprendimento come genitori, e “Dovrebbe responsabilizzarsi” potrebbe guidarvi verso la capacità di essere responsabili nei confronti delle vostre reazioni mentali e degli altri aspetti della vostra vita.

Una volta che siate consapevoli dei pensieri che vi sviano, scoprirete di non essere altro che amore incondizionato; anziché prigionieri dell’ansia, sarete presenti insieme al bambino e al vostro amore, che non è mai venuto meno. Rimosso il ciarpame della mente, la vostra luce più autentica brillerà senza ombre e vostro figlio sarà visto sotto quella luce amorevole.


A - Attention (attenzione). Rivolgete l’attenzione al bambino. Dopo aver investigato in silenzio la vostra conversazione mentale (che non ha nulla a che vedere con vostro figlio), spostate l’attenzione dal vostro monologo interiore e da voi stessi al bambino.


L - Listen (ascoltare). Ascoltate quello che dice il bambino o quello che indicano le sue azioni; poi ascoltate ancora. Guardatelo negli occhi e fategli quelle domande che gli consentano di parlare un altro po’, oppure, se il bambino non si esprime verbalmente, fategli intendere che lo capite.


V - Validate (avvalorate). Avvalorate i sentimenti e i bisogni espressi dal bambino, riconosceteli senza drammatizzare e senza aggiungere la vostra percezione. Ascoltare e legittimare sono gli ingredienti dell’amore (LV - Love). Riuscire in questo significa creare un legame con il bambino e vi farà sentire autentici e presenti a voi stessi.


E - Empower (mettere in condizione di…). Fate in modo che il bambino risolva da sé il proprio sconforto, toglietevi di mezzo e confidate in lui. Mostratevi fiduciosi nelle sue risorse senza essere tesi e con l’ansia di voler risolvere ogni cosa. I bambini trovano da soli soluzioni, idee e richieste se si sentono capaci, se gli altri hanno fiducia in loro e se sono liberi dalle aspettative o dalle emozioni dei genitori. I sentimenti intralciano la capacità di agire in modo proficuo, ma se vengono espressi il bambino riguadagna la propria libertà e il proprio centro ed è in grado di trovare una soluzione o di accettare la realtà delle cose. Con rapidità e naturalezza compirà lo stesso processo che avete compiuto voi con l’autoinvestigazione.

Clint, nove anni, piange perché la sorella non ha voluto finire di giocare a Monopoli con lui. “Voglio finire il gioco. Stavo per vincere!” si dispera.


Ella, la mamma, è pronta a riportare giustizia ma si prende tutto il tempo per separare le sue reazioni personali dalla disputa dei figli e lascia scorrere il suo monologo interiore (la S di S.A.L.V.E.). Si immagina mentre sgrida Joy, dicendole che è sgarbata e irrispettosa, ordinandole di finire il gioco. Dopo aver esaminato i suoi pensieri le è chiaro che non è vero; sua figlia non è affatto sgarbata e la sua capacità di affermare se stessa è una buona cosa. È ora in grado di lasciar perdere i propri pensieri e di dare attenzione e ascolto (la A e la L) a Clint.


“Allora, eri molto eccitato perché avevi la possibilità di vincere? Sei dispiaciuto di non aver potuto finire il gioco?”

“Sono arrabbiatissimo, voglio finire il gioco!”, insiste Clint.

“Ho sentito che tu vorresti continuare a giocare ma Joy non vuole.”

“Ma stavo per vincere… è per questo che lei si è fermata!”.

Ella continua a offrire riconoscimento e ascolto, ma non muta la realtà per Clint. Ha lasciato a lui il potere di giungere a una risoluzione, non si è intromessa per aggiustare le cose con frasi del tipo: “Non mi pare ci sia un problema e sono sicura che puoi riuscire a gestire la situazione.”

Dopo un po’ Clint si è sfogato e inizia una conversazione diversa.


È stato ascoltato, si è sentito in contatto con sua madre che ha riconosciuto i suoi sentimenti e ha ribadito i fatti così come lui li percepiva. Non ne ha fatto un dramma, né ha mescolato ai fatti le proprie emozioni e opinioni. La sua fiducia e la sua solida presenza hanno consentito a Clint di procedere oltre.

Bambini piccoli, emozioni e parole

Parlare di sentimenti come la tristezza, la rabbia o il disappunto non sempre è un modo per farsi capire dai più piccoli. Per loro è più facile sentirsi riconosciuti quando le parole riguardano solo i fatti. In una seduta telefonica, una mamma mi raccontò la sua esperienza con la figlia in piscina.


Orna (5 anni) esce dall’acqua piangendo disperata perché vuole restare ancora. Ma è ora di chiusura e sua madre, Donna, la veste per andar via. Mentre la veste, si aiuta con i semplici fatti per dare riconoscimento all’esperienza della piccola:


“Ti piace giocare nell’acqua. Volevi giocare ancora?”

“Sì, voglio fare ancora i tuffi!”, risponde Orna.

Donna prosegue: “Lo so, non volevi uscire dall’acqua e invece ci hanno detto che dovevamo andar via.”

Orna smette di piangere e dice: “Mi piace la piscina.”

“Sì” risponde la mamma, “e non ti piace dover uscire dall’acqua.”

“Mamma” risponde calma Orna, “non mi importa più, voglio andare a casa.”


Donna ha solo descritto i fatti e Orna ha subito compreso e si è sentita soddisfatta. Dal canto loro i bambini non si aggrappano alle emozioni dolorose. Passano oltre con facilità perché non hanno un carico di storia che aggrava i sentimenti. Evitiamo di insegnare loro quell’arte cara agli adulti di crogiolarsi nel proprio dolore. A volte gli adulti insistono nel voler far sentire in colpa gli altri, o nel biasimare la cultura o il governo. Sono certa che non siano queste le abilità che volete insegnare ai vostri figli. Avvalorate i loro sentimenti ma aspettatevi che sappiano passare oltre, che non prendano le proprie emozioni troppo sul serio, e seguite il loro esempio. Le emozioni sono un modo per buttare fuori, proprio come il sudore e la peristalsi intestinale. Non intralciano più quando sono riconosciute, proprio come il sudore portato via dall’acqua. Quando il bisogno di comprensione del bambino è soddisfatto, egli saprà passare oltre. La sua capacità di procedere gli impedirà di restare aggrappato all’evento e di trasformarlo in una storia che potrebbe influenzare in modo negativo il suo atteggiamento per il resto dell’esistenza.

Quando la legittimazione diventa un insulto

Talvolta, riconoscere e legittimare può negare il senso di autonomia e riservatezza del bambino. Le vostre parole amorevoli possono essere percepite come un insulto se egli è sconvolto per qualcosa che avete detto o fatto; potrebbe anche infastidirlo indipendentemente dalle cause del suo disappunto. Ha bisogno della libertà di scegliere se esporre o meno i propri sentimenti. Potrebbe non volere che vengano menzionati i fatti che sono causa del suo disagio. In sostanza, è come se il bambino dicesse: “Quando sono sottosopra, lasciami stare, ma non dirmi che mi vedi”. Quando il bambino ha questo bisogno di ascolto silenzioso, ogni nostra parola potrebbe imbarazzarlo.


Amber, cinque anni, costruisce una torre. La torre cade e lei si innervosisce. La nonna arriva e le dice: “Oh, ti senti frustrata? Non volevi che cadesse?”

Amber dà una spinta al resto dei mattoncini ancora in piedi e urla: “Non parlare!!!”


La nonna si siede lì accanto in silenzio, capendo di aver sbagliato, poi Amber si getta a terra e con rabbia scaraventa i mattoncini da tutte le parti, urlando: “Stupidi mattoncini, stupido pavimento, stupida me!”. Lancia in giro per tutta la stanza altri mattoncini, la nonna è silenziosa ma presente e Amber risponde alla sua attenzione esprimendosi appieno. Quando ha finito si alza, raccoglie i mattoncini e con calma ricostruisce la torre.


Silenzio non significa indifferenza. È sufficiente essere attenti senza farne menzione; anche quando un bambino è spaventato o imbarazzato nominare i suoi sentimenti lo mette a disagio. In simili circostanze, si può o non dire niente e restare attenti, o rassicurare il bambino rivelando la nostra umanità con il racconto di situazioni analoghe che ci sono accadute nella vita, come ha fatto Adi:


Mentre Adi lavora in giardino, sua figlia Ruthi di quattro anni entra in casa per versarsi un bicchiere di latte. Un po’ di latte si rovescia sul tavolo e sul pavimento. Quando Adi rientra e vede il latte versato è pronto a prorompere in un: “Perché non mi hai chiesto aiuto? Sai che non puoi farlo da sola!”. Invece fa un respiro profondo; si accorge delle parole che passano silenziose nella sua mente (S di S.A.L.V.E.) e di quanto siano inutili. Poi rivolge la sua attenzione (A) a Ruthi; capisce che ha cercato di non interrompere il suo lavoro e di versarsi il latte senza chiedere aiuto. Si avvicina ancora un po’ e dice allegro: “Vedo che hai provato a versarti il latte da sola!”


“Sì, ma un po’ si è versato”, risponde Ruthi, e solleva lo sguardo verso suo padre con fare interrogativo.


“È successo anche a me a casa del nonno l’altro giorno”, le dice Adi, “ho rovesciato del succo e mi sono sentito maldestro, ma il nonno ha sorriso e mi ha dato un tovagliolo; pulire è facile!”


Ruthi torna correndo dalla cucina con un tovagliolo e lo porge al padre. Non è il genere di tovagliolo che Adi userebbe per pulire un pavimento, tuttavia lo accetta con un sorriso e asciuga il latte.


Riconoscendo la conquista di Ruthi che ha voluto versarsi da sola un bicchiere di latte, Adi l’ha trattata nello stesso modo in cui avrebbe trattato un ospite che senza volere avesse spanto del latte. Ammettendo la sua stessa goffaggine, è riuscito ad avvalorare i sentimenti di Ruthi senza metterla in difficoltà con parole che avrebbero reso esplicite le sue emozioni. Scoprire che anche il padre a volte è maldestro, la fa sentire a suo agio. Quando è tornata con il tovagliolo “sbagliato”, Adi non l’ha criticata né ha cambiato il tovagliolo. In questo esempio, il latte versato ha creato un legame più profondo fra padre e figlia, mentre la dignità e l’autostima della bambina sono rimasti intatti.

Sentimenti di rabbia, parole d’amore

A volte, nonostante le migliori intenzioni di essere gentili e amorevoli, quello che proviamo verso il bambino è solo rabbia e risentimento. L’elemento scatenante non deve per forza essere chissà che; ognuno di noi custodisce i propri ricordi di dolore o vergogna che affiorano quando dobbiamo fare i conti con situazioni anche solo lontanamente simili.


Non dobbiamo per forza ricordare qualcosa, ma le emozioni associate a quelle esperienze ci invadono la mente. La formula S.A.L.V.E. (Distaccarsi, osservare con attenzione, ascoltare, avvalorare, lasciar spazio alle forze del bambino) può essere usata dando enfasi speciale al primo passaggio.


La rabbia e le reazioni violente tendono a coprire altri sentimenti dolorosi. Spesso si tratta di sentimenti di cui non siamo consapevoli a causa del timore e del disagio che affondano in esperienze passate. Se, quando eravamo bambini, non potevamo esprimere la tristezza, piangere, chiedere attenzione o esprimerci appieno, è probabile che certe emozioni siano state soppresse tanto tempo fa. Quello che accade nel presente è un automatismo: i sentimenti dolorosi vengono “archiviati” all’istante mentre la rabbia si mette in primo piano perché è più accettabile e ci fa sentire meno vulnerabili di quando mostriamo il pianto o la tristezza.


La rabbia però non ci concede il sollievo di cui abbiamo bisogno perché si focalizza sul biasimo. Concentrare l’attenzione al di fuori di noi (con il biasimo) ci impedisce di percepire le nostre emozioni più vulnerabili.


A meno di non investigare i pensieri che causano la rabbia, resteremo delle creature incompiute e spesso più arrabbiate e più attaccate alla posizione dolorosa di vittime (che biasimano l’altro).


Prima di agire o dire qualsiasi cosa in risposta a un comportamento inaspettato di vostro figlio, pensateci due volte (monologo interiore). Non dite le prime parole che vi vengono in mente, con ogni probabilità sarebbero quelle che ferirebbero vostro figlio e acuirebbero il conflitto; anche se non spariranno dalla vostra testa, vi abituerete a lasciarle sotto forma di pensieri, a non prenderle per vere. Potete persino farvi aiutare da vostro figlio in questo processo. Chiedetegli di ricordarvi: “Mamma, prendi tempo”, o “Papà, rifletti un minuto!” Potreste dare al vostro bambino ai primi passi una bandierina da sventolare come mònito. Questi promemoria concordati possono segnalarvi il momento in cui è necessario prendersi una pausa, allontanarvi per riuscire a separare la vostra conversazione interiore dalle questioni che riguardano vostro figlio e dal vostro io autentico. Occupatevi prima delle vostre emozioni, il che vi darà la libertà di focalizzarvi sul bambino.


Il bambino è lo stimolo scatenante, non la ragione della vostra rabbia, non è responsabile delle vostre emozioni. Lui ha agito e un vecchio programma si è aperto nel computer della vostra mente, chiedendo che ne eseguiate gli ordini. Non avete potere su queste risposte automatiche, però potete scegliere se obbedire oppure no. Potete voi stessi offrirvi l’ascolto che vi serve e sbollire la rabbia con un processo tutto interiore, per riuscire poi a occuparvi del bambino, affrancati dalle antiche reazioni. Se, prendendovi un po’ di tempo per Separarvi da voi stessi, avete capito che i pensieri che nutrono la vostra rabbia non vi rappresentano davvero e non hanno relazione con il presente, potreste limitarvi a notarli, a lasciarli perdere e poi a concentrare tutta l’attenzione sul bambino. In seguito, potreste cercare qualcuno che vi ascolti, un amico o un terapeuta, per completare l’indagine sui vostri pensieri. Potete anche farlo da soli. Scrivete ogni pensiero che vi scatena rabbia e verificatene la validità, come vi fa sentire e comportare, come reagireste se non ci fosse. Poi cercate di scoprire se molta dell’aspettativa e del giudizio che rivolgete a vostro figlio potrebbe tornare utile alla vostra stessa crescita.


Siate gentili con voi stessi, non si tratta di creare giudizi sui vostri pensieri o sulle vostre fantasie; non sono espressione autentica di ciò che siete e del genitore che vorreste essere. Prendetevi circa un minuto ed esprimetevi appieno, solo nella vostra testa. Potete immaginarvi mentre urlate, colpite, accusate, minacciate, punite o qualsiasi altra cosa vi salti in mente. Fate scorrere il vostro “film” interiore fino alla fine e finché non sarete soddisfatti, poi chiedetevi se è davvero rilevante per il presente e se è fedele a ciò che siete. Sarete così felici di non aver dato corso a questi film nella realtà.


Se vi concedete la libertà e l’amore necessari per far sì che tutto scorra nella vostra testa senza restrizioni, impiegherete pochissimo tempo a riguadagnare forza e un sentimento d’amore. State solo osservando i vostri pensieri e esplorando i contenuti della vostra rabbia. Prendetevi un altro minuto se ci riuscite, mettete per iscritto i pensieri e verificatene la validità per il momento presente. Dopo aver lavorato su questo “processo di verità”, vi sentirete più in grado di focalizzarvi sul presente e sulle intenzioni innocenti dei vostri figli. Una madre che aveva seguito il mio consiglio mi ha raccontato questa storia:


Mentre Wendy fa un riposino, Emory, nove anni, decide di farle una sorpresa preparando la lasagna che avrebbero mangiato quella sera a una cena in cui ognuno doveva portare una pietanza.


Quando Wendy si sveglia e va in cucina a preparare la lasagna trova Emory, coperto di passata di pomodoro, in piedi in mezzo a una pozza di sugo; il formaggio e il tofu sono sparsi ovunque sul piano di lavoro. La teglia è piena di ingredienti che vorrebbero tanto sembrare una lasagna, ma somigliano piuttosto a un purea di patate al sugo.


Wendy è pronta a esplodere. Prima che la festa inizi non ha tempo per pulire, sistemare tutto e cucinare un’altra lasagna. Fa un respiro profondo e inizia il S.A.L.V.E. Si osserva mentre grida e impreca, strattonando Emory fuori dalla cucina e proibendogli di andare alla cena. Quando le parole rabbiose e le fantasie le sono passate mute per la mente, focalizza la sua attenzione su Emory. Prima di riuscire a dire anche solo una sillaba, Emory interviene: “Mamma, ho fatto la lasagna, dobbiamo solo infornarla e pulire, puoi tornare a letto e dormire un altro po’.”


Infine, consapevole delle premure amorevoli del figlio, Wendy sorride e dice: “Grazie, che sorpresa! Mi sento riposata, posso aiutarti a pulire?”


Emory accetta l’aiuto e Wendy nota che tutto sommato la lasagna è migliore di quanto le fosse sembrata tra i fumi della rabbia. Emory è fiero di sé e Wendy ha imparato una lezione preziosa. Mamma e figlio trascorrono una magnifica serata insieme.


Non solo Wendy è stata in grado di spostare l’attenzione e apprezzare il gesto del figlio, ma restando in silenzio gli ha anche permesso di parlare per primo e risolvere tutto. Spesso, quando siamo accecati dai sentimenti, saltiamo alle conclusioni senza verificare i fatti e le intenzioni che muovono le azioni dei bambini. Aspettare che sia il bambino a iniziare la conversazione può sgonfiare le vele della nostra rabbia e chiarire la situazione.


È più facile essere accorti e affettuosi nei momenti di esasperazione se ci ricordiamo che quando siamo arrabbiati ci vuole lo stesso tempo per rimediare al disordine dei bambini di quando siamo bendisposti. Se risparmiamo ai figli le parole che generano il senso di colpa, il risentimento, la vergogna, si sentiranno meritevoli e sapranno di essere apprezzati e considerati. Sono queste le emozioni che creano un affiatamento e rendono il tempo trascorso con loro utile e prezioso per tutti.

Formulare una richiesta

Ci sono volte in cui vorremmo chiedere a un figlio di fare qualcosa per noi; appendere l’asciugamano dopo la doccia, chiudere una telefonata, spostare la confusione in un’altra stanza, togliersi gli stivali infangati prima di entrare in casa. Le parole che scegliamo in queste situazioni possono essere di biasimo o di vergogna, oppure possono creare considerazione e attenzione reciproca. Fino a poco tempo fa, il biasimo e la colpa erano strumenti di controllo, non producevano cura e attenzione ma invece miravano all’obbedienza tramite la paura. Frasi tipiche come: “Quante volte devo dirtelo?”; “Cos’hai di sbagliato?”; “Hai rovinato tutto!”; “Attento a te, se non lo fai le prendi!”, risuonano ancora nella mente di tante persone.


A volte il controllo era più sottile e ci si sentiva obbligati senza sapere perché, per esempio quando i genitori dicevano: “Jamie è tanto brava; so che ti aiuterà”. Si veniva lodati quando appagavamo i bisogni dei genitori e viceversa ignorati se non lo facevamo. Ci veniva spiegato che amare i genitori significava fare quello che dicevano loro; eravamo corrotti col cibo, le lodi, l’amore, i privilegi, i doni; manipolati attraverso misure coercitive le più svariate. Si otteneva l’obbedienza in modi non diversi dal controllo, solo più mascherati. I bambini controllati con questi sistemi erano spesso confusi da modi in apparenza tanto gentili e amorevoli eppure capaci di farli sentire piccoli, falsi e biasimevoli.


Dopo generazioni cresciute nel timore del giudizio dei genitori, stiamo finalmente iniziando a trattare i bambini con la stessa dignità che desideriamo per noi stessi. Por fine al vecchio concetto per cui un bambino deve fare quello che dice il genitore è più facile a dirsi che a farsi. Richiede costanza e dedizione, pratica indefessa e autocontrollo. Potrebbe esservi di grande aiuto aspettare un momento prima di chiedere ai figli di fare qualcosa e domandare a voi stessi: “Come lo chiederei a un amico adulto?”


Nel nuovo paradigma, i figli non sono obbligati ad appagare i nostri bisogni. Sono liberi di scegliere e rispondere come meglio credono alle nostre richieste; l’ideale è apprezzare le loro scelte e comprenderne i limiti e le aspirazioni. Il nostro compito è di comunicare con i figli come faremmo con un amico adulto, senza aspettarci che facciano ciò che chiediamo. Se la nostra richiesta non è data per scontata, dovremo accettare con rispetto e comprendere le preferenze dei figli, discutendo poi della possibilità di venire incontro alle esigenze di tutti e trovando una soluzione soddisfacente per ciascuno.


Fate in modo che la vostra richiesta sia autentica; non fingete di fare qualcosa per il bene del bambino quando invece è per il bene vostro. Siete voi, ad esempio, a volere la stanza pulita, non vostro figlio. Siete voi a voler insegnare, ma vostro figlio non vuole imparare. L’insegnamento prematuro è come la nascita prematura, ha un costo; rallenta il processo di apprendimento ed erige un muro di sfiducia fra voi e vostro figlio. Abbiate fiducia nei suoi stadi di crescita e fate richieste oneste: “Ho bisogno che tu pulisca la stanza”. Non è detto che vi aiuti a pulire, ma imparerà che voi aspirate all’ordine e alla fine lo desidererà anche lui (o andrà a vivere con qualcuno che lo desideri, il che va bene lo stesso).


Proteggete l’innocenza di vostro figlio e pensateci due volte prima di fare qualsiasi richiesta. Se il bambino di due o tre anni entra in casa con le scarpe sporche di fango e attraversa il tappeto non è certo consapevole che possano esserci dei problemi. Si può osservare il fatto con semplicità: “Queste scarpe sono piene di fango, togliamole”, poi pulite il tappeto.


Quando iniziate a pulire il tappeto non è detto che il piccolo scelga di aiutarvi, non importa. Costringere o insistere che aiuti creerà solo risentimento, senso di fallimento e di colpa; sentimenti dolorosi che impediranno lo sviluppo di un desiderio autentico di aiutare. D’altro canto, osservarci pulire senza avere una percezione negativa di sé, oppure andarsene contento e poi tornare e trovare pulito, gli permetterà di assimilare i vostri modi e alla fine scegliere di parteciparvi in tutta libertà. Se il piccolo offre il suo aiuto, permettetegli di collaborare senza criticare, senza fare al suo posto, e, in sua presenza, evitando di ripassare dove lui ha già pulito. Potreste invitarlo a prendere la scopa o a collaborare, ma evitando di comandarlo, così che possa scegliere da solo se partecipare, guardare o andarsene.


Se rimproverati, i più piccoli in genere sono troppo spaventati dalle intense emozioni dei genitori, o dai loro giudizi, anche solo per riuscire ad afferrare la natura del messaggio che viene comunicato. Un tono di voce appena più aspro, seppur con le parole giuste, o una critica velata col tono di voce più dolce che ci sia, sono già troppo per la sensibilità dei bambini piccoli e li distraggono dal contesto, troppo impegnati a sentirsi feriti o impauriti. È solo quando il bambino percepisce il fluire senza ostacoli della vita e dell’amore, e la sua dignità resta intatta, che può diventare consapevole delle abitudini e dei bisogni di chi gli è accanto. Non ha bisogno di aiuto per imparare a vivere con noi; ha invece bisogno che ci fidiamo di lui e non intralciamo il suo apprendimento.


È sufficiente usare la S di S.A.L.V.E e il resto verrà da sé. Dopo aver investigato le vostre conversazioni mentali o averle fatte scorrere senza assecondarle, sarete pronti a stare con vostro figlio e a lasciar perdere le reazioni personali. Che facciate una richiesta o rispondiate a un disagio, finché sarete presenti e attenti avrete la possibilità di stabilire un contatto con vostro figlio e sapere il da farsi.

Indietro tutta!

“Il S.A.L.V.E. funziona se mi ricordo di farlo”, mi disse un padre dubbioso, “ma se dimentico di prendere tempo e faccio esplodere la rabbia?”


In realtà, modificare le proprie abitudini non è facile ed è inevitabile ricadere nei vecchi schemi di comportamento. Per trasformarvi e passare dal negare al legittimare c’è bisogno di tempo e di esercizio. Iniziate col prendere nota dei vostri commenti negativi senza tentare di cambiarli. Non rimproveratevi mentalmente per aver negato vostro figlio o il coniuge; il primo passo per sviluppare la gentilezza è essere gentili e pazienti con se stessi. Investigate la cosa a freddo, si tratta solo di una voce nella vostra testa; guardatela sparire e otterrete il momento presente. Consideratene la rilevanza per il presente e otterrete chiarezza. Sentite come sareste senza di lei, verificando se ciò che vi aspettate da vostro figlio non si applichi a voi, e sarete spinti ad amare voi stessi e vostro figlio.


Con l’esercizio regolare, pian piano imparerete a bloccare i pensieri a metà di una frase e a cambiare direzione. Se questo accade, potreste riconoscere il vostro errore di fronte a vostro figlio, fare marcia indietro e ricominciare.


Si possono ripetere le scene venute male come se fossimo in una prova teatrale. È anche possibile dire al bambino: “Così non va! Rifaccio l’ultima scena!”. Con la pratica, vi fermerete in tempo senza pronunciare le parole negative e rivolgendovi a vostro figlio con mente aperta e cuore pronto all’ascolto. Ecco l’arrivo a casa di un padre che aveva partecipato a uno dei miei laboratori.


Norm entra in casa e trova un caos di scatole di cartone rotte e pastelli a cera frantumati sparsi ovunque sul pavimento. Inizia a lamentarsi e a pretendere che i bambini puliscano tutto subito. La più piccola, Miranda, inizia a piangere mentre il grande, Leon, dice: “Ma papà, siamo nel mezzo di un gioco!”


“Questo non è un gioco, distruggere tutte queste scatole e i pastelli!”, grida Norm… e poi, d’improvviso, smette di gridare e dice: “Così non va! Rifaccio la scena.”


In modo teatrale Norm cammina all’indietro ed esce di casa. Dopodiché rientra con un sorriso stampato sulla faccia: “Salve bambini, com’è andata oggi?”, li bacia, bacia sua moglie e prosegue: “Oh, ma guarda! Cosa state creando qui?”, i bambini si precipitano a spiegare il gioco appena l’amore e l’interesse sono ripristinati.


Ci vuole tempo e pratica per padroneggiare una simile consapevolezza. Dopo tutto, siamo cresciuti tutti in una cultura dove la negazione è automatica, e dove ci hanno insegnato a identificarci con le parole che si affacciano alla mente in prima battuta. Neghiamo così, senza pensare, al punto che non è davvero ciò che sentiamo o crediamo; non siamo autentici. Però, non servirà a nulla giudicarci per questi pensieri, stiamo crescendo anche noi; siamo gentili con noi stessi. Iniziate con un semplice piano guida: quando sono sconvolto, non dico le prime parole che mi saltano in mente, servirebbero solo a ferire e negare l’altro. Posso fare marcia indietro appena me ne accorgo, anche se sono già nel mezzo della scena o alla fine. Non è mai troppo tardi per svegliarsi da un incubo.


Bloccare la conversazione negativa dentro la vostra testa è la pietra angolare per trasformarvi in comunicatori gentili che riconoscono l’altro. Potrebbero volerci mesi, durante i quali riuscite a intercettare la conversazione negativa solo una volta ogni tanto, ma alla fine rimpiazzerete la vecchia abitudine di perdere il controllo e di lasciare la vostra vita in balìa dei vecchi film.


Se vi è mai capitato di esercitarvi con una nuova lingua, uno strumento musicale o altri compiti difficili, sapete quanto tempo e quanta ripetizione servono per padroneggiare qualsiasi cosa. La pratica non rende perfetti; la pratica dà stabilità. Le vecchie abitudini hanno avuto un sacco di tempo e di pratica dalla loro parte. Non esitate a far sapere al bambino: “Sto imparando, è una cosa nuova per me.”

Quando la comunicazione non è verbale

Le opportunità di legittimare un bambino scontroso, aggressivo o imbronciato, riluttante a condividere i suoi sentimenti a parole, sono quotidiane. Durante una consulenza, Rebecca mi raccontò di come era riuscita a stabilire un contatto con il figlio.


Rebecca nota che suo figlio Josh è scontroso dopo la scuola: “Mi chiedo come ti senti; io ricordo che quando ero in quinta elementare odiavo la mia insegnante e non avevo amici. È stato un anno così doloroso per me!”. Josh si tira su e fa qualche domanda, poi dice. “Oggi il maestro mi ha sgridato e poi Rob e Dan mi hanno fatto le boccacce e non hanno giocato con me a ricreazione.”


Rebecca sta bene attenta a non indagare i motivi del rimprovero e a non nominare le emozioni. Continua invece a riconoscere l’esperienza di Josh in modo neutrale: “Caspita che disdetta!”. Josh si sente capito e prosegue: “Odio quel maestro, tutto quello che faccio non va mai bene”.


“Hai fatto quello che potevi e lui ha continuato a criticare e rimproverare?”, chiede Rebecca.


“Sì”, risponde Josh, “e quando è così i miei amici ridono di me. Odio la scuola!”


Rebecca si siede accanto a Josh e gli mette una mano sulla spalla, con tutto il suo affetto; il contatto avvicina Josh ai propri sentimenti, le lacrime scorrono sulle sue guance mentre racconta alla mamma altri dettagli di questa esperienza e qualche altra storia di sofferenze scolastiche e di problemi con la sorella. Dopo si sente molto meglio, madre e figlio sono più uniti e pronti a intraprendere soluzioni efficaci. Nei due mesi che seguono, la famiglia esplora la possibilità per Josh di fare scuola a casa. Josh preferisce restare a scuola per l’anno in corso, ma l’anno seguente decide di essere fautore del proprio apprendimento fuori dalla scuola.


È d’aiuto ai bambini sapere che anche i genitori hanno sperimentato il rifiuto, la solitudine, la paura e il fallimento. Un padre condivide i propri ricordi d’infanzia con il figlio e nell’arco di una settimana il ragazzo inizia ad aprirsi.


I bambini comunicano sempre, anche quando non usano le parole. Alcuni metteranno in scena le loro paure attraverso il gioco; per altri le paure si esprimeranno sotto forma di un aumento nella rivalità con i fratelli; bagnando il letto; in difficoltà di concentrazione oppure in una tendenza all’aggressività e al cattivo umore. Altri risponderanno chiudendosi, ritirandosi nella propria stanza o rimuginando, persi in considerazioni dolorose. È facile lasciarsi sfuggire il fatto che le loro emozioni potrebbero essere forti tanto quanto quelle di un fratello che invece si esprime lamentandosi, colpendo gli altri o piangendo.


Sia il bambino che butta fuori, sia quello che si chiude hanno la necessità di esprimere i propri sentimenti per non restarne vittima.


Se si resta prigionieri di emozioni inespresse, la mente tende a gonfiare la storia in un dramma e può capitare che la libertà emotiva ne venga ostacolata per il resto dell’esistenza (considerate che ogni volta che vi sentite impauriti o limitati in qualche modo, alle spalle c’è sempre una storia passata). Nei prossimi capitoli vedrete come offrire a vostro figlio occasioni efficaci per sfogare i sentimenti di impotenza e altri disagi. Questo capitolo si concentra sui modi di stabilire un contatto e facilitare il discorso sulle emozioni dolorose.

Parlare della perdita

Quando accadono eventi irreversibili (morte, divorzio, malattia), un dialogo aperto è l’aspetto più importante del processo di ripresa. Se un bambino è lasciato alla sua solitudine interiore, l’impatto è più duraturo e doloroso perché tenderà a identificare se stesso con il suo dolore e a costruire su questo la storia della sua vita. Ha bisogno di sapere che è giusto provare ciò che prova e avere le fantasie che ha, ma esprimendo questi sentimenti scoprirà anche che non rappresentano la sua identità. Sarà allora in grado di distinguere il suo vero sé dal processo mentale che origina il suo dolore.


Non è necessario proteggere un bambino dai colpi inevitabili, ma bisogna mantenere aperto il dialogo sulle sue esperienze.


Una madre mi disse che pensava di informare la figlia di tre anni della morte del gatto solo dopo aver preso un micetto nuovo. Dopo una seduta con me cambiò idea e raccontò quel giorno stesso alla figlia che il gatto era morto. Ascoltò i sentimenti della bambina e si sorprese quando lei le disse che non desiderava avere un altro gatto.


Trovate il tempo di parlare di realtà nuove ogni giorno. Condividete i ricordi e fate in modo che vostro figlio sappia che piangere, ricordare e parlare di sentimenti è una maniera normale e sana per affrontare il dolore intenso. Quando un bambino, anche piccolo, esprime la propria angoscia attraverso il gioco, manifestazioni fisiche o l’arte, accertatevi di ricevere e avvalorare sempre la sua comunicazione. In ogni caso, è importante non drammatizzare ciò che viene espresso dal bambino, così sarà libero di scegliere di procedere oltre quando sarà pronto.

Come esprimere rammarico per sanare le ferite

Un bambino, come un adulto, non può essere soddisfatto da un semplice “Mi dispiace!”. Perché le scuse siano complete, vorrà che gli mostriate che sapete quello che gli è capitato: “Stavi giocando nell’acqua ed era ora di chiudere la piscina, tu non volevi uscire e io ti ho tirato fuori dall’acqua”. Dopo che vi avrà raccontato l’esperienza dalla sua prospettiva, chiedete come vorrebbe che vi comportaste la prossima volta.


A volte i genitori chiedono scusa quando non c’è nulla di cui scusarsi: “Mi dispiace ma non puoi avere quel dolcetto”; per il bambino, se il padre fosse davvero dispiaciuto, come quando si è tristi, non insisterebbe nel negargli quel dolce. Il bambino sarebbe molto felice di sollevare il padre dal proprio dispiacere e ottenere il dolcetto. È un messaggio disonesto che genera confusione; al contrario, essere autentici sarà fonte di chiarezza per vostro figlio. Anziché dirgli cosa può o non può avere, con un linguaggio del controllo e della negazione, parlate in prima persona e manifestate la vostra scelta: “Non voglio che mangi questi dolci perché non sono sani”. Se la comunicazione è chiara, sarà più facile che il bambino segua o faccia a sua volta una richiesta chiara: “Posso averne uno sano?”


Vogliamo dar valore a parole e azioni che esprimono rammarico, ma quando diciamo: “Mi dispiace di averti ferito” ci assumiamo la responsabilità delle emozioni del bambino. Per quanto ci si penta dei propri gesti e si capisca di aver provocato dolore, dobbiamo garantire al bambino il sacrosanto diritto di essere il solo autore dei propri sentimenti. Inoltre, suggerendo di essere noi la causa dei suoi sentimenti, insinuiamo che sia debole e non sia padrone delle proprie reazioni. È così che imparerà a percepirsi come vittima e a biasimare gli altri per le proprie emozioni.


È ovvio che vostro figlio abbia poco controllo sulle proprie reazioni, tuttavia resta sempre la vera sorgente del modo in cui sente e agisce. Se le nostre parole lasciano a lui la responsabilità dei suoi sentimenti, svilupperà una resilienza emotiva e avrà maggior controllo e più scelta sulle proprie reazioni.

Per evitare di trapiantare sentimenti in vostro figlio, lasciate a lui l’iniziativa sulle risposte.


Una madre mi racconta il suo sconcerto di fronte alla risposta del figlio a quella che lei considera una terribile calamità. Il padre ha cestinato un file del ragazzo dicendo che è senza nome. Sapeva che si trattava di una storia che il figlio stava componendo. Trovare sul computer un documento senza nome lo ha fatto arrabbiare e ha pensato così di dare una lezione al ragazzo.

Dopo aver scoperto che la sua storia è stata cancellata dal padre, il figlio si è mostrato sconcertato ma non se l’è presa. Sua madre, infuriata, gli domanda: “Non vorresti che papà ti chiedesse almeno scusa?”


Lui con calma risponde: “No, non importa, la riscriverò e sarà migliore.”

“Ma non sei furibondo?”, insiste lei.

“Per un momento sì, ma poi ho capito che non serve a nulla arrabbiarsi e non cambierebbe le cose, quindi penso che vada bene così.”

Il giorno dopo il padre gli dice: “Ho sbagliato a cancellare quel documento; in futuro non lo farò senza prima averti chiesto il permesso.”

Il ragazzo è soddisfatto.


Se vi rendete conto che le vostre parole o azioni hanno provocato sentimenti forti in vostro figlio e vorreste rimediare al danno prodotto, riconoscete l’accaduto e scoprite quali siano i suoi sentimenti. Parlate in modo semplice e diretto: “Ho urlato, vorrei non averlo fatto”. Evitate parole che esagerino le emozioni, così vostro figlio sarà libero di essere autentico. Prestategli attenzione e lasciate che scopra qual è la sua verità. Se parla, ascoltate e avvalorate, ma senza drammatizzare. Se non parla, potrebbe mostrarvi i suoi sentimenti attraverso il gioco con una bambola, con i gesti, disegnando o restando tranquillo in braccio a voi. Quando è passata potreste esprimere i vostri sentimenti con semplicità: “Mi sento triste perché vorrei che la nostra relazione fosse fatta di amore e rispetto”. Poi fate buoni propositi per il futuro e comunicateglieli.


Evitando di assumervi la responsabilità dei sentimenti del bambino, potreste commettere l’errore comune di dire: “Mi dispiace che tu l’abbia presa male”. È una frase che potrebbe significare che voi non avete fatto nulla di sbagliato ed è il bambino ad aver risposto con i sentimenti “errati”. Di solito questo scatena la rabbia. Limitatevi a descrivere l’accaduto, vostro figlio si fiderà di voi e saprà che vi importa di lui, non solo di voler cancellare il comportamento di cui vi rammaricate.


A volte potreste sentirvi davvero nel giusto, senza che ci sia proprio nulla da riconsiderare. Eppure, il turbamento di vostro figlio è la prova che è necessario comunicare. Non vi pentite di averlo tirato via dalla strada, ma se lui sussulta e si spaventa potreste ristabilire la fiducia fra voi riconoscendo il gesto improvviso e ascoltando quello che lui ha da dire a proposito dell’esperienza.


Rimediare agli errori non vuol dire fare un processo; non ha a che fare con il torto o la ragione. Se vostro figlio si sente ferito il suo sentimento è un’esperienza reale; se vi pentite di ciò che avete detto o fatto, anche i vostri sentimenti sono altrettanto validi. L’obiettivo è di creare un’intesa fra voi, fare chiarezza e ricostruire un legame di fiducia.


Jessie, cinque anni, va dalla mamma piangendo; le dice che suo fratello David, di dodici anni, ha distrutto il suo camioncino Lego®. Jessie non riesce a ricostruirlo e David si rifiuta di aiutarlo. Linda va nella loro stanza e rimprovera David che finisce per mettere il broncio.


Quando Linda mi chiama dice che lei aveva ragione e non c’era niente di cui scusarsi. Però, dopo aver considerato i sentimenti feriti di David, capisce che ci sarebbero stati modi migliori di esprimersi e che il suo desiderio è di ricucire con il figlio e scoprire come lui ha vissuto la situazione.


All’incontro successivo mi racconta la sua conversazione con David.


LINDA: “David, ho avuto una seduta con Naomi a proposito di quello che è successo ieri e ho capito che avrei voluto essere più consapevole dei tuoi bisogni. Potresti dirmi come ti sei sentito quando ti ho rimproverato?”

DAVID: “Oh, niente.”

LINDA: “Ti sei sentito frustrato quando ti ho accusato di essere incurante e tutto il resto?”

DAVID: “Forse, ma ora non importa.”

LINDA: “Sono d’accordo, ho aspettato troppo. Ma voglio che tu sappia che mi pento delle parole che ho usato e vorrei aver capito qual era stata la tua esperienza.”

DAVID: “Già, già”.

LINDA: “Mi sembra che non ti fidi, non pensi che a me importi sul serio.”

DAVID: “È così!”

LINDA riflette un attimo e prosegue: “Mi sento triste perché per me è molto importante che tu ti senta ascoltato.”

DAVID resta in silenzio.

LINDA: “Ti andrebbe di aiutarmi a capire come ti sei sentito?”

DAVID: “Va bene.”

LINDA: “Quando Jessie è venuto da me piangendo tu ti sentivi offeso?”

DAVID: “Sì, molto. È un gran piagnucolone e non racconta mai quello che ha fatto, e tu credi sempre ai suoi lamenti.”

LINDA: “Perciò ti sentivi arrabbiato e avresti voluto che scoprissi quello che era successo?”

DAVID: “Sì, o almeno che non fossi intervenuta. Jessie aveva preso dei mattoncini dalla mia nave spaziale per costruire il camion con cui stava giocando. Gli ho chiesto di ridarmeli e ho detto che gli avrei costruito un altro camion con altri pezzi.”

LINDA: “David, capisco ora quanto fossi arrabbiato quando ho preso le parti di Jessie e ti ho giudicato senza neppure sapere cos’era successo. Ora che mi hai raccontato tutto mi sento sollevata. La prossima volta mi limiterò a legittimare i sentimenti di Jessie e lascerò che risolviate da soli i vostri problemi.”

DAVID: “Va bene mamma.”

LINDA: “E se voi ragazzi avete bisogno di aiuto per risolvere una disputa, ascolterò ciascuno di voi e vi aiuterò a trovare una soluzione. Ti va di ricordarmelo se me lo dimentico?”

DAVID: “Non mi va però lo farò.”

LINDA: “Farò del mio meglio per ricordarmelo.”


Se Linda avesse solo detto: “Mi dispiace per averti rimproverato ieri”, David non le avrebbe creduto, e a ragione. Si sarebbe infuriato ancora di più: “Lei pensa che dire ‘mi dispiace’ cancelli quello che ha fatto, ma non è così… lo protegge sempre…” e via discorrendo, aggiungendo continui capitoli alla storia della sua vita legati al tema di non essere amato tanto quanto il fratello. Anziché semplici scuse, Linda ha effettuato un passaggio completo attraverso il quale madre e figlio sono approdati in un luogo di maggior comprensione reciproca e intesa affettiva, dissolvendo il dramma di David.


Alcuni genitori si aspettano delle scuse dai figli e li giudicano quando queste non arrivano a tempo o non sono espresse nella giusta maniera. Siate sempre e soltanto i padroni di voi stessi, crescete in gentilezza e imparate ad apprezzare i vostri figli qualunque siano le loro abilità, la loro maturità e il loro grado di sviluppo. Se sospettate che vostro figlio covi un senso di colpa e non osi comunicarvelo, potete alleviare il suo peso affrontando voi l’argomento per risolverlo. “Ti senti a disagio per aver perso la chiave?”, ascoltate e poi fategli sapere: “Farò un’altra chiave e sono certa che la vecchia spunterà fuori prima o poi. Anch’io perdo le cose, può succedere a chiunque”. Un abbraccio e altre espressioni d’affetto scioglieranno la tensione e risolveranno il problema.

Comunicazione controproducente

A volte, pur legittimando e prestando attenzione, è come se le nostre parole avessero il solo effetto di allontanare ancor più i figli. Ci sono alcuni possibili errori che, se commessi, generano risentimento e distacco a dispetto del nostro avallo e delle nostre premure.


Non possiamo attenerci a formule rigide, dobbiamo sviluppare una sensibilità per cogliere, di momento in momento, la natura del bambino e un acuto senso di rispetto e gioia per la sua persona.


La tendenza dell’uomo a trasformare qualsiasi idea in uno strumento di controllo è ciò da cui bisogna sempre guardarsi. Qualunque approccio comunicativo può essere stravolto in un meccanismo di controllo. È possibile avallare allo scopo di controllare; si può manipolare l’altro anche usando una comunicazione non violenta; potremmo persino mancare di rispetto usando questi strumenti di comunicazione, scatenando rabbia nel bambino. I bambini sentono quando li manipoliamo, anche se non sono in grado di spiegare con chiarezza il proprio disagio.


Se non capite in che modo le vostre parole allontanino da voi i figli, tenete a mente che le persone si sentono insultate quando percepiscono che l’altro esercita un controllo sui loro sentimenti e comportamenti. Vogliono difendere la propria autonomia. Preservate intatta la dignità di vostro figlio evitando di avere attese specifiche su come dovrebbe essere. Comunicate con gentilezza prima di tutto per voi stessi, senza aspettarvi nulla in cambio, così che vostro figlio sia libero di essere e sentire a suo modo. Potrebbe esprimersi con rabbia o scoppiare a ridere, restare tranquillo o essere inquieto. Potrebbe anche non esprimersi affatto. Se non avete altri obiettivi all’infuori del bisogno di creare un’intesa con lui, e se non giudicate le sue scelte espressive, è più probabile che vi riesca di essere autentici e gentili anziché inclini al controllo e al paternalismo.


Il primo degli errori più comuni è quello di offendere un bambino o un ragazzo affermando quali siano i suoi sentimenti (anziché chiederglielo). Si aggira per casa giù di morale e voi dite: “Devi sentirti triste perché il tuo migliore amico è partito per le vacanze”. Forse avete ragione, ma l’urgenza di prevedere un sentimento può essere percepita come paternalismo.


Invece, potreste dargli un riscontro chiedendo: “Posso farti una domanda personale?”, se la risposta è affermativa e il bambino attende la vostra iniziativa, chiedetegli qualcosa che si fondi sull’osservazione: “Ho notato che cammini in silenzio su e giù, c’è qualcosa che non va? Ne vorresti parlare?”. I figli devono sapere che il loro mondo interiore, pensieri e sentimenti, non è oggetto di commenti da parte dei genitori. Potete creare l’atmosfera giusta perché apra il suo cuore senza sentirsi minacciato, tuttavia dipende solo da lui voler parlare o meno.


Se un figlio vuole condividere con voi la sua solitudine, la sua tristezza o qualsiasi altro problema, lo farà se sa che vi importa, che lo ascolterete e darete valore ai suoi sentimenti senza critiche o consigli. Sentirsi al sicuro in vostra presenza potrebbe alla fine indurlo a parlarvi di ciò che lo angustia. Mostrando interesse e prestando ascolto vi renderete disponibili: “Possiamo stare insieme dopo cena e se vuoi ti ascolto.”


Se per voi è un approccio nuovo e vostro figlio è già da un po’ che accumula sentimenti pesanti e inespressi, forse potrebbe rendersi necessario l’aiuto di un terapeuta per guarire la relazione. Sentimenti di dolore e di rabbia accumulati e mai espressi impediscono il benessere emotivo, intellettivo e fisico del bambino o del ragazzo. Potete anche avvicinarvi a vostro figlio grazie a un processo quotidiano di analisi dei vostri pensieri destabilizzanti.


Scriveteli e affrontate la S della tecnica S.A.L.V.E., verificate la validità o la rilevanza dei vostri pensieri nel confronto con la realtà; fate caso a come vi sentite e a come agite quando obbedite al loro dettato. Immaginatevi senza di essi in uno scenario analogo e ascoltate gli insegnamenti che ne potete trarre. Quando, attraverso questo processo investigativo, scoprite gli errori commessi, avete la possibilità di chiedere scusa e fare ammenda, il che ricostruirà la fiducia fra voi e vostro figlio.


Un altro ostacolo è la nostra tendenza a credere di sapere cosa sia meglio per lui. Dobbiamo nutrire una fiducia totale nei figli e presumere che nel momento in cui percepiscono il proprio valore, si sentono amati, capaci e liberi di esprimere sentimenti e pensieri, allora sapranno anche aver cura di se stessi e comunicare i propri bisogni nel modo migliore.


Trattare un bambino come tratteremmo un adulto aiuta a evitare di presumere quali siano i suoi bisogni. Con gli amici si è gentili senza aspettarci che cambino per far piacere a noi, e non si parla a un amico con l’obiettivo di controllarlo.


La cosa migliore è trattare i figli con dignità, rispettare i loro limiti e entrare in sintonia con gli obiettivi che hanno scelto per sé. Possiamo dare ascolto ai loro sentimenti e metterli in condizione di agire liberi dal condizionamento che questi avrebbero rappresentato. Ad esempio, se vostro figlio ha paura di un’audizione, sentirà il bisogno di esprimersi, così poi sarà libero di affrontare la prova. Quando ascoltate le sue paure e i suoi dubbi, non fateli vostri; al contrario, immaginatelo nella vostra mente mentre fa l’audizione. Voi rappresentate uno strumento chiarificatore per le sue emozioni, ciò che gli permetterà di procedere in modo efficace nonostante i timori, oppure di scegliere in tutta libertà di non fare l’audizione, ma non perché trattenuto dalla paura.


Man mano che affinate le vostre abilità comunicative, evitate la tendenza a giudicare le abilità di comunicazione degli altri. Potreste essere tentati di giudicare il coniuge, gli amici o i figli per il fatto di non comunicare nel modo che secondo voi è corretto. I genitori, in particolare, tendono a giudicarsi a vicenda e a giudicare i figli, lamentando una mancanza di gentilezza o accusandosi: “Non stai legittimando!”, “Non stai esprimendo un sentimento!”, “Stai giudicando!”, “Questo significa negare l’altro!”.


Le parole che esprimono un giudizio ci allontanano dai nostri cari. Non insegnate a nessuno tranne a voi stessi. Quando il coniuge, i parenti o i figli giudicano o umiliano, esprimetevi con autenticità e fategli sapere come vi sentite o cercate di scoprire quali siano i loro sentimenti inespressi. Ad esempio, se un bambino dice del fratello: “È proprio un bugiardo!”, potete chiedergli con tono di legittimazione: “Mi diresti ciò che sai di quello che è successo?”


Anche se dovete esprimere disapprovazione nei riguardi di un’azione inaccettabile, non è necessario giudicare. Parlate in prima persona e per voi stessi, non attraverso slogan su ciò che è giusto o sbagliato. Ad esempio, dire: “È sbagliato rubare!” non è detto che evochi il rimorso; il bambino proverà piuttosto vergogna e alienazione. Se invece dite: “Quando scopro che prendi i dolci di nascosto dal negozio senza pagarli mi sento triste e preoccupata”, le parole che esprimono vulnerabilità hanno più possibilità di toccare e ispirare gli adolescenti a parlare di ciò che li muove verso azioni disperate.


Molti temono che un simile approccio li priverebbe del diritto di difendere i princìpi morali. Al contrario, quando si usano parole personali si possono esprimere i propri valori con maggior forza e efficacia. Se si puntano gli indici e si sbandiera di fronte all’accusato ciò che è giusto e sbagliato, non si ottiene che di perderlo: non potrà ascoltarci. Quando ci esponiamo con la nostra vulnerabilità e esperienza personale, i figli, il marito, la moglie o gli amici non saranno minacciati né allontanati, bensì avvicinati e sensibilizzati dalla nostra comunicazione.

Introduzione ai cinque bisogni primari dei bambini

Comprendere il comportamento di vostro figlio
Non v’è comportamento giusto o sbagliato. L’unica scelta sensata è fra la paura e l’amore.

Gerald Jampolsky, Ph.D

I genitori spesso mi chiamano perché sono sconcertati dai comportamenti dei figli. Vogliono rispondere con gentilezza ma non ci riescono. Molti già conoscono i modi della comunicazione gentile, ma non riescono ad applicarli.


È il nostro monologo interiore che ci impedisce di comprendere il bambino e di sapere come rispondere. Le azioni dei figli non sono buone né cattive; sono solo espressione di bisogni emotivi e fisici, oppure si tratta di giochi innocenti. Eppure la nostra mente valuta in fretta le azioni e noi non reagiamo al bambino o al ragazzo ma alla nostra interpretazione dei fatti.


Rispondere a una chiara richiesta di bisogno fisico come il sonno, il cibo o il calore sembra facile. Quando però i bisogni dei figli sono emotivi, oppure espressi in modi che contrastano con le nostre preferenze, a volte sperimentiamo delle reazioni che vanno dalla confusione e dalla rabbia fino all’impotenza e alla disperazione. Non sono reazioni autentiche perché si tratta di vecchi pensieri e non di una risposta diretta al bambino; ci impediscono di vedere nostro figlio così com’è nel presente. Sono pensieri radicati nel passato che si proiettano verso il futuro, di solito sotto forma di paure, timori per la crescita del bambino o per la nostra immagine di genitori.


In altre parole, spesso fraintendiamo i nostri figli perché siamo troppo impegnati ad ascoltare le reazioni automatiche che abbiamo in testa. La mente suona antichi ritornelli e noi, in quanto esseri umani, siamo portati a identificarci con questa voce interiore. Le obbediamo anche se non è in armonia con ciò che vorremmo essere e ciò che siamo.


Possiamo rispondere con amore e saggezza solo se siamo presenti appieno e liberi dalle vecchie nenie che ci girano nella testa. L’amore può essere vissuto solo nel presente. Se riusciste a essere sempre presenti con i vostri figli non avreste bisogno di questo né di nessun altro libro. È solo la nostra mente che invia messaggi complicati. Ad esempio, un bambino ai primi passi strappa un giocattolo dalle mani del suo fratellino più piccolo; il genitore potrebbe dare ascolto alla sua voce interiore che gli dice che si tratta di una crudeltà o una prepotenza, ma il bambino ha agito con assoluta innocenza per quanto lo riguarda. Sta giocando, o ha bisogno del giocattolo e ancora non è in grado di riconoscere l’umanità del neonato, o potrebbe piacergli la reazione del fratellino, o ancora desiderare l’attenzione del genitore. Se considerate vostro figlio senza analizzare, emettere giudizi o apporre etichette, potete rispondere con efficacia e calma, come vi illustrerò nei prossimi cinque capitoli.


Quando le azioni di un bambino vi provocano fastidio, rabbia o dolore, potreste essere tentati di eliminare quel comportamento. La cosa però non funziona e anche se il comportamento fosse eliminato (attraverso la paura), un altro ne prenderebbe il posto per rappresentare lo stesso bisogno insoddisfatto. Il bambino è il vostro maestro; quando vi liberate della lezione interrompendola, perdete entrambi. Se, al contrario, investigate quei pensieri che vi spingono alla negazione del bambino, così come descritto nel primo capitolo, guadagnerete in libertà emotiva e potrete rispondere, anziché reagire. Capire che il bambino sta esprimendo un bisogno può aiutarci a modificare il nostro obiettivo, che non sarà più quello di impedirgli di esprimersi, quanto quello di scoprire ciò di cui ha bisogno. Quando interrompiamo l’espressione è perché siamo bloccati nel nostro antico dolore e non comprendiamo nostro figlio. Se invece identifichiamo le nostre reazioni istintive con le tracce del passato, e ne verifichiamo la validità e la rilevanza, possiamo capire il modo in cui la nostra mente lavora; in quell’istante nostro figlio ci apparirà con chiarezza nel presente.


In altre parole, potremmo dire che il più grande ostacolo alla capacità di capire il bambino è considerare i nostri pensieri e le nostre opinioni reattive alla stregua di verità o di utili guide. Come leggerete nei capitoli seguenti, esistono dei modi per imparare a distinguere la vostra guida amorevole, incentrata sul bambino, dalle vostre reazioni, incentrate su di voi. Una distinzione chiara si ha nel risultato: la guida amorevole conduce a soluzioni pacifiche e intese affettive; al contrario le reazioni conducono alla battaglia, alla rabbia, all’allontanamento.


Spesso, le azioni del bambino sono esse stesse il soddisfacimento di un bisogno, come quando ha voglia di correre in giro senza sosta, di imitare la scimmia con grida e stridii o di trasformare il bagno in una foresta pluviale. Capire i suoi intenti renderà facile lasciarlo stare o trovare il modo di farlo sfogare senza che interferisca con le vostre preferenze o il benessere altrui. Ciò che intralcia l’amore e la comprensione dei suoi modi espressivi è il vostro monologo interiore sulla paura di perdere il controllo, sul timore che vostro figlio non cresca come si deve, o altri drammi e aspettative creati dalla mente.


Una volta che sarete concentrati sul bambino, sarà più facile rispondere con gentilezza. I cinque bisogni emotivi fondamentali che dettano il linguaggio comportamentale del bambino sono:

  • L’amore

  • La libertà di esprimere se stesso

  • L’autonomia e il potere

  • La sicurezza emotiva

  • L’autostima

Se vissute con soddisfazione e costanza, queste esperienze fondamentali formano solide fondamenta sulle quali il bambino può esercitare il proprio potenziale e vivere fiero e felice con se stesso e con gli altri. Detto altrimenti, un bambino che è sicuro dell’amore dei genitori, che si sente meritevole, benvoluto, autonomo e libero di esprimersi appieno in tutta sicurezza, crescerà bene e non perderà il contatto con se stesso e con voi. I bambini che invece mostrano difficoltà e disturbi nel comportamento, nell’apprendimento e in altri àmbiti si sentono emotivamente in pericolo, impotenti, soli o insicuri.

I capitoli che seguono offrono lumi sui molti comportamenti con cui adolescenti, bambini, bimbi piccoli e neonati comunicano questi cinque bisogni fondamentali, oltreché indicare risposte appaganti a questi comportamenti.

Crescere i nostri figli crescere noi stessi
Crescere i nostri figli crescere noi stessi
Naomi Aldort
Eliminare i conflitti e i litigi con i nostri bambini grazie all’amore incondizionato.Un approccio efficace per costruire relazioni autentiche e gratificanti con i propri figli, senza ricorrere a punizioni e minacce. Crescere i nostri figli, crescere noi stessi prende le mosse da una premessa radicale: né il bambino né il genitore devono dominare.Un libro di Naomi Aldort, famosa esperta di genitorialità, per tutti coloro che desiderano smetterla con i rimproveri, le minacce, le punizioni e vogliono rinunciare al controllo in favore dell’autenticità. Conosci l’autore Naomi Aldort è un’esperta di genitorialità; i suoi articoli, le sue conferenze e consulenze sono note a livello internazionale. Genitori da ogni parte del mondo approfittano della sua guida, per telefono o di persona.Cura il sito authenticparent.com