parte prima - Il cerchio della salute e della malattia

Traumi e sindrome
da stress post-traumatico

L’anima è piena di stelle cadenti

V. Hugo

Non può esistere alcunché di unico o di intero che non sia stato strappato

W. B. Yeats

Solo attraversando il fuoco si diventa oro puro

Osho

Il trauma è forse la causa dell’umana sofferenza più dimenticata, ignorata, minimizzata, negata, incompresa e non trattata”1 scrive Peter Levine, psicologo, considerato uno dei maggiori esperti in materia.

La mia personale esperienza, anche professionale, mi porta a sottoscrivere senza esitazione questa sua affermazione.


Ho impiegato una decina di anni per inquadrare in una sindrome da stress post-traumatico la miriade di sintomi che mi sono ritrovata a vivere nei momenti più critici della mia esistenza, così come quelli di molti piccoli pazienti che si affidavano alle mie cure. Già, perché la SSPT, come vedremo, non è soltanto appannaggio dei reduci di guerra ma può essere un bagaglio pesante che alcuni bambini si portano dietro già alla nascita…


La lettura dei testi di Levine è stata quindi una piacevole sorpresa in quanto ha confermato ipotesi e intuizioni che andavo formulando da tempo e che ora cercherò di trasmettervi nel modo più semplice e chiaro possibile.


Per trauma si intende “un intenso disturbo mentale, emotivo, fisico o psichico/spirituale risultante da uno stress o uno shock che può avere un effetto psichico a lunga durata.”2

La parola “trauma” deriva dal greco e significa “ferita, buco”: un evento improvviso arriva a sconvolgere la nostra vita quando meno ce lo aspettiamo e crea una falla. Può trattarsi di un incidente o una malattia, di un lutto improvviso o un abbandono, di un cataclisma naturale (un terremoto, un incendio, un uragano) o di un atto violento, come un abuso o una strage di massa (pensiamo al genocidio degli ebrei e dei nativi americani), ma anche più comunemente di un parto difficile o un intervento chirurgico o una procedura medica o dentistica specie se senza uso di anestesia (pensiamo alle tonsillectomie effettuate una cinquantina d’anni fa da svegli…)


Noi siamo soliti associare al termine trauma un disagio fisico: una frattura, una distorsione, un ematoma. La traumatologia in medicina è una branca dell’ortopedia. Ma ci sono traumi che non colpiscono il corpo e non sono facilmente visibili eppure sono ancora più dolorosi e difficili da eradicare: si tratta dei traumi dell’anima. Il più delle volte passano inosservati e non vengono riconosciuti causando a chi ne è portatore indicibili e prolungate sofferenze. Mentre, come ci ricorda Levine, la guarigione del trauma dipende fondamentalmente dal riconoscimento dei suoi sintomi.


Spesso i traumi non riescono a essere detti e rimangono custoditi nel profondo per vite intere rovinando letteralmente l’esistenza: sono alla base dei famigerati “segreti di famiglia” che si trasmettono di generazione in generazione diventando una sorta di “maledizione” (in senso etimologico qualcosa è stato detto male o non detto affatto).

Come ci ricorda Peter Levine “Gli effetti traumatici non si manifestano sempre immediatamente dopo gli incidenti che li hanno provocati. I sintomi possono restare latenti e accumularsi per anni o decenni. Poi in un periodo di stress, o in seguito a un altro incidente, possono fare la loro comparsa senza preavviso”3. Così in molti casi si instaurano delle vere e proprie sindromi da stress post-traumatico, che non sono altro che “risposte cerebrali disfunzionali a una o più esperienze traumatiche”4, con sintomi che si verificano anche a distanza di molto tempo dall’insorgenza del trauma: chi è stato esposto a eventi dolorosi di grande portata perde il senso di sicurezza personale e la sensazione di essere padrone del proprio ambiente, oltre a sentirsi molto spesso in colpa per essere sopravvissuto. Ben noto è questo fenomeno nei soldati, come i reduci del Vietnam, che continuano a esprimere la memoria degli orrori sperimentati attraverso incubi e attacchi di panico.


Ma non è necessario essere i superstiti di un massacro per sviluppare una sindrome da stress post-traumatico… Possono essere sufficienti eventi molto meno tragici che però lasciano uno strascico anche molto tempo dopo l’insorgenza del trauma.


“Bisogna sapere che la violenza e la gravità di una trauma non hanno niente a che vedere con la sua causa. Ci sono traumi che si considerano terrificanti e che sono ciò nonostante ben vissuti. Mentre a volte, un dettaglio stupido, passato quasi inosservato, può essere all’origine di conseguenze terribili”5 sostiene la psicoterapeuta Marie-Louise Pierson. Ne sono testimonianza i bellissimi versi di Umberto Saba che ricorda in una poesia l’allontanamento forzato dalla sua balia: “Un grido s’alza di bimbo sulle scale. E piange anche la donna cha va via. Si frange per sempre un cuore in quel momento“.

Esiste infatti una reattività del tutto personale al trauma che fa sì che non tutti quelli che lo vivono restino inevitabilmente traumatizzati. La reazione individuale dipende da tanti fattori: dall’età (i traumi più gravi sono quelli più precoci: ciò che può essere traumatico per un neonato non lo è per un adolescente), dal contesto, ovvero dalla presenza o meno di sostegno emotivo (da quel “Sono qui con te” che se c’è può fare la differenza), dalle risorse interiori innate della persona, ovvero dalla sua capacità di resilienza, dalla sua storia, che crea il terreno più o meno fertile per l’instaurarsi di una sindrome da stress post-traumatico. Nessuno è esente da ferite “congenite”, ciò che cambia tra un individuo e l’altro è soltanto il settore di vita in cui esse si esprimono. Una caratteristica del trauma è che tende a ripetersi, come abbiamo visto parlando della sindrome da stress post-traumatico.


“Anche il trauma – come i grandi amori – vuole essere per sempre”, scrive Recalcati. “Questa è la sua maledizione: qualcosa non può più essere dimenticato, insiste a ripetersi e a pungere il soggetto. La ripetizione del trauma scaturisce come un ritorno dell’evento impossibile da pensare, da dire, da simbolizzare. La memoria assedia e non abbandona mai il soggetto”6, diventando una sorta di vera e propria ossessione.


Come ricorda Ferrucci, non superare un trauma è come continuare a girare con il biglietto dell’autobus in mano quando siamo già scesi alla fermata…

“Non c’è mai riposo per chi ha subìto l’abbandono”7 dice ancora Recalcati ricordando che “Il traumatismo dell’abbandono, come la clinica psicoanalitica mostra, riaccende traumatismi più antichi, primari, riporta il soggetto alle sue ferite più lontane nel tempo.”8 E questa è proprio la funzione della coazione a ripetere: aiutare l’individuo a ritrovare la causa originaria di tutti i suoi mali.


Chi ha vissuto esperienze particolarmente dolorose però ha paura di riviverle e cerca in tutti i modi di evitare le circostanze che possono favorirne lo scatenamento: come dice il proverbio “Chi si è scottato col fuoco ha paura anche della cenere”…


La vita di un traumatizzato può così diventare man mano sempre più povera e limitata: c’è chi non esce più di casa, chi non ha più il coraggio di aprirsi ad una relazione d’amore, chi rifiuta il cibo e via dicendo…


Purtroppo “La nostra cultura manca di tolleranza per la vulnerabilità emotiva provata dalle persone traumatizzate”9. Gli individui con sindromi da stress post-traumatico, che soffrono per esempio di attacchi di panico, vengono etichettati come “ipocondriaci” e lasciati totalmente soli nel loro dolore e nella loro sofferenza; a volte sono loro stessi che fanno fatica a chiedere aiuto e a rivolgersi alla psicoterapia che vivono, a causa dei condizionamenti culturali, con vergogna o come un lusso per pochi eletti. “Le parole non sono in grado di descrivere adeguatamente l’angoscia provata da una persona traumatizzata. La sua intensità non può essere descritta. Molte persone traumatizzate sentono di vivere in un inferno che non possono condividere con nessun altro”.10 Inoltre abitualmente viene concesso poco tempo all’elaborazione degli eventi emotivi: i professionisti della salute interpellati premono per accelerare il processo di guarigione e a volte forzarlo senza rendersi conto che invece si tratta di un processo lungo che richiede tempo e soprattutto delicatezza mentre i familiari lo banalizzano con espressioni del tipo “Smettila di drammatizzare, ormai è passato, è ora che tu riprenda la tua vita, devi farti forza e non pensarci più…” Come se si trattasse di una questione razionale in cui sarebbe sufficiente utilizzare la volontà per uscirne…

Nelle culture tradizionali di tutto il mondo invece il trauma è considerato un problema non individuale ma di tutta la collettività e lo sciamano o l’uomo-medicina lo tratta attraverso rituali che mirano a recuperare i pezzi di anima persi durante gli eventi traumatici e a restituire alla persona la sua integrità e completezza. Ne parleremo meglio nel capitolo finale sul preconcepimento e l’impianto uterino.

Fisiologia del trauma

Secondo Levine “Il trauma accade quando l’organismo è sottoposto ad uno stress superiore ad ogni sua capacità di adattamento necessaria a regolare gli stati di attivazione. Il sistema nervoso (traumatizzato) si disorganizza, smette di funzionare e non riesce più a ristabilirsi. Questa condizione si manifesta in una fissazione globale, in una fondamentale perdita della capacità ritmica di auto-regolare l’attivazione, di orientarsi, di essere nel presente e di fluire con la vita”11. Come dire che il trauma avviene quando succede qualcosa che per il soggetto è troppo difficile da sopportare o perché è troppo piccolo per farlo (come accade nei feti e nei neonati per esempio) o perché in quel momento non ha comunque le risorse necessarie per affrontarlo e superarlo. E così va in stato di shock cioè di dissociazione.


Quando un individuo – adulto o bambino che sia – è in uno stato “dissociato” è come se fosse ripiombato dentro al trauma originario e ne fosse rimasto imprigionato dentro, risucchiato da una sorta di buco nero: è il bambino che non piange più, che sembra non reagire agli stimoli, che ha lo sguardo assente, quasi “allucinato” e guarda il genitore come se non lo vedesse. In realtà lui non è lì in quel momento ma è fuggito in un mondo e in un tempo lontano, là dove è accaduto il trauma ed è difficile è riuscire a riportarlo nel presente, nel qui e ora. Nella Logosintesi si parla per descrivere questa dimensione di “mondo congelato”: una sorta di igloo che va un po’ alla volta disciolto…


“La disconnessione fra corpo e anima è uno degli effetti più importanti del trauma”12 ci ricorda Levine e questo spiega per esempio perché i piccoli prematuri facciano così fatica, anche da adulti a volte, a percepire il loro corpo che per loro è quasi un “optional”…

Come ci ricordava Appleton durante le sue lezioni, una delle sofferenze più acute e terribili per un essere umano è il totale isolamento, proprio come quello vissuto da un neonato chiuso dentro ad un’incubatrice, magari per tanto tempo, in una condizione di deprivazione sensoriale. Privato del contatto con il corpo della madre e del suo latte, la piccola creatura si ritrova totalmente sola nel dolore e assolutamente impotente: se ha bisogno di qualcosa non può esprimersi che attraverso il pianto ma non sempre questo riceve risposta e così la vita per lei diventa una lunga, interminabile attesa di qualcuno che, per usare le parole di Recalcati, ascolti il suo “grido nella notte”, tenda una mano, dica una parola, qualcuno che sembra peraltro non arrivare mai…

Attacco, fuga e paralisi

Di fronte ad un trauma ci sono, come ha spiegato chiaramente Laborit, tre possibilità di reazione: l’attacco, la fuga e l’immobilizzazione. Ognuna di queste fa capo ad una parte del sistema nervoso: il simpatico nel primo e secondo caso, il parasimpatico dorsale vagale, che è il sistema filogeneticamente più antico, nel terzo.


Di fronte ad una situazione di pericolo si può reagire sviluppando rabbia e attaccando chi ci sta facendo del male, oppure si può fuggire. In entrambi i casi si ricorre all’azione e al movimento. Si tratta quindi di reazioni “sane” che permettono all’individuo di sopravvivere. Come dimostrato dall’esperimento effettuato da Laborit sui topi: egli si rese conto che quando questi erano sottoposti ad agenti fortemente stressanti (come scariche elettriche) ma avevano una via d’uscita (come per esempio la possibilità di rifugiarsi in un’altra parte della gabbia) o potevano scaricare lo stress combattendo tra loro, non si ammalavano, mentre mostravano segni di malattia quando era impossibile sia la fuga che l’attacco e non rimaneva come reazione che l’inibizione dell’azione. Ciò prova che non è tanto lo stress in sè ad essere pericoloso per la salute quanto l’impossibilità di rispondere allo stress.


Ma ritorniamo alla fuga. Come ci ricorda Laborit ci sono diversi modi di fuggire: si può farlo attraverso le droghe, le psicosi o anche, meglio, attraverso la creatività, rifugiandosi in un mondo di sogno e immaginazione tutto nostro dove le possibilità di essere inseguiti sono minime. Sono i due volti di Nettuno che può segnare con la sua impronta i grandi artisti, connessi alla dimensione spirituale della vita, così come i disadattati: genio e misticismo o follia…

“Quando non può più lottare contro il vento e il mare per seguire la sua rotta, il veliero ha due possibilità: l’andatura di cappa che lo fa andare alla deriva, e la fuga davanti alla tempesta con il mare in poppa e un minimo di tela. La fuga è spesso, quando si è lontani dalla costa, il solo modo di salvare barca ed equipaggio. E in più permette di scoprire rive sconosciute che spuntano all’orizzonte delle acque tornate calme. Rive sconosciute che saranno per sempre ignorate da coloro che hanno l’illusoria fortuna di poter seguire le rotte dei carghi e delle petroliere, la rotta senza imprevisti imposta dalle compagnie di navigazione”13. Ecco perché Laborit ha intitolato il suo libro Elogio della fuga


Quando invece la minaccia per la vita è troppo grande e l’individuo troppo inerme per lottare (come per esempio un feto o un neonato) o è impossibilitato a farlo perché non c’è via d’uscita (pensiamo per esempio ad una situazione di prigionia ma anche ad un trauma avvenuto in utero) ecco che scatta l’immobilizzazione: proprio come l’opossum si finge morto di fronte al pericolo, anche l’essere umano si “congela” cadendo in una situazione di “collasso dissociato”. È la resa, la sottomissione totale di fronte allo stress, la disperazione estrema che porta a volte alla morte. Il corpo è come anestetizzato e non reagisce, la reazione biologica al trauma blocca completamente il movimento e impedisce la fuga. Il bambino piccolo traumatizzato ha lo sguardo assente, evita il contatto oculare, lo interrompe perché si sente minacciato dall’ambiente esterno che è stato per lui fonte di grande sofferenza. È un bambino ipotonico, che può presentare bradicardie.


Il passaggio dall’immobilità al movimento è altamente positivo perché segna il passaggio dalla reazione di resa a quella di fuga o di lotta e va quindi adeguatamente supportato affinché si possa compiere nella sua interezza. La mera espressione della rabbia invece è catartica ma non risolutiva.


Peter Levine ha fatto un passo ulteriore, ha scoperto cioè che “I sintomi traumatici non sono generati dall’evento scatenante stesso. Sono causati dal residuo congelato di energia che non è stato risolto e scaricato; questo residuo resta intrappolato nel sistema nervoso, dove può causare distruzione del nostro corpo e del nostro spirito.”14


“I sintomi post-traumatici sono fondamentalmente delle reazioni fisiologiche incomplete tenute in sospeso nella paura. Questi sintomi non se ne andranno fino a quando le reazioni non saranno state scaricate e completate.”15

Se al momento del trauma non abbiamo potuto piangere o urlare o muoverci per scappare ecco che queste reazioni rimangono cristallizzate e chiedono insistentemente di essere completate.


A testimonianza di ciò Levine porta come esempio il comportamento degli animali i quali non restano imprigionati nel trauma perché ne escono fuori esattamente nello stesso modo in cui ne sono entrati dentro: con una grande naturalezza. L’impala inseguito dal ghepardo, per esempio, appena poco prima di essere afferrato cade a terra come morto: la sua reazione di irrigidimento e immobilità serve sia a entrare in uno stato alterato tale per cui non proverà dolore nel caso venga sbranato, sia come ultima disperata strategia di sopravvivenza nel caso in cui il ghepardo nel trascinare la preda fino alla tana in un attimo di distrazione se la lasci sfuggire… Poi “una volta fuori pericolo, l’animale si scuoterà letteralmente di dosso gli effetti residui della reazione di immobilità, recuperando il pieno controllo del suo corpo. Tornerà quindi alla sua vita normale come se niente fosse accaduto.”16


Quando si vive un’emozione che ci sopraffà perché è troppo intensa, improvvisa e non si è in grado di gestirla, magari perché si è troppo piccoli come un neonato, questa emozione si “cristallizza” e si trasforma in “credenza”, una sorta di adesivo che porteremo poi incollato addosso per il resto della nostra esistenza.


Per esempio un trauma uterino vissuto da un feto, troppo immaturo per farne fronte, e non in grado di esprimere le emozioni di rabbia, paura e dolore provate in quel momento, si può tradurre in una credenza quale “in viaggio succedono cose brutte” che può impedire poi allo stesso da adulto di spostarsi con agio e sicurezza come desidererebbe facendogli credere inconsciamente che i viaggi per lui sono pericolosi.


Poiché “veniamo inestricabilmente attratti da situazioni che replicano il trauma originario in modi più o meno evidenti”17 a questa persona toccherà rivivere centinaia di volte la situazione traumatica fino a quando, stanca di continuare a rivivere lo stesso film all’infinito, non cercherà soluzioni per uscirne andando a cercare le radici del trauma primario.

I traumi prenatali, questi sconosciuti

La maggior parte dello stress è engrammato e può risalire alla vita intrauterina –il che spiega perché sia così difficile da comprendere

A. Janov

Passi echeggiano nella memoria,lungo il corridoio che mai prendemmo,verso la porta che mai aprimmo

TS. Eliot

Posseggo ancora tra i miei ricordi un ritaglio di giornale contenente un articolo in inglese dal titolo I wanna hold your hand: parlava dei traumi prenatali e delle memorie del feto in utero. Me lo regalò una collega di lavoro di mio padre, bibliotecaria inglese, quando avevo diciassette anni. Allora non avrei mai immaginato che il contenuto di quella paginetta sarebbe divenuto molto più tardi uno dei miei preferiti argomenti di studio e di ricerca ma soprattutto che ciò che vi era scritto toccava uno dei traumi più importanti della mia esistenza. Per quale motivo la signora Hellinga – ricordo ancora il cognome – avesse pensato a me donandomi quel pezzetto di carta rimarrà sempre un mistero, ma oggi so con sicurezza che non si è trattato di una coincidenza casuale…
“Noi siamo una cultura che trascura completamente la vita prenatale, l’origine, il “da dove veniamo”. E come spiegare la maternità, la nascita e la paternità, e anche la struttura antropologica dell’uomo, se non si sa che cosa è successo durante la nostra vita prenatale?”18, si chiede Delassus. Ma soprattutto – aggiungerei – come spiegare i traumi e i problemi della nostra vita senza conoscere la nostra storia più antica, quella dell’origine?

Io ho dedicato gran parte della mia esistenza a questa ricerca divenuta man mano sempre più pressante e le scoperte che ho fatto non sono servite solo a sbrogliare la mia intricata matassa e a curare i miei malesseri ma anche ad aiutare chi si rivolge a me in cerca di un po’ di sollievo e conforto. Ecco perché desidero condividere con voi ciò che ho imparato dal mio percorso personale, dalla rivisitazione della mia sofferenza di embrione, feto e neonato, anche se lo farò in modo molto veloce perché questo argomento richiederebbe da solo un libro a se stante (come del resto ogni capitolo di questo volume…).


Il periodo perinatale è in assoluto il più importante della nostra vita perché contiene la matrice, ovverossia una sorta di riassunto concentrato dei nostri traumi più antichi, quelli che l’anima si porta dietro di vita in vita (per chi crede nelle rinascite), o quelli della storia familiare del nostro albero genealogico (per chi preferisce usare un linguaggio più scientifico).


Indagare la biografia di un individuo, raccogliere la storia della sua vita prenatale, della sua nascita, del suo periodo neonatale significa dunque portare alla luce le cause dei suoi traumi irrisolti dando loro la possibilità di essere detti, raccontati e pertanto onorati e quindi finalmente sciolti. Perché il vero significato della terapia è darsi un’altra possibilità: se una volta qualcosa è andato storto, ora, nel presente, abbiamo la possibilità di farlo andare dritto, se in passato abbiamo dovuto subire una situazione ora possiamo scegliere di reagire in modo diverso e di cambiare le carte in tavola…


La vita prenatale è come se fosse un viaggio in aereo, un volo. E l’embriofeto porta dentro di sé la scatola nera con tutte le informazioni relative a questo volo. In caso di incidente, cioè di trauma, bisognerebbe andare a recuperare questa scatola per poter facilitare le indagini e risalire alle cause del disastro…


La scatola nera (che in realtà è arancione) è una sorta di memoria che alberga dentro di noi ed è resistente, proprio come il dispositivo elettronico degli aerei, a urti potenti e temperature elevatissime e può essere recuperata a profondità incredibili sul fondo del mare.


“Io c’ero! E sentivo tutto…”: ecco cosa è emerso dal mio inconscio durante una sessione di Logosintesi e un trattamento di Jin Shin Do, che mi hanno portato a galla la memoria dolorosa delle lunghe e stressanti sedute dal dentista e dell’intervento chirurgico a cui mia madre venne sottoposta nel primo trimestre di gravidanza, quando io nella sua pancia ero ancora un piccolo embrione.


Il rumore del trapano, le vibrazioni del bisturi elettrico, lo stordimento dell’anestesia, i volti mascherati degli operatori sanitari, tutto questo viene avvertito dal feto ed è motivo di forte spavento. E può poi tradursi da grandi per esempio in una inspiegabile paura del dentista…


Se nessuno gli parla e gli spiega quello che sta succedendo il bambino nell’utero si sente invisibile, come se non esistesse: lui percepisce ogni cosa, ogni emozione materna, ma non può comunicare la sua paura, la sua rabbia, il suo senso di impotenza…

“Chi non ne ha fatto l’esperienza, non può sapere di quante paure soffra l’embrione, quali dolori provi, specie se ci sono tentativi di aborto. Al confronto con le esperienze che precedono la nascita, le vicende dell’infanzia sono episodi di tutta tranquillità.”19 scrive lo psicoterapeuta Dethlefsen.


Per esempio un bisturi che entra a livello uterino viene vissuto dal bambino come un’invasione dello spazio sacro che lo unisce alla mamma e rappresenta quindi un trauma di “abuso”. È uno shock enorme. È stato dimostrato all’ecografia che durante l’amniocentesi gli embrioni cercano di spostare l’ago con la loro minuscola manina, esattamente come si è visto che durante un’inseminazione artificiale la cellula si contrae e si ritrae di fronte all’inserzione dell’ago (a dimostrazione di come esista già una “coscienza” allo stato cellulare). Constatazione che induce a riflettere…

Oppure pensiamo alla “vanishing twin syndrome”, ovvero la sindrome del gemello scomparso in utero: una situazione che si verifica secondo alcuni autori addirittura in una gravidanza su otto ed è quindi, nella maggior parte dei casi, misconosciuta (o confusa con una minaccia d’aborto). Ne ho parlato nell’ultima edizione di Sono qui con te e spero un giorno di poterle dedicare un libro intero… Basterà qui ricordare quanto devastante sia il vissuto del feto superstite che ha vissuto la morte in diretta del suo compagno di viaggio: gli rimane appiccicata addosso la paura di fare la sua stessa fine perché se il cuore di lui si è bloccato potrebbe fermarsi anche il suo… Si sente terribilmente solo, abbandonato, “a metà” e per questo prova una grande rabbia ma anche un profondo senso di colpa per essere sopravvissuto e di impotenza per non aver saputo “difendere” il suo gemellino. In una parola si ritrova a vivere in una bolla nera, in un vero e proprio inferno da cui però non può fuggire: se è troppo piccolo per sopravvivere nascere infatti vorrebbe dire morire… Per cui è costretto a rimanere dov’è, bloccato nella sua angoscia, congelato nel suo dolore. (La stessa cosa rifarà, per esempio chiudendosi in casa, quando un fattore scatenante da adulto gli riporterà a galla la memoria antica).


Questo dramma passa inoltre quasi sempre totalmente inosservato per cui al dolore si aggiunge il peso del non detto, del non riconosciuto “Avrei voluto dire…avrei voluto fare…ma non ho potuto…” Qualcosa è rimasto sospeso e vorrebbe essere completato.


È un vero e proprio trauma sommerso che può portare a distanza di anni o decenni conseguenze devastanti come attacchi di panico o sindromi ansiosodepressive che non sembrano trovare soluzione con niente. Fino a quando il trauma non emerge alla consapevolezza e allora si può procedere a un lavoro di guarigione che passa, come ci ricorda Claude Imbert, nel suo bel libro Un seul être vous manque, attraverso la comprensione del senso di questo evento drammatico (e cioè l’apprendimento della lezione del non attaccamento, la più difficile della nostra esistenza) e il reciproco perdono.


Oppure può trattarsi di segreti familiari avvertiti dal feto in utero che gli provocano un profondo senso di colpa per aver saputo ciò che non si doveva sapere… In questo caso è come se questo piccolo essere si portasse dentro una sorta di bomba inesplosa, come emerso dal seguente sogno di una paziente: “Ero su un treno e avevo in mano una bomba ma non potevo buttarla dal finestrino perché era chiuso da una zanzariera. Così ho dovuto aspettare di arrivare a destinazione e trovare un luogo deserto per gettarla via perché non volevo che potesse danneggiare qualche persona”.


Oltre a ciò, l’essere portatori di un segreto familiare induce a una mancanza di fiducia nel proprio sentire perché è come se la realtà disconoscesse ciò che l’anima ha invece avvertito e intuito e così nella vita ci si troverà spesso a dirsi “Forse mi sbaglio…eppure io sento diversamente da quanto mi dicono…”


Altre volte invece sono situazioni di violenza familiare – anche semplicemente verbale – che il bambino si ritrova a vivere suo malgrado e che gli scatenano un forte senso di paura, come dimostrato dall’immagine vista all’ecografia di due gemellini che si abbracciavano in utero durante un litigio dei genitori.


C’è poi il caso del “bambino di sostituzione”, concepito dopo un precedente lutto: qui c’è la sensazione di non essere visto, di essere sempre al secondo posto e mai al primo. Lo sguardo della mamma è rivolto altrove, lontano, verso qualcun altro che non c’è più e il feto si sente rifiutato e tradito e continuerà a sentirsi tale per tutta la vita, rivivendo mille volte questa penosa sensazione: “Volevo esserci io sul suo cuore! Quello era il mio posto!” Quando sarà grande cercherà in tutti i modi di farsi notare e di compiacere la madre per farsi amare: cercherà di essere un bambino perfetto e di prendere il posto del fratello scomparso ma ogni suo tentativo risulterà vano perché non si può competere con un fantasma…

Ci sono vari esempi in letteratura di questa sindrome: da Barry, autore di Peter Pan (che indossava addirittura i vestiti del fratello scomparso per cercare di essergli quanto più possibile simile), a R.M. Rilke, a Van Gogh, che fu chiamato Vincent, come il primo figlio avuto dalla madre a un anno di distanza da lui, e nacque lo stesso giorno della scomparsa del fratello primogenito. Su questo dramma nascosto del grande pittore olandese ha scritto un bellissimo libro Massimo Recalcati, proprio per mettere in evidenza la connessione tra questo trauma precoce e la malattia mentale che ha portato poi l’artista al suicidio. La vita del bambino di sostituzione – scrive Recalcati – “non è desiderata in quanto tale, nella sua particolarità più propria, ma solo in quanto rende possibile la vita di un altro, negandone la morte.”20 La vita di questo bambino “appare come il prodotto dell’aggiramento, da parte dei suoi genitori, di un lutto impossibile da compiere”21 il cui fardello ricadrà inevitabilmente sulle spalle di questo bambino che si sentirà inconsciamente in colpa per il semplice fatto di esistere… Si sentirà diverso, incompreso e solo, “come se fosse lo scarto del mondo”22 e per esempio totalmente incapace a tollerare di non essere corrisposto nelle relazioni affettive che idealizzerà e a cui chiederà di appagare la sua incontenibile esigenza di fusione simbiotica, quella che non ha potuto soddisfare con la propria madre, come natura richiede.

A volte, come leggerete nel capitolo finale, questi traumi si possono sommare e rendere la vita prenatale un vero e proprio viaggio sul Titanic…

In certi casi poi non solo la traversata è tempestosa ma anche l’attracco in porto…


Pensiamo a un bambino nato prima del tempo, quando ancora non è pronto ad affrontare il mondo: appena atterrato viene separato dalla mamma, sottoposto alle manovre mediche (prelievo del sangue con puntura del tallone, aspirazione ecc.), poi viene posto dentro all’incubatrice – vera e propria cella d’isolamento – dove rimarrà per un tempo variabile (anche più di un mese se molto immaturo) che a lui pare in ogni caso interminabile. Se poi versa in gravi condizioni patologiche verrà sottoposto a procedure altamente invasive (intubazione, sondino naso-gastrico ecc.).


Quale pensate possa essere il suo vissuto? Che il mondo è pericoloso e certo non un buon posto dove stare, che gli adulti sono “cattivi” e gli fanno male, che se piange non c’è nessuno che gli risponde, che è da solo nel dolore, che la Vita è dura e crudele e che deve aver fatto qualcosa di terribile per meritarsi una così grande punizione… Ecco da dove nascono i sensi di colpa e la sfiducia nel mondo.


Ben diverso se lo stesso bambino avesse potuto nascere a termine, magari in acqua e con un Lotus birth, subito accolto dalle braccia della mamma e attaccato al seno e alla sua placenta: la sua visione del mondo e della vita sarebbe stata decisamente diversa…

Ma per fortuna anche quando le cose sono andate storte non tutto è perduto.

Sì, perché…

Guarire dal trauma si può!

È interessante notare come la radice sanscrita “tarami” abbia il significato di “movimento”, di “passare al di là”. Ed ecco allora il messaggio che il trauma contiene e ci porta: se noi riusciamo a curare la ferita lacerata, se riusciamo a chiudere il buco rimasto aperto abbiamo la possibilità di andare oltre, di varcare una soglia e di passare in un’altra dimensione.


Per curare il trauma non è necessario rituffarcisi dentro e riviverlo in tutti i suoi dettagli come sostengono alcune correnti di pensiero (perché questo può avere un effetto ritraumatizzante) ma piuttosto “ridestare le nostre profonde risorse fisiologiche e utilizzarle consciamente”23 perché “tutti noi disponiamo della capacità innata di curare i nostri traumi”24.


La buona notizia è che, grazie al fenomeno della neuroplasticità, noi abbiamo la possibilità, in ogni momento della nostra vita, di rimodellare il nostro cervello modificando i dati in entrata e scegliendo di volta in volta l’ambiente che ci è più congeniale.


Quando un individuo lavora su un trauma ha la possibilità di trasformarlo modificando il suo modo di reagire ad esso (come vedremo meglio nel capitolo sulle risonanze). Il trauma non può essere cancellato, rimarrà per sempre nella sua storia, nella sua biografia, ma la persona potrà uscirne fuori dandosi un’altra chance: “allora non potevo scappare adesso sì posso farlo”, “allora non potevo gridare e piangere adesso posso concedermelo”, “allora ero da solo ora c’è qualcuno qui con me”… Così per esempio anche semplicemente una mano da stringere o che sostiene la schiena, durante un trattamento, si rivela essere un gesto altamente terapeutico per chi ha vissuto da neonato l’esperienza dell’abbandono e non ha potuto “appoggiarsi” ad alcun essere umano…


“Il trauma è potenzialmente una delle forze più significative per il risveglio e l’evoluzione psicologici, sociali e spirituali. Dico questo perché nella guarigione del trauma avviene una trasformazione che può migliorare la qualità della vita. Mentre il trauma può essere l’inferno sulla Terra, il trauma risolto è un dono degli dei – un viaggio eroico che appartiene a ognuno di noi”25.


Ancora una volta occorre guardare l’altro lato della medaglia e ribaltare il nostro ruolo da vittima a eroe: quanta soddisfazione nel riconoscere che siamo riusciti a “rimanere in ciò che è difficile”26 e nel renderci conto di quanta forza abbiamo dimostrato e possediamo!


Come diceva Confucio “La nostra gloria più grande non sta nel non cadere mai, ma nel risollevarci sempre dopo una caduta”… Se siamo sopravvissuti a situazioni traumatiche continueremo a farlo per il resto della nostra vita, se poi elaboriamo i nostri traumi, portandoli alla luce della consapevolezza, potremo anche impedirci di continuare a riviverli…

Come prevenire i traumi

Non solo i traumi possono essere guariti ma, come ci ricorda P.Levine, ancora più facilmente prevenuti.

Se solo ci fosse un po’ più di consapevolezza sugli effetti devastanti degli eventi traumatici si potrebbe fare molto per prevenirli o perlomeno ridurne le conseguenze.


Innanzitutto, per quanto riguarda per esempio quelli fetali, occorrerebbe spiegare alle mamme quanto è importante durante la gravidanza evitare interventi chirurgici che possono essere posticipati o procedure dentistiche: come abbiamo visto, per il bambino nell’utero sono esperienze traumatiche che possono lasciare il segno e manifestare conseguenze anche a distanza di molto tempo. Nel caso in cui si tratti invece di situazioni di estrema gravità in cui non è possibile rimandare l’intervento, è bene spiegare al piccolo – anche se solo un embrione – quello che succederà facendogli sentire che non è solo ma custodito e protetto: in una parola che è “al sicuro”.


Dobbiamo ricordarci che quando accade un evento traumatico il nostro primo bisogno come esseri umani è il contatto: se lo troviamo, sotto forma per esempio di una persona che ci tiene la mano e ci fa sentire il suo sostegno e la sua presenza amorevole (o che ci sussurra “Sono qui con te”…), ecco che subito ci sentiamo al sicuro e riusciamo ad affrontare la situazione difficile e dolorosa senza viverla come un trauma con strascichi a distanza. Se invece siamo soli e abbandonati a noi stessi ecco che l’insicurezza fa scattare il meccanismo di sopravvivenza del cervello rettiliano e noi ci congeliamo e dissociamo per superare l’evento che ci ha destabilizzato, grande o piccolo che sia, oppure diventiamo aggressivi, in uno stato costante di rabbia e lotta.


Ecco perché il primo atto da mettere in pratica quando ci si trova ad assistere una persona, in modo particolare un bambino, che ha subito un trauma è di starle accanto con delicatezza offrendole una sensazione di sicurezza, protezione e comprensione.

L’evento non va mai sminuito, anche se a noi dovesse sembrare banale, perché non sappiamo quali memorie risveglia in chi l’ha vissuto.

Questo è un punto importante, il più delle volte trascurato. Comune è il commento “Quante storie, in fondo non è successo niente…” specie con i piccoli che invece possono rimanere spaventati anche da semplici manovre mediche o dentistiche, specie se effettuate con modi bruschi e frettolosi.


Mi è capitato moltissime volte nella mia pratica pediatrica di dover sciogliere paure profonde legate a procedure in ambito sanitario, quali vaccinazioni, prelievi, decalottage a sorpresa in caso di fimosi o anche semplici visite in cui i bambini erano stati tenuti stretti contro la loro volontà per essere ascultati, che si sarebbero potute evitare con un atteggiamento un po’ più delicato e rispettoso, permettendo per esempio al bambino di stare in braccio alla mamma durante la procedura (o ai neonati di essere attaccati al seno).


Poi, altro punto importante, bisogna rispettare le reazioni della persona traumatizzata lasciando che le sperimenti fino in fondo e quindi non bloccare il pianto o i tremiti.


Quante volte invece, specie con i bambini, si interrompe questo processo dicendo loro: “Non voglio vederti piangere!” oppure li si soffoca quasi con mille gesti inutili…


Fondamentale per poter mettere in pratica quanto detto finora è la posizione di centratura interiore del “soccorritore”: se chi assiste il traumatizzato scarica su questi la sua ansia e preoccupazione non fa che peggiorare la situazione. Eppure a volte capita anche questo: si è in cerca di rassicurazioni e chi accorre in nostro aiuto ci spaventa ancora di più con la sua agitazione e i suoi pronostici infausti anziché tranquillizzarci…


Se si è troppo impressionabili o emotivi converrebbe innanzitutto cercare, attraverso una respirazione lenta e profonda, di calmarsi, aiutandosi magari anche con qualche fiore di Bach. Naturalmente la soluzione migliore per renderci idonei all’assistenza è aver previamente curato i propri traumi irrisolti (come spiegheremo meglio nel capitolo sul maternage interiore).


Il compito dell’adulto nei confronti di un bambino che ha subito un incidente o uno shock, oltre naturalmente alle cure necessarie in caso di gravità dello stesso (che può richiedere per esempio se si tratta di un trauma fisico di un immediato ricovero), è quello di creare un “campo”, come lo chiamano gli operatori di cranio-sacrale, ovverossia un luogo protetto dove il piccolo può sentirsi al sicuro, uno spazio in cui sente di potersi fidare.


Solo quando sarà passata la fase iniziale e superata l’emergenza, si potrà chiedere al bambino i dettagli dell’accaduto e sondare le sue reazioni emotive allo stesso. Si potrà invitarlo a raccontare il trauma e le emozioni ad esso legate: sarà importante onorarle qualunque esse siano. Il bambino ha bisogno di sapere che provare rabbia, paura, vergogna o colpa “va bene”, è normale e capita a tutti, anche ai grandi.


I bambini, specie nei primi anni di vita, possono non essere in grado di parlare dei loro traumi ma ce li raccontano spesso drammatizzandoli attraverso il gioco. Una mia piccola paziente, per esempio, fortemente turbata dal ricovero in ospedale del fratellino neonato, quando gioca con le sue bambole le porta tutte dal dottore perché stanno male…


Un’altra invece, la cui storia prenatale è stata segnata da un distacco di placenta alla decima settimana, la prima cosa che fa quando entra nel mio studio è andare a prendere la placenta di stoffa posta in un angolo del tatami che ho come area gioco, e portarla alla mamma chiedendole di attaccarla al bambolotto lì vicino…


Il disegno può essere un altro strumento che permette al bambino di esprimere emozioni nascoste che non si riescono a dire: non dimenticherò mai la quantità di figure contornate da punte che mio figlio Luis disegnò per un periodo intorno ai quattro anni dopo aver subito un trauma alla scuola materna, rimasto peraltro misterioso, ma che gli scatenò reazioni violente di paura tali da richiedere la somministrazione di un rimedio omeopatico ad altissime diluizioni…


Gli adulti possono trovare altre risorse per “rinegoziare” il trauma: la mia è sempre stata la scrittura, che mi ha permesso di trasformare il sacrificio in qualcosa di sacro, il dolore in dono per altri. Come diceva il personaggio di una serie televisiva da me molto amata “Quando accade qualcosa di brutto, bisogna trasformarlo in qualcosa di buono per riuscire a tirare avanti”…

Dare un senso alla propria sofferenza e fare sì che possa servire a evitare o perlomeno a ridurre quella altrui è ciò che aiuta di più a uscire dal labirinto dell’esperienza traumatica. Ed è così che, come ci ricorda Ferrucci, “Molto spesso l’area del trauma diventa l’area del servizio”27. Vi invito a rifletterci su.

SINTOMI TIPICI DEI GEMELLI SUPERSTITI:

  • Senso di colpa di vivere (per essere sopravvissuti).

  • Rabbia per essere stati abbandonati.

  • Senso di impotenza e sindrome del salvatore.

  • Senso profondo di solitudine e di vuoto interiore.

  • Dipendenza affettiva e tendenza a creare legami simbiotici.

  • Paura a dormire o restare da soli in casa.

  • Paura e attacchi di panico durante i viaggi (in aereo, treno, auto).

  • Difficoltà ad uscire e allontanarsi da casa.

  • Paura del buio e dei luoghi stretti e sotterranei.

  • Paura che il cuore all’improvviso smetta di battere.

  • Ricerca affannosa di un’anima gemella.

  • Ricerca di relazioni amicali profonde e intime, pervase da un senso di complicità, che però spesso si interrompono all’improvviso o non riescono ad andare oltre anche quando lo si desidererebbe.

  • Tendenza ad amare in modo assoluto, dandosi totalmente, e a idealizzare il partner: la relazione a due è di importanza “vitale”.

  • Attrazione per la forma duale: “noi due” è la parola più desiderata e appagante.

  • Creazione di un amico immaginario (con cui i bambini giocano o a cui gli adolescenti scrivono).

  • Ricerca di oggetti morbidi: cuscini, coperte, peluches… Nei bambini forte legame con un bambolotto o un animale vero o di peluche.

  • Tendenza a conservare gli oggetti rotti per riaggiustarli senza peraltro farlo mai…

  • Tendenza a perdere orecchini e calzini così da avere sempre la coppia spaiata…

  • Tendenza a comprare oggetti doppi.

Omaggio ai piccoli prematuri

È duro restare sulla soglia, un piede di qua, uno di là per non cadere. Così sottile e fragile il confine… Come camminare su un ponte di liane, traballante al vento. Incerto, esitante il passo: non è facile stare sulla soglia tra due mondi opposti. È lì che sta chi nasce prima del tempo. Installato nel mondo di mezzo, a metà strada tra la terra e il cielo. Né di qua né di là, semplicemente sospeso in mezzo alle nuvole bianche.


Cammina sul filo dei funamboli con le braccia tese. Meglio non guardare in basso ma solo avanti, un piede dopo l’altro. Instabile l’equilibrio, da ricreare ad ogni istante. Opera per artisti più che artigiani. Lo sguardo rivolto verso l’alto, a ricordarsi dell’azzurro del cielo, alla ricerca, disperata, di Luce.

Solo chi è stato lassù può capire. Solo chi ha vissuto in quella terra di mezzo, terra di nessuno, completamente solo, come unica compagnia se stesso.


Ma prima o poi arriva il giorno della scelta: di qua o di là, basta l’incertezza. Bisogna metter fine all’agonia. L’esitazione rende una lotta l’esistenza, il limbo impedisce la vita, quella vera, fatta di succo e polpa, di scorza e semi, di fiori e frutti. Sì, prima o poi arriva il momento della scelta: e allora si scavalca il guado senza più paura, che il tentennare è pena senza fine. Non facile il passaggio ma necessario per proseguire il cammino. Basta un passo e si è di là dal confine, sulla terra ferma, solida, dura. Basta un passo deciso per dire addio alla soglia. Ecco qualcuno arriva: apre la scatola di vetro e di metallo, si esce dalla prigione ma cosa ci attende fuori? Come sarà il mondo? Chi dentro all’incubatrice ha sperimentato solitudine e dolore, la puntura dell’ago al posto dell’abbraccio, il sondino o la bottiglia di plastica anziché il seno, è diffidente, non si aspetta molto dagli altri, dal mondo… E spesso tace…


Eppure dentro di sé conserva una forza senza paragoni. Chi sopravvive alla tempesta e all’uragano ha tempra d’acciaio e cuore di diamante: diventa un cristallo, fragile e forte insieme. Ha la potenza del seme, del germoglio che buca il terreno e si fa strada nelle fessure tra le rocce dei pascoli d’alta quota. È come il larice, dolce e aggraziato ma che resiste al gelo.


È come l’Aquila che vola in alto nel cielo e vede ciò che alla gente sfugge. Perché chi è nato prima è sempre un passo avanti agli altri, anche se a volte per recuperare il tempo perduto reclama di procedere con calma. Detesta la fretta. Datemi tempo, sembra dire…quello che non ho avuto… Datemi il nido che mi è mancato, la morbidezza e il calore che tanto avrei voluto…

Ma chi lo sa capire?


Forse solo chi è come lui, chi ha vissuto le sue stesse pene.

Ecco perché a voi, piccoli Kirikù, con sacra riverenza io rendo omaggio.

Compagni di viaggio
Compagni di viaggio
Elena Balsamo
Come adulti e bambini insieme possono aiutarsi a guarire.Una panoramica chiara ed esauriente dei diversi strumenti terapeutici alternativi a disposizione della famiglia e in particolare della coppia mamma-bambino. Compagni di viaggio volge l’attenzione alla salute emotiva della famiglia.Basandosi sulla sua personale esperienza di medico e di paziente, Elena Balsamo offre al lettore una panoramica chiara ed esauriente dei diversi strumenti terapeutici alternativi a disposizione della famiglia (e in particolare della coppia mamma-bambino), nonché numerosi spunti di riflessione sul significato della malattia e sul messaggio contenuto nei sintomi, per trasformare la sofferenza in un’occasione preziosa di apprendimento ed evoluzione. Conosci l’autore Elena Balsamo, specialista in puericultura, si occupa di pratiche di maternage e lavora a sostegno della coppia madre-bambino nei periodi della gravidanza, del parto e dell'allattamento.Esperta di pedagogia Montessori, svolge attività di formazione per genitori e operatori in ambito educativo e sanitario.