Ma torniamo alle situazioni più comuni: ci sono esperienze nella vita in cui ci troviamo improvvisamente incastrati, da cui non riusciamo per il momento a tirarci fuori, in una parola che non possiamo evitare di vivere.
Non sempre si riesce subito a trovare l’uscita dal labirinto… A volte si è chiamati a restare lì, nel dolore e nella sofferenza per un po’. Perché le prove fanno crescere e maturare.
Però anche in questi casi c’è sempre qualcosa che possiamo fare: possiamo cambiare le lenti ai nostri occhiali! E allora ci renderemo conto che è tutta una questione di prospettiva, di sguardo, di interpretazione.
Come ci ricorda una storiella attribuita al Buddha che racconta di due cani, i quali, in momenti diversi, entrarono nella stessa stanza: uno ne uscì scodinzolando, l’altro ne uscì ringhiando. Una donna li vide e, incuriosita, entrò nella stanza per scoprire cosa rendesse uno felice e l’altro così infuriato. Con grande sorpresa scoprì che la stanza era piena di specchi…
Il cane felice aveva trovato cento cani felici che lo guardavano, mentre il cane arrabbiato aveva visto solo cani arrabbiati che gli abbaiavano contro…
A dimostrazione che quello che vediamo nel mondo intorno a noi non è altro che un riflesso di ciò che siamo: una stessa situazione viene vissuta in modi completamente diversi da persone diverse (da fratelli e sorelle nella stessa famiglia per esempio). Questo succede perché ognuno è dotato di occhiali diversi: chi con le lenti grigie, chi con le lenti gialle, chi con le lenti rosa… Nel senso che ognuno guarda l’evento o la situazione attraverso il filtro delle sue passate esperienze (e di quelle familiari, delle generazioni che l’hanno preceduto) ovvero della sua programmazione. Un esempio a questo proposito, che per me fu la prova di quanto vi sto dicendo, è un aneddoto familiare: una volta, quando mia figlia frequentava le elementari, mi capitò di trovarmi in classe durante una lezione. Rimasi totalmente sconcertata e profondamente turbata sentendo con quale irruenza la maestra urlava ai bambini in quell’aula… Quando ne ebbi modo parlai a Sarah di quell’esperienza che mi aveva letteralmente sconvolto e preoccupato e le chiesi cosa pensasse a riguardo: ricordo come fosse ieri che lei mi rispose candida e tranquilla riferendosi alla maestra in questione “Sì urla, ma è così brava a disegnare e ci fa sempre fare i cruciverba…”! In poche parole mia figlia non era stata affatto turbata dai modi aggressivi della sua insegnante, semplicemente perché lei non osservava quella situazione dalla mia stessa angolazione: cioè quella di una bambina per la quale l’urlo era stato un’esperienza traumatica molto antica… Per Sarah, grazie a Dio, non era stato così e lei apprezzava della sua maestra un aspetto che considerava importante mentre per me sarebbe stato del tutto trascurabile…
Prendiamo come altro esempio la solitudine: per alcuni è una dimensione desiderabile e cercata, per altri una vera e propria tragedia. C’è chi aspira da sempre a una vita di coppia o a farsi una famiglia e chi invece difende a spada tratta la sua esistenza da single, c’è chi cerca i legami e chi li rifugge…
Tutto dipende dalla storia che ognuno si porta alle spalle: è ben diverso se in passato si ha vissuto un trauma d’abbandono o se al contrario ci si è sentiti soffocati. Le lenti cambiano e con esse anche la visione della realtà.
In ogni caso è possibile modificare la visione che ci siamo fatti della realtà.
Ricordo di averlo compreso chiaramente leggendo un giorno un passo di Assagioli, il padre della Psicosintesi: mi colpì profondamente la sua testimonianza in cui racconta dell’esperienza di prigionia che dovette subire in un certo periodo della sua vita e di come l’affrontò. La riporto per intero perché mi pare ben più esplicativa di tante mie parole.
“Mi resi conto che ero libero di assumere un atteggiamento o un altro nei confronti della situazione, di darle un valore o un altro, di utilizzarla o meno in un senso o nell’altro. Potevo ribellarmi, oppure sottomettermi passivamente, vegetando; oppure potevo indulgere nel piacere dell’autocommiserazione e assumere il ruolo di martire oppure potevo prendere la situazione in maniera sportiva e con senso dell’humor, considerandola come una nuova e interessante esperienza. Potevo farne un periodo di cura, di riposo, o di pensiero intenso su questioni personali, riflettendo sulla mia vita passata o su problemi scientifici e filosofici; oppure potevo approfittare della situazione per sottopormi a un training delle facoltà psicologiche e fare esperimenti psicologici su me stesso; o, infine, come un ritiro spirituale. Compresi che dipendeva solo da me capire che ero libero di scegliere una o più di queste attività o atteggiamenti; che questa scelta avrebbe avuto effetti precisi e inevitabili, che potevo prevedere e dei quali ero pienamente responsabile.
Nella mia mente non c’era dubbio alcuno circa questa libertà essenziale….”. Lo stesso principio, con parole diverse, me lo comunicò una volta il mio maestro di Tai-Chi quando mi lamentavo con lui di dover andare in un posto dove non avevo voglia di andare: “Puoi andarci in tanti modi – mi disse in modo pacato e poetico –: come acqua, come vento o come un guerriero…”. Riprendiamo il caso della solitudine: possiamo vederla come un’occasione per fare un balzo avanti nella consapevolezza, per superare una dipendenza, per riacquistare una libertà perduta, come una pausa per vivere altre esperienze in attesa di un futuro lieto evento, o come un tirocinio necessario e inevitabile, foriero di molte altre nuove possibilità… Ecco che allora tutto cambia: come per magia ogni cosa si trasforma e la rabbia a poco a poco si scioglie e lascia il posto all’accettazione, diventando forza e determinazione. È molto diverso dirsi “sono libero” anziché “sono solo”… Ecco dunque cosa possiamo fare sempre: modificare la chiave di lettura e la nostra modalità di reazione ad un evento. Perché – come ci ricorda Osho – non è l’evento in sé ma l’interpretazione che ne diamo che ci fa star male! In quanto è quasi sempre un’interpretazione errata, filtrata dalle nostre credenze, dalle nostre fantasie, dalle nostre memorie dolorose. Non è facile, lo so bene, applicare nella vita di tutti i giorni questo saggio principio, ci vuole molto esercizio, bisogna allenarsi ogni giorno con pazienza e perseveranza, ma è l’unica strada possibile se non si vuole rischiare di rimanere sommersi dal “destino”. Perché, come diceva Jung, “Quando un fatto interiore non viene reso cosciente, si produce fuori, come destino.” Noi siamo mossi, proprio come dei burattini, dalle nostre problematiche inconsce ma non ce ne accorgiamo. Solo quando ne diventiamo consapevoli ci rendiamo conto di poter tenere in mano il timone della nostra barca a vela, anziché innescare il pilota automatico, e impariamo a navigare seguendo le onde e il vento, guidati dalla luce di un faro che non si spegne mai.