capitolo vii

Cara mamma,
Mi sei mancata tanto...

Non c’è paracadute nel pozzo senza fondo dell’abbandono.

Alessandro D’Avenia

A volte i nostri doni più grandi nascono da ciò che non ci vien dato.

Erica Bauermeister

Spunti di riflessione sull’esperienza dell’abbandono

Quella dell’abbandono è una ferita talmente frequente che non posso non dedicarle qualche pagina in più… Perché l’abbandono non è solo quello reale, di chi è rimasto orfano, magari in tenera età, o è stato dato in affido o in adozione, o ha visto morire davanti ai suoi occhi un gemellino in utero, ma è anche la sensazione di essere stato abbandonato, che è estremamente più frequente e chiunque può aver vissuto in un momento particolare della sua vita.


Pensiamo per esempio ai bambini nati prematuri e chiusi nell’incubatrice, dove sono privati di ogni contatto con la mamma, anche per mesi interi, o ai neonati ricoverati per qualche patologia o a quelli che sono stati separati dalla madre nelle prime ore di vita per una malattia di quest’ultima o per essere sottoposti a intervento chirurgico: sono tutte situazioni in cui non c’è stata una volontà di abbandono e nemmeno un abbandono definitivo, ma in cui comunque il bambino ha vissuto un trauma di separazione in cui si è sentito abbandonato dalla persona affettivamente per lui più importante, quella deputata a garantire la sua cura e la sua sopravvivenza.


Perché un neonato, non dobbiamo dimenticarlo, è una creatura totalmente impotente, che non è in grado di farcela da sola. Il neonato è un essere indifeso che dipende dall’altro: da una figura di riferimento che si occupa di lui, lo nutre, lo veste, lo lava, ma soprattutto lo accoglie, lo guarda, lo tocca, gli dedica tempo e attenzione.

Come scrive Recalcati, perché il bambino possa trovare un posto nel mondo, perché abbia voglia di salire sulla giostra e non soltanto stare a guardare gli altri che ci vanno, occorre che egli “abbia esperienza dell’Amore dell’altro”, che possa sperimentare di essere importante per l’Altro1, perché “il desiderio dell’Altro umanizza l’essere vivente”2.


E gli permette di stare, di esserci pienamente. Come sottolinea lo psicanalista lacaniano, non si tratta di romanticismo, ma di una questione clinica molto seria. Ne è conferma l’esperienza documentata dei bambini abbandonati negli orfanotrofi rumeni durante la dittatura di Ceaușescu: quando quei luoghi disumani e fatiscenti furono aperti, dopo la caduta del regime, i cronisti si trovarono di fronte uno scenario impressionante, in cui la maggior parte dei piccoli ospiti era preda di grave psicosi. Solo alcuni sembravano essersi salvati: erano quelli che avevano avuto la fortuna di essere stati presi in braccio ogni tanto dalle infermiere e quindi aver ricevuto un contatto che andava oltre un freddo biberon lasciato nelle loro mani di bimbi.


Il bambino ha bisogno di “sentirsi colmo di un amore che lo renda unico e irripetibile per l’Altro”3: se non ha potuto vivere questa esperienza continuerà a cercarla per il resto della sua vita.

C’è poi un altro caso, che passa perlopiù inosservato, ed è quello della madre in lutto: una mamma cioè che ha perso un precedente bambino o un genitore o il partner poco prima o durante la gestazione e non è riuscita a elaborare il lutto. È, come abbiamo visto, l’archetipo Luna-Saturno: la madre girata, che guarda altrove, qualcuno che non c’è più.


Anche in questo caso il bambino vive un abbandono, non reale, fisico, ma emotivo: vive di riflesso l’abbandono della madre.


Questo tipo di trauma o di ferita genera nel piccolo emozioni di rabbia, senso di ingiustizia e di paura e dà vita ad alcune credenze molto profonde che saranno poi difficili da sradicare: la principale è “non merito di essere amato”. Perché il bambino, quando in famiglia accade qualcosa di negativo, pensa sempre di esserne la causa! Nasce così il senso di colpa: “avrò fatto qualcosa che non va” o “ho qualcosa che non va, non vado bene così come sono”. L’autostima è così minata per gli anni a venire. Anche da grande questo individuo si chiederà ogniqualvolta una persona gli girerà le spalle “che cos’ho fatto di male?” e si interrogherà per cercare una possibile falla, uno sbaglio, un errore commesso che può aver incrinato un rapporto, determinato una non risposta, senza rendersi conto che lui in realtà non c’entra nulla, che il problema è dell’altro, che gli sta solamente mostrando in uno specchio l’immagine del suo trauma infantile.


Chi ha vissuto un trauma da abbandono (o di rifiuto) sviluppa quasi sempre una dipendenza affettiva, cioè assume un atteggiamento fusionale/ simbiotico nelle relazioni: tende ad attaccarsi al partner (o amico o figlio), a soffrire se l’altro si allontana, fa fatica a stare da solo, si sente come sprovveduto di fronte alla vita e il suo motto sembra essere “non ce la faccio da solo”. In realtà è il suo bambino interiore che parla ed esprime tutta la sua sofferenza celata. Ma a volte la reazione può essere diametralmente opposta e portare a un’apparente immagine di indipendenza, a un non attaccamento e a un’incapacità di impegno affettivo che nascondono dietro di sé la paura di essere abbandonati e di soffrire di nuovo.

Lo spiega molto bene Policardo quando scrive: “Quante volte sentiamo dire a qualcuno che non riesce a costruire una relazione e soffre, storia dopo storia: ‘ho paura di perdere la mia libertà’. Questa frase ne nasconde una ben più profonda e reale: ‘ho paura di prendere l’amore, di prendere tutto l’amore, tutto quello che desidero, tutto quello di cui ho bisogno, tutto quello che è necessario per riempire la mia vita’”4.


Altre conseguenze del trauma d’abbandono sono la gelosia (soffro se l’altro guarda qualcun altro) e il perfezionismo: divento bravissimo per soddisfare le aspettative altrui e per sentirmi amato (pensiamo agli stacanovisti del lavoro). Ci sono persone che si sacrificano e si annullano per gli altri, mettendo le esigenze altrui, anziché le loro, al primo posto nella speranza di essere viste, ascoltate e amate. Per ottenere ciò sono disposte a tutto: ad accettare ciò che non va accettato, a farsi umiliare, a tacere quando sarebbe il momento di parlare, a buttare giù rospi senza fine, ad accontentarsi delle briciole quando meriterebbero il meglio dalla vita. Non esprimono la rabbia ed evitano i conflitti perché temono che tutto ciò porti a un nuovo abbandono (è sempre il bambino che pensa “se litigo e mi arrabbio non mi vuole più” o “una brava bambina non si arrabbia mai”).

Naturalmente questo atteggiamento non serve a ottenere i risultati desiderati, ma soltanto a far rivivere ancora e ancora la rabbia, la frustrazione e il dolore originari.


Anche la scelta delle relazioni ne viene influenzata: molto spesso una donna con un trauma da abbandono alle spalle attira partner che la fanno soffrire, che non contraccambiano il suo affetto o la abbandonano, quasi per darsi una inconscia conferma della credenza profondamente radicata in se stessa “non merito di essere amata”.


Continua così il circolo vizioso dell’abbandono, che genera rabbia mai espressa: è come un film di cui si continua a rivedere sempre la stessa scena. Riaffiora la sensazione di ingiustizia primaria: “Cos’ho che non va? Cos’ho fatto di male per meritarmi tutto questo?”. La risposta che tale individuo dovrebbe darsi è “Niente, io vado bene così come sono, io non c’entro nulla. Se l’altro non mi vede e non mi vuole il problema è suo”.


L’unica terapia è l’amor proprio, l’amore per sé: è questo che l’abbandonico ha dimenticato, o meglio non sa nemmeno cosa sia… Continua ad attirarsi abbandoni perché è lui stesso che si è abbandonato a un certo punto per strada. Ha perso il contatto con il suo vero Sé. Si è rifugiato nella mente e ha perduto il contatto con l’intuito e col corpo, dove risiede la vera saggezza. Ma non è colpa sua: è il mentale che l’ha salvato quando era troppo piccolo per vivere il dolore dell’abbandono, è la mente che l’ha protetto facendolo dissociare dal dolore, impedendogli di sentirlo perché allora l’avrebbe sopraffatto. Ora però, da adulto, è chiamato ad andare a riascoltare quella sofferenza per scioglierla una volta per tutte, perché ora che è cresciuto può farlo. “Allora ho dovuto, ora posso”...


La migliore formula che ho trovato per aiutarsi a uscire fuori dal trauma dell’abbandono è quella suggerita da Eileen Caddy (la fondatrice della comunità di Findhorn): IO VALGO – IO VADO – IO POSSO. Questa triplice affermazione cura la ferita di abbandono/rifiuto (Io valgo), quella di gelosia (Io vado) e quella della rabbia nata dal senso di impotenza (Io posso). Naturalmente non basta pronunciare una formula magica per guarire, occorre compiere un lavoro profondo su di sé, di ascolto del corpo e dei suoi messaggi, di liberazione delle emozioni, soprattutto di collera, per poter superare il trauma dell’abbandono o del rifiuto.


Occorre tempo e nel frattempo è bene nutrirsi e sviluppare delle risorse: fare ciò che dà gioia e lasciar andare ciò che non appaga; stare con le persone a cui si vuol bene e allontanare quelle che non sono in armonia con il proprio cammino; circondarsi di bellezza; sviluppare la creatività. In una parola: AMARSI.


Perché è solo a partire dall’amore per sé che può nascere l’amore per gli altri ed è solo quando ci si ama e ci si rispetta che si possono incontrare altri che allo stesso modo ci amano e ci rispettano.

In ogni caso poi, anche quando si è vissuta un’esperienza molto dolorosa e destabilizzante, è importante ricordarsi sempre, specialmente nei momenti di scoraggiamento, che “l’anima e lo spirito hanno risorse sorprendenti. Come i lupi e altre creature, l’anima e lo spirito riescono a crescere vigorosi con poco, addirittura nulla, e per lunghi periodi …questo è il miracolo dei miracoli”5.


Quando si ha vissuto un’esperienza di abbandono perché la propria madre era una madre fragile e accasciata o totalmente assente, non bisogna dunque perdersi d’animo o cadere in uno sterile vittimismo ma ricordarsi che un rimedio c’è e consiste nella capacità di fare da madre alla nostra giovane madre interiore. Questa capacità, come scrive Clarissa Pinkola Estés, “la si acquisisce da donne vere del mondo esterno più vecchie e sagge, e preferibilmente temprate come l’acciaio da tutto quanto hanno passato. Non importa il prezzo che continuano a pagare: i loro occhi vedono, le loro orecchie odono, le loro lingue parlano e sono gentili”. Occorre dunque mettersi alla ricerca di “madri spirituali” selvagge e sagge: “Siete nate da una sola madre ma, se siete fortunate, ne avrete più di una. E fra loro troverete quasi tutto ciò di cui avete bisogno”6.


Sì, questa è la strada e io lo posso testimoniare.

E per farlo, vi racconterò una storia.

C’era una volta una bambina piccina piccina, ma così piccina che quando nacque venne messa dentro a una scatola.


Per proteggerla, dicevano. Ma da che cosa? Lei certo non poteva capire. Sapeva solo che chiusa lì dentro non riusciva a vedere il cielo. E nemmeno a sentire il profumo del vento. E neppure ad ascoltare il canto della Vita.

Aveva fame, quella bambina piccina, ma non c’era un morbido seno a nutrirla né due braccia calde a cullarla. Faceva freddo in quella scatola di vetro e metallo e lei lì dentro si sentiva sola.

Molto sola, disperatamente sola.


Allora cercava di girarsi per guardare dagli oblò, da quelle due finestrelle che ogni tanto si aprivano per far entrare un braccio che le porgeva una bottiglia piena di latte.


Ma non era quello che lei cercava. Lei cercava due occhi, due occhi che incontrassero i suoi.

Lei cercava la Luce. Una luce che le illuminasse l’anima, che la scaldasse, che le impedisse di morire intirizzita. Dentro.


Lei cercava una voce, una parola, un canto, che le desse la forza di restare.

E fu così che un giorno, Qualcuno, impietosito, ascoltò la tacita preghiera del suo cuore e le mandò una fata. Una fata buona.

Una di quelle che una volta popolavano la terra in cui era nata la piccola bambina. La sua Jana aveva un bellissimo nome: si chiamava Bonaria e per lei sì, fu proprio “aria buona”.


Come la brezza di primavera che tiepida risveglia ogni cosa, che fa il solletico ai germogli, che li richiama alla vita.

A lei si affidò la piccola con fiducia, su di lei posò il suo piccolo cuore di neonata. E fu così che divenne la sua fill’e anima.


Eh sì, perché non si è solo figli di sangue della madre che ci ha messo al mondo, ma si può essere figli di anima della mamma che ci ha accudito appena arrivati sulla Terra, che ci ha toccato con amore, nutrito, coccolato, curato, che ha cantato per noi dolci ninne-nanne e tenere canzoni. E la bambina piccina piccina, lei sì, era proprio figlia di una fata…

C’era una volta una fata buona e una bambina che si incontrarono come per magia, poi però la vita le separò e le portò via.


La bimba crebbe e divenne donna. Partorì i suoi figli e se stessa nel dolore. Ma continuava a girarsi senza posa a cercare due occhi che incontrassero i suoi, a cercare una mano che prendesse la sua, due braccia che la stringessero forte e le permettessero di posarsi almeno per un po’ su di un cuore caldo di tenerezza, trepido d’amore. A cercare una voce che le dicesse “Non piangere figlia, non piangere più”.


A cercare un pezzo d’anima lasciato lontano, in una terra aspra, selvaggia e forte: la sua terra, la terra buona delle fate, la terra delle domus de Janas.7

E ancora una volta, Qualcuno ascoltò la sua preghiera e il suo straziante grido di dolore e di nuovo avvenne la magia: la bambina divenuta donna ritrovò Bona, la sua fata buona. E quando ne risentì la voce qualcosa si sciolse nel suo cuore che da troppo tempo era rimasto avviluppato: “la mia bambina…” le diceva la sua Bona e lei da quelle parole si lasciò cullare come dalle onde del suo mare, mentre dolci lacrime scorrevano sul suo viso a lavare in un solo istante mezzo secolo di inspiegabile dolore.


Il dolore della separazione improvvisa, che come un uragano aveva portato via a una bambina di due anni e mezzo la sua amata tata, rimasta al di là del mare.8 Ma proprio come le onde della marea, la Vita toglie e poi riporta… E prima o poi riunisce coloro che si amano… Perché l’amore, quello vero, non muore mai.

Cara mamma
Cara mamma
Elena Balsamo
Spunti per una maternità consapevole.Una miscellanea di scritti dedicati al tema della maternità, con spunti e riflessioni per viverla in modo autentico e consapevole. Dalla penna delicata di Elena Balsamo, una miscellanea di scritti che l’autrice ha voluto dedicare al tema della maternità.Cara mamma non è un testo di informazioni pratiche su come prepararsi alla nascita del bambino, ma un omaggio a tutte le madri che svolgono o hanno svolto, silenziosamente, con pazienza e umiltà, il mestiere più importante del mondo.Un libro dedicato a tutti i figli che sono impegnati nel faticoso processo di elaborazione della propria storia personale, così come a tutte le madri e a coloro che si apprestano a diventarlo. Conosci l’autore Elena Balsamo, specialista in puericultura, si occupa di pratiche di maternage e lavora a sostegno della coppia madre-bambino nei periodi della gravidanza, del parto e dell'allattamento.Esperta di pedagogia Montessori, svolge attività di formazione per genitori e operatori in ambito educativo e sanitario.