capitolo Vii

Lacrime e capricci

Comprendere la frustrazione e l’aggressività

Sa il cielo che non dovremmo mai vergognarci delle nostre lacrime, poiché sono pioggia sulla polvere accecante della terra che ricopre i nostri cuori induriti. Stetti meglio dopo aver pianto - fui più dispiaciuto, più consapevole della mia ingratitudine, più gentile.

Charles Dickens1

Nel bel mezzo di una riunione di lavoro, l’attenzione di Elise fu catturata da un messaggio convulso della suocera, che si stava occupando del figlio Nathan, tre anni e mezzo. Con voce controllata ma carica di panico, la nonna riferì che il nipotino stava avendo una crisi tremenda sul marciapiedi con urla, pianti e il rifiuto a muoversi. Quando Elise chiese cosa stava succedendo, la nonna rispose: “Stavo cercando di portarlo a mangiare il sushi come mi avevi chiesto, ma lui aveva altri piani - ora urla che vuole gli hamburger di prosciutto. Ho commesso l’errore di passare davanti a un ristorante che li serve e ora non mi ascolta più, puoi parlargli per favore?”, Elise replicò: “Basta che gli dici di no e lo conforti, va bene se piange!” La suocera fece una pausa abbastanza lunga perché Elise potesse sentire i lamenti del figlio: “Voglio le patatine fritte! Voglio gli hamburger di pollo!” poi riprese: “Urla da morire, è sconvolto, non riesco a sopportarlo. Mi spezza il cuore sentirlo piangere così e dire di no. Ti passo il telefono così glielo dici tu!”

Sentendo il pianto del figlio e la disperazione nella voce della nonna, Elise si rese conto che il sushi sarebbe stata ormai un’impresa inutile. Non poteva risolvere il problema da lontano, né poteva rischiare di trasmettere a Nathan il messaggio che la nonna non era in grado di gestirlo. Elise rispose con la migliore delle opzioni possibili: “Dì a Nathan che hai cambiato idea e che ora anche tu vuoi proprio mangiare un hamburger a pranzo. Digli che hai intenzione di prendere una bella decisione esecutiva da nonna e portalo lì!”. Udendo il sospiro di sollievo della nonna, Elise sperò che questo sarebbe bastato a convincere Nathan che c’era ancora qualcuno in grado di prendersi delle responsabilità, oltre a tirarli fuori dagli impicci.

La forza della frustrazione di un bambino piccolo può far crollare un adulto e farlo correre ai ripari, ma questo avrà un costo pagato dalla capacità dell’adulto di far accettare limiti e restrizioni al bambino. Di fronte alle lacrime e alle scene madri, gli adulti devono sapere quando cambiare qualcosa, quando aiutare il bambino ad accettare le cose che non si possono cambiare, e avere il discernimento per capire la differenza.

La forza dei bimbi ai primi passi e piccoli uragani

I bambini piccoli sono agenti di cambiamento feroci e tenaci che lottano per ottenere ciò che vogliono a tutti i costi. Le loro richieste sono fomentate dalle emozioni ma staccate dalle costrizioni imposte dalla realtà. Se un biscotto è buono, un’intera scatola dev’essere “buonissima”; i loro desideri non sono temperati dal sapere che non possono sempre ottenere tutto ciò che vogliono, né possono sapere cosa sia bene per loro. Possono discutere come avvocati, negoziare come mercanti e offrire una dimostrazione ampia del perché il pianto sia il suono più disturbante per l’orecchio umano, peggiore dello stridìo di una sega circolare2. Non si tratta di uno scherzo crudele ai danni dei genitori, bensì di un aspetto evolutivo ben congegnato che permette agli adulti di aiutare i piccoli ad adattarsi al mondo in cui vivono.
I bambini non nascono con una conoscenza innata di limiti e restrizioni, e per una buona ragione: per permettere una flessibilità, versatilità e malleabilità nel processo di adattamento all’ambiente. La sfida consiste in questo: gli adulti sono coloro che hanno il compito di presentare al bambino i limiti e le azioni infruttuose della vita, guidandolo attraverso la frustrazione affinché li accetti. Non riuscire in questo può favorire i problemi alfa e una mancanza di resilienza quando si devono affrontare delle avversità.

I bambini piccoli fanno esplodere la frustrazione nel loro stile unico, che può includere grida, strepiti, calci, morsi, sbattere la testa, graffiare, dare pizzichi, vomitare o una combinazione di questi. Come disse un papà: “Appena mio figlio di due anni non ottiene ciò che vuole - della cioccolata, la sedia su cui è seduta la sorella, un giocattolo, articoli disparati in giro per casa come la coda del cane - colpisce, morde e lancia qualsiasi cosa abbia per le mani. Urla anche molto forte e ci sono lacrime di rabbia!” Ironia vuole che la particolare inclinazione di un bambino nell’esprimere una terribile frustrazione sembri coincidere con ciò che è più oltraggioso per il genitore. Ai genitori che hanno la fobia del vomito sembra che capitino figli dal rigetto facile, mentre chi è molto sensibile ai rumori se la deve vedere con degli urlatori. Una mamma che aveva adottato un bambino alla nascita mi chiese: “Non urliamo né alziamo la voce a casa nostra, mio marito e io siamo i genitori più tranquilli del mondo, ma mia figlia ha iniziato a buttarsi per terra e a urlare a pieni polmoni. Sono preoccupata - c’è qualcosa che non va con la sua salute mentale?” Sebbene la rassicurassi che le scenate sono comuni nei bambini piccoli, mi chiese ancora: “Ma cosa dovrei fare quando si comporta così?”
I genitori testimonieranno che la prima infanzia è un periodo violento a causa della mancanza di controllo dei bambini sugli impulsi e le emozioni forti. Come afferma Gordon Neufeld: “È una fortuna per noi che siano piccoli e abbiano una pessima mira!”3 La loro frustrazione può esplodere in un secondo, portando con sé sfide inaspettate e comportamenti incivili. Un genitore può turbarsi alla vista del figlio che scatta, come mi ha rivelato una mamma per telefono: “Oggi, quando mia figlia di tre anni mi ha dato un pugno in testa, urlando e tirando calci, mentre la trascinavo via da un negozio, perché avevo rifiutato di comprarle un cosa, ho capito che avevo bisogno di strategie migliori per trattare con lei!”. La cosa buona è che, in uno sviluppo ideale, le reazioni intemperanti dovrebbero scemare verso i 5-7 anni; le forme fisiche di aggressione trasformarsi in forme verbali e il bambino iniziare a sussultare e tremare ma l’esplosione di violenza fisica dovrebbe essere meno frequente. Come disse un bambino di cinque anni dopo essersi dispiaciuto per aver gridato: “Ho cercato di trattenermi, ma il mio collo e la mia bocca non ce la facevano più!”
È quel mescolarsi di sentimenti e pensieri che arriva con il passaggio dei 5-7 anni a portare una risoluzione naturale alla frustrazione intemperante dei piccoli. Quando un bambino si sente sia frustrato sia timoroso di ferire l’altra persona, il conflitto fra questi sentimenti mitiga le reazioni. Quando percepisce sia l’impulso ad attaccare qualcuno, sia la preoccupazione di non fargli male, si dimostra capace di un maggior autocontrollo. La mescolanza di sentimenti e pensieri tiene a bada l’esplosione e permette alle parole di diventare la risposta alla necessità di esprimere la propria frustrazione. Con la guida degli adulti, anche le parole si trasformeranno in forme espressive più civili - “Ti odio papà, faccia di pupù!” diventerà: “Mi sento frustrato, non mi piace la tua risposta!”

La frustrazione è spesso vista come un’emozione problematica perché è associata a un’energia di attacco e ad azioni aggressive. Eppure, la frustrazione non è qualcosa che dobbiamo disapprendere; è un’emozione importante che fa parte di noi per ottimi motivi. È una forza possente che ha un lavoro da svolgere - la frustrazione è l’emozione del cambiamento. Ha il compito di determinare un effetto dirompente, e non è qualcosa a cui possiamo sfuggire o che possiamo estinguere. La frustrazione ci muove a lavorare sodo per ottenere ciò che vogliamo o per cambiare le cose che non vanno. Saremo di grande aiuto ai nostri figli se sapremo aiutarli a sfruttarne la forza e a ricondurla nell’ambito di un sistema di intenzioni e abilità decisionali per quando saranno dei giovani adulti. Saranno in grado di giungere a un cambiamento effettivo in modo civile e responsabile. Sapranno considerare se stessi e gli altri come responsabili di ciò che non funziona e che deve essere cambiato. Dobbiamo aiutare un bambino a capire questa potente riserva di energia emotiva che risiede dentro di sé. Più si matura, più la frustrazione sottende la nostra capacità di cambiare il mondo che ci circonda e noi stessi.

Come si aiuta un bambino frustrato?

La frustrazione è un’emozione forte che spinge il bambino a cambiare quello che non va. Tuttavia, deve essere ben equipaggiato per vivere in un mondo dove non sempre ottiene ciò che vuole. Talvolta è lui ad aver bisogno di cambiare e i genitori lo aiuteranno ad abbandonare i suoi programmi e a capire che può sopravvivere anche senza fare come voleva. Per realizzare questo, gli adulti dovranno accettare che non c’è nulla di sbagliato nei desideri e nella volontà di un bambino piccolo - come mangiare biscotti a colazione o restare alzato fino a tardi. Quello che è imperativo è che l’adulto sia all’altezza delle proprie responsabilità e metta il bambino di fronte alle infruttuosità della vita, che sono molte, come quando si tratta di aiutare un piccolo di tre anni ad andare a dormire anche se afferma: “Non voglio andare a letto, sono notturno come il mio criceto!”


Aiutare un bambino ad accettare che qualcosa non porta frutti non è un processo logico, bensì emotivo. Il bambino non è buon giudice di ciò che è infruttuoso e ha bisogno di aiuto per capire quali obiettivi possono essere raggiunti e quali devono essere abbandonati. Potrebbe andare avanti in eterno nel tentativo di ottenere ciò che vuole e gli adulti devono avere un ruolo attivo nell’aiutarlo a trovare pace rispetto alle imprese inutili. Gli sforzi per convincere un bambino piccolo con la razionalità e la ragionevolezza sono di solito destinati al fallimento. È necessario che, per essere registrata, l’inutilità attraversi il loro cuore, non la loro mente. Devono sentire che si trovano di fronte a un limite o a una restrizione della vita. Dobbiamo far sì che sia chiaro al loro cuore il fatto che qualcosa non accadrà. Dobbiamo aiutarli ad ascoltare il nostro “no” e a sentirsi spinti ad accettarlo emotivamente. Proprio come in un labirinto, il bambino ha bisogno di sentire dov’è la strada senza uscita, così da riuscire a trovarne un’altra. Come disse un bambino di quattro anni al papà che non intendeva cambiare idea: “Papà, non mi piace questo no, lo vado a dire alla mamma!”

Un bambino può accettare che qualcosa sia inutile solo se è mosso alla tristezza, al disappunto e al senso di perdita quando non è in grado di effettuare un cambiamento. Se il cuore del bambino è tenero e in grado di provare sentimenti di vulnerabilità, alla fine la rabbia si trasformerà in tristezza. I sentimenti di frustrazione dovrebbero sciogliersi in sentimenti di inutilità. Sono le lacrime di tristezza (da non confondersi con quelle di rabbia) che segnalano la fine del tentativo infruttuoso e comunicano che il cervello ha ricevuto il messaggio che qualcosa non cambierà. Il lamento infinito, l’energia ronzante piena di frustrazione del bambino piccolo si trasforma, come per magia, nella tristezza o nella delusione. I sentimenti di frustrazione dovrebbero arrestarsi a un punto morto e l’energia emotiva trasformarsi in resa - il bambino trova la sua pace. Nel momento in cui accetta ciò che non può mutare, ecco che le lacrime potrebbero iniziare a scorrere. È attraverso un sentiero di lacrime, di tristezza o delusione per ciò che non può mutare che il bambino piccolo arriva ad accettare le infruttuosità della vita e diventa più resiliente e pieno di risorse.


Beatrice ha tre anni ed è innamorata delle caramelle, le chiede di continuo, soprattutto a colazione. Dopo molti no, molte lacrime di tristezza e molto conforto da parte della mamma, Beatrice accetta il verdetto e non le chiede più. La mamma si sorprende quando, un mese più tardi, Beatrice chiede di nuovo le caramelle a colazione. Un po’ frustrata, la mamma replica con sarcasmo: “Come no! Ne puoi avere quante ne vuoi a colazione! Anche torte e biscotti! E non dimenticare il gelato nel freezer, prendi la tua tazza e riempila!” Gli occhi di Beatrice si spalancano e resta a bocca aperta finché, dopo aver ripreso fiato, dice: “Mamma, dovresti essere morta per farlo succedere!” La mamma si rassicura, perché Beatrice si è adattata ma il suo spirito non ne è uscito distrutto; ha capito che le caramelle sono vietate a colazione, il che non vuol dire che non continui a desiderarle.

Le lacrime di tristezza sono importanti

Le lacrime di tristezza o delusione ci fanno sapere che il bambino ha registrato la natura infruttuosa del suo agire. Come afferma la psicologa evolutiva Aletha Solter: “Quando i bambini piangono la ferita è già stata inferta. Piangere non riguarda la ferita ma il processo di guarigione.” Per le neuroscienze, la capacità di piangere di fronte alla sofferenza emotiva è una caratteristica unica dell’uomo, confermando l’affermazione di Darwin secondo cui rappresentano una forma espressiva molto speciale riservata solo a noi. Le lacrime vengono associate alla capacità di dare sollievo, ridurre la tensione, ristabilire il benessere. Gli studi di William Frey hanno scoperto che le lacrime di tristezza buttano fuori tossine provenienti dal circolo sanguigno4. Versare lacrime implica anche un rilascio di ossitocina, l’ingrediente chimico dell’attaccamento, capace di inibire l’azione del cortisolo, rappresentante chimico-biologico dello stress. Quando i bambini piangono e ricevono conforto dalle figure di attaccamento, aumentano i livelli di ossitocina e diminuiscono quelli degli ormoni legati allo stress5. Nel bambino piccolo, le lacrime sono il miglior indicatore di un sistema emotivo che funziona bene.

Uno dei problemi delle lacrime è che la loro manifestazione non è apprezzata in pari modo per i maschi e le femmine. La definizione corrente di mascolinità spinge i genitori a reprimere il pianto e i sentimenti di vulnerabilità nei bambini maschi6. È interessante sapere che non è sempre stato così. Un tempo le lacrime erano considerate un segno di virtù e di buon carattere negli uomini7. Se le lacrime non sono le benvenute, rischiano di restare bloccate e la frustrazione del bambino può esprimersi in forme di minor vulnerabilità, come l’aggressione fisica.

A dispetto dell’effetto ristoratore che le lacrime hanno per entrambi i sessi, oggi sono minacciate da un mondo che divide le emozioni in due categorie, quelle negative e quelle positive, dove la felicità e la calma devono essere conseguite a spese della tristezza e dell’agitazione emotiva. William Blake scriveva: “Letizia e pena sono intrecciate per bene”8, suggerendo che l’appagamento nella vita contempla sentimenti sia tristi sia gioiosi. Quando comunichiamo ai nostri figli che c’è qualcosa di sbagliato con l’essere tristi, ne sabotiamo le lacrime e un’opportunità di trovare pace rispetto a ciò che non può essere cambiato. Un mancato sostegno al pianto è a spese della capacità di adattamento e della resilienza. I genitori talvolta credono che le lacrime siano il segno che hanno fatto qualcosa di sbagliato, quando invece sono un indicatore che il bambino si fida di loro con tutto il cuore.

Forse la radice della resistenza sociale e culturale alle lacrime è che comunicano vulnerabilità e dipendenza. Il biologo evolutivo Oren Hasson sostiene che l’apparire delle lacrime comunichi un abbassamento delle difese per rendersi più disponibili a ricevere cure e conforto9. In un mondo che prospera sull’indipendenza e spinge i bambini a crescere troppo in fretta, le lacrime sono l’antitesi esatta di questo messaggio. Il pianto segnala la dipendenza e comunica un forte desiderio di essere accudito. La sopravvivenza emotiva del bambino piccolo richiede che egli si tenga ben stretto a un adulto amorevole.
I piccoli non sono fatti per aver cura dei propri sentimenti, iniziano appena a conoscerne i nomi e non riescono ad esercitare un controllo su di essi. Dobbiamo smetterla di gettare sulle spalle del bambino la nostra responsabilità nei confronti dei suoi stati d’animo sconvolti con affermazioni del tipo: “Controllati!”, “Stai clamo!”, “Perché ti agiti così?”, “Te l’ho ripetuto cento volte!”, “Smettila di fare così!”, “Finiscila!”, “Devi vedere la cosa più in positivo!”, e il classico: “Per cosa piangi? Te lo do io qualcosa per cui piangere davvero!”. Dobbiamo invece prenderci cura della sua frustrazione e del suo pianto, sono i segnali più chiari che ha bisogno di aiuto. Aiutare un bambino a capire cosa c’è dietro le sue lacrime è l’obiettivo, ma non condividerà le sue emozioni con chiunque; la capacità di aiutare il pianto di un bambino fa capo alla danza di attaccamento e a chi sia l’adulto dal quale il bambino stesso dipende.

La cosa buona delle lacrime è che cercano sempre una via per esprimersi, proprio come la frustrazione. Talvolta, la porta alla tristezza viene aperta nel modo più peculiare - un piede che inciampa, un giocattolo che si rompe, l’orsacchiotto che si è perso. Alcuni genitori si sorprendono per la quantità e l’intensità delle lacrime una volta aperto il canale. Quando si capisce che il pianto è lì in attesa di poter sfogare, è più facile star vicino al bambino anche per inconvenienti apparentemente banali che aiutano la manifestazione delle lacrime. Una madre ricorda il momento in cui il suo bambino affetto da autismo è scoppiato a piangere all’improvviso.
Alex usciva da un anno di grande ansia, fobie spaventose, grande sofferenza, più di quanto credevo possibile per un bambino di quattro anni. Un giorno, mentre sedeva al computer, trovò una musica, un madrigale malinconico e fu talmente toccato da quella meravigliosa tristezza che iniziò a piangere. Un pianto silenzioso, profondo e triste, non la protesta urlante e torturante a cui ero stata abituata per tutto quell’anno. Era tantissimo che non lo sentivo piangere così.
La mamma è stata mossa alle lacrime dall’espressione emotiva del figlio, sorpresa che quella musica avesse potuto tirar fuori così tanto dei sentimenti del bambino, e così grata che fosse successo. Uno dei doni migliori che possiamo fare ai nostri figli è dare valore al loro pianto di tristezza e fare spazio perché trovi sfogo.
I bambini piccoli sono creature fatte per adattarsi, attendono di dipanare il loro essere grazie alle cure appropriate fornite dai genitori. È un processo caotico e disordinato, rumoroso, violento, imprevedibile, stancante e gratificante quando i frutti del processo di adattamento maturano sotto i nostri occhi. Il dono migliore che possiamo offrire a un bambino piccolo è aiutarlo a trovare la tristezza e il pianto quando si trova di fronte alle cose che non può cambiare. Sarà così capace di imparare dai propri errori, di essere trasformato da ciò che non può cambiare, e di usare la propria frustrazione per cambiare le cose che possono essere mutate. A volte, la forza emotiva che è dietro la frustrazione può essere placata solo dalla resa che accompagna il pianto, nel momento in cui trovano pace i nostri tentativi infruttuosi. Le lacrime pacificano il bambino così che possa poi continuare a giocare e crescere - a noi il compito di strappargli il pianto e confortarlo come serve.

I più comuni tentativi inutili dell’infanzia

La rabbia e la frustrazione devono trasformarsi in tristezza quando ci si scontra con ciò che non si può cambiare. Ecco quindici delle più comuni esperienze di impossibilità che i piccoli si trovano ad affrontare, insieme alle quattro con cui per loro è più difficile dover fare i conti.
  1. L’impossibilità di restare aggrappati alle esperienze piacevoli. Quando i bambini piccoli si divertono, non vogliono che finisca; del resto, chi potrebbe biasimarli? Dover andar via da casa di nonna, mettere fine a un incontro di gioco o a una festa di compleanno rischia di provocare risposte frustrate. Ogni volta che c’è una transizione, devono dire ciao a qualcosa, e questo comporta spesso tristezza e frustrazione.
  2. L’impossibilità di cercare a tutti i costi far funzionare qualcosa di rotto. I bambini piccoli credono che gli adulti sappiano aggiustare qualsiasi cosa, dai giocattoli rotti al cattivo tempo. Vi diranno che vogliono il sole in una giornata piena di nuvole, o che un negozio apra quando è chiuso. Le loro aspettative hanno poco a che fare con la realtà e tutto con i loro desideri.
  3. L’impossibilità di voler possedere un genitore o chicchessia. Non appena viene tagliato il cordone ombelicale, un bambino non sarà mai più tanto prossimo a qualcuno, ma questo non gli impedisce di provarci e di reclamare il possesso delle altre persone. Condividere chi amano con chiunque è difficile e può sfociare in battaglie territoriali.
  4. L’impossibilità di rispedire un fratellino da dove è venuto. Adattarsi a un nuovo fratellino spesso implica un percorso di frustrazione e molte lacrime versate su tutti i cambiamenti, incluso l’avere minor attenzione, più confusione e spazi da condividere. Gabriella, quattro anni, dice alla mamma incinta: “Se sarà una bambina la chiamerò ‘Pattumiera’ e la butterò nel cassonetto. Se sarà maschio allora lo chiamerò ‘Bimbo’ e gli comprerò un regalo speciale”.
  5. L’impossibilità di essere più intelligenti di quello che si è. Una delle esperienze che si fanno quando si va a scuola è la diversità rispetto agli altri bambini. Magari si vuole leggere o lanciare la palla come un altro bambino o si diventa frustrati mettendo a confronto i talenti. I bambini non nascono con la comprensione che ciascuno è diverso e che molte cose si imparano dopo tentativi ed errori. Quello che loro vedono è la distanza fra ciò che sono e ciò che vorrebbero essere.
  6. L’impossibilità di voler essere perfetti o evitare il fallimento. I bambini piccoli possono sentirsi frustrati quando commettono errori o quando l’immagine che hanno nella testa non prende vita nel modo sperato. Le torri cadono a terra e i disegni sono migliori nell’immaginazione, il che porta a esplosioni di frustrazione. Trovarsi faccia a faccia con l’imperfezione umana è frustrante e suscita il pianto.
  7. L’impossibilità di esercitare un controllo sulle circostanze. Ci sono molti eventi nella vita che non possiamo controllare, come il trascorrere del tempo e la perdita delle cose che amiamo. Sono esperienze che per i piccoli rappresentano spesso un’autentica frustrazione e un motivo di preoccupazione. Una mamma ha scritto: “Ricordo mia figlia la prima volta che prendemmo i pulcini. Ce n’era uno piccolo che non aveva un’aria molto sana sin dall’inizio. Mia figlia lo aveva chiamato Humphrey. Nei tre giorni successivi ci unimmo tutti nello sforzo di farlo sopravvivere e lei si disperava in anticipo perché era chiaro che il pulcino non stesse bene. Quando morì, notai che una parte di me avrebbe voluto far finta che non fosse successo per poter dire “se ne è andato” oppure “è morto durante la notte” e rimuovere così l’evidenza del cadavere per evitare di sconvolgerla. Invece lo lasciammo lì perché lei potesse vederlo morto al mattino. Pianse a non finire. Seppellimmo Humphrey con una piccola cerimonia e lei continuò ancora a piangere. Parlammo di Humphrey per mesi, e ancora le veniva sempre da piangere. La volta successiva che perdemmo un pulcino, circa un anno dopo, Jasmine pianse un poco e poi disse: “La seconda volta è più facile!”
  8. L’impossibilità di riportare indietro il tempo o disfare ciò che è stato fatto. I bambini piccoli spesso cambiano idea e cercano di prendere decisioni diverse retroattive. Mangiano un gelato al cioccolato solo per girarsi verso di voi e dire che in realtà volevano la vaniglia. L’idea di permanenza e del non poter disfare ciò che ormai è stato fatto è difficile da afferrare per un bambino piccolo e crea frustrazione.
  9. L’impossibilità di fare magie o sconfiggere le leggi di natura. La prima infanzia è un periodo in cui si imparano le leggi di natura. Un papà mi ha raccontato che suo figlio andava in crisi ogni volta che lanciava la palla in un particolare punto a mezz’aria dove voleva che restasse, vedendo poi che ricadeva sempre al suolo. Osservare il divario fra la propria immaginazione e la realtà può essere frustrante.
  10. L’impossibilità di vincere tutte le volte. Quando i bambini piccoli giocano a un gioco, spesso vogliono vincere - a tutti i costi, anche con l’inganno. Cambierebbero le regole per venire incontro ai propri bisogni o ne farebbero di nuove in corso d’opera. Ho sentito bambini dire: “Se vinci in realtà vuol dire che hai perso, e se perdi allora invece hai vinto!” Una mamma era inorridita al mio suggerimento di non far vincere sempre i più piccoli: “Stai dicendo che non dovrei far vincere sempre a scacchi mio figlio di cinque anni? Ma è piccolo!” Le risposi chiedendole dove ritenesse che fosse meglio per il figlio imparare a non vincere sempre. Dopo averci pensato su, convenne che forse poteva avere un ruolo nel preparare suo figlio a saper perdere a scuola durante i giochi con gli altri bambini.
  11. L’impossibilità di essere più grandi di quanto si è. Quando i bambini si paragonano agli altri, magari vorrebbero essere più alti, più grandi o più robusti. Un bambino di cinque anni ha chiesto al padre: “Posso raccontare agli altri che ho sei anni anche se non li ho?”, e quando il padre gli ha chiesto il perché, ha risposto: “Perché in classe sono tutti più grandi di me e anch’io voglio avere sei anni!”. La replica del padre è stata saggia: “Sei quello che sei e non puoi cambiarlo!”
  12. L’impossibilità di essere i migliori e primi in tutto. I bambini piccoli hanno istinti alfa che tentano di esprimere, desiderando perciò arrivare primi, essere i migliori e stare sempre avanti agli altri. I “Poveri perdenti” sono bambini che non sono stati aiutati ad accettare l’inutilità del volersi trovare sempre in cima. Le manovre dei bambini per la posizione si svelano quando si scontrano gli uni con gli altri per mettersi in fila a scuola. È importante che si eviti al bambino di essere sempre primo e lo si aiuti a capire che può sopravvivere anche così.
  13. L’impossibilità di essere i benvenuti anche quando non lo si è. Talvolta capita che i bambini non siano invitati a feste o incontri, altre volte i fratelli non vogliono giocare con loro e agli adulti spetta ogni tanto il compito di aiutarli a trovare la tristezza e il pianto per essere stati rifiutati. Spesso gli adulti si affrettano a oliare le relazioni problematiche fra coetanei, insistendo che i bambini dovrebbero essere tutti amici, nello sforzo di evitare che qualcuno si senta ferito. È del tutto comprensibile, specie per quei bambini che vivono molti rifiuti da parte dei coetanei, ma è anche importante che il bambino piccolo sia in grado di capire quando non è il benvenuto e reagisca di conseguenza.
  14. L’impossibilità di sapere quello che accadrà. Succede che i bambini piccoli vogliano sapere cosa accadrà, spesso per via di timori o sentimenti di incertezza, come il primo giorno di asilo. Aiutarli a trovare le lacrime per i cambiamenti a venire e rassicurarli che ci si prenderà cura di loro, li aiuterà ad alleviare paure e frustrazioni legate all’imprevedibilità dell’ignoto.
  15. L’impossibilità di evitare i turbamenti. I bambini spesso vogliono evitare turbamenti come la noia o la tristezza, cercano magari di distrarsi o di essere stimolati. Parte del compito del genitore è quello di aiutarli ad affrontare gli stati d’animo turbati tipici della vita, come quando si perde un pallone o un gelato cade per terra, senza tentare di evitare del tutto simili situazioni.

Le quattro impossibilità che è più difficile affrontare

  1. Quando si devono affrontare limiti e restrizioni. Non appena il bambino piccolo inizia a camminare, i suoi desideri e interessi prendono vita mentre esplora l’ambiente circostante. È tipico del bambino non amare che gli vengano imposti limiti o costrizioni e preferire di fare ciò che vuole: giocare anziché fare un riposino, uscire senza giacca, svuotare credenze e cassetti. Ogni volta che un adulto impone qualche limite o restrizione è inevitabile andare incontro a un po’ di frustrazione. L’importante è non usare sempre la distrazione o altre misure per evitare le crisi e aiutare il bambino a trovare le sue lacrime.
  2. Quando si cerca di controllare le azioni e le decisioni degli altri. Quando il bambino non riesce a controllare quello che fanno gli altri, è possibile che si senta frustrato per l’incapacità di alterarne gli esiti. Una bambina di quattro anni ha detto al suo amico di smetterla di mettere in disordine il tavolo mentre giocavano con gli orsacchiotti. Lui non l’ha ascoltata, nonostante i ripetuti tentativi di farlo smettere. In un gesto disperato, lei gli ha urlato e ha iniziato a colpirlo con le posate di plastica. Allora lui si è messo a gridare, incapace di fermare l’accoltellamento, e ha strillato: “Non sono stato io! È stato il mio orsacchiotto!” A quel punto, lei ha iniziato a colpire l’orsacchiotto con la forchetta. È dura quando i bambini capiscono che non possono esercitare un controllo su ciò che fanno gli altri.
  3. Quella che deriva dalla propria natura. I bambini piccoli spesso vogliono padroneggiare cose che il loro corpo deve ancora imparare a fare, come allacciarsi le scarpe, far scattare la chiusura delle cinque cinture di sicurezza del loro seggiolino, arrampicarsi su una parete da arrampicata, colorare dentro gli spazi o scrivere il proprio nome. Talvolta hanno disabilità che rendono difficile il movimento e l’apprendimento. Limiti fisici o emotivi possono generare frustrazione e richiedere l’intervento delle lacrime per adattarsi a ciò che è possibile. I bambini sensibili spesso hanno bisogno di versare molte lacrime su tutte le cose che non vanno per il verso giusto.
  4. Quella che deriva dall’appagamento mancato. L’appagamento scaturisce dal raggiungere qualcosa di voluto o desiderato, ma non è sempre realistico o possibile. Succede che i bambini non ottengano ciò che vogliono, come il gattino o il cucciolo che avevano chiesto a Babbo Natale. Hanno desideri, programmi, richieste e bisogni che vengono disattesi, e questo provoca frustrazione. Come ha esclamato un bambino: “Il compleanno di mio fratello è il giorno peggiore della mia vita!”. Uno dei bisogni frustrati più difficili da accettare è la separazione da qualcuno che amano e a cui vogliono restare vicini, come nel caso di un genitore che non può restare con loro. Questo suscita allarme, insieme alla ricerca della persona amata, e ne discuteremo ancora nel capitolo 8.

Aiutare il bambino ad adattarsi alle frustrazioni della vita

Come possiamo aiutare un bambino quando la frustrazione erompe? Come sviluppiamo una relazione con la sua frustrazione in modo che questo lo aiuti ad adattarsi riconoscendo ciò che è infruttuoso? La Rotonda della frustrazione di Neufeld ci mostra le tre possibili uscite dalla frustrazione e come i genitori possano aiutare il bambino a spingersi verso l’adattamento quando le cose non possono mutare. La frustrazione ha tre possibili esiti: 1) il bambino cerca di modificare quello che non va; 2) il bambino si adatta a ciò che non può cambiare, o 3) il bambino muove all’attacco.
1) Il bambino cerca di modificare quello che non va
Quando un bambino è frustrato, una delle prime cose che potrebbe tentare è di produrre un cambiamento pregando, implorando, piangendo. La frustrazione sparirà se il genitore asseconda la richiesta, ma questa è una decisione discrezionale che va presa di volta in volta. Le considerazioni da fare includono i tempi, il contesto, chi dirà di no e dovrà poi gestire la potenziale crisi. Un genitore non dovrebbe dire di no solo per tenere il punto. La capacità di un bambino di adattarsi è messa a dura prova quando è esausto, affamato o malato, ed più facile che in queste circostanze egli venga sopraffatto dalla frustrazione.

Se un bambino non riesce ad accettare un “no” in un ambito particolare, come le caramelle a colazione, sarà il caso che il genitore cerchi di rappresentare l’impossibilità legata a questo particolare aspetto finché il bambino non abbia accettato i limiti e le restrizioni. Se un genitore concede sempre, distrae o corrompe il bambino per evitare crisi e lacrime, al bambino resteranno poche esperienze a cui adattarsi e questo avrà un impatto negativo sulla sua resilienza generale. Se un bambino vede che un genitore è sempre timoroso o incerto su come affrontare la sua frustrazione, possono sorgere anche problemi alfa. È importante che un genitore interpreti il bambino e la situazione per determinare quando dire di no e quando appagare i desideri del figlio.

Se un genitore non ha intenzione di andare incontro alle richieste del bambino, la frustrazione del piccolo potrebbe essere diretta a far cambiare idea all’adulto, con domande del tipo: “Perché non posso?”. I bambini piccoli riescono ad essere instancabili agenti di cambiamento che rifiutano di accettare un no come risposta. L’errore fatale, a questo punto, sarebbe quello di spiegare perché state dicendo di no. I genitori rischiano di finire intrappolati in una conversazione logica con il bambino piccolo, con argomentazioni esposte e ribattute, negoziazioni cercate e rifiutate. Di fronte agli incessanti perché, i genitori devono solo riflettere su quanto sia frustrante non ricevere la risposta che si desidera.

Due genitori sono venuti da me per i continui battibecchi con il loro bambino piccolo ogni volta che dicevano di no, il che portava a capricci infiniti. A un esame attento, è stato chiaro che finivano intrappolati in conversazioni logiche e circolari.

Teddy: “Per favore, papà, posso avere un altro biscotto? Sono così buoni!”

Papà: “No, ne hai già avuto uno adesso e un altro prima!”

Teddy: “Ma hai detto che potevo averne uno dopo cena!”

Papà: “E infatti è quello che ti ho appena dato!”

Teddy: “Ma perché non posso averne anche un altro? Sono piccolissimi!”

Papà: “Perché ho detto di no. Non ti fanno bene!”

Teddy: “Ho mangiato tutte le verdure, ti prego!”

Papà: “Basta biscotti, ti ho già detto che fa male mangiarli prima di andare a dormire!”

Teddy: “Mamma me ne dà di più, ne voglio un altro!”

Ho chiesto ai genitori se riuscivano a dire di no in modo fermo ma gentile, evitando di dibattere e spiegare le loro ragioni a Teddy. Il bambino non riusciva a sentire il loro no perché, finché discutevano con lui, credeva ci fosse ancora una possibilità che loro cambiassero idea. Si sono messi a ridere: “Deb, siamo due avvocati, è quello che facciamo tutto il santo giorno - discutiamo, dibattiamo, siamo logici. È difficile tornare a casa da un bambino dell’asilo, ci vogliono abilità del tutto diverse!” Gli ho dato ragione con tutto il cuore e li ho incoraggiati a dire di no senza negoziazioni, per aiutare Teddy a capire quando era inutile insistere.
2) Un bambino si adatta a ciò che non può cambiare
Se vogliamo che un bambino si adatti quando è inutile insistere, dobbiamo chiudere la porta al cambiamento e aprirla all’adattamento. Chiudere la porta al cambiamento significa che diciamo no in modo chiaro e diretto alle richieste o ai programmi del bambino, fornendo un minimo di spiegazione. Se la nostra risposta raggiunge il registro emozionale della inutilità, allora il bambino può essere spinto ad adattarsi, provare tristezza o disappunto, e magari iniziare a piangere. Le lacrime di tristezza segnalano che si è aperta la porta all’adattamento e il bambino è stato trasformato dal fatto di non poter avere una cosa. All’apparire del pianto, la resilienza e nuove risorse si faranno strada. Una volta che il bambino abbia accettato la risposta del genitore e vi si sia adattato, allora si possono condividere le ragioni del no, in quanto non spingeranno più al tentativo di contrastarle.
Quando un bambino è frustrato e non può effettuare un cambiamento, l’obiettivo è di spingerlo dalla rabbia alla tristezza. Perché ciò accada, è necessario che sia in grado di piangere dalla tristezza e di avere una buona relazione con l’adulto amorevole che lo aiuterà in questo. L’adulto deve a sua volta tenere il bambino nella propria frustrazione finché non percepisce che la porta si è aperta all’adattamento. Si tratta di un’arte più che di una scienza e ci coinvolge insieme al bambino in una danza in tre passi in cui il genitore ha il duplice ruolo di agente dell’inutilità e del conforto.
PRIMO PASSO Far capire quanto sia inutile l’idea del cambiamento, in cui il genitore fa leva soprattutto sulla chiarezza. Ad esempio: “No, non rispediremo indietro tua sorella e il suo nome non sarà Pattumiera!”

SECONDO PASSO Mantenere il bambino nell’esperienza frustrante, il che vuol dire tirar fuori la frustrazione e accoglierla anziché brontolare, lenire o punire. Ad esempio: “So che è difficile avere una nuova sorellina e vorresti che le cose tornassero come prima!”. Il bambino potrebbe replicare con “Sì, non mi piace mia sorella, portala via!”; di nuovo, si tratta di tenere il bambino nella inutilità del tentativo di cambiare qualcosa che non cambierà: “No, tua sorella resterà. So quanto sei frustrato per tutti i cambiamenti!” È importante che il genitore non cerchi di parlare al bambino per indurlo a farsi piacere la sorella o convincerlo che deve essere un bravo fratello o aiutare con la neonata. Non si tratta di parlargli per tirarlo fuori dalla frustrazione ma di coinvolgerlo in una danza verso la tristezza per ciò che non può essere cambiato.

TERZO PASSO Quando il bambino sembra più ricettivo e il senso di inutilità inizia a penetrare, è il momento di tirare fuori la tristezza: “So che sei triste per i cambiamenti, ti piaceva che fossimo solo io e te, invece ora siamo in tre!”, magari il bambino si lamenterà: “Riportala per favore, non voglio fare il fratello maggiore!” mentre le lacrime iniziano a scendere. L’ideale sarebbe che un genitore riuscisse a capire il momento in cui la frustrazione del bambino si ammorbidisce ed egli è spinto alla resa. Qualunque sia il gesto che aiuta il bambino a superare questo gradino, è proprio ciò che il genitore dovrebbe sperare di dargli - un abbraccio, un tocco leggero, il silenzio, la pazienza, oppure parole come: “Io sono qui, so che è difficile!”

La danza che conduce dalla rabbia alla tristezza è diversa per ogni bambino, perché la vulnerabilità e l’intensità delle emozioni variano. Un genitore deve poter interpretare i segnali, aver fiducia nel fatto che la rabbia si scioglierà in tristezza e mantenere la rotta nella tempesta.


La danza dell’adattamento in tre passi

  • PRIMO PASSO: Mostrare l’inutilità
  • SECONDO PASSO: Permanere nell’esperienza
  • TERZO PASSO: Tirar fuori la tristezza



Figura VII.4 Tratta dal corso di Neufeld Making Sense of Aggression
Una sera, durante un corso per genitori, la mamma di una bambina di quattro anni ha raccontato la storia che segue, a proposito delle sfide nel percorrere la rotonda della frustrazione:
“Tutto ha avuto inizio quando Chloe ha spinto il fratello giù dalla sedia insistendo che era la sua. Ben ha iniziato a piangere, così l’ho preso in braccio e ho detto a Chloe che non poteva avere la sedia. È esplosa in una crisi e si è buttata per terra urlando: “Voglio la sedia!”, l’ho lasciata urlare, ma mio marito era lì vicino e mi ha chiesto: “Ma che fai? non puoi lasciarle fare questo!”. Gli ho risposto: “È frustrata e deve sfogarsi!”, poi ho detto a Chloe che ero lì per abbracciarla e che capivo la sua frustrazione. Mio marito mi ha sussurrato: “L’abbraccerai per questo?”
È stata dura, ma ho tenuto duro durante le urla, i lamenti, i piedi che pestavano, le mani che picchiavano sul pavimento, finché non ho sentito quel suono che mi ha fatto capire che eravamo prossimi alla fine - “Mamma, mamma, voglio andare a casa!”. È come sentire le marce che scalano nella sua testa, le lacrime di tristezza iniziano a scendere e io posso finalmente abbracciarla. Dentro di me penso soltanto: “Una dolce resa alla fine, grazie a Dio!” e poi mi accorgo di quanto sono stanca.
Capisco quanto sia difficile per mio marito capire il da farsi quando lei è così sconvolta; sta ancora imparando a trovare la sua strada per accompagnarla durante le crisi. Quando è sconvolta così, prego solo che arrivi il pianto e non mollo la sua frustrazione per non peggiorare le cose.”
I genitori del gruppo hanno riconosciuto che la frustrazione di un bambino può essere davvero stancante da gestire, insieme al bisogno di autocontrollo emotivo. La madre ha aggiunto che sebbene non fosse sempre così paziente come avrebbe voluto, era sorpresa da quanto la facesse star bene sapere che poteva aiutare la figlia a trovare le sue lacrime.

Per aprire la porta all’adattamento, un bambino ha bisogno di un luogo protetto per piangere e di un adulto con cui farlo. Sono molte le ragioni per cui gli adulti faticano ad aiutare un bambino a trovare le lacrime di tristezza, e le più comuni sono la mancanza di consapevolezza di ciò che serve fare, la mancanza si sostegno culturale nel farlo, una sapienza delle emozioni forti, la paura delle crisi o della reazione del bambino, un bisogno compulsivo di aggiustare sempre le situazioni, eccessiva dipendenza dalla ragione, mancanza di una relazione forte abbastanza da portare il bambino fino alle lacrime. Quando il bambino è frustrato e si trova a dover fronteggiare ciò che non può cambiare, ha bisogno di essere confortato finché la frustrazione non si sciolga in tristezza o disappunto.

È importante notare che se un bambino non ha un cuore tenero o non riesce a versare lacrime di autentica tristezza, trattenerlo nella frustrazione porterà a un innalzamento dell’aggressività. La prima cosa da fare sarà ripristinare la vulnerabilità emotiva, come discusso nei capitoli 4, 5 e 6, prima di poter essere d’aiuto nel processo di adattamento alle frustrazioni della vita. Inoltre, un genitore non può mostrare l’infruttuosità di qualcosa a meno di non riuscire a controllarne le circostanze. àmbiti come mangiare, dormire, togliere il pannolino, igiene personale, richiedono la cooperazione del bambino, perciò persistere nell’inutilità può essere difficile.

Le battaglie che riguardano questi ambiti sono affrontate nel capitolo 9. È molto importante sapere che un genitore non deve per forza dire di no tutte le volte che il bambino si trova di fronte a una potenziale frustrazione; può anche scegliere di far sì che le cose funzionino.
3) Il bambino muove all’attacco
Se un bambino non riesce a sentire che il suo tentativo di cambiamento è infruttuoso e le lacrime non sopraggiungono, muoverà all’attacco. Esistono molte forme di attacco, a seconda del grado di sofisticatezza del bambino, incluse colpire, mordere, lanciare oggetti, avere delle crisi, urlare, umiliare, insultare, fare del sarcasmo, denigrare e persino, nel caso di bambini molto sensibili, autolesionismo. Gli adulti spesso intervengono chiedendo al bambino che attacca perché è così arrabbiato - “Perché hai lanciato il giocattolo?”, o “Perché hai menato tuo fratello?” - che equivale a una richiesta di logica e di ragionevolezza. Un bambino viene spinto all’attacco dall’emozione che gli provoca la frustrazione; è qui che un genitore ha bisogno di restare concentrato al massimo. Una madre mi ha descritto come è rimasta invischiata nel comportamento aggressivo del figlio senza rendersi conto di quanto fosse frustrato in realtà:
Quando mio figlio aveva tre anni, ha iniziato ogni tanto a graffiare in faccia gli altri bambini. Non succedeva spesso, ma era un comportamento che ci preoccupava e ci rendeva assai confusi perché non capivamo da dove avesse origine. Tentai con il solito approccio spicco del “Non si fa!”, ma senza esito. Ero imbarazzata, frustrata e non riuscivo a farmene una ragione. Ripensandoci ora, mi rendo conto che c’erano molte cose che lo facevano sentire frustrato e che quello era il suo modo di sfogarsi quando si sentiva sopraffatto.
La sfida posta dall’aggressività consiste nel fatto che quando ci concentriamo sul comportamento aggressivo del bambino perdiamo l’intuizione sulla frustrazione che lo ha prodotto. Questo porta spesso alla minaccia di conseguenze e all’isolamento affinché il bambino smetta di comportarsi in quel modo. Questo tipo di tattiche e di disciplina non farà che aumentare la frustrazione del bambino. La mamma di una bambina di cinque anni ha raccontato la storia che segue, in cui una risposta data con le migliori intenzioni ha l’effetto contrario, esacerbando ancor più il comportamento aggressivo della figlia.
Alice mi aveva chiesto alcuni adesivi in un negozio e io avevo detto di no. Aveva avuto una crisi. Una signora anziana ci aveva viste e si era avvicinata con l’intenzione di offrire il suo aiuto. Parlando ad Alice le aveva detto che se non stava buona babbo Natale non le avrebbe portato nessun regalo. Alice era esplosa in un feroce ruggito. Come era saltato in testa a questa donna di usare una minaccia per gestire la frustrazione di mia figlia?! Non capiva che stava solo alimentando il fuoco, anziché spegnerlo? Ora Alice credeva che oltre agli adesivi non avrebbe avuto neppure i regali di Natale! Ero così frustrata che quasi quasi avrei dato io in escandescenze con la signora. Invece ho detto ad Alice che Babbo Natale viene sempre a casa nostra e che andava bene se si sentiva frustrata.
Quando un bambino piccolo è pieno di energia aggressiva, l’obiettivo è di riportarlo alla rotonda della frustrazione fino alla porta dell’adattamento facendogli sfogare un po’ di quell’energia, accogliendo la sua frustrazione e impedendo che lui o gli altri si facciano male. Lo scopo è riportarlo alla tristezza o alle lacrime; se un bambino ha perduto la capacità di piangere e ci sono pochi segnali di vulnerabilità come la preoccupazione per gli altri e la tristezza, allora l’obiettivo è di sopravvivere all’incidente conservando intatta la dignità di ciascuno. Per esempio, un genitore potrebbe dire: “Così non funziona, faremo qualcosa di diverso!”, oppure: “Vedo che sei frustrato, ne parleremo dopo!” Quando le lacrime sono bloccate, bisogna concentrarsi sul ripristino dl sistema emotivo prima di procedere verso l’adattamento.

Se un genitore risponde con frustrazione al comportamento aggressivo del figlio, l’impulso aggressivo aumenterà e chiuderà la porta dell’adattamento. L’energia aggressiva del bambino è provocatoria per il genitore e spesso suscita risposte emotive nell’adulto. Ecco il racconto di quando una madre avrebbe potuto dare una risposta diversa alla frustrazione della figlia:
Per Natale avevamo comprato alle nostre figlie di quattro e due anni una cucina giocattolo costosa. Siamo in difficoltà con i soldi ma eravamo convinti che sarebbero state felicissime. Un momento erano lì che la guardavano, la toccavano e l’esploravano contente, il momento dopo la grande aveva quest’espressione frustrata sul volto e le dava una spinta facendola cadere. Mi sentivo talmente avvilita!!! Ho interpretato il gesto come ingratitudine. Lei aveva cercato di aprire un cassetto o uno sportello senza riuscirci e per questo le aveva dato una spinta, non era ingrata ma solo molto frustrata. Mi dispiace dover dire che non sono stata brava nel gestire la sua frustrazione e il comportamento aggressivo, né ho potuto invitarla a manifestare tutti i suoi sentimenti. Credo sia la difficoltà di molti genitori, affrontare tutti i propri sentimenti contrastanti per poter accogliere tutto quello che agita i figli nell’intimo, anche se si tratta di una folle frustrazione.
Sono tre i princìpi da tenere a mente quando il bambino è sopraffatto da un’energia di tipo aggressivo, così da non mettere a repentaglio la relazione con lui:
  1. Spersonalizzare l’attacco. Se il bambino tira calci, urla o morde, dirgli che è cattivo, brutto, indisponente e così via non fa che aumentare la frustrazione e l’aggressività. Spersonalizzare l’attacco ne fa una questione di comportamento ma senza trasmettere un giudizio, per esempio: “Le gambe non sono fatte per dare calci!”, “I denti non servono a mordere le persone!”
  2. Concentrarsi sulla frustrazione per preservare la dignità ed essere presenti. Accompagnare i sentimenti del bambino può essere d’aiuto per neutralizzare la frustrazione e ricondurlo sulla rotonda dell’adattamento. Un genitore, per esempio, potrebbe dire: “i tuoi denti hanno dei morsi da dare perché ti senti frustrato, sono qui per aiutarti!”. È importante preservare la dignità del bambino quando dà in escandescenze, così che alla frustrazione non si aggiungano anche ansia e timori.
  3. Comunicare che la relazione può sopportare il peso delle sue emozioni. Quando un bambino attacca, la minaccia più grande per lui può essere rappresentata dalla perdita di contatto e sintonia con i genitori. Quando un genitore comunica quali sono le cose che non vanno, deve al contempo comunicare che la relazione è ancora intatta. Per esempio dicendo al bambino: “So che stai passando un brutto momento, ma io sono qui con te!”, oppure: “Non temere, so che sei sconvolto ma lo supereremo!”. Il genitore deve prendersi la responsabilità di preservare la relazione e non tenere in ostaggio la sintonia e la vicinanza al bambino finché questi non abbia chiesto scusa. Quando la separazione è usata come risposta a un attacco del bambino, la frustrazione verrà esacerbata e aumenteranno le probabilità di un nuovo attacco.

Frustrazione e lacrime nei bambini sensibili

Nei bambini sensibili le crisi possono essere più intense, prolungate e difficili da gestire prima che si arrivi al pianto di tristezza. I loro desideri sono molto intensi e rischiano di predisporli a delusioni cocenti. Immaginano spesso molto più di quanto non riescano a realizzare e sono facilmente frustrati dalle loro umane imperfezioni. I loro sentimenti sono spesso intensi, fuori controllo e se ne lasciano sopraffare. Hanno bisogno di genitori e adulti forti che possano aiutarli a superare le tempeste, dando loro pace e sollievo da un mondo che percepiscono con troppa intensità. Il problema è che spesso i bambini sensibili sentono di essere troppo per i genitori, avvertono tutta la fatica che si fa a gestirli, sanno di essere eccessivi nelle reazioni e che gli altri si sentono sopraffatti. È fondamentale che il modo in cui reagiscono gli adulti comunichi la loro capacità di occuparsi del bambino e di gestire i suoi comportamenti ed emozioni, assicurandosi di non usare mai la separazione come punizione o conseguenza delle reazioni del piccolo.

Sono tre le cose utili da considerare quando si ha a che fare con la frustrazione e le lacrime di un bambino sensibile:
  1. Proteggerlo dalle esperienze che lo sopraffanno. Quando i contesti ambientali, le relazioni e le esperienze sono troppo per un bambino sensibile, chi si occupa di lui deve poter essere in grado di interpretare la situazione e proteggerlo di conseguenza. Per esempio, magari un genitore iscrive il figlio a lezione di musica solo per vederlo fuggire dalla porta non appena il suono ha inizio. Per il bambino gli stimoli visivi o uditivi rischiano di essere eccessivi, per questo non potrà trascorrere molto tempo in questo tipo di ambienti, o forse non potrà starci affatto. Spingerlo oltre il proprio limite fisico di solito porta il bambino sensibile a chiudersi o a esplodere. In ogni caso è importante che l’adulto capisca ciò di cui il bambino è capace, anche a piccole dosi, senza proteggerlo del tutto.
  2. Portarlo sul terreno della vulnerabilità. Si sa che i bambini sensibili evitano a tutti i costi esperienze che suscitano turbamenti o timori. Potrebbero rifuggire dalle storie tristi nei libri e spaventarsi guardando la TV dei piccoli; ai genitori spetta il compito di guidarli con dolcezza in queste direzioni quando è necessario, invitandoli ad esprimere cosa provano anziché forzarli. Il bambino sensibile cercherà di deviare l’attenzione dai suoi sentimenti, perciò saper leggere i segnali su ciò che per lui è più difficile, aiuterà l’adulto a capire cosa lo turba molto. Quando il turbamento lo travolge, il bambino ha bisogno di tempo per calmarsi e ridurre l’intensità dell’esperienza. Dopodiché, sarà più in grado di parlare di ciò che lo ha sconvolto, anche se è probabile che ciò avvenga solo con l’aiuto di un adulto. Riconoscere i suoi sentimenti, dar loro un nome e normalizzarli lo aiuterà a creare una relazione migliore con il suo mondo interiore, da cui spesso si sente sopraffatto e scombussolato.
  3. Fare il punto sulle situazioni problematiche lontano dal momento dell’incidente. Quando si parla di problemi di comportamento, è meglio affrontarli fuori dal contesto in cui è avvenuto l’incidente, avvalendosi del calore della relazione che si ha con il bambino e parlandone con delicatezza. Meglio affrontare gli incidenti quando l’intensità dei sentimenti è scemata. Nel trambusto del momento è meglio che il genitore si limiti a informare: “Questo comportamento non va bene, poi ne riparliamo!”; se il bambino risponde: “Non voglio parlare!”, il genitore dovrebbe dirgli che la cosa sarà facile, veloce e con la minor sofferenza possibile ma che talvolta le cose vanno dette e affrontate. Dopo aver comunicato cos’è che non va, il genitore deve assicurarsi di far capire che la relazione è ancora intatta.

Capire i piccoli
Capire i piccoli
Deborah MacNamara
Come aiutare a crescere creature imprevedibili e meravigliose da 0 a 6 anni.Un manuale di facile lettura, ricco di consigli pratici e testimonianza dirette, per aiutare i genitori a comprendere la natura dei bambini piccoli. I bambini piccoli sono fra le persone più amate, ma anche fra le più incomprese.Le loro straordinarie personalità possono rivelarsi una sfida per gli adulti, in quanto sfuggono alla logica e alla comprensione: passano dall’essere sfrontati, recalcitranti e ribelli all’illuminare la stanza con la loro gioia di vivere e le risate contagiose.Le reazioni estreme, la rabbia apocalittica, i pianti inconsolabili e le impuntature senza cedimenti sono la cifra dell’immaturità, e per quanto dovrebbe sembrare evidente che essa sia un tratto costitutivo dei piccoli e li renda persone molto diverse dagli adulti, si rivela invece fra quanto di più misconosciuto e negletto. Deborah MacNamara, allieva e collega di Gordon Neufeld, uno dei più importanti esperti dell’età evolutiva, esplora l’intenso bisogno di attaccamento del bambino, l’importanza vitale del gioco, la natura della giusta disciplina e del tipo di relazione che è in grado di proteggere la crescita delicata dell’infanzia. In Capire i piccoli si trova ciò che serve ai bambini per crescere e prosperare, ma non prima di aver capito che i loro comportamenti, talvolta sconcertanti, non sono affatto la manifestazione di un disturbo o di un deficit e neppure di una “cattiva educazione”.Non guarderete più ai vostri figli e a voi stessi nello stesso modo, e pur scoprendo quanto sia critico il ruolo di genitore e adulto, vedrete anche come, dalla giusta prospettiva, sia più facile e naturale di quanto si creda. Conosci l’autore Deborah MacNamara è counsellor clinico ed educatrice con un’esperienza ultraventennale.Membro del Neufeld Institute, affianca alla pratica di consulente una regolare attività formativa rivolta a genitori, educatori, professionisti della salute mentale e chiunque si prenda cura dei bambini.Vive a Vancouver con il marito e due figlie.