CAPITOLO X

Voci di esperti

L’accoglienza del secondo bimbo nella nostra società

Che in famiglia arrivi un quarto membro è evento sempre più raro nel contesto italiano e occidentale. Mentre da tempo si parla delle conseguenze della denatalità sul funzionamento sociale e di scomparsa della società fraterna1, si assiste anche a un cambiamento nelle modalità di accoglienza del fratellino in un nucleo che presenta una cristallizzazione delle dinamiche tipicamente triadiche.


Nella generazione precedente, con il passaggio definitivo alla famiglia nucleare, i genitori riconoscevano nella novità un elemento di destabilizzazione per il primo figlio, consapevoli che avrebbe avuto reazioni di territorialità e di gelosia insieme ad atteggiamenti affettivi e di accoglienza. Il grande si sarebbe lagnato, avrebbe fatto la pipì a letto per un po’ e se non fosse stato respinto o ridicolizzato, la cosa si sarebbe esaurita da sé.


Ben diverso il quadro oggi, in cui fare un secondo figlio è una bizzarria accolta con cupi cipigli dal datore di lavoro della mamma recidiva e con stupefatte alzate di sopracciglio dalla corte di amici (Ma riuscirai con due? A me già con uno scoppia il cervello! Non avrai nemmeno il tempo di farti una doccia… e con tuo marito, avete deciso di non guardarvi più nemmeno in faccia?!). A fronte di un’innegabile reazione scoraggiante dall’esterno, i genitori vivono di frequente un ulteriore senso di spaesamento, novità assoluta nel panorama della genitorialità: il timore – che sfiora il senso di colpa – di sottrarre cure al figlio maggiore, finora “centro indiscusso”, che subirà la “scoperta sconvolgente” e “dovrà abituarsi” a dividere amore e tempo con l’intruso. Per il genitore incerto e poco sostenuto dal contesto questo lessico alimenta la sensazione di essersi imbarcato in un’avventura decisamente più grossa e perigliosa del previsto.


Che fare? Come minimo raddoppiare le cure al principino che presto perderà i suoi titoli, moltiplicando il giocattolame. Poi un bel libro sul pancione che cresce: vedi cosa ti aspetta? Prepàrati, perché tra un po’ dovrai (finalmente) mangiare sulla tua sedia e magari startene un po’ più dai nonni. Faccine imbronciate o sbigottite compaiono in questi libri (non tutti, è ovvio), che sembrano costruire ad arte un immaginario collettivo fondato sul senso di inadeguatezza dei genitori ostinati e sul disappunto di chi, volente o nolente, dovrà fare i conti con la marginalità, la separazione forzata nei giorni della nascita e l’esclusione dal clima festivo dell’arrivo dall’ospedale.


Tutto questo sembra eccessivo e tuttavia non va sminuito, perché parla delle richieste della nostra società: la confluenza di tutti gli sforzi di cura sull’unico bene prezioso che è il primo figlio, spesso avuto in età avanzata, rispecchia l’investimento in lunghi percorsi di formazione e nella ricerca di un lavoro adeguato che impone ritmi feroci e chiede disponibilità quasi assoluta a entrambi i genitori, con la conseguente compressione degli spazi di cura famigliari e lo schiacciamento della vita di coppia tra esigenze lavorative e cure al figlio. Viene de plano la delega della cura all’esterno (nidi, ludoteche, babysitter) dove però il sia pur apprezzabile professionismo degli operatori non sopperisce adeguatamente alla solidarietà comunitaria (e i servizi costano carissimo).


A fronte di un contesto così faticoso, in cui i figli diventano prodotti di lusso per adulti fortunati o ostinati, il problema non è l’atteggiamento dei genitori o del primogenito, quanto la scarsa accoglienza sociale sia verso i bambini sia verso i genitori che decidono di aprirsi di nuovo alla vita. È su questo piano allora che va letto lo strano timore di mettere al mondo un altro figlio ed è su questo piano che bisogna agire con un lavoro sociale di apertura nonviolenta dell’intera società al tu dei piccoli.


Gabriella Falcicchio
ricercatrice in Pedagogia, Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”

Fratelli, una risorsa per la vita

La letteratura è piena di storie di fratelli e sorelle. A cominciare dal libro più popolare che c’è: la Bibbia. In esso Caino e Abele sono esempio di una fratellanza negativa che porta addirittura alla morte.


Quanti libri di psicologia, invece, hanno dedicato le loro pagine a questo argomento. Praticamente nessuno.

Curioso.


Se ci guardiamo intorno non sono così comuni esempi di fratellanza e di sorellanza nel genere umano. Viviamo in una società fatta di invidie, interessi, confronti, gerarchie fra i più grandi e i più piccoli, fra chi possiede di più e chi di meno, fra chi sa e chi deve imparare.


Qual è allora l’essenza primaria di avere uno o più fratelli e sorelle nelle nostra cultura? Comunemente si parte dal presupposto che uno tolga qualcosa all’altro sia in termini affettivi che economici: l’attenzione degli adulti, i beni di famiglia, la possibilità di studiare.


Invece sfugge sempre di più che, alla nostra società di cui la famiglia è la prima espressione, manca un’essenziale educazione basata sugli affetti, sulla cooperazione e sulle relazioni.


Non sento mai dire ai bambini in procinto di diventare fratelli o sorelle maggiori: “Dobbiamo darti una bella notizia: arriverà fra noi un’altra persona a cui volere bene e che ti vorrà bene! I nostri cuori diventeranno ancora più grandi per fare spazio ad altro amore! Per tutta la vita potrete contare l’uno sull’altro e noi vi aiuteremo a farlo”. Queste parole possono sembrare strane, in quanto nella nostra cultura, al contrario, diamo per scontato lo shock che il bimbo più grande proverà all’arrivo del fratello comunicandogli che sta per succedere qualcosa da cui proteggersi.


Andando avanti con l’età mi stupisce sempre di più vedere quanti fratelli e sorelle si perdono di vista nel corso degli anni. Eppure hanno certamente vissuto insieme grande parte delle rispettive vite condividendo gioie e dolori nella stessa famiglia. Tuttavia questo, nei fatti, non è sufficiente per creare un’unione stabile ma spesso divide. Perché?


Non credo che siano soltanto le scelte della vita (lavoro, studio, nuove famiglie) a separare i fratelli. Penso piuttosto che sia il risultato della sottovalutazione di quanto importante sia dare valore a questa relazione affettiva fin dalla nascita, dall’infanzia all’età adulta.


Essere fratelli è una risorsa infinita sia nei momenti di difficoltà che di gioia; i fratelli rappresentano e conoscono la nostra storia infantile più vicina in quanto pari come generazione e come esperienze familiari condivise. Pensiamo ai sapori, agli odori, ai ricordi delle vacanze estive della nostra infanzia: quanti di noi li associano ai propri fratelli?


Io credo che i genitori che si apprestano ad avere un figlio oltre il primo dovrebbero riflettere anche su questi aspetti di unità e di costruzione di un equilibrio solido fra le loro creature. Nei fatti stanno ampliando la propria possibilità di amare un altro essere umano donandogli la vita e stanno creando delle relazioni familiari che possono durare per sempre e dare sicurezza.


In un’epoca in cui molte famiglie hanno difficoltà ad avere figli, sia per ragioni economiche sia per la crescente sterilità di coppia, non possiamo più minimizzare l’importanza dei valori affettivi condivisi in famiglia e di un’educazione dei bambini basata sulla cooperazione e non sulla competizione o sulla gerarchia di potere. Quante volte se a casa resta un solo gelato i fratelli imparano a dividerselo, un morso per uno? Quante volte si impara ad aspettare il proprio turno, per esempio per servirsi a tavola, o per parlare, oppure si condividono abiti e oggetti? Inoltre i fratelli grandi sono un esempio per quelli minori, un esempio a cui riferirsi sognando di crescere presto; oppure quelli più piccoli allenano i grandi nell’accudimento di bimbi più bisognosi di cure. Insomma i fratelli sono una scuola di vita in comunità, di condivisione e di capacità di trovare compromessi. Tutti valori che nella nostra società mi pare non siano così saldi.


Se cominciassimo a ribaltare la fantomatica “gelosia” fra fratelli in una tappa di crescita normale da elaborare tutti insieme, forse per tutta la famiglia sarebbe più semplice accettarla. È una questione di spazi e di tempi da rispettare, di mettersi nei panni degli altri membri della famiglia e cercare di trovare un equilibrio di volta in volta. È chiaro che un bambino che prima godeva dell’attenzione di tutti i familiari apparentemente fosse più soddisfatto ma, in realtà, appena arriva un neonato in casa non è affatto raro assistere ad uno slancio di crescita e di maturazione imprevista dei più grandi. Con un po’ di organizzazione familiare mi sento proprio di dire che le famiglie numerose sono un bellissimo esempio da osservare con ammirazione per imparare la condivisione e l’apertura al cambiamento. I genitori fiduciosi nelle competenze proprie e dei propri figli non tarderanno ad apprezzare l’allargamento della famiglia dando la giusta attenzione e responsabilizzazione a tutti e prevedendo momenti esclusivi anche con i più grandi. Perché ogni bambino che arriva fra noi è un tesoro incommensurabile; perciò: evviva le famiglie numerose che possono gioire di questa ricchezza infinita!

Alessandra Bortolotti
psicologa perinatale a Firenze e autrice di E se poi prende il vizio?

Perché i bambini diventano bizzosi (o inibiti)quando nasce un fratello e come aiutarli

Nei bambini la nascita di un fratellino dà sempre luogo anche a sentimenti di gelosia. Gelosia che si accompagna a rabbia e fantasie distruttive inconsce verso neonato e genitori. Secondo le sue capacità e modalità di gestire la rabbia, l’odio e la gelosia, il fratello maggiore può manifestare evidenti segni di disagio o una serie di comportamenti che mettono a dura prova i genitori. Il bambino diventa tipicamente bizzoso, esigente, lagnoso, oppositivo, insolente, e assume i comportamenti che più irritano i genitori. Se il bimbo ha difficoltà a autoinibire i comportamenti rabbiosi può fare agiti violenti o ambivalenti nei confronti dei genitori o del neonato (svegliare il piccolo, dargli abbracci strangolanti, fargli moine esasperate o veri e propri attacchi). Viceversa, se il bimbo è spaventato dai propri sentimenti e teme siano inaccettabili, può manifestare segnali di inibizione, come mangiarsi le unghie, tic, balbettare. Allo stesso tempo può presentare agitazione motoria e difficoltà a giocare/concentrarsi.


La dinamica intrapsichica alla base è semplice: il bambino si sente invaso dalla rabbia e teme che i suoi sentimenti possano avere reali effetti distruttivi. Dunque si sperimenta come cattivo e pericoloso, non degno di amore, e si trova a fare davvero il cattivo nell’intento inconscio di verificare i limiti dei genitori e la forza del loro affetto. In questo modo mette alla prova le possibilità dei genitori di tollerarlo e di arginare la sua presunta pericolosità. Se il genitore reagisce con paura di fronte ai comportamenti ambivalenti e risponde alla forzatura dei limiti con repressione e scoppi di rabbia, il bimbo si sente davvero cattivo, ingestibile, onnipotente e pericoloso: il suo comportamento costituisce per il genitore una minaccia reale. Tra l’altro il bimbo vive lo scoppio di rabbia del genitore con senso di colpa ulteriore perché si sente causa del fallimento della capacità genitoriale. Ciò aumenta il suo sentirsi minaccioso e cattivo. Viceversa se il genitore lo argina impedendogli di nuocere e mostrandosi fermo nel mantenere regole e limiti, il bimbo fa l’esperienza di un altro che lo contiene e gestisce, e gli viene restituita un’immagine di sé mitigata. Questo oltretutto porta a uno sviluppo della capacità di gestione della rabbia e degli affetti attraverso l’interiorizzazione delle capacità genitoriali. Il bimbo limitato con gentile fermezza non si sente onnipotente perché il suo fiume emotivo incontra un argine solido e non tracima. I sentimenti non hanno effetti concreti sulla realtà e dunque non sono pericolosi. Il bambino che riceve in risposta un no deciso di fronte alle sue richieste eccessive o comportamenti rischiosi si sente rassicurato dall’esperienza di essere gestibile e contenuto da un genitore capace di arginarlo con gentile fermezza. Accanto a uno stile educativo fermo e attento è utile per il bambino sapere che il genitore capisce e legittima i suoi vissuti. Gli può essere detto esplicitamente cosa prova, così da renderlo consapevole, e che è normale che lo provi: tutti i bimbi sono gelosi all’arrivo di un fratellino. Tutti i bimbi possono sentirsi in certi momenti arrabbiati con i genitori o con il neonato. E possono essere molto spaventati dalla rabbia che provano, e temere di essere cattivi o pericolosi perché hanno paura che la rabbia sia davvero dannosa, che la gelosia abbia davvero effetti distruttivi. Depotenziare in questo modo l’onnipotenza infantile (parlare della paura di distruggere davvero) è la cosa più decolpevolizzante che ci sia.


Così facendo si coglie l’occasione di una situazione difficile per promuovere nel neofratello maggiore la capacità di riflettere sull’esperienza emotiva e aumentare le sue capacità di gestione degli affetti senza repressione ma modulando l’espressione e mantenendo l’autenticità.

Valentina Denti

psicologa psicoterapeuta a Pisa,membro ordinario dell’Associazione Fiorentina di Psicoterapia Psicoanalitica

Allattare in gravidanza: si può fare

Fin dall’antichità il latte materno è stato considerato l’archetipo alimentare, nutrimento non solo per il corpo ma anche per la mente, sostanza capace, in quanto derivata dal sangue materno, di trasmettere il carattere, proteggere e plasmare la persona iniziandola ai misteri della vita e persino restituire la salute a un adulto malato o a un anziano impossibilitato a nutrirsi con cibi solidi. È un momento di simbiosi, di continuazione del rapporto diadico iniziato nella gravidanza a cui nessuna donna vorrebbe rinunciare anche se, come tutte le cose belle, ha un costo in termini di fatica fisica e psicologica. Le qualità del latte materno sono molte, in continua scoperta, e rendono ragione dei tanti vantaggi dell’allattamento al seno che si traducono in guadagno di salute a breve e lungo termine per mamma e bambino. Secondo l’OMS l’allattamento al seno “è un modo incomparabile per garantire il nutrimento ideale per la crescita sana e lo sviluppo dei lattanti” e dovrebbe essere proseguito, completato con altri alimenti, per due anni e oltre, secondo i desideri della mamma e del bambino. Esperienza e letteratura ci confermano che se una mamma decide di allattare a lungo va accompagnata e sostenuta.

Accade che mentre un cucciolo viene allattato al seno se ne annunci un altro.

In questa occasione viene spesso consigliato, talvolta anche da parte di operatori sanitari, di sospendere l’allattamento. Questo suggerimento però non risulta sostanziato da evidenze scientifiche o esperienze consolidate e non è necessario procedere a uno svezzamento rapido e potenzialmente traumatico perché non vi è nessun rischio né per il figlio né per la madre. Il figlio continuerà a succhiare del latte che ha mantenuto le sue proprietà nutrizionali nonostante le sue caratteristiche si modifichino. Infatti cambia sapore, diventando un po’ più salato per l’aumento del contenuto in proteine e sodio e per la diminuzione di quello in glucosio, lattosio e potassio.


Inoltre, generalmente intorno al quarto mese, si riduce in quantità e verso il termine si trasforma nel colostro che sarà il cibo della nuova creatura nei suoi primi giorni di vita.


Neppure la gravidanza subisce danni. Le ricerche che riportano un aumento di peso materno insufficiente e una restrizione della crescita fetale se la madre allatta in gravidanza si riferiscono a popolazioni povere e malnutrite. Se invece la dieta è sana ed equilibrata non verrà a mancare né al feto né alla mamma nessuno dei nutrienti necessari per la grandiosa opera che stanno compiendo. Questo dato è confermato dagli studi di Moscone-Moore e di Merchant che non hanno trovato differenze di peso e benessere fra neonati le cui madri avevano allattato per tutta la gravidanza e neonati le cui madri avevano terminato l’allattamento più di sei mesi prima del concepimento.


Una preoccupazione frequente riguarda la possibilità che l’allattamento, provocando delle contrazioni uterine, sia causa di minaccia di aborto o di parto prematuro. In effetti la suzione del capezzolo innesca un riflesso che parte dalla mammella ed arriva all’ipofisi provocando il rilascio di ossitocina, sostanza chiave nel meccanismo del travaglio di parto; tuttavia la quantità di ormone prodotta durante una poppata non è dissimile da quella presente durante un rapporto sessuale, e l’attività sessuale non viene normalmente vietata. Per esercitare la sua azione l’ossitocina deve legarsi a specifiche proteine, i recettori, che nell’utero sono più numerosi e attivi solo a termine di gravidanza per favorire il parto e nel postpartum per contrastare le emorragie. La contrattilità uterina, poi, è un processo complesso e non ancora del tutto chiarito che deriva dall’interazione tra molti fattori e non solo dallo stimolo ossitocinico. Queste considerazioni portano a concludere che l’ormone presente nel circolo sanguigno materno durante le poppate non è solitamente in grado di provocare contrazioni uterine di intensità, durata e frequenza tali da compromettere l’andamento di una gravidanza fisiologica. Al contrario non si devono sottovalutare altri effetti dell’ossitocina, conosciuta in un primo tempo principalmente per la funzione che svolge nel travaglio di parto e nell’allattamento ma di cui si sono scoperti nuovi volti nel tempo. Recettori per l’ossitocina sono stati infatti identificati anche in alcune aree cerebrali, in particolare nel sistema limbico, una delle parti più antiche del cervello, sede di origine e gestione delle emozioni e della memoria a lungo termine. Interagendo con il sistema limbico essa facilita la lettura delle emozioni altrui, l’empatia, rivestendo un ruolo cruciale nella formazione all’inizio della vita del legame madrefiglio, fondamentale per la sopravvivenza in tutti i mammiferi, e negli anni successivi del “cervello sociale”, indispensabile per le relazioni interpersonali e la convivenza. Infine ha anche un effetto positivo sul sistema immunitario. Appare dunque evidente come nell’allattamento in gravidanza l’ossitocina sia fonte più di benefici che di pericoli, meritando giustamente l’appellativo di “ormone della felicità”.


Analogamente, gli ormoni della gravidanza presenti in piccola quantità nel latte non possono nuocere al lattante.


Prolungare l’allattamento al seno ha anche un’influenza sullo sviluppo cerebrale. Un interessante studio dell’Università di Durham su 128 specie di mammiferi, compresa quella umana, ha evidenziato che le dimensioni del cervello alla nascita sono correlate alla durata della gravidanza ma la sua crescita successiva è determinata dalla durata dell’allattamento al seno. Negli animali un cervello di grandi dimensioni aumenta la durata della vita e permette una maggiore flessibilità di risposta agli stimoli ambientali.

Sempre e comunque allattamento ad oltranza, allora?


Ovviamente no. Per quanto non esistano linee guida può essere prudente bloccare l’allattamento se sono in atto complicanze come minaccia d’aborto o parto prematuro, perdite ematiche, grave debilitazione fisica o psichica della madre. Talora a scoraggiare sono sintomi meno gravi ma fastidiosi. Il sommarsi della stanchezza della gravidanza a quella dell’accudimento di un bambino piccolo, la nausea, il dolore ai capezzoli, il volume crescente dell’addome possono rendere problematico l’allattamento. Tuttavia se si desidera continuarlo si può ricorrere ad alcuni espedienti come applicare delle tecniche di rilassamento, ascoltare musica, cambiare posizione durante la poppata. Qualche volta occorrerà arrivare a “stipulare un contratto” con il bambino affinché vengano ridimensionate le sue esigenze; poiché spesso più che una richiesta di cibo la ricerca del seno esprime un bisogno di rassicurazione e di conferma di affetto potrebbe bastare riservare dei momenti particolari a lui, per i giochi, le parole e le coccole. Ancora una volta è soprattutto la serenità della mamma a dover essere salvaguardata, perché possa essere veramente libera nella sua scelta.


In molti casi è comunque la natura a dirimere il dubbio. In seguito alle variazioni qualitative e quantitative a cui il latte materno va incontro durante la gravidanza molti bambini tendono a staccarsi spontaneamente dal seno prima dell’arrivo del fratellino, soprattutto se hanno superato il primo anno di età. Nei casi in cui ciò non avviene l’allattamento potrà proseguire anche dopo la nuova nascita, in “tandem”. Coallattare è impegnativo ma può avere dei vantaggi, come per esempio stimolare la produzione del latte quando il neonato ha qualche difficoltà iniziale o evitare gli ingorghi mammari.


Allora, mamme, ricorrete alle vostre scorte di creatività, positività, senso dell’umorismo e soprattutto amore se non volete smettere di allattare soltanto perché un altro figlio è in cammino o è ormai arrivato. Ma non preoccupatevi se lungo il percorso i vostri sentimenti al riguardo diventeranno mutevoli o ambivalenti. Parlatene serenamente con una persona di fiducia, cercate di comprendere i vostri bisogni e quelli della vostra famiglia e sicuramente troverete la soluzione migliore.

Mariangela Porta

ginecologa a Torino

Fiabe, favole e racconti per superare le difficoltà

Le fiabe sono l’espressione più pura e semplice dei processi psichici inconsci collettivi. Il linguaggio della fiaba è internazionale, non conosce limiti di età e appartiene a tutte le civiltà. Con i bambini ci permette di comunicare più facilmente quando c’è un problema, un disagio o un conflitto; la fiaba ha in sé un potere di autoguarigione grandissimo perché è un prodotto diretto del mondo della psiche in cui si generarono i conflitti.


I tre momenti importanti della fiaba sono: l’inizio in cui vengono presentati i personaggi e l’equilibrio che di lì a poco vacillerà; la crisi o fase centrale in cui il problema si presenta in modo chiaro e si definiscono i protagonisti (chi sono gli alleati, chi i nemici da combattere), e la conclusione, il “e vissero felici e contenti”, in cui il nuovo equilibrio si stabilisce.


Il protagonista è un personaggio di fantasia, di modo che riusciamo a prendere le distanze dal problema, e nel bambino che sta vivendo un momento di difficoltà per l’arrivo del fratellino si facilitano l’accoglienza e il riconoscimento dei propri sentimenti e delle proprie emozioni.


Il bambino infatti è troppo piccolo per pensare in termini logici e razionali, la fiaba invece parla di ciò che accade e ne parla in modo magico e fatato, perché è tale il suo mondo, il mondo della “magia primitiva”, dove ogni cosa è animata, in cui gli oggetti e gli animali parlano. Le fiabe presentano sì un problema, però tutto finisce bene: conducono il bambino per mano fuori da tremende situazioni e le stesse vengono presentate in termini immaginari e a lui comprensibili, indicandogli la via di uscita.


Le fiabe sono popolate dai bambini e così parlano dei loro problemi: dell’abbandono, dell’insicurezza, della disobbedienza, della paura. E poi nelle fiabe i bambini vincono, sopravvivono all’abbandono nel bosco e alle streghe crudeli, vincono perché le fiabe sono la voce della speranza.


Purtroppo l’abitudine di raccontare fiabe ai bambini si va perdendo a favore di una informazione più tecnica e razionale; ci si è dimenticati infatti che il bambino non è un adulto in miniatura e la realtà che lui vive è simbolica e le spiegazioni devono andare per immagini. Privarlo delle fiabe e dei racconti significa privarlo di una via di accesso a quel mondo fantastico in cui il bambino è immerso, e che è un supporto indispensabile per affrontare e risolvere le sue angosce.


Come fare in pratica a utilizzare una fiaba ad uso psicoterapeutico con i nostri bambini quando si trovano in difficoltà? Ecco alcuni semplici indicazioni.


Via libera alla fantasia! Nella creazione della storia partite da uno spunto suggerito dal bambino stesso oppure da un fatto accaduto durante la giornata che è stato piuttosto destabilizzante, ricordando sempre che il protagonista deve rispettare le caratteristiche del vostro bambino, al fine di permettere l’immedesimazione.


La fiaba certo avrà la sua conclusione con “vissero felici e contenti” però da essa possiamo ripartire in seguito al manifestarsi di un nuovo problema o disagio con “dopo un po’ che stavano vivendo felici e contenti, successe che…” e un’altra fiaba comincia, è il ciclo della vita stessa che ci sorride!

Se il bambino è già in grado di comunicare correttamente potrà essere più utile ed efficace che sia lui stesso a creare la sua fiaba: offritegli stimoli e non suggerite soluzioni dirette che appartengono a voi, aiutateli con “immagina che arrivi qualcuno” o “immagina che il bambino abbia un aiutante”, emergerà così la sua fiaba del momento, e risolvendola potrà risolvere anche il problema del momento.

Laura Santoro

psicologa e psicoterapeuta ad indirizzo psicosomatico simbolico2

Benvenuto fratellino, benvenuta sorellina - 2a edizione
Benvenuto fratellino, benvenuta sorellina - 2a edizione
Giorgia Cozza
Favorire l’accoglienza del nuovo nato e la relazione tra fratelli.Tante informazioni utili, suggerimenti pratici e spunti di riflessione per coinvolgere i fratelli maggiori nell’attesa e nell’accoglienza del nuovo nato. La nascita di un bambino è un evento di grande gioia per tutta la famiglia, un evento che può essere vissuto con partecipazione ed entusiasmo anche dal primogenito, se accompagnato dall’affetto e dalla comprensione di mamma e papà.Il libro Benvenuto fratellino, benvenuta sorellina di Giorgia Cozza risponde ai dubbi e agli interrogativi dei genitori, offrendo utili informazioni e suggerimenti pratici per coinvolgere i fratelli maggiori nell’attesa e nell’accoglienza del nuovo nato. Conosci l’autore Giorgia Cozza è una mamma-giornalista, specializzata nel settore materno-infantile, autrice di libri per bambini e numerosi manuali per genitori, divenuti un importante punto di riferimento per tante famiglie in Italia e all’estero.È stata relatrice in numerosi congressi per genitori e operatori del settore e ospite di trasmissioni televisive per rispondere a quesiti legati all’accudimento dei bimbi e a uno stile genitoriale ecocompatibile.