Appendice 1

La dignità del dissenso

Il rispetto del percorso biologico naturale con modalità coerenti all’autocoscienza della dignità personale
degli avvocati Andrea Callaioli e Alessandro Paolo Niccoli

1. L’obbligo di vaccinazione e i parametri costituzionali coinvolti

La rilevanza del tema in esame emerge con chiarezza dalla constatazione della sua connessione con alcune norme della Costituzione, le quali assumono la dignità di principi supremi del nostro ordinamento.


In primo luogo la Costituzione, all’art. 32, tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività. Le chiavi interpretative di tale tutela sono evidentemente molteplici, ma il punto che più interessa in questa sede è riflettere sulla possibile derivazione da tale principio di un dovere di curarsi – autonomo e distinto dal diritto di curarsi – per poi operare il raffronto con l’altro fondamentale principio della tutela della libertà personale, prevista dall’art. 13 della Costituzione.


Negli anni successivi all’entrata in vigore della Costituzione si evidenziava il ruolo dello Stato nel perseguire la tutela della salute collettiva, facendo riferimento anche all’art. 2 della Costituzione, soprattutto nella parte in cui richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale1, in una prospettiva, quindi, che si definisce pubblicistica.

Soltanto dalla fine degli anni ’60, invece, si tratteggia una diversa interpretazione della tutela della salute, intesa come un diritto dell’individuo che viene in considerazione non solo nel rapporto con lo Stato, ma anche nelle relazioni fra concittadini. In proposito basti pensare all’affermazione dell’obbligo del datore di lavoro di garantire ai propri dipendenti un ambiente di lavoro salubre, che non risulti cioè nocivo proprio per la loro salute. La derivazione dell’imposizione di tale obbligo viene individuata nella risarcibilità dei danni alla salute subiti dai dipendenti in conseguenza dello svolgimento della propria prestazione lavorativa.


Un ruolo decisivo nell’affermare la centralità della tutela della salute nell’accezione di diritto primario dell’individuo è stata svolta dalla giurisprudenza, che come spesso è accaduto, e accade, è chiamata a svolgere un ruolo di adeguamento delle leggi alle domande provenienti dalla società civile, a causa della lentezza del Parlamento. Il punto di arrivo di tale elaborazione, infatti, è proprio l’affermazione della prevalenza della salute individuale su quella pubblica, intesa anche come il complesso delle scelte amministrative dirette alla tutela di quest’ultima2.


Gli sviluppi successivi – originati dai dibattiti sorti a proposito di noti temi quali l’interruzione volontaria della gravidanza, il transessualismo, la sterilizzazione volontaria – hanno portato a delineare ulteriormente il concetto di diritto alla salute dell’individuo, arrivando ad affermare che, in certi, casi la sua tutela prevale sulla salvaguardia della stessa integrità fisica della persona, e anche nell’ipotesi in cui la salute venga intesa soltanto come salute psichica3.

L’aspetto che, ad ogni modo, maggiormente interessa in questa sede è rappresentato dalla tradizionale contrapposizione tra le due diverse letture del significato del fondamentale diritto alla salute.


La giurisprudenza ha contribuito a rendere minoritaria l’impostazione secondo cui il bene primario da tutelare fosse la salute collettiva. Secondo quest’ultima impostazione, invece, la salute del singolo poteva essere “sacrificata” a scapito del raggiungimento del superiore obiettivo della salute pubblica. Il fondamento di tale lettura veniva indicato nell’affermazione dei doveri di solidarietà sociale e politica affermati in Costituzione agli artt. 2, 3 e 44.


È appena il caso di notare, senza per il momento soffermarsi sulla possibilità di una diversa lettura delle richiamate norme costituzionali, come ciò comporti un rovesciamento dell’impostazione kantiana secondo cui gli uomini devono essere trattati come dei fini, e non come dei mezzi attraverso i quali raggiungere degli obiettivi, quale che sia la rilevanza di tali obiettivi perseguiti. Aderendo a tale impostazione, la libertà personale tutelata dall’art. 13 della Costituzione, quindi, dovrebbe essere posta in secondo piano nel caso in cui le scelte dell’individuo siano potenzialmente lesive del superiore interesse alla salute collettiva, tanto che la persona si trova ad essere gravata da un vero e proprio dovere di curarsi5.

Con il trascorrere degli anni, tuttavia, sulla scorta dell’elaborazione della giurisprudenza è andata delineandosi, come anticipato, una diversa ricostruzione del tema in esame, che attualmente può essere indicata come maggioritaria, e fondata su una diversa lettura dei principi fondamentali della nostra Costituzione.


Il punto di partenza di questa distinta impostazione è una norma che con il tempo è andata assumendo una sempre maggiore rilevanza: l’art. 2 della Costituzione. Secondo questa disposizione, la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità; oltre a richiedere, come già ricordato l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. In tal modo si è voluto affermare il noto principio personalista per cui l’individuo è il centro dell’organizzazione sociale e politica, titolare di diritti che si caratterizzano per essere anteriori allo Stato stesso. In altre parole, secondo tale interpretazione si sottolinea come sia lo Stato ad essere destinato al servizio della persona, e non viceversa, evidenziando così la precedenza della persona rispetto al primo.


La suddetta lettura della tutela costituzionale della salute, come da più parti evidenziato, appare supportata anche dal fatto che l’art. 32 della Costituzione, nell’affermare la rilevanza della bene salute, deve necessariamente tener conto del portato dell’art. 2 della Costituzione che rappresenta un principio supremo del nostro ordinamento, di cui le successive specificazioni, quali l’art. 32, devono necessariamente tener conto.


Lo stesso art. 32 della Costituzione, inoltre, permette di escludere che si debba parlare di un dovere di curarsi per le singole persone fisiche. La predetta norma infatti stabilisce in modo chiaro che nessuno possa essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per espressa disposizione di legge. Tale legge, ad ogni modo, non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.


Appare chiara, pertanto, la vastità del tema in esame, e la molteplicità dei profili che vengono coinvolti. Ai fini della presente trattazione, quindi, l’attenzione deve essere posta sull’ammissibilità di un trattamento sanitario obbligatorio imposto dalla legge al singolo cittadino.

L’opinione consolidata è che il trattamento sanitario obbligatorio può dirsi costituzionalmente legittimo soltanto se, nel perseguire la tutela della salute dell’individuo sottoposto allo stesso, è altresì finalizzato alla tutela della salute collettiva6. In altre parole, per potersi procedere con un trattamento obbligatorio la scarsa salute del singolo individuo deve poter essere una minaccia per la salute collettiva. Il trattamento, tuttavia, deve essere indispensabile, ossia l’unico modo per raggiungere i predetti obiettivi, non potendo trattarsi di una misura con finalità sperimentale. È appena il caso di notare, infatti, come la sperimentalità del trattamento escluda di per sé la necessarietà dello stesso.


Nello stesso senso, e sulla base della elaborazione dottrinale e giurisprudenziale sin qui richiamata, non potrà essere considerato ammissibile un trattamento sanitario obbligatorio nocivo per la singola persona sottoposta allo stesso, nemmeno se il fine è quello della tutela della salute collettiva. Il trattamento sanitario, infine, deve essere il meno invasivo possibile e non può essere discriminatorio in quanto fondato sul sesso, sul genere, sulla razza o etnia del singolo soggetto sottoposto.

In proposito vale la pena sottolineare come il riferimento alla non discriminatorietà del trattamento sanitario obbligatorio abbia oggi una rilevanza maggiore di quella che a prima vista si sarebbe portati ad attribuirle. Gli scenari contemporanei sono caratterizzati, com’è noto, dalla presenza di importanti fenomeni migratori che hanno alimentato pregiudizi e falsi convincimenti nei confronti di persone giunte nel nostro paese da altri continenti, anche in relazione al rischio che con la loro presenza si potessero trasmettere patologie diffuse nei loro paesi di origine.

Il diritto alla salute dell’individuo, inoltre, non viene meno neppure nel momento in cui la persona viene sottoposta ad un trattamento sanitario obbligatorio. La stessa Corte Costituzionale, infatti, con la nota sentenza n. 307 del 1990 ha affermato il diritto al risarcimento del soggetto che a causa di detto trattamento, abbia subito una menomazione del proprio diritto alla salute individuale7.

Il punto centrale è quindi la possibilità di dimostrare che quel trattamento sanitario che si vuol imporre è realmente indispensabile, inteso come l’unico modo per evitare un danno alla salute collettiva, e che l’assenza della sottoposizione allo stesso sia in grado di determinare un danno alla salute degli altri soggetti.


2. Il c.d. consenso informato

Da quanto sin qui sommariamente esposto emerge, pertanto, come il giudizio circa l’ammissibilità costituzionale di un trattamento sanitario obbligatorio sia fondato su valutazioni di natura prevalentemente scientifica. Il solo fatto che il legislatore imponga un trattamento sanitario lo rende difatti sì obbligatorio, ma non necessariamente giustificato – sotto il profilo della necessarietà e inevitabilità dello stesso – dalla presenza di un pericolo attuale che la mancata sottoposizione al trattamento sanitario da parte del singolo si ripercuota in una minaccia per la salute della collettività.


Laddove difatti, sulla base di ponderati e documentati studi scientifici, si giunga a porre in discussione il presupposto scientifico del trattamento sanitario obbligatorio parrebbe più opportuna una differente considerazione di quel determinato trattamento, soprattutto alla luce del quadro costituzionale in precedenza tratteggiato.

La nostra Costituzione infatti tutela espressamente la libertà personale di ciascun individuo; questa, intesa nella sua accezione più ampia, e soprattutto considerata alla luce del principio personalista di cui all’art. 2 Cost., giunge ad imporre allo Stato di garantire al soggetto la libertà di decidere sulla base della propria personalità e coscienza. La stessa Corte Costituzionale, nella sentenza n. 467 del 19918, ha specificato come la protezione della coscienza individuale si ricava dalla tutela delle libertà fondamentali e dei diritti inviolabili riconosciuti e garantiti all’uomo come singolo sulla base dell’art. 2 della Costituzione.

Non sarebbe infatti possibile garantire in modo pieno libertà e diritti inviolabili in assenza di una correlativa protezione costituzionale della coscienza individuale, intesa come la relazione intima e privilegiata dell’uomo con se stesso e fondamento etico e giuridico delle libertà personali che per mezzo della stessa sono rese possibili ed esprimibili. In tal modo si giungerebbe a recuperare la centralità del ruolo del “cosciente orientamento del singolo” come presupposto dell’intervento sanitario. Il tutto alla luce della significatività dello stesso anche in considerazione della rilevanza riconosciuta all’espressione di un c.d. consenso informato da parte del paziente. Rilevanza che emerge dallo stesso Codice deontologico dei medici, riformato nell’anno 2006, in cui si impone al medico di attenersi alla “volontà liberamente espressa dalla persona”, e comunque nel rispetto della dignità, autonomia e libertà della persona.

La salute infatti non può essere imposta, in quanto bene attinente alla qualità della vita del soggetto e che soltanto lui – o il soggetto esercente la potestà, nel caso di minore – può legittimamente fare. Il rapporto tra medico e paziente, pertanto, si fonda in primo luogo sui diritti del paziente, e solo successivamente sui doveri del medico, considerato che, come sopra esposto, l’area della extraconsensualità sarebbe giustificata soltanto dall’esistenza di un dovere di curarsi che, giova ripeterlo, non sussiste nel nostro ordinamento giuridico. Non a caso, infatti, nell’affermare ormai l’avvenuto recepimento, a livello etico e giuridico, del principio del consenso informato, questo è stato efficacemente qualificato come un vero e proprio vincolo sociale. Un vincolo, in altre parole, idoneo a spezzare l’originaria prospettiva paternalistico-autoritaria del rapporto fra medico e paziente (quanto meno a livello teorico, vista la perdurante resistenza in fatto) che, facendo leva sullo stato di necessità costringente il medico ad intervenire, considerava nettamente prevalente l’orientamento del medico sui convincimenti del paziente, visto pertanto come “oggetto” e non “soggetto” di decisioni9.
Il tema oggetto della presente trattazione risulta essere emblematico in ordine alla difficoltà di orientare in modo consapevole la propria condotta da parte del genitore del bambino chiamato dallo Stato a sottoporsi ad una serie di vaccinazioni obbligatorie. La delicatezza della situazione, sia dal punto di vista giuridico che umano, risiede nel fatto che il genitore viene chiamato – nell’esercizio della potestà sul figlio minore – ad effettuare una scelta che, in linea di principio, non viene nemmeno presentata come tale. Il primo scoglio, pertanto, consiste nel recuperare quel nucleo duro di informazioni che indichino la fondatezza o meno del trattamento sanitario al quale viene sottoposto il proprio figlio. Innanzitutto va chiarito che può parlarsi di scoglio in quanto non vi è una esaustiva diffusione dei dati relativi al presente problema, diffusione che consenta agli interessati di poter effettuare una valutazione da tutti i punti di vista.

Ed ecco che il comando dell’ordinamento – la obbligatorietà del trattamento – riveste spesso la funzione di coperta di Linus (per dirla con il noto fumetto) cui attaccarsi, evitando così di effettuare – o consentire – lo sforzo di comprensione da parte di chi non è un addetto ai lavori della materia. Il riparo, tuttavia, è anche per il successivo conflitto in cui la persona si trova una volta che si è adoperato per comprendere gli aspetti tecnici in esame, e gli sono sorti dubbi in ordine alla fondatezza del trattamento sanitario. Si propone così il drammatico conflitto tra il singolo e l’ordinamento, il timore di uscire dalla strada battuta, di affrontare le conseguenze cui tale scelta può portare; e qui emerge l’ulteriore difficoltà che consiste nel valutare la liceità giuridica di un’eventuale decisione di non sottoposizione al trattamento sanitario, nonchè la sua sostenibilità etica, in rapporto ai principi solidaristici che sono alla base (almeno dal punto di vista teorico) della nostra convivenza.

Tutto quanto sin qui esposto sottolinea ancora di più l’importanza della tematica del consenso informato, come tale finalizzato a far sì che si abbia una scelta veramente libera dal punto di vista sostanziale, e non solo formale in quanto esteriormente effettuata. Sarà quindi necessario che si proponga in diverse sedi e occasioni una offerta informativa corretta e competente da medici che, innanzitutto, considerino la difficoltà di recepimento di nozioni tecniche, nonché la delicata successiva interazione di queste con il c.d. percorso individuale decisionale. Nell’ipotesi in esame, peraltro, le difficoltà sono ancora maggiori, considerato che il percorso decisionale solitamente coinvolge entrambi i genitori, e quindi due persone chiamate a prendere una decisione per conto e nell’interesse di una terza.

Una comunicazione medico – paziente che assume, quindi, una delicata dimensione trilaterale e che necessita quindi, di essere la più ricca e profonda possibile. Il tutto, evidentemente, al fine di evitare che una importante opportunità fornita al cittadino venga da quest’ultimo paradossalmente percepita come un peso, un qualcosa da cui rifuggire per trovare riparo sotto il comando dello Stato.

3. L’ammissibilità del rifiuto del vaccino visto come terapia salvavita, prendendo le mosse dalla recente giurisprudenza.

I Tribunali della Repubblica sono stati recentemente chiamati a confrontarsi con la tematica del rifiuto da parte del paziente delle c.d. terapie invasive salva-vita. Tale problematica risulta essere di particolare rilevanza in quanto idonea a produrre conseguenze ulteriori rispetto ai casi specifici in cui si manifesta, a causa dell’evidente coinvolgimento di punti centrali e assai significativi del piano etico valoriale dell’individuo.


Il tema sì è così posto con decisione all’attenzione degli osservatori e degli interpreti del nostro ordinamento, facendo sì che si sviluppasse un ampio e critico dibattito, alimentato altresì, come si è detto, da alcune significative pronunce dei Tribunali della Repubblica.


Peraltro, la difficoltà di fornire una risposta alle esigenze dei cittadini, da un lato, e alle conseguenti richieste di tutela provenienti dalla società civile, dall’altro, deriva anche dalla lentezza del nostro ordinamento, e in particolare del Legislatore, nel recepire tali istanze e affrontare tali problematiche. Questa lentezza produce, in primo luogo, una automatica risposta volta a ridimensionare la portata di tali richieste “nuove”, così da giustificare una non risposta dell’ordinamento; al contempo, in secondo luogo costringe la Magistratura a un ruolo di supplenza dell’inerte legislatore, considerato che tali richieste di tutela finiscono comunque per giungere ai giudici e questi sono quindi chiamati a fornire una risposta.


Lo scenario politico-giuridico in cui si collocano le presenti riflessioni, pertanto, è di contrapposizione tra un Parlamento che non legifera, e una Magistratura che è comunque chiamata (in alcuni casi verrebbe da dire suo malgrado) a esaminare precise e specifiche richieste di tutela che provengono dai cittadini; una Magistratura, quindi, molto spesso costretta a compiere sforzi interpretativi che, in un secondo momento, vengono tanto frequentemente quanto paradossalmente stigmatizzati come inopportunamente creativi dallo stesso inerte legislatore.

A tal proposito una recente pronuncia giurisprudenziale che ha riacceso il dibattito è il decreto emesso dal Tribunale di Modena il 13 maggio 20081. Il caso prospettato al Tribunale di Modena era quello di una persona affetta da sclerosi laterale amiotropica che, al momento del ricorso al Tribunale, era ancora in possesso della propria capacità di autodeterminarsi, anche se con grave insufficienza respiratoria e in regime di ventilazione meccanica continua, ma non invasiva. Tale persona (settantenne, coniugata e con quattro figli adulti) si trovava già ricoverata presso una clinica neurologica, con un quadro clinico caratterizzato da astenia generalizzata, inappetenza, denutrizione, flessione del tono dell’umore, sindrome ansiosa e broncopolmonite bilaterale. Considerata la prevedibilità di prossime crisi respiratorie superabili soltanto per mezzo di ventilazione forzata con tracheotomia, la paziente, per evitare tale scenario, aveva espresso sin da subito il proprio dissenso a tali trattamenti invasivi. In considerazione della situazione sopra descritta, il dirigente responsabile dell’ufficio tutele dell’azienda ASL di Modena aveva chiesto al Tribunale la nomina di un amministratore di sostegno, il quale fosse espressamente autorizzato a esprimere il proprio dissenso ai trattamenti c.d. salvavita, di natura invasiva.

Il Tribunale di Modena, interrogato il coniuge nonché i quattro figli della beneficiaria, i quali avevano confermato univocamente la dichiarazione depositata dalla paziente e indicato il padre come amministratore di sostegno (che a sua volta confermava la propria disponibilità in proposito), e visitata la persona, avvalendosi dell’ausilio dei figli nell’interpretarne le parole (non sempre comprensibili a causa delle difficoltà di articolazione), aveva raccolto l’espressa volontà di non volersi sottoporre alla predetta pratica invasiva, prendendo così atto della coraggiosa lucidità circa le conseguenze infauste della propria scelta. Di conseguenza, il Tribunale di Modena, nella richiamata pronuncia, in particolare, riconosce al percorso interpretativo descritto la funzione di colmare la lacuna esistente nel nostro ordinamento giuridico in ordine all’assenza di una specifica previsione in materia di testamento c.d. biologico. A tal proposito, alcune delle argomentazioni utilizzate dal Giudice emiliano si prestano a essere estese al tema del rifiuto di sottoporsi a vaccinazione obbligatoria, considerato che i diritti su cui si fondano entrambe le rivendicazioni possono dirsi, per certi versi, coincidenti.


La sopra descritta vicenda umana e giuridica, in altre parole, merita di essere richiamata in questa sede, nonostante la apparente distanza dall’oggetto specifico della presente trattazione. In più di un’occasione, infatti, si è operato un parallelismo tra la situazione del neonato, e del fanciullo, e quella della persona che si trova a vivere l’ultimo segmento della propria esistenza con gravi limitazioni fisiche o psichiche; in entrambi i casi, difatti, il soggetto non è in grado di operare scelte consapevoli in ordine alla propria salute. Se si considera la problematica da tale prospettiva si può apprezzare l’inedito sforzo compiuto dal Tribunale di Modena per concedere la tutela richiesta dal cittadino, a fronte di un sistema normativo in cui non esiste ancora una legge che regolamenti le modalità con cui il soggetto possa disporre in ordine alla propria salute a fronte di ipotesi analoghe. Da qui lo “sforzo” del Tribunale che, invece, se si considera nel suo complesso il distinto tema delle vaccinazioni obbligatorie, non dovrebbe invece essere compiuto.


Una volta, infatti, che tali trattamenti sanitari fossero analizzati dal punto di vista scientifico prima, e costituzionale poi, e da tale analisi ne fosse derivata la non necessarietà degli stessi nel senso già sopra indicato, tale trattamento sanitario si troverebbe a essere ricondotto all’interno dell’insieme di quei possibili interventi sanitari per i quali verrebbe in considerazione il necessario consenso del paziente.


Potrebbe difatti essere considerato non discriminatorio un ordinamento giuridico che, da un lato, preveda una possibilità di orientare la propria condotta in ordine al verificarsi dell’evento morte, e poi escluda, dall’altro, la medesima possibilità in ordine alla decisione di sottoporsi a un trattamento sanitario? Abbiamo detto, infatti, come non possa ritenersi esistente un “dovere di curarsi”, ma così si arriverebbe a escludere all’origine anche la configurabilità del “diritto di non ammalarsi”.


Le suddette considerazioni, inoltre, sono altresì supportate dalla ulteriore constatazione che il rifiuto alla somministrazione del vaccino, e l’opzione dei genitori – cosciente e consapevole, così come in precedenza precisato – a favore dell’uso di un placebo, permetterebbe altresì la creazione di un gruppo di controllo per mezzo del quale operare una verifica effettiva e attendibile dell’efficacia e degli effetti del vaccino stesso. Non va dimenticato, infatti, che nel nostro paese viviamo oggi in una situazione di assenza di epidemie e che, pertanto, appare di non poca utilità – anche in relazione al parametro apparentemente avverso della tutela della “salute collettiva” – il poter operare un confronto tra lo stato di salute dei bambini vaccinati e di quelli non vaccinati. Il contributo per la tutela della salute collettiva, infatti, emergerebbe sia dalla possibile verifica dell’eventuale insorgenza delle patologie che le vaccinazioni si propongono di evitare, sia in ordine all’analisi delle distinte frequenze di manifestazione di patologie allergiche tra i due gruppi di bambini.


L’emblematico caso del Tribunale di Modena, inoltre, è caratterizzato dalla necessità di individuazione di un soggetto che sia legittimato ad operare la scelta in ordine al rifiuto del trattamento sanitario; nell’ipotesi del rifiuto della vaccinazione non ci sarebbe, come detto, il medesimo problema, visto che l’ordinamento ha creato appositamente la potestà, ovvero una situazione giuridica soggettiva di potere-dovere che si esercita nell’interesse del proprio figlio. Ciò non significa, evidentemente, che non residuino tutte le problematiche sopra illustrate, sia dal punto di vista giuridico che etico-morale nella formazione del processo decisionale da parte della coppia genitoriale.


Venendo, quindi, ai profili normativi che hanno orientato la recente, e richiamata, giurisprudenza deve farsi riferimento (oltre che alle norme specifiche sull’amministrazione di sostegno, e in particolare l’art. 408, comma 2, del codice civile in tema di designazione dell’amministratore di sostegno in previsione di una futura incapacità del soggetto), in primo luogo all’art. 32 della Costituzione che tutela – così come sopra già descritto – la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività.


Vale la pena di ricordare ancora come sia ormai opinione consolidata che il predetto art. 32 della Costituzione debba essere considerato immediatamente precettivo, e quindi direttamente applicabile in tema di consenso medico informato e di rifiuto delle terapie, anche salvavita. In altre parole non si tratta di una norma meramente programmatica, finalizzata ad indicare gli obiettivi che il Parlamento sarà chiamato a raggiungere, ma una fonte in grado di orientare sin da subito le condotte dei consociati. La finalità perseguita dal costituente, e ancora oggi di evidente attualità (nonostante che la revisione della Costituzione sia sempre tra i primi punti delle agende politiche degli ultimi anni) è improntato all’esigenza di rispettare l’individuo e l’insieme delle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche che stanno a fondamento delle sue determinazioni.

Il Tribunale di Modena, infine, si preoccupa altresì di escludere che quanto affermato comporti un qualsiasi richiamo al tema dell’eutanasia2.


Il rifiuto o l’eventuale espressione di volontà interruttiva di terapie, in assenza delle quali, verosimilmente, si verificherebbe l’evento morte, non possono infatti essere considerati dei fenomeni eutanasici. Si tratta, invece, di atti che – come si desume dalla elaborazione giurisprudenziale della Cassazione –si traducono esclusivamente nel rispetto, rigoroso, del percorso biologico naturale.


Il punto centrale di unione delle due prospettive in esame, quella del Tribunale di Modena rivolta alla fase terminale dell’esistenza, e quella, oggetto della presente trattazione in merito alle vaccinazioni obbligatorie, connessa con il momento iniziale della vita, è rappresentato proprio dalla necessità di far sì che lo Stato permetta al singolo individuo di orientarsi a favore del rispetto del percorso biologico naturale.

Una volta che si afferma l’importanza di garantire alla singola persona umana il rispetto della sua dignità, della sua scelta di conformarsi con il percorso biologico individuale che andrà a caratterizzare la sua esistenza, non può che farsi un discorso complessivo e unitario, dove le fasi della vita vanno a congiungersi idealmente nell’unitarietà del bene che si vuole tutelare in entrambi i casi, ovvero la dignità umana.


L’ipotesi di cui si occupa il Tribunale di Modena, evidentemente, non presenta alcun punto di contatto con quella dell’eutanasia regolamentata nell’ordinamento olandese e belga, in cui invece si è diversamente legittimato l’accelerazione del percorso biologico naturale, per una persona capace di intendere e di volere. Detta “accelerazione” viene permessa a fronte di situazioni in cui un individuo sia affetto da sofferenze insopportabili (e senza alcuna prospettiva di miglioramento) e chieda la somministrazione di un farmaco mortale (se non è da solo in grado di autosomministrarselo), oppure semplicemente di fornirglielo se diversamente è in grado di assumerlo in modo autonomo (ed in tal caso si parla, infatti, di c.d. suicidio assistito).


Il Tribunale di Modena afferma in modo espresso, infine, che se da un lato è pacifico che l’art. 32 della Costituzione non garantisce il diritto a morire; dall’altro però tale norma garantisce il diritto a che il naturale evento della morte si attui con modalità coerenti all’autocoscienza della dignità personale, quale costruita dall’individuo nel corso della vita attraverso le sue ricerche razionali e le sue esperienze emozionali.

Non si comprende, quindi, come ciò non possa valere per il diritto di curare nel corso della vita la propria salute. La significativa decisione del Tribunale di Modena si inserisce, come già detto, all’interno di una elaborazione della giurisprudenza tra cui può essere ricordata anche quella del Tribunale di Vibo Valentia – Tropea del 30 novembre 20053, secondo cui la dichiarazione sottoscritta da un soggetto alla presenza di testimoni con cui si è manifestata la volontà di non essere sottoposto a trasfusioni di sangue deve essere rispettata, e a tal fine può essere designato un amministratore di sostegno autorizzato ad esprimere la volontà del beneficiario per tutto il periodo di degenza in ospedale4.


La drammaticità degli scenari giuridici e umani sin qui evocati emerge con chiarezza nel ricordare il recente caso di cronaca riportato dalla stampa nazionale5 in cui un Ministro di culto dei Testimoni di Geova malato di tumore (neoplasia gastrica maligna) veniva ricoverato in ospedale e rifiutava la trasfusione in quanto contrastante con i suoi precetti religiosi. I medici, contro la volontà del paziente, e previa autorizzazione del magistrato, decidevano di praticargli la trasfusione legandolo al letto, e questi continuava ad opporsi gridando il proprio rifiuto, per poi morire di infarto durante la trasfusione. Significativo come il rifiuto del paziente fosse stato esplicitato sin dal momento del ricovero, e che l’ospedale del milanese in cui il fatto si è verificato aveva fornito rassicurazioni scritte in proposito. Il Tribunale civile di Milano ha condannato l’ospedale e quattro medici a risarcire la vedova del paziente per danni biologici e morali. Il punto centrale, evidentemente, è rappresentato dalle modalità di attuazione del trattamento, connesse con l’intervenuto infarto. L’aspetto, tuttavia, che più interessa in questa sede è come il Tribunale di Milano, con sentenza del mese di dicembre 2008, abbia affermato che dalla Costituzione emerge una dignità anche nel processo di morire, e che nessun medico può dimenticare tale dignità anche se spinto dalle migliori intenzioni di cura e salvezza. Esiste, quindi, un diritto al rifiuto di un tipo di cura pur volendo continuare a vivere.

Nell’intervento terapeutico, infatti, va scongiurato lo scenario in cui la prospettiva si sposta dalla cura della persona, alla cura in quanto tale. Il Tribunale di Milano, inoltre, afferma in modo espresso come l’esercizio della funzione di garanzia del medico, così come l’obbligo contrattuale di adempimento della prestazione, non possono spingersi fino a travalicare i diritti inviolabili di ogni essere umano, costituzionalmente protetti dagli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione (dignità, solidarietà, e libertà individuale) i quali impongono una soglia di rispetto invalicabile da parte di chiunque e di fronte ai quali devono arrestarsi le altrui diverse volontà. Emerge, quindi, anche in tale contesto, la centralità del sempre più richiamato diritto all’autoderminazione dell’individuo.


In precedenza si è già evidenziato, in ordine al tema del consenso informato, come nel mondo anglosassone questo fosse consolidato da più tempo rispetto al nostro paese. Lo stesso deve dirsi circa il diritto all’autodeterminazione e alla dignità individuale, intesa come il necessario rispetto da parte delle pubbliche autorità delle convinzioni dell’individuo allorché effettua le proprie scelte, complessivamente intese, circa la propria persona.

Recenti pronunce giurisprudenziali dei Tribunali degli Stati Uniti hanno sempre più evidenziato, accanto al diritto alla dignità individuale, il c.d. right to privacy6, il diritto alla privacy, in alcune sue accezioni tutelato anche nel nostro ordinamento, ma considerato in quel contesto normativo come il diritto all’autonomia personale, anche in relazione all’integrità del proprio corpo. Le scelte circa la propria salute, includendo quelle connesse con patologie terminali, vengono intese come il nucleo duro dell’asse costituzionale dignità – privacy della persona, escludendo che lo Stato possa comprimere questa area di autodeterminazione individuale.


In altre parole, la persona ha il diritto fondamentale di vivere, di curarsi, e di morire secondo la propria dignità individuale, intesa come il risultato del processo di progressiva costruzione nel corso della vita, per mezzo delle propria ricerche razionali, e del complesso delle sue esperienze emozionali.

Bambini super-vaccinati - 2a edizione
Bambini super-vaccinati - 2a edizione
Eugenio Serravalle
Saperne di più per una scelta responsabile.Un’attenta disamina sulla questione dei vaccini, che mette a confronto dati e ricerche aggiornate, per aiutare i genitori a scegliere con consapevolezza. Eugenio Serravalle, medico specializzato in Pediatria Preventiva, Puericultura e Patologia Neonatale, ha approfondito il fenomeno delle invenzioni delle malattie e lo studio delle composizioni dei vaccini, con gli additivi, i conservanti e le sostanze chimiche che possono avere effetti dannosi sulla salute dei bambini.Fermamente convinto dell’utilità dell’immunizzazione di massa, per anni ha vaccinato i suoi pazienti con ogni vaccino disponibile sul mercato, finché si è reso conto di aver accettato senza riserve il concetto abituale secondo cui i vaccini siano sempre efficaci e sicuri.Libero da ogni pregiudizio, l’autore ha cominciato a porsi domande diverse, quelle che soprattutto i genitori si pongono: i vaccini provocano malattie irreversibili? I bambini sono troppo piccoli per le vaccinazioni? I vaccini causano reazioni pericolose per l’organismo? Somministrare troppi vaccini insieme sovraccarica il sistema immunitario?In Bambini super-vaccinati da pediatra infantile si cala nel ruolo di genitore, cercando di chiarire ogni dubbio sulla pratica vaccinale: il libro vuole quindi garantire il diritto a un’informazione obiettiva e consapevole sui rischi derivanti dalle vaccinazioni, sulla libertà di scelta e di cura, fornire quindi ai genitori, e non solo, tutte le informazioni utili per scegliere in piena autonomia.In questa seconda edizione viene approfondito ancor di più tutto quello che la letteratura scientifica internazionale mette a disposizione, confrontando dati e ricerche cliniche. Conosci l’autore Eugenio Serravalle è medico specialista in Pediatria Preventiva, Puericultura e Patologia Neonatale.Da anni è consulente e responsabile di progetti di educazione alimentare di scuole d’infanzia di Pisa e comuni limitrofi.Già membro della Commissione Provinciale Vaccini della Provincia Autonoma di Trento e relatore in convegni e conferenze sul tema delle vaccinazioni, della salute dei bambini e dell’alimentazione pediatrica in tutta Italia.