capitolo iv

Smartphone e tablet
ai bambini:
effetti collaterali

Uso precoce dei media digitali e dipendenza

Lo smartphone è ormai diventato l’oggetto di cui non si può fare a meno. Ragazzi e adulti ce l’hanno sempre in mano per non perderlo di vista, per sentirlo se vibra, per controllare se c’è campo, per assicurarsi che non si sta perdendo qualcosa di interessante nell’online.


Se non c’è connessione, se il telefono è scarico o se lo si dimentica, molti reagiscono con un senso di panico, di disorientamento, di smarrimento. Gli scienziati hanno coniato il termine nomofobia (no mobile phobia) per indicare l’angoscia da separazione quando il cellulare non è disponibile. Molto più di una protesi, come spesso viene definito, soprattutto per gli adolescenti, lo smartphone è diventato un arto, una parte del corpo da esporre, da sentire. Senza, ci si sente mutilati.


Anche per i bambini sta diventando così. Per molti di loro, abituati allo smartphone come mezzo di soluzione per situazioni varie, sembra impossibile giocare, parlare, inventarsi un gioco creativo, ingannare l’attesa, sconfiggere la noia o riempire i vuoti. Nessuna azione sembra svincolata dal mezzo digitale; per molti bambini, nessuna sfida di crescita o di conquista dell’autonomia viene affrontata “a pelle nuda”, senza il miracoloso smartphone.


Sono tante le app per bambini che “insegnano” loro come fare delle cose, per esempio lavarsi i denti, addormentarsi, giocare, fare i compiti, persino usare il vasino. Al bambino non viene più lasciata alcuna possibilità di sperimentare per prove ed errori, di trovare il modo personale per affrontare le cose, di mettercela tutta e utilizzare le proprie risorse per riuscire.


Come può un oggetto onnipresente e tuttofare come lo smartphone, se usato in modo pervasivo anche dai bambini, non favorire una sua dipendenza?

Lo smartphone è ovviamente il paradigma di tutti gli altri mezzi digitali e di internet in generale. Tutti ormai siamo più o meno dipendenti dalla rete, nel senso che ci affidiamo ad essa per risolvere ogni problema, per soddisfare ogni curiosità, per trovare ogni informazione, per non restare fuori. È difficile che qualcuno ci telefoni per avvisarci di qualcosa; pensiamo ai gruppi scolastici o di lavoro che utilizzano la messaggistica whatsapp per informare.


In senso lato siamo un po’ tutti dipendenti se ci ritroviamo a controllare la posta fin dal risveglio e continuiamo a farlo altre innumerevoli volte durante la giornata, se apriamo sovente la pagina facebook per curiosare, controllare il consenso dettato dai like, per scorrere senza neanche leggere, se non esitiamo a consultare il “maestro” Google alla ricerca di una qualsiasi informazione che potrebbe essere reperita anche in altri modi, per esempio, consultando un’enciclopedia, un manuale, chiedendo a qualcuno, se siamo ossessionati dal bisogno di immortalare tutto e tutti e condividere sui social… e così via.


Il confine tra un uso equilibrato e uno patologico della rete è molto sottile, come succede per ogni sostanza che poi possa creare dipendenza.

Quando internet o lo smartphone diventano un’ossessione, un’idea fissa capace di oscurare altri campi esistenziali come la famiglia, la cura dei figli, il rapporto con il partner, gli amici, il lavoro, il riposo, la cura di sé, allora ci troviamo di fronte a un problema che può assumere le dimensioni di una vera e propria “retomania”.


Fino all’avvento dei mezzi informatici, e soprattutto di internet e poi dello smartphone, il concetto di dipendenza era associato a situazioni pericolose o illegali e alla presenza di sostanze dannose come droga, alcol, fumo. Negli ultimi tempi ci siamo trovati di fronte a nuove dipendenze (new addictions) le quali, pur non prevedendo la presenza di sostanze, generano comportamenti compulsivi nocivi per il soggetto.


I mezzi digitali sono progettati proprio per creare dipendenza: sono accattivanti, facilmente accessibili, facili da usare e imprevedibili, cioè favoriscono situazioni di gratificazione alternate a situazioni di fallimento. Quando si fa una ricerca su internet non sempre si trova quello che si vuole, ma poi tanti altri tentativi vanno a buon fine e questo ricompensa l’iniziale frustrazione. Anche in un gioco, per esempio, qualche volta si perde e allora ci si accanisce per provarci di nuovo, per vincere.


Il fatto che ogni azione, ogni attività della vita reale sia mediata dalla rete e dal dispositivo digitale, crea tutti i presupposti di dipendenza a largo raggio. Il primo a parlare di dipendenza da internet (IAD - Internet Addiction Disorder) è stato lo psichiatra americano Ivan Goldberg, poi ripreso dalla dottoressa Kimberly Young, fondatrice nel 1995 del Center for Online Addiction negli Stati Uniti.

Goldberg indica all’inizio degli anni ’90 alcuni criteri per valutare o riconoscere una dipendenza: bisogno ossessivo di essere online, ansia, movimenti volontari o involontari delle dita come su una tastiera, crisi d’astinenza, preoccupazione eccessiva verso ciò che succede in rete, abbandono di alcune attività esistenziali importanti1.


La Young approfondisce gli studi, propone caratteristiche più precise e delinea alcune situazioni patologiche di dipendenza (come quella dalla pornografia, dal gioco d’azzardo, dal sovraccarico di informazioni).

È molto difficile oggi distinguere un comportamento patologico da un comportamento non patologico, considerato l’uso sempre più massiccio della rete. I bambini, abituati a non fare a meno del mezzo digitale per ogni aspetto importante della vita, sono più soggetti a diventarne dipendenti.


Riferendoci a Cris Rowan, che spiega le dipendenze a partire dall’attaccamento primario e considerando che spesso noi genitori offriamo ai bambini un coinvolgimento fisico ed emotivo quasi sempre mediato dal mezzo, quindi spesso interrotto e spezzato, allora potremmo considerare il vuoto che molti bambini vivono e maturano e che potrebbe essere colmato con le dipendenze. Se fin dalla tenera età viene offerto loro lo smartphone come surrogato genitoriale e affettivo, come oggetto di consolazione, allora la strada verso la dipendenza è probabilmente segnata.


La dipendenza in generale presuppone la presenza di alcuni elementi: l’oggetto (transfert, sostituto dell’oggetto primario), il comportamento compulsivo, lo scarso autocontrollo, la consapevolezza che un determinato comportamento sia dannoso.

Questi elementi rendono le nuove dipendenze non molto diverse da quelle tradizionali da sostanza. Studi neuroscientifici dimostrano che i meccanismi cerebrali attivati in entrambe le situazioni sono simili.

Il nucleo di dipendenza, ossia quella regione interna del cervello in cui si trovano dei neuroni responsabili delle emozioni positive, viene attivato di fronte ad uno stimolo piacevole, grazie alla produzione di dopamina2.


All’interno di una dipendenza, l’autocontrollo, cioè la capacità di gestire gli impulsi, ossia la volontà di inibirli o canalizzarli positivamente, risulta compromesso. Esso risiede nel lobo frontale e si forma a partire dall’infanzia su basi genetiche e ambientali. Com’è noto, il gioco sociale è una grande occasione di formazione e sviluppo dell’autocontrollo.


L’esperimento dello psicologo californiano Walter Mischer, il marshmallow test del 1989, descritto da Spitzer, osserva la capacità di un bambino di autocontrollo in riferimento alla capacità di differimento della ricompensa, condizione fondamentale per controllare i propri impulsi.


I risultati dimostrarono che solo una piccola percentuale di bambini riusciva a trattenersi dal mangiare i marshmallow in assenza del ricercatore e rinviare così la ricompensa (doppio marshmallow) al suo ritorno. L’osservazione longitudinale evidenziò che i bambini che erano riusciti a controllarsi, avevano una vita migliore, più sana sia dal punto di vista fisico che psicologico e sociale. La capacità di autocontrollo dimostrata durante l’infanzia, inoltre, corrispondeva a minori problemi di dipendenza.

Pensiamo all’infanzia odierna: con i media digitali i bambini ricevono un flusso inarrestabile di stimoli che li sovraccarica, una gratificazione immediata che compromette e riduce la loro capacità di frenare gli impulsi e di gestire l’attesa.


Il mancato autocontrollo compromette anche i processi di attenzione e concentrazione, con conseguenti problemi comportamentali e di apprendimento. Un bambino incapace di controllare i propri impulsi avrà difficoltà a focalizzare un concetto prestando attenzione, a concentrarsi, a portare a termine un compito.


L’autocontrollo è associato anche all’inibizione degli impulsi, dunque al controllo dell’aggressività. Un bambino che impara a dominare i propri istinti, le proprie emozioni negative (rabbia, paura, tristezza) – ed è per questo che è necessario conoscerle e definirle – saprà dominare la propria aggressività, stare bene in mezzo agli altri, investire la propria energia nell’apprendimento e nella crescita.


I mezzi digitali, i videogiochi che tanto ruolo investono nella crescita dei nostri bambini, non favoriscono affatto l’autocontrollo, con tutte le implicazioni a medio e lungo termine che ciò comporta nel processo evolutivo.

Ancora una volta è in gioco il futuro della nostra società. C’è davvero da riflettere su questo!

Distrazione digitale e disturbi dell’attenzione

L’attenzione è il prerequisito fondamentale affinché qualcosa rimanga nella nostra mente.

Se parliamo a qualcuno ci aspettiamo che quest’ultimo ci ascolti; per farlo, deve prestare attenzione a quanto gli diciamo. Se ci accorgiamo che la persona in questione distoglie lo sguardo, guarda altrove o, peggio ancora, fa qualcos’altro, ci indigniamo, ci sentiamo offesi, lo richiamiamo all’attenzione o smettiamo di parlare con lui.


Prestare attenzione è segno di rispetto, ma è anche un’attività cognitiva importante alla base della memoria e dell’apprendimento. Eppure, dall’avvento degli smartphone, tolleriamo di parlare con qualcuno che intanto guarda lo schermo, controlla la pagina Facebook, la posta elettronica, i messaggi whatsapp o interrompe la comunicazione con noi perché catturato dal bip di un messaggio o da una chiamata in arrivo, o semplicemente preso dal bisogno di navigare. Insomma, di dare uno sguardo all’universo parallelo in cui sta vivendo mentre fisicamente è con noi.

Siamo costretti a sopportare conversazioni private delle quali non ci importa nulla, urlate da chiunque e pronte a interrompere un nostro qualsiasi momento. E tutto ciò è diventato normale, tollerabile. Ci stiamo abituando alla cattiva educazione, oltre che naturalmente a un’attenzione frammentata, spezzettata, parziale. Stiamo vivendo, come dice Joe Kraus, una “crisi dell’attenzione”3, stiamo diventando una cultura distratta, dove ciascuno è connesso con tanti altri simultaneamente, ma disconnesso dal suo prossimo e dal contesto in cui si trova.


Quando parliamo di attenzione, dobbiamo distinguerne due tipi: una volontaria e una involontaria. Se siamo consapevoli o compiamo uno sforzo per focalizzarci su un evento, parliamo di attenzione volontaria. Se, invece, senza uno sforzo consapevole siamo catturati da un oggetto o da un evento, parliamo di attenzione involontaria4.


La rete cattura continuamente la nostra attenzione senza che noi ne siamo pienamente consapevoli, ma se da un lato la cattura, dall’altro la disperde e la frammenta, distribuendola su più stimoli contemporaneamente.


Le neuroscienze affermano che quando riceviamo uno stimolo, abbiamo bisogno di un intervallo perché il nostro sistema visivo possa rielaborarlo e passare a quello successivo. Tale intervallo prende il nome di attentional blink5 ed è molto importante perché evita il sovraccarico di informazioni (overflow). “È come se il cervello avesse bisogno di resettare prima di essere di nuovo coinvolto”6.

Nella rivista “Pediatrics” del 2011 viene riportata una ricerca condotta da Christakis e Hancox su sessanta bambini divisi in tre gruppi. Al primo gruppo venne mostrato un cartone animato moderno con velocissimi cambi di scena che avvenivano ogni undici secondi; al secondo gruppo fu mostrato un documentario con cambi scenici a intervalli di trentaquattro secondi e infine, al terzo gruppo, fu chiesto di disegnare per nove minuti. In un momento successivo ai tre gruppi fu chiesto di svolgere dei test sul funzionamento del lobo frontale (esercizi di memoria, differimento della ricompensa, capacità di autocontrollo). Dai risultati emerse che il cartone velocissimo comprometteva le prestazioni, dimostrando quindi di influire negativamente sul lobo frontale. Al contrario, la concentrazione richiesta dal disegno (attività lenta) migliorò l’autocontrollo, l’attenzione e la concentrazione7.


Avere sempre a disposizione enormi quantità di informazioni implica il bisogno di restare sempre aggiornati per non perdersi nulla. Ciò presuppone la necessità di essere sempre online e sovraccaricare il cervello.

L’informazione, o immagine che sia, essendo veloce, viene trattenuta nella memoria a breve termine senza passare in quella a lungo termine, non trasformandosi mai, dunque, in conoscenza o ricordo da recuperare quando è necessario. L’attenzione, dunque, è associata alla memoria.


Il multitasking, ossia svolgere diverse attività nello stesso tempo, che rappresenta la modalità di acquisizione delle informazioni nei media digitali, è all’opposto dell’attenzione.


Essere continuamente distratti, disperdere la propria attenzione significa perdere la concentrazione e produrre di meno. Alcuni studi sul multitasking lo dimostrano8. E questi studi riguardano gli adulti. Cosa può succedere nel cervello di un bambino che per natura tende alla distrazione?

Il bambino ha bisogno di canalizzare il suo desiderio di conoscenza e la sua creatività. La sua attenzione va educata a focalizzarsi su un obiettivo per poi consentire il processo di apprendimento. Se la sua mente si abitua a disperdersi con internet e videogiochi, è difficile poi aspettarsi attenzione e concentrazione in classe o su un compito in particolare.


Il flusso costante di immagini, di scene di combattimento, di luci, suoni sovrastimola la mente del bambino lasciandolo poi senza energie da investire in altre attività, come lo studio e lo sport.


Non basta. Per quanto riguarda i videogiochi, le luci, i colori, la grafica 3D stimolano il sistema nervoso, il lobo frontale e l’amigdala, che mette in atto risposte di attacco o fuga, provocando uno stato di stress continuo, condizione ben poco idonea per l’attenzione, la concentrazione, l’apprendimento. Difatti sempre più bambini a scuola presentano problemi di attenzione, concentrazione e memorizzazione.


È così assurdo pensare che parte delle responsabilità siano da attribuire alle ore perse con i media digitali?

L’attenzione, e dunque la concentrazione, costituisce la base dei processi cognitivi della memoria e dell’apprendimento. Se l’attenzione è divisa e dispersiva, nessun evento si trasforma in ricordo.


Lo scrittore Nicholas Carr usa una bellissima metafora per descrivere il trasferimento dell’informazione dalla memoria a breve a quella a lungo termine e di come il sovraccarico di informazioni, come anche la lettura digitale, a differenza di quella tradizionale, ostacoli tale processo e disperda la messa a fuoco, l’attenzione.

Carr paragona tale processo al riempimento di “…una vasca da bagno con un ditale”. Quando leggiamo un libro, il rubinetto informativo produce uno sgocciolamento regolare che possiamo controllare attraverso il ritmo della nostra lettura, rallentando o accelerando. Con la rete, abbiamo a disposizione molti rubinetti informativi che vanno tutti a pieno regime. Il ditale trabocca mentre corriamo dall’uno all’altro. Alla fine riusciamo a trasferire soltanto una piccola parte dell’informazione nella memoria a lungo termine e ciò che ci ritroviamo in realtà è solo “…un miscuglio di gocce da diversi rubinetti, non un flusso coerente, che proviene da un’unica sorgente”9. In questo modo, l’attenzione e la concentrazione vengono frantumate, la comprensione resta superficiale e l’apprendimento ne risente.


Gli studenti delle scuole superiori che scattano foto alla lavagna o si affidano al registro elettronico per prendere visione dei compiti assegnati, piuttosto che annotarli sul diario, molto frequentemente dimenticano di eseguirli, perché forse dimenticano d’aver compiuto l’atto stesso di scattare la foto, la quale, insieme alle tante altre che si scattano, non ha lasciato traccia alcuna nel cervello.


Il contatto continuo che i bambini hanno con i dispositivi digitali non potrà dunque non avere effetti sul cervello, sulla memoria, sull’apprendimento, nonché sul pensiero in generale, oltre che sulla sfera emotivorelazionale.

Alcuni studi condotti da psicologi dello IOWA University hanno dimostrato che esiste correlazione tra esposizione (prolungata) di bambini e adolescenti agli schermi e problemi d’attenzione e concentrazione. Nel già citato libro di Susan Greenfield viene riportato il primo studio longitudinale sugli effetti dei videogiochi sui 1.323 bambini di età compresa tra i sei e i dodici anni con i loro genitori per misurare la loro attenzione in relazione a Tv e videogiochi. Anche i docenti sono stati coinvolti con la misurazione dell’attenzione e concentrazione in classe.

Coloro che trascorrevano più di due ore al giorno davanti allo schermo avevano più probabilità di manifestare problemi attentivi. Le ore passate ai videogiochi creavano maggiori effetti negativi rispetto alla televisione. Il che trova conferma anche negli studi di Craig Anderson che evidenziano correlazioni tra tempo trascorso in videogiochi e calo del rendimento scolastico10.


Esistono, tuttavia, anche altri studi che dimostrano benefici scaturiti da alcuni giochi come l’aumento della visione, dell’attenzione visiva, della velocità di elaborazione, della flessibilità nel passare da un compito all’altro.


Se i videogiochi giovano all’attenzione, non lo fanno certo in riferimento a un’attenzione prolungata e sostenuta che serve a portare a termine anche compiti noiosi e impegnativi. “Chi gioca frequentemente (più di 40 ore settimanali) è ben addestrato a rispondere istantaneamente a stimoli presentati improvvisamente (controllo reattivo), tuttavia la sua abilità a mantenere l’attenzione proattiva … è meno spiccata (controllo proattivo)”11.


Va fatta quindi una distinzione tra attenzione selettiva e attenzione sostenuta. La prima è l’abilità di concentrarsi su una specifica categoria di stimoli; la seconda è l’abilità di mantenersi vigili per lunghi periodi di tempo ed è spesso richiesta per compiti noiosi12.

Sempre più bambini, come già accennato, evidenziano problemi e difficoltà nella gestione di compiti scolastici, nel prestare attenzione, nel concentrarsi e ascoltare. Negli USA il fenomeno è molto evidente, in Italia un po’ meno, ma si sta diffondendo.


Secondo il Manuale Diagnostico e Statistico Nazionale (DSMN-IV), tali difficoltà sfociano in comportamenti di disturbo all’interno di una classe o di un gruppo. In questo caso si parla di sindrome ADHD (Attention Deficiency Hyperactivity Diagnosis).


Molti studi hanno messo in correlazione la sindrome ADHD e un eccessivo uso di internet. Da uno studio che ha coinvolto 752 studenti di scuola primaria della Corea del Sud, è emerso che il 53% di coloro che soffrivano di ADHD erano dipendenti da internet.


Secondo Dimitri Christakis (2004), direttore del Centro evolutivo e comportamentale dell’Istituto di Ricerca pediatrica di Seattle, ogni ora di tv e/o videogame in più al giorno aumenta del 10% il rischio di ADHD.

Si tratta di un fenomeno molto importante, con delle ricadute sociali in quanto i bambini incapaci di prestare attenzione sono anche incapaci di imparare.


Il professor Akio Mori dell’Università di Tokyo sostiene che l’uso eccessivo di videogiochi sopprime l’attività del lobo frontale limitando l’abilità attentiva.

Il lobo frontale, situato nella parte anteriore del cervello, è deputato alla concentrazione, all’attenzione, alla memoria e al controllo degli impulsi (quindi dell’aggressività), alle emozioni, alla creatività.


Akio Mori ha studiato per un anno soggetti tra i sei e i ventinove anni che usavano videogiochi secondo frequenze e intensità diverse in modo da formare tre gruppi: i normali, i mezzi videogiocatori e i videogiocatori accaniti. Con scansione cerebrale, egli ha monitorato le onde alfa (tipiche del cervello a riposo) e quelle beta (tipiche dello stato di veglia, attenzione, concentrazione). Lo studioso ha osservato che nei non giocatori erano molto più attive le onde beta anziché quelle alfa e ha definito il cervello di questi soggetti normale. Nel secondo gruppo, costituito da giocatori che dedicavano ai videogiochi 3/4 ore distribuite in 3/4 giorni a settimana, le onde beta cadevano sotto le onde alfa durante il gioco, ma durante il non gioco le due onde registravano la stessa intensità. Il cervello di questa tipologia di giocatori è stato definito mezzo videogame.

Per i giocatori accaniti (da 2 a 7 ore al giorno) si registrava zero beta attività e anche durante il non gioco l’attività nel lobo prefrontale rimaneva scarsa o nulla. Questi ultimi soggetti si mostravano nella vita reale facilmente irascibili, con difficoltà di attenzione, concentrazione, socializzazione. Il loro cervello, che Akio Mori definisce cervello videogame, è atrofizzato, incapace di recepire e sedimentare nuove informazioni, effettuare collegamenti, costruire sinapsi, focalizzarsi a lungo termine su un compito13.


Lo scorso dicembre 2018 la trasmissione 60 Minutes Overtime del canale americano CBS ha mostrato i risultati di un’importante inchiesta scientifica sull’impatto di smartphone e tablet sui bambini. Lo studio longitudinale, ABCD (Adolescent Brain Cognitive Development), guidato dalla dottoressa Gaya Dowling e con l’aiuto dell’Istituto Nazionale della Sanità (National Institute of Health NIH) di cui lei è membro, ha coinvolto 11.874 bambini tra i nove e i dieci anni. Tale studio si prefiggeva di osservare l’evoluzione del cervello degli adolescenti e come i fattori ambientali ne modifichino la struttura (droga, tempo sugli schermi, sport, ecc.). In particolare, la Dowling ha esaminato il tempo trascorso davanti agli schermi.


Le osservazioni e le scansioni cerebrali hanno messo in luce modifiche strutturali, come per esempio l’assottigliamento della corteccia cerebrale, ossia dell’area deputata all’elaborazione delle informazioni attraverso i cinque sensi, nei bambini che trascorrono quattro ore davanti agli schermi. Questo fenomeno, collegabile alla diminuzione dei neuroni e delle funzioni cognitive, è riscontrabile di solito nelle persone anziane. Naturalmente, dice la Dowling, non si può ancora dire che il tempo dedicato allo schermo digitale sia l’unico responsabile dell’assottigliamento della corteccia in quanto vanno considerati altri fattori: vanno confrontati per esempio i bambini che, pur trascorrendo ore davanti agli schermi, compensano con attività sociali e sportive, e bambini che invece non praticano altra attività se non quella digitale.

I bambini che trascorrono più di due ore sugli schermi, comunque, ottengono punteggi più bassi nei test di memoria e linguaggio rispetto a quelli che non lo fanno14.


Se si considera che lo smartphone viene usato da bambini di età inferiore a quella osservata e che il tempo speso sugli schermi supera anche la media di quattro ore, si comprende quanto sia preoccupante la situazione e quanto sia urgente una presa di coscienza enorme da parte dei genitori e degli adulti in generale.


Sempre più bambini presentano disordine nel comportamento, disturbi o difficoltà attentive, disagio o addirittura depressione.

Cris Rowan mette in relazione tutte queste problematiche con l’uso delle tecnologie in età sempre più precoce. I bambini non stanno ricevendo il tipo di stimoli sensoriali e motori di cui hanno bisogno per crescere, prestare attenzione e appropriarsi poi degli strumenti base per sviluppare le competenze di lettura/scrittura. Uno dei fattori cruciali, secondo la Rowan, che influenzano lo sviluppo e la crescita psicologica del bambino è il movimento insieme al contatto e alla connessione (move, touch, connect).


Il movimento del corpo nello spazio è fondamentale perché il bambino, fin dalle prime fasi, impari a percepire se stesso in relazione con il mondo, impari ad orientarsi, a coordinare occhio/mano. Tutti questi passaggi sono gradi fondamentali e propedeutici alla lettura e scrittura.


Se i movimenti nella prima infanzia si limitano allo strofinamento di un dito su uno schermo, la coordinazione e la motilità sono compromesse e questa compromissione può essere correlata a difficoltà o disturbi d’apprendimento (disgrafia, dislessia, ecc).

Il bambino digitale che trascorre in età scolare – ma anche prescolare – in media otto ore a scuola tra i banchi e altre ore in spazi chiusi davanti agli schermi, proprio come il bambino piccolo incastonato nel passeggino o sul sedile dell’automobile, anche lui incollato ad uno schermo, sono soggetti alla mortificazione di un bisogno primario ed essenziale che è quello di muoversi.

I bambini considerati iperattivi o con deficit dell’attenzione sono soggetti che hanno una quantità eccessiva di energia che non viene canalizzata. Inoltre, se sono abituati a ricevere gratificazione istantanea e stimoli veloci, come quelli offerti dalle tecnologie, non c’è da meravigliarsi poi che non siano in grado di tollerare “stimoli lenti” come quelli offerti dagli insegnanti o dalla scuola15.


Trascorrere ore davanti allo schermo significa stimolare e produrre adrenalina ed energia che entra in circolo, e tuttavia non corrisponde a movimenti atti a canalizzarla e scaricarla in modo fisiologico e sano; dunque rimane inespressa e questo squilibrio può determinare un eccesso di energia (iperattività, ADHD, ansia) o, al contrario, un calo di energia (abulia, depressione, apatia).


Come già detto in precedenza, la tendenza degli ultimi anni è quella di etichettare e medicalizzare i bambini con disagio attuando piani burocratici che semplificano all’inverosimile la fatica di apprendere (misure dispensative e compensative), illudendoli che per loro sarà sempre spianata la strada – soprattutto alle scuole superiori – o, peggio, convincendoli che per loro ci sono scorciatoie, passaggi semplificati.


La scuola sembra ormai scivolata in questo vortice e le famiglie spesso se ne avvalgono come di uno scudo per poter evitare ai figli eventuali fallimenti. Non si pensa, invece, alle strategie adeguate da adottare e, soprattutto, alle reali cause di quelli che in molti casi sono “solo” disagi e richieste d’attenzione (inviate a genitori spesso distratti dagli schermi), come l’abuso di tecnologie, assenza di regole, di condivisione, modelli educativi poco adeguati, didattiche e metodologie non sempre attente alle differenze individuali.

Per Antonella Randazzo, autrice del già citato libro Bambini psico-programmati, il disturbo ADHD è un’invenzione delle case farmaceutiche16.

Il comportamento iperattivo e il deficit dell’attenzione potrebbero essere il risultato della continua esposizione a Tv e schermi digitali e della loro incessante stimolazione.


Negli Stati Uniti e in Canada, la tendenza assurda e folle è quella di somministrare psicofarmaci ai bambini per il disturbo ADHD. In Italia, come riportato nel Registro Nazionale dell’ADHD, i bambini diagnosticati dal 2007 al 2016 sono stati 3.696 e 2.675 quelli sottoposti a trattamento farmacologico17.


L’attenzione non è solo alla base dei processi cognitivi, ma è anche indispensabile nella sfera emotiva. Se si presta attenzione a chi ci sta accanto, si può riuscire a entrare in sintonia e provare empatia. È molto difficile prestare attenzione a ciò che succede intorno se si è persi in uno schermo.


I bambini assorti sugli smartphone o tablet, e sempre più distratti nei confronti della realtà, sono bambini che si abituano ad essere distaccati, estranei, isolati, noncuranti di chi è in difficoltà.

È triste che i piccoli, attenti ai particolari e curiosi per natura, trascurino ciò che succede intorno a loro. Se ciò accade, e accadrà sempre di più, avremo tante isole, tante monadi, tante entità separate e alienate.


In conclusione se, come dimostrato da diversi studi, è vero che l’esposizione prolungata e precoce ai videogiochi compromette il funzionamento del lobo frontale; se è vero che, come molte ricerche sostengono, esiste correlazione tra abuso di tecnologie e ADHD, obesità e disturbi del comportamento, allora è davvero urgente domandarci se è proprio questo che vogliamo per i nostri figli. È il meglio che possiamo offrire loro?


Perché ci affanniamo per dotarli, fin da piccoli, dell’ultimo e più sofisticato smartphone? Perché permettiamo che vaghino da soli nella giungla di internet, a scapito della loro sicurezza e della loro infanzia?


Se avremo generazioni con un lobo frontale indebolito o inattivo, sempre più incapaci di ricordare, sentire, prestare attenzione, controllare i propri impulsi, avrà ancora senso parlare di evoluzione della civiltà o non sarà invece un rapido e irreversibile declino?


Dobbiamo comprendere bene che la questione non riguarda solo il rapporto genitore/figlio in quanto le conseguenze delle attuali dinamiche si ripercuoteranno sull’intera società. Bambini distratti, dipendenti dalle tecnologie, iperattivi, incapaci di attenzione, con disturbi dell’apprendimento o del comportamento, in difficoltà nel connettersi con le proprie emozioni, con i genitori, con gli altri, con la natura, con se stessi, saranno i protagonisti indiscussi di una società terribile in cui produttività, competenze, benessere sociale saranno concetti sempre più evanescenti.


Rivedere i modelli educativi e prendere consapevolezza dei rischi che i bambini digitali corrono sul piano dello sviluppo in generale deve pertanto diventare per ciascuno di noi una priorità assoluta.

Da soli nella giungla della Rete

Oltre alle conseguenze emotive e cognitive, gli effetti collaterali dello smartphone, ovvero di internet nelle mani dei bambini, riguardano anche i rischi effettivi a livello di sicurezza e incolumità personale.

La rete può essere paragonata di volta in volta a un oceano, a una giungla, a un bosco; si tratta, insomma, di uno spazio sconfinato in cui i bambini non possono e non devono entrare da soli.


Il libro dello scrittore criminologo e luogotenente dei Carabinieri Francesco Caccetta, Abbandonati nella rete, offre una panoramica di quelle che sono le insidie per gli adolescenti. Poiché ormai da qualche anno internet è accessibile a bambini anche piccoli, allora il nostro stato di attenzione e precauzione deve essere innalzato al massimo livello. Sicuramente i pedofili hanno trovato nella rete un terreno estremamente fertile e – grazie anche alle innumerevoli fotografie che proprio noi genitori pubblichiamo sui social – tanto, tantissimo materiale.

Le chat, e ultimamente le piattaforme dei giochi online, sono canali preferenziali che i pedofili utilizzano per adescare i bambini (grooming).

Come afferma Caccetta, una semplice web-cam su un tablet o un pc sono “…una finestra aperta nella stanza da letto dei nostri bambini”18.


Internet è di gran lunga il principale canale di diffusione della pornografia e pedopornografia. Dietro lo schermo può nascondersi chiunque e i nostri bambini sono lasciati da soli ad affrontare insidie di fronte alle quali sono assolutamente indifesi.


Si diceva una volta “Non accettare caramelle da uno sconosciuto”. Siamo cresciuti con questo divieto. Oggi tutto è più subdolo, sotterraneo. L’orco si cela dietro lo schermo e si insinua pian piano nella vita dei bambini.

L’iscrizione ad un social come Facebook stabilisce come età minima i 13 anni, ma è facile aggirare l’ostacolo inserendo una falsa età anagrafica, per cui sui social ci sono anche bambini di età inferiore. Qui pubblicano foto, informazioni personali, gusti, preferenze: identità date in pasto a chiunque. L’orco si mette in contatto con gentilezza, dichiarandosi coetaneo, diventando pian piano amico, fingendo di avere gli stessi gusti musicali, fino poi a fare richieste di tipo sessuale (invio di foto erotiche, riprese video, sexting, appuntamenti nei casi estremi).


Un social come Instagram, dove tanti preadolescenti pubblicano foto, costituisce un pericolo in quanto da queste si possono ricavare informazioni su luoghi frequentati abitualmente, passatempi, gusti musicali, abbigliamento, e tanto altro.

Un’altra trappola in cui possono incappare i bambini è rappresentata dai giochi e dalle mode che, diventando virali, creano consenso universale con estrema rapidità.


In seguito a una trasmissione televisiva, qualche tempo fa, si è cominciato a parlare, ma non abbastanza, dell’assurdo gioco della Blue Whale, nato in Russia e approdato anche in Italia. Il gioco è venuto alla luce scuotendo un po’ qualche coscienza e creando allarme. Vittime di questo gioco sono soprattutto gli adolescenti ma, come già sottolineato, i bambini non sono esenti da tali rischi essendo dotati di smartphone fin da piccoli con accesso incondizionato a internet. L’età non è più una barriera o una garanzia.


Blue Whale è un gioco che viaggia su whatsapp e propone cinquanta prove alle quali l’utente (novetredici anni) deve sottoporsi e che vanno da autolesionismo a visione di video horror in piena notte, il tutto filmato e documentato e poi inviato ad un “curatore”, fino all’ultima, suprema ed estrema prova di coraggio, che mette fine al gioco e purtroppo anche alla vita della vittima. L’epilogo è il suicidio, che l’utente deve compiere lanciandosi da un punto alto della città.


Sembrerebbe un gioco folle al quale nessuno prenderebbe parte, e invece ha già seminato molte vittime, anche giovanissime, perfino di tredici anni! È il sintomo estremo di una solitudine profonda tra i ragazzi e soprattutto della distanza cosmica esistente tra molti genitori e i loro figli.


Se un genitore non s’accorge che suo figlio presenta dei tagli o è sveglio in piena notte a guardare dei video horror, c’è evidentemente un problema di comunicazione e di rapporto interpersonale.


A un livello più profondo, c’è il bisogno da parte dei ragazzi di appartenere a un gruppo, di emulare, di seguire le mode, di sfidare se stessi e gli altri e rendere tutto visibile attraverso foto e video. Una delle mode recenti è quella dei killfie (neologismo derivato da kill e selfie) ossia di foto che testimoniano atti estremi e rischiosi, prove di coraggio che mettono a repentaglio la vita.

Ciò esplicita la necessità di andare oltre i limiti per sentirsi importanti, per essere accettati, per sfidare gli ostacoli, per raggiungere l’onnipotenza.

A questo li stiamo abituando fin da piccoli: a mettersi in mostra, ad essere super, ad essere coraggiosi a qualsiasi costo!


Internet, poi, aperto e raggiungibile a tutte le età, trascina i più giovani nel suo affascinante e proibito vortice lasciandoli alla mercè di tutte le possibilità, storditi e disorientati, abbagliati dai mille richiami.


Blue Whale è un gioco demente, un gioco che esalta la morte come prova estrema di coraggio, un gioco che, come tanti altri che i ragazzi fanno, confonde vita e morte, pone sfide ardue, calpesta i valori, mortifica il rispetto per la vita fino ad annientarlo completamente.


La domanda che sorge da queste considerazioni è molto semplice. Perché? Perché non lasciar vivere ai bambini la loro infanzia fatta di scoperte, curiosità, amicizia, solidarietà, empatia? Perché ci siamo tanto attivati noi adulti affinché perdessero la loro innocenza? Perché abbiamo lasciato che crescessero in fretta e bruciassero le tappe? E il tutto senza nemmeno accompagnarli, facendoci invece sostituire dalla tecnologia!

Bambini e smartphone: ne hanno davvero bisogno?

Le risposte che si sentono nei dibattiti a proposito di tecnologie e bambini sono più o meno sempre le stesse: “Non possiamo lasciarli indietro”, “Ormai funziona così”, “Non si può demonizzare o si corre il rischio di farli sentire emarginati”. Chi tenta di portare avanti un progetto educativo che privilegi forme di comunicazione alternative allo schermo digitale, si ritrova spesso assalito da dubbi e dal timore di lasciare i propri figli indietro rispetto a una società che evolve troppo in fretta.


Ma cosa ci fanno i bambini con lo smartphone? A cosa gli serve? E soprattutto, serve? Cosa fanno i bambini su internet, specie da soli, come quasi sempre avviene, senza la presenza di un adulto? È davvero così utile per loro? E in che misura internet influenza il loro pensiero?


Ormai lo smartphone trionfa nelle mani dei bambini; è raro trovare situazioni in cui non si veda un piccolo dotato di cellulare o tablet che gioca, scorre video, riprende, scatta foto, si isola dal contesto, assiste a spettacoli ed eventi, girando il video, piuttosto che vivendo il momento.


I bambini ci imitano, stanno facendo proprie le modalità di interazione tipiche degli adulti, sempre più distratti e frammentari, divisi tra mille attività e amicizie superficiali.


Essi stanno introiettando modelli di comunicazione tutt’altro che improntati sulla condivisione – quella vera, reale, non quella sui social – e sull’ascolto del sé e del prossimo. Fa un certo effetto guardare piccoli che camminano col cellulare, stanno al mare col cellulare, mangiano il gelato col cellulare, che non guardano negli occhi, non ascoltano, non sentono. Stanno venendo su bambini sempre più distratti, sempre più assenti dal contesto fisico in cui si trovano e sempre più proiettati in un altrove virtuale. In altri termini stiamo preparando individui sempre meno attenti, meno capaci di ricordare, di relazionarsi. In una parola: alienati! Internet è un mezzo potentissimo e utilissimo ed è giusto, pertanto, far capire ai bambini che ormai il nostro mondo non può più farne a meno e che poggia sulla connessione globale. Nulla prescinde da internet e in ogni settore se ne trae vantaggio; la rete rappresenta la nuova frontiera occupazionale e di ricerca.


Sarebbe sciocco ignorarlo, e ancor più demonizzare il mezzo, ma in fatto di bambini bisognerebbe essere molto più attenti e rigorosi.

Il paragone che Manfred Spitzer propone è particolarmente efficace: anche guidare l’automobile è fondamentale per la sopravvivenza e per il lavoro, eppure nessuno si sogna di mettere un bambino al volante perché “prima impara meglio è”, né tantomeno a qualcuno viene in mente di installare un sistema di pedali e motori sotto ciascun banco di scuola per allenarli sin dalla tenera età. Per ovvie e comprensibili motivazioni legate all’incolumità fisica, ai riflessi, alla maturazione globale, si concorda sul fatto che sia necessario il raggiungimento di un’età e di una maturazione adeguate.


Qualcuno sorride a questo paragone ritenendolo sproporzionato poiché guidare un veicolo prima dell’età metterebbe a rischio la vita di un bambino o di un ragazzo.


Ma mettere i mezzi digitali, e dunque internet, nelle mani di un bambino senza che questi abbia gli strumenti cognitivi per interpretarne i messaggi in modo critico, equivale a mettere a rischio la sua formazione, il suo sviluppo socio-emotivo, la sua capacità di relazionarsi con gli altri.


Come può essere utile internet per un bambino di scuola dell’infanzia o primaria?

Le attività che un bimbo medio svolge in rete sono rappresentate soprattutto dal giocare, ascoltare musica, guardare video. Il punto è analizzare i contenuti e fare in modo che i bambini non siano lasciati da soli in situazioni poco o per nulla educative.


La moda dei video, per fare un esempio, è veramente molto popolare tra i piccoli. Una nuova figura spopola tra le giovani generazioni: lo youtuber. Si tratta di qualcuno che ha fatto dell’hobby di creare video la sua professione.

Chiunque abbia una telecamera, uno smartphone o un pc e qualcosa da dire (non importa quanto, e se, sensato o intelligente), gira un video, lo pubblica in rete e in brevissimo tempo diventa popolare, con milioni di visualizzazioni e like che gli permettono anche di ottenere introiti economici.


Chiunque può accedere al video di uno youtuber a qualsiasi età. E questo è un problema.

Gli argomenti trattati sono di vario genere, spaziano dai videogame alle barzellette, dalla sessualità all’horror. Una sorta di enciclopedia popolare visiva e parlante a suon di click, accessibile a tutte le età.


Una bambina di nove anni afferma che da grande vuole fare la youtuber perché “…si guadagnano tanti soldi. Ogni visualizzazione ti fa guadagnare, e io voglio essere ricca e famosa”.


La bambina parla di Favij, lo youtuber più popolare nella rete.

Emerge una nuova figura professionale che diventa modello di identificazione per le nuove generazioni. L’obiettivo del futuro per una bambina, la sua ambizione, è quella di essere ricca e famosa in modo facile, mettendosi in mostra in rete. È quello il messaggio che passa, se non opportunamente decodificato.


Chi è lo youtuber e cosa propone ai nostri bambini? Favij, di diciannove anni, come già detto è lo youtuber più quotato in Italia (Essere quotati e famosi dipende dal numero di visualizzazioni, non dal talento). La sua età stride con l’età della bambina che si ispira a lui. Cosa avrà da dire un diciannovenne a una piccola di nove anni?


Al mare, due ragazzi di circa undici anni parlano degli horror di Favij (ancora lui!) e fanno a gara a chi ne ha visti di più.

Descrivendo uno degli ultimi horror visti, uno di loro sintetizza così il contenuto “In pratica il succo è che quando l’anima muore in preda alla rabbia, riceve una maledizione!”


Tanti bambini si nutrono, magari in tarda serata e da soli nella loro stanza, di contenuti inquietanti, non adatti alla loro età. Sangue, mostri, morti, tenebre. Perché riempire la testa dei nostri figli con queste immagini?

Anche in passato noi bambini amavamo ascoltare le storie “horror”, ma a raccontarle era la nonna di qualcuno di noi, che diventava un po’ la nonna di tutti. Erano storie di fantasmi e spiriti, leggende popolari, tramandate oralmente da nonna a nipote e che costituivano parte della cultura di tanti paesini. Ascoltavamo rapiti, con gli occhi lucidi, immaginando luoghi e situazioni.


La nonna ci faceva dono di un’eredità del passato, ci sorrideva, rappresentava situazioni con la mimica facciale, modulando la voce, ci accarezzava e sdrammatizzava quando s’accorgeva che noi piccoli eravamo spaventati. Dopo ogni racconto avevamo paura di andare da una stanza all’altra e insieme ridevamo, urlavamo, cantavamo per esorcizzare i fantasmi e neutralizzare la paura. E poi c’era la nonna che rassicurava tutti noi dicendo che i fantasmi non esistevano.


Quante emozioni in quell’esperienza di condivisione!

Chissà se un bambino di fronte ad un video horror di Favj conserverà tutto questo nel cuore e nella memoria.


Girovagando tra il popolo degli youtuber, si incontra una dodicenne inglese molto popolare che risponde al nome di Ask Izzy e che elargisce consigli a schiere di bambini e/o coetanei su come vivere la propria sessualità, su come sopravvivere alle regole dei genitori, e altro ancora.

Ascoltarla e osservare la sua mimica facciale rende difficile credere che abbia solo dodici anni.


Milioni di bambini cibernauti si identificano in questi nuovi idoli, perché sono ragazzi come tanti che affrontano argomenti di cui non si parlerebbe in famiglia. Inoltre questi ragazzi che dicono tutto senza limiti risultano quotati e popolari, e incarnano l’ideale di onnipotenza e successo facile a cui tutti aspirano.


Questa cosa lascia un po’ perplessi perché certi argomenti, a una certa età, vanno affrontati nella maniera giusta, magari con un adulto responsabile, con un amico reale, nel privato e con le giuste parole.


Questa è la cultura/scuola di cui internet nutre i nostri bambini se lasciati soli con lo schermo; e noi permettiamo che lo faccia.

Quante energie resteranno per lo studio, la lettura, la scuola, se investite quasi totalmente in questa nuova scadente cultura di massa? Di quali strumenti stiamo attrezzando gli individui di domani? Tutto è effimero, universale, omologato e omologante.


La cultura fatta dal pensiero dei grandi del passato, che ha rappresentato e rappresenta tesoro ed eredità lasciata ai posteri, pare sconosciuta alle nuove generazioni, che sembrano identificarsi troppo spesso solo in personaggi la cui popolarità dura lo spazio di un quarto d’ora.

Fra un po’ nessuno si ricorderà di Favj o di Izzy e si passerà ad osannare qualcun altro che dirà qualcosa di più interessante o di più stupido!

Che ne è del piacere della poesia che ti tocca il cuore e ti rimane dentro per sempre stabilendo un contatto con chi l’ha scritta che va oltre i confini del tempo e dello spazio? Oppure della lettura di un buon libro che con i suoi personaggi fa vivere storie che incontrano la propria e offrono insegnamenti a cui attingere tutta la vita?


Perché non abituare i bambini a queste cose? Perché non parlare e ascoltarli piuttosto che lasciarli in balìa di sconosciuti che il più delle volte propinano sciocchezze per il solo gusto della notorietà e del guadagno? Non c’è modo di controllare il fenomeno, non c’è limite d’età per accedere a internet, tutto è accessibile a tutti.


Solo il controllo e la supervisione dell’adulto attento e il buonsenso dei genitori possono evitare che i bambini crescano con idee fuorvianti e legate ad una cultura del nulla, dell’apparire, della popolarità.

Bambini e smartphone, un dibattito acceso che crea sempre due fazioni, come si legge in molti dei libri scritti sull’argomento: da un lato gli “apocalittici tecnofobi” e dall’altro i fautori della tecnologia che vedono in essa una sorta di divinità.


Chi pensa che forse sarebbe il caso di fare qualcosa viene guardato con uno sguardo a metà tra la commiserazione e la derisione, e considerato come un preistorico, nostalgico del passato, incapace di comprendere i vantaggi della tecnologia e destinato a rimanere fuori dai circuiti.


La verità è che lo smartphone non va condannato né demonizzato per timore del nuovo, o per nostalgia del passato, ma è certamente necessario riflettere sull’uso pervasivo e totalizzante che ormai se ne fa e sul fatto che i bambini piccoli non ne abbiano granché bisogno, specie se esso diventa, come di fatto accade, sostituto genitoriale, giocattolo, passatempo.

Che fare?

L’ipercontrollo parentale, tipico della nostra società, porta a pensare che anche i piccoli debbano avere il telefono per poter essere sempre raggiungibili e rintracciabili, ma di fatto essi lo usano quasi solo per giocare o navigare da soli su internet, con tutti i rischi e i pericoli che abbiamo visto.


Se proprio la società, oggi così preoccupante e minacciosa, impone di dover esercitare un controllo sui piccoli, allora optiamo per telefonini che non abbiano la connessione, da usare solo quando è necessario.


Una volta poi raggiunta la scuola superiore, il telefono diventerebbe sicuramente più performante e anche a quel punto dovrebbe essere necessario stabilire delle regole, come per esempio tenerlo spento quando si studia o a scuola o a tavola, quando ci si incontra tutti insieme in famiglia e si condividono le esperienze della giornata. Se si propone di spegnere i cellulari durante una pizza insieme si corre il rischio di essere giudicati esagerati e antiquati e noiosi.


Dovremmo invertire un po’ la rotta, assumere un’ottica diversa, se non vogliamo rischiare di perdere completamente il lato umano e, nel caso dei bambini, spegnere le loro potenzialità.


Cris Rowan lancia un appello affinché venga ridotto l’uso delle tecnologie in soggetti in formazione (bambini e adolescenti), in particolare degli schermi ai bambini al di sotto dei due anni.

Il motivo principale per cui è meglio non porli davanti agli schermi è la rapida crescita del cervello.


Tra zero e due anni, il piccolo immagazzina una quantità straordinaria di dati, il cervello cresce velocemente e continua a svilupparsi fino a ventuno anni, anche se la plasticità, ossia la capacità di modificarsi in seguito all’esperienza, continua per tutta la vita. L’esperienza e l’ambiente pertanto sono in questo periodo evolutivo più che mai fondamentali.


L’uso delle tecnologie al di sotto dei dodici anni può causare effetti negativi sull’apprendimento e ritardo nello sviluppo.

Altri motivi importanti per cui non mettere nelle mani dei bambini i dispositivi digitali sono l’obesità, la privazione del sonno, la demenza digitale, la dipendenza e l’aggressività.


L’utilizzo di tecnologie limita il movimento, priva il bambino di quegli stimoli motori e sensoriali fondamentali per acquisire capacità di orientamento nello spazio, coordinazione oculo-manuale, concentrazione; tutti elementi che sono alla base delle abilità di lettura, scrittura, calcolo, nonché delle capacità attentive. Oltre a ciò, la riduzione del movimento sembra correlata all’obesità infantile, il che significa a lungo termine diabete, malattie metaboliche e cardiovascolari.


Un altro effetto molto serio da tener presente quando si parla di tecnologie e ragazzi è la privazione del sonno.

Non di rado i bambini sono nelle loro camerette e, sfuggendo al controllo dei genitori, riducono le ore di sonno per restare connessi.


Le luci prodotte dagli schermi, i colori, i veloci cambi scenici alterano i ritmi sonnoveglia, riducono la produzione di melatonina, l’ormone che induce il sonno, aumentando invece l’adrenalina, responsabile di stati di agitazione e aggressività. In termini pratici, al cervello arriva l’informazione che non è ora di dormire, mentre il corpo ne ha bisogno.


Molti bambini e ragazzi dispongono di schermi nelle loro camerette, portano lo smartphone a letto e molti lo lasciano acceso durante la notte, rimanendo nell’online fino a orari poco consoni all’età e poco salutari in generale. Lo stato di eccitazione e iperstimolazione non favorisce il riposo, provocando al contrario disturbi del sonno che incidono negativamente sull’organismo e sulle attività di studio, sportive e di svago.


Le conseguenze della privazione del sonno sono ovviamente affaticamento, perdita di attenzione e concentrazione, scarso rendimento scolastico.

E col tempo si rischiano anche malattie cardiovascolari, abbassamento delle difese immunitarie, perdita di energia, depressione.

Ciò va a ripercuotersi su tutte le attività, comprese quelle sociali portando il soggetto a evitare i contatti19.

Che fare allora? Come possiamo riprendere il controllo di una situazione che ci sta sfuggendo di mano? Come riuscire a regolare ritmi che sono diventati insostenibili e nel cui vortice sono finiti i nostri bambini?


Da qualche parte si sta facendo strada l’esigenza di rallentare e di disintossicarsi dal digitale.

Il movimento Slow di cui parla Carl Honorè in Elogio della lentezza è proprio una rivoluzione culturale che investe diverse sfere esistenziali: il lavoro, l’istruzione, lo svago. Liberarsi dal virus della velocità e privilegiare attività che richiedano lentezza come il pensiero creativo, la riflessione, l’arte, il camminare all’aria aperta, a contatto con la natura.


Alcuni studi condotti nel 2008 presso l’Università del Michigan hanno dimostrato che bambini con problemi di attenzione, concentrazione, comportamento e apprendimento traggono enormi benefici dal contatto con la natura. Dopo aver trascorso del tempo in un ambiente naturale, ma anche solo osservando una scena, un’immagine rurale, il cervello si rilassa e apprende di più rispetto alla situazione in cui si passeggia in un ambiente urbano, pieno di stimoli e di ritmi veloci20.

Abituare i bambini alla lentezza e alla riflessione aiuterebbe ad avere individui meno isterici e insoddisfatti.

È necessario imparare a disconnettersi per riconnettersi con se stessi e con il prossimo; è il Digital Detox, che sta prendendo piede in alcune aziende americane e strutture alberghiere, anche in Italia, e che dovremmo adottare nella vita quotidiana per vivere meglio.


Dovremmo staccare la spina, essere disconnessi dalla rete per connetterci con chi sta accanto. Concederci qualche ora senza connessione e dedicarci a una passeggiata o al silenzio, insieme ai nostri bambini.

Dovremmo coltivare “l’arte del fare niente”, che non è ozio o indolenza, ma capacità di vivere i momenti vuoti senza averne paura e senza l’ossessione di riempirli.


Se ci incontriamo a mangiare una pizza o pranziamo tutti insieme, dovremmo chiedere di mettere via i cellulari affinché nessuno ci distragga e distolga dal contesto in cui siamo e riusciamo così ad essere presenti in un luogo fisicamente ed emotivamente.


In conclusione, quali possono essere per un bambino le alternative allo smartphone?

I bambini devono vivere la loro infanzia all’insegna dell’autenticità, del riconoscimento delle emozioni, del gioco libero, spontaneo e della lentezza.

Tutto questo e altro ancora! È molto interessante la filosofia danese Hygge descritta nel già citato libro Crescere bambini felici secondo il metodo danese. La parola, di derivazione probabilmente norvegese, che significa “pensare o sentirsi soddisfatti”, coincide con il senso di accoglienza, familiarità, serenità. Etimologicamente è correlata con la parola inglese hug che significa abbraccio. Si tratta di uno stile di vita, uno stato emotivo, mentale.


È importante stare insieme ai bambini, condividere emozioni, giocare o stare in ozio con loro, ascoltando il vento, osservando il cielo, divertendosi a scovare forme immaginarie tra le nuvole. È difficile realizzare questi momenti nelle nostre vite frenetiche, dove va incastrato tutto e dove ogni momento vuoto va riempito. Allora, nei momenti che si trascorrono insieme ai bambini, sarebbe fondamentale lasciar fuori lo smartphone e qualsiasi altro dispositivo, guardarli negli occhi, prestare loro l’attenzione che meritano mentre ci parlano e non rispondere in maniera affrettata e distratta con gli occhi calamitati dallo schermo, insegnar loro a sorridere, a “sentire”.


Si tratta di riscoprire e far assaporare ai piccoli le cose semplici e autentiche. Ritrovare con loro il gusto del “dolce far niente”.

Riscoprire ancora una volta, com’è stato più volte affermato in queste pagine, la noia, il vuoto e far pace con esso.

Ottima cosa sarebbe promuovere nei bambini quella che viene chiamata mindfulness, ossia presenza mentale, consapevolezza di ciò che li circonda. La presenza mentale “…induce tranquillità della mente e concentrazione dell’attenzione… è un modo di prestare attenzione”21.


Attraverso il tatto, le modalità sensoriali, le esperienze reali e concrete si promuove la mindfulness. Se migliora l’attenzione e la concentrazione, anche la capacità di apprendere migliora. Se oggi tanti bambini non ce la fanno, se arrivano alla scuola primaria con tante difficoltà, con strumenti cognitivi ed emotivi inadeguati, forse è il caso di chiedersi come mai, dov’è che si è incrinato il meccanismo, che cosa è successo ad un certo punto. E attivare tutte le strategie d’intervento.


Anche a costo di rinunciare a tante delle nostre ormai consolidate abitudini digitali!

Wi-Fi e l’onda silenziosa: e se fosse davvero un rischio?

Questo libro vuole essere una raccolta di riflessioni sostenute e confermate da ricerche di esperti e si orienta prevalentemente sugli effetti che un abuso di tecnologie può avere a livello di sviluppo cognitivo e socio-emotivo. Sembra però importante e doveroso affrontare una tematica molto delicata, collegata all’uso pervasivo dei dispositivi: l’emissione delle onde elettromagnetiche.


Quando si propone tale argomento in classe o in una qualsiasi discussione, i ragazzi e gli adulti in generale rispondono con rassegnazione dicendo che “Tanto siamo circondati dalle onde, basti pensare ai forni a microonde, ai ripetitori ovunque, agli elettrodomestici”. Verissimo, ma se consideriamo ambienti chiusi e piccoli come un’aula, o l’abitacolo di un’automobile, o un locale, o un autobus, dove si sta con cellulari attivi, tablet, proiettori, Lim, forse sarebbe il caso di starci attenti.


Agli studenti, soprattutto a quelli di sesso maschile, spesso si suggerisce di non mettere il telefono in tasca e di allontanarlo dagli organi di riproduzione. Molti sorridono imbarazzati, increduli. Qualcuno rimane silenzioso, incuriosito da tale suggerimento.


È vero: il wi-fi è dappertutto, a casa, per strada, a scuola, nei locali, nelle piazze, sugli autobus, nei treni. La sua presenza in ogni luogo farebbe escludere ogni timore di rischio. Se qualcosa è presente ovunque, anche nei luoghi “protetti” frequentati da bambini, non può sicuramente far male.


La questione è molto delicata e meriterebbe uno studio approfondito, anni di ricerche e certamente una competenza tecnica specifica. Non si intende, pertanto, affrontare in questi termini l’argomento nel presente studio. L’intento è semplicemente quello di sollevare qualche dubbio, porre delle domande, considerare che forse sarebbe il caso di rivedere molte cose e assicurare ai bambini una crescita sana.


Il motivo che spinge a parlarne, sia pure in maniera sommaria, è lo stesso che ha caratterizzato questo studio: il desiderio di conoscere quali effetti potrà o potrebbe avere sui bambini, sui nostri figli, l’uragano tecnologico che si è abbattuto negli ultimi anni.


I ricercatori dell’Istituto di Ricerca di Neurodiagnostica di Marbella nel 2006 per la prima volta hanno effettuato studi su preadolescenti. Per un anno hanno scannerizzato l’attività cerebrale di un ragazzo di undici anni e una ragazza di tredici, esposti alle emissioni di onde a bassa frequenza (0,6 M/V) dei telefoni cellulari. Le immagini hanno dimostrato che le onde Em interferiscono con l’attività cerebrale, anche dopo un’ora dalla cessazione dell’emissione.


Se pensiamo che da allora ad oggi, a solo un decennio di distanza, la diffusione dei cellulari con connessione è diventata massiccia e ha coinvolto bambini molto più piccoli dei ragazzi osservati, allora dovremmo veramente essere preoccupati.


Il professor Fiorenzo Marinelli, ricercatore dell’Istituto di Genetica Molecolare del Cnr di Bologna, in occasione del convegno organizzato nel 2012 da ICEMS (International Commission for Electromagnetic Safety) del Dipartimento di Biologia e Biologia Ambientale a Roma Tor Vergata, ha esposto i risultati di alcune sue ricerche. Ha affermato che la vendita esponenziale di telefoni cellulari degli ultimi anni, rispetto al fisso, è tale da far pensare ad un’emergenza, in quanto il cellulare non è più semplicemente uno strumento di comunicazione, ma è un oggetto onnipresente, di giorno e spesso anche di notte.


Se il telefono è acceso, ogni tot minuti emette un segnale che si collega alla cella più vicina. Se è in movimento, cambia campo e l’irradiazione aumenta. Se per esempio si cammina parlando al cellulare, l’emissione di onde è massima. In automobile, in treno, in autobus l’irradiazione è più alta.


Con i suoi esperimenti su cellule in coltura, Marinelli ha osservato che esse subiscono modificazioni anche con onde a bassa frequenza, come quelle emesse dai telefoni cellulari.


In un confronto tra un gruppo di cellule esposte per 24 ore a segnale di telefonia cellulare e un gruppo di controllo con cellule non esposte, emerge l’attivazione del gene che dà il segnale apoptotico, ossia di morte cellulare programmata (Caspasi 3). Si produce cioè la morte delle cellule esposte rispetto a quelle di controllo.


Altri studi e ricerche mettono in correlazione le onde wi-fi con tumore, corrosione della cartilagine, emicranie, disturbi della personalità, insonnia.

L’esposizione alle onde elettromagnetiche è un altro dei motivi addotti da Cris Rowan nel suo appello affinché si riduca la tecnologia e l’esposizione agli schermi, specialmente se parliamo di bambini.


A tal proposito, vengono riportati alcuni studi effettuati presso la Facoltà di Medicina in Cukurova, in Turchia, che dimostrano morte cellulare nei ratti esposti a onde EM, oltre a disorganizzazione del pensiero, deficit dell’attenzione e concentrazione.

Un altro studio del 2009 dimostra il ruolo che l’ossidazione cellulare ha in altre situazioni patologiche molto gravi come il morbo di Parkinson, di Alzheimer, la schizofrenia, il disturbo bipolare, ecc.22


Nel 2012 la dottoressa Magda Hanvas, dell’Università di Trent in Canada, scrisse una lettera aperta a genitori, studenti, dirigenti in cui esprimeva la necessità urgente di eliminare il wi-fi dalle scuole e le antenne per telefonia mobile nei pressi delle scuole.


In base agli studi scientifici, che dimostravano gli effetti delle onde EM sul cervello, sulle cellule ematiche e sul DNA, la Hanvas mostrò che le onde a bassa frequenza, ma costanti, danneggiano in particolar modo i bambini, più vulnerabili degli adulti e più sensibili alle onde elettromagnetiche23.


È interessante osservare come alcune cellule in un campo elettromagnetico pulito rimangano separate, mentre se esposte a radiazioni formano agglomerati (formazione rouleaux), con conseguenti sintomi quali: emicrania, debolezza, nausea, minore trasporto di ossigeno.


Anche lo studio condotto in India da Varghese, riportato da A.M.I.C.A. (Associazione Malattie da Intossicazione Cronica e/o Ambientale) nata nel 2003, dimostra che l’esposizione dei ratti a onde elettromagnetiche per 45 giorni genera comportamenti d’ansia, diminuzione dell’apprendimento e della memoria, secondo test somministrati a partire dal trentottesimo giorno24.

Il giornalista Maurizio Martucci, autore del libro Manuale di Autodifesa per elettrosensibili, riporta una serie di studi e appelli lanciati per tutelare bambini e adolescenti dall’esposizione alle onde wi-fi. In particolare, già nel 2002 a Friburgo 36.000 medici sottoscrissero un documento chiamato Appello di Friburgo, il cui obiettivo era arginare e regolamentare le lobby telefoniche in riferimento ai danni da campi EM. Il documento pone già, nella sua prima stesura, un “divieto assoluto di… telefoni cellulari… per i bambini e limitazioni all’uso da parte degli adolescenti; divieto dell’utilizzo di cellulari in scuole, ospedali, ricoveri per anziani…”25 Dieci anni dopo, nel 2012, sempre a Friburgo, un secondo incontro di medici produsse un appello intitolato “La telefonia mobile è una minaccia per la salute”26. In tale documento, chiamato Friburgo 2, si chiedeva la “drastica limitazione delle radiazioni elettromagnetiche che penetrano tra le quattro mura”27.


Nei punti successivi si raccomanda di proteggere bambini e adolescenti attraverso il divieto di pubblicità di apparecchi per telefonia, di preferire collegamenti via cavo, anziché wireless in scuole, ospedali, asili nido, biblioteche, ecc.


A tali appelli non ha fatto séguito, in questi anni, una concreta azione da parte di chi avrebbe dovuto farlo (politici, medici, ecc). Al contrario, il potenziamento del wi-fi è stato ed è l’obiettivo principale in molti contesti, anche e soprattutto laddove sarebbe al contrario necessario innalzare i livelli di protezione. In alcuni ospedali pediatrici, per esempio, come riporta Martucci, la connessione viene aumentata per permettere ai piccoli pazienti e ai loro familiari di restare connessi28. Ciò fa ben comprendere quanto sia paradossale la situazione, quanto sia estesa la disinformazione, spesso anche da parte di chi dovrebbe tutelare, e quanto siano potenti i conflitti di interesse.

Gli scienziati del Programma Nazionale di Tossicologia degli Stati Uniti hanno presentato nel 2017 i risultati di uno studio sulla genotossicità delle radiazioni emesse dai cellulari 2G nel 1999 su ratti e topi femmine. Il test, somministrato su DNA cellulare, dimostra un danno in tre aree cerebrali, nelle cellule epatiche e nei leucociti del sangue. Il gruppo di controllo formato da ratti non esposti non ha sviluppato nessun tipo di danno29.


Esistono poi studi che dimostrano la correlazione tra onde elettromagnetiche e infertilità, aborti, malformazioni fetali. Il dottor Barrie Trower, fisico inglese esperto in materia di elettromagnetismo, in una relazione del 2013 sostiene che il 57,7% delle studentesse esposte a microonde di basso livello sono a rischio aborto e a malformazioni fetali30. Immaginiamo allora le bambine che, fin dalla scuola primaria, sono esposte in aule scolastiche, a casa e altrove alle onde EM. Bassa quantità di onde, ma costante e continua, per mesi, anni.

Alla luce di queste informazioni, c’è da chiedersi: che succede ai bambini, mai come oggi così tanto esposti alle onde elettromagnetiche a casa, a scuola, per strada?

E, come se non bastasse, che succede ai più piccoli, considerando che in molti casi lo smartphone/tablet è diventato l’inseparabile compagno di giochi?

Gli esperti ci dicono che lo spessore delle ossa del cranio dei bambini è minore di quello di un adulto, quindi il cervello è meno protetto dalle onde, che penetrano più facilmente nel tessuto cerebrale. A quale prezzo?

Questi sono solo alcuni dati di una letteratura scientifica corposa, ma ancora poco nota.


L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), in assenza di prove certe e definitive sulla pericolosità delle onde elettromagnetiche, invita alla cautela. Ma di cautela se ne vede ben poca.

A livello legislativo in Italia c’è poco, se non la spinta verso l’innalzamento delle emissioni delle onde (da 0,6 M/V a 61 per adeguamento all’Europa), verso la diffusione sempre più massiccia di hotspot, ossia punti di installazione wi-fi in ospedali, scuole, biblioteche, piazze, dappertutto.

In Francia nel 2015 la legge del 29 gennaio stabilì un controllo continuo dell’emissione di onde EM, soprattutto in luoghi frequentati da bambini, come asili e scuole.


La tecnologia, e con esso il wi-fi, sta imponendo il suo potere ovunque e su chiunque, soprattutto sui bambini e chi dovrebbe occuparsi di benessere sociale, strizza l’occhio alle industrie e al mercato.


Con l’avvento imminente dei dispositivi 5G, cioè di quinta generazione, avremo una iperconnessione potenziata e totale. Tante microantenne saranno installate a distanza ravvicinata per aumentare la connessione; gli elettrodomestici, l’abbigliamento, gli oggetti saranno connessi tra loro. Tutto ciò sarà possibile attraverso un innalzamento dei valori limite, attualmente stabiliti per legge e che sono i più bassi in Europa, con conseguenze ancora imprevedibili sull’organismo. In molte città sono in atto sperimentazioni per l’attuazione della connessione 5G e tutto questo senza conoscere gli effetti che ciò produrrà sulla salute e sull’ambiente.

Alla luce dei risultati scaturiti dallo studio dell’Istituto tossicologico, cui si aggiungono quelli dell’istituto Ramazzini di Bologna effettuati su 2.000 roditori irradiati per due anni per nove ore al giorno e che confermano l’insorgenza di tumori al cuore e al cervello, nonché danni al DNA, associazioni e gruppi di scienziati hanno chiesto una moratoria ai governi per arrestare le sperimentazioni 5G31.

È probabile che non dovremo aspettare molto per assistere al manifestarsi delle conseguenze dell’esplosione di queste tecnologie e della loro intrusione violenta e incontrollata nella fascia d’età che invece andrebbe più protetta, ossia l’infanzia.


La speranza è che la ricerca continui nella direzione dell’impegno e soprattutto della trasparenza, conducendoci verso direzioni e scelte positive prima che sia troppo tardi. Noi tutti, genitori, educatori, cittadini, abbiamo il diritto di sapere come stanno veramente le cose e di conseguenza il dovere di proteggere i minori. E soprattutto si auspica che l’interesse verso il benessere dei bambini, e dunque della società intera, prevalga sugli interessi economici e sulle logiche di mercato.

Bambini digitali
Bambini digitali
Mena Senatore
L’alterazione del pensiero creativo e il declino dell’empatia.Un’analisi degli effetti negativi dell’abuso degli schermi digitali in età evolutiva sul piano dello sviluppo cognitivo, emotivo e sociale. Negli ultimi anni sempre più bambini si trovano a interagire con gli schermi digitali di tablet, smartphone e PC. Ma quali sono le conseguenze?Mena Senatore, nel suo libro Bambini digitali, prende in esame gli effetti negativi dell’uso e abuso di queste tecnologie in età evolutiva, con particolare attenzione alla prima e seconda infanzia, sottolineandone le conseguenze a livello di sviluppo cognitivo, emotivo e sociale.Un’urgente lettura per genitori, educatori e insegnanti. Conosci l’autore Mena Senatore, laureata in Lingue e Letterature straniere, è docente di Lingua e Civiltà Inglese nella scuola secondaria superiore.Durante gli studi universitari ha scoperto un forte interesse per la psicologia, che l’ha portata ad approfondire tematiche inerenti lo sviluppo della personalità nelle varie fasi dello sviluppo.Negli ultimi anni ha studiato in particolare la ricerca socio-scientifica dedicata agli effetti delle tecnologie sul cervello, soprattutto in età evolutiva.