capitolo III

Il pensiero magico
e Internet

Alterazione del pensiero magico e dissociazione

Il mezzo digitale, e in particolare la connessione a internet, offre a tutti noi una possibilità grandissima: rifugiarci in un altrove e avverare in un certo senso le nostre fantasie.


Grazie ad internet possiamo realizzare dei sogni, primo fra tutti quello dell’ubiquità: essere nello stesso momento in più posti per non perderci nulla.

Con il flusso continuo e inarrestabile di informazioni, possiamo accedere a tutti i settori dello scibile pur non avendo le competenze specifiche. Basti pensare alle informazioni di tipo medico-scientifico che ci permettono spesso di improvvisare diagnosi al comparire di un minimo sintomo.


Con internet possiamo essere qualcun altro, fare o dire tutto ciò che non riusciamo a fare o dire nella vita reale. Il tutto restando fermi, senza muoverci né sforzarci di essere perfetti. Basta un click o un touch!

Essere fermi in un posto e vivere contemporaneamente in più dimensioni, vivere altre vite, come accade per esempio nei giochi di simulazione come Second Life o Sim City, far finta di essere diversi da ciò che si è, sono tutte situazioni che automaticamente allontanano dal reale e che rappresentano la realizzazione di sogni e fantasie umane.


Chi di noi non ha mai desiderato l’annullamento delle distanze geografiche per raggiungere qualcuno a cui si tiene, in qualsiasi istante? Chi di noi non ha mai temuto di fare brutte figure in un incontro reale, perché non in forma fisicamente o troppo timido per esporsi? Internet ci permette di essere in più posti allo stesso momento, di parlare con una persona e, nello stesso tempo, con decine di altre persone in altrettanti posti del mondo.


In una parola internet ci dona l’onnipotenza, ci consente di rompere schemi, limiti, barriere di ogni genere. Ci permette di andare oltre il reale, ci consente il possibile e l’impossibile. Con la rete riusciamo a materializzare l’assenza, a rendere possibile ciò che è impossibile, reale ciò che è virtuale.


Internet ci protegge e ci permette di celare i nostri difetti (il corpo è escluso dalla comunicazione digitale) e le nostre paure; ci fa risultare perfetti, ben integrati, persone di successo. Ci consente di realizzare tutto senza muoverci, né stancarci, impegnando la nostra mente, ma non il nostro corpo.

Mente e corpo, dunque, si dissociano calandoci in una realtà virtuale che solo per certi aspetti riprende quella materiale.


A mano a mano la rete ci distacca dalla realtà, facendoci perdere le dimensioni spazio-temporali che contraddistinguono il reale, l’essere “con i piedi per terra”, il pensiero logico, andando così a modificare anche le nostre capacità di elaborazione cognitiva.


Alterando il senso dello spazio e del tempo, internet rappresenta il canale d’accesso ad una dimensione fittizia e costituisce un vero e proprio allontanamento con il rischio di un distacco, soprattutto se parliamo di bambini e ragazzi.


Il bambino ha bisogno di evadere dalla realtà in un mondo immaginario e lo fa attraverso il gioco e le storie fantastiche, come si è visto nei capitoli precedenti. Il gioco costituisce, in tutte le sue forme, un momento di evasione e, a seconda dell’età evolutiva, un’occasione di apprendimento, di socializzazione, di svago.


Nel gioco simbolico il bambino interpreta dei ruoli, finge di essere qualcun altro e mette in atto un copione che poi potrà vivere nella realtà; a più dimensioni, il far finta di può essere più o meno vicino alla vita reale.

Nel gioco sociale il soggetto entra in contatto con il prossimo e impara a rispettare le regole, a confrontarsi, a scontrarsi e a trovare soluzioni per giungere all’accordo e permettere il funzionamento del gioco.


Nel gioco di squadra, il benessere collettivo è prioritario rispetto a quello individuale e ogni azione del singolo va progettata e messa in atto con delle ricadute sul gruppo. Il gioco individuale – che a prima vista potrebbe essere paragonato a quello online poiché manca la componente sociale – ha, rispetto al digitale, la caratteristica di impegnare il bambino in un’attività creativa dove l’immaginazione s’accende e fa mettere in atto le sue risorse; nulla è predeterminato, non c’è un copione, non c’è una trama.


Nei videogame le cose sono totalmente diverse. Innanzitutto il bambino interagisce con uno schermo prima che con gli altri. Sebbene molti giochi siano “sociali”, di fatto ciascun partecipante si interfaccia con un dispositivo. In tali modalità ludiche, prevale l’individualismo e non la collettività.


L’obiettivo di molti videogiochi che attirano i bambini è annientare il nemico e accumulare punti. Si tratta soprattutto di giochi di ruolo, spesso violenti, in cui bisogna creare un avatar e che possono favorire situazioni di dissociazione, nonché la formazione di pensieri disturbanti e patologici, laddove ve ne sia predisposizione.

I giochi online possono essere suddivisi in tre categorie secondo gli psichiatri francesi Valleur e Matysiak: d’azione, di ragionamento e di simulazione1.

Mentre i primi creano un effetto di stordimento, quelli di simulazione allontanano dalla realtà portando l’utente in universi paralleli dove, attraverso l’avatar, interagisce, combatte, vive. Il giocatore, in tal modo, supera i parametri spazio-temporali e vive in una dimensione non logica.


Nell’universo virtuale, si può tutto; si sfidano le leggi fisiche e si possono acquisire superpoteri per sconfiggere il nemico e salvare l’umanità.

Questa visione alimenta un pensiero basato su una realtà che sovverte i parametri logici e in quanto tale si avvicina al pensiero magico.

Il pensiero magico o primitivo si contrappone a quello logico, razionale e costituisce una modalità di pensiero caratteristica sì dell’infanzia, ma che perdura anche nell’età adulta. Secondo Jean Piaget il pensiero magico, che caratterizza il pensiero infantile fino all’età di 6/7 anni, è un’organizzazione svincolata dai parametri spazio-temporali propri del pensiero logico. Ogni evento e situazione è rivestita di emozione e magia.


Tipiche caratteristiche del pensiero magico sono l’animismo e la partecipazione. Per animismo si intende la tendenza del bambino ad attribuire volontà, movimento e azione anche a oggetti inanimati. Una situazione tipica in cui prevale il pensiero magico, incoraggiato certo dall’adulto, è per esempio quando il bambino urta un tavolino o una porta e “gli dà le botte”, per punire l’oggetto che gli ha fatto male. In questo modo, il piccolo riesce a consolare in parte il suo dolore scaricandolo sull’oggetto.


La partecipazione, invece, è la percezione di legami e corrispondenze tra eventi che, sul piano logico, non sono tra loro collegati, né tantomento caratterizzati da nessi causa-effetto. Un esempio può essere rappresentato dalla situazione in cui piove e al bambino sembra che “il cielo piange” perché si è rotto il suo giocattolo. Con questa modalità di pensiero, il bambino ha l’illusione di controllare e modificare la realtà, altrimenti minacciosa e spaventosa.


Verso i 6/7 anni avviene la separazione tra pensiero magico e reale, sebbene i due tipi di pensiero coesistano sempre. Anche in età adulta, e nel quotidiano, spesso attuiamo modalità del genere come quando, per esempio, indossiamo una stessa maglietta come portafortuna agli esami, o facciamo gesti scaramantici, o ancora quando mettiamo in rapporto consequenziale due cose tra di loro distanti (le coincidenze). Si tratta di strategie creative e immaginative che mettiamo in atto per calmare l’ansia, per rendere familiare ciò che non lo è o per illuderci di controllare la realtà.


Finché ne siamo consapevoli e sappiamo che si tratta di semplici evasioni dal pensiero logico, il pensiero magico è salvifico. Anzi, è bene conservare qualcosa di questa modalità anche in età adulta, ma eccedere può essere pericoloso poiché allontana dalla realtà.

Nel momento in cui il pensiero magico invece predomina su quello logico, allora si comincia a perdere di vista la realtà e si può poi sfociare in una condizione patologica.


Col diffondersi dei mezzi tecnologici, dei giochi online e dunque del pensiero irrazionale, il pensiero magico perdura, anzi ne risulta alterato anche in età adulta, generando una percezione non di rado scorretta della realtà.

Come nella letteratura fantastica o nelle arti visionarie, molti giochi sembrano incontrare una dimensione onirica. Sensazioni visive, olfattive e uditive vengono amplificate in un’alterazione percettiva che caratterizza molti giochi che rimandano a una “realtà aumentata”.


In questo senso l’utente si immerge in una realtà “altra”, all’interno della quale personaggi vivono, agiscono e continuano a farlo anche dopo che il gioco è finito, assumendo una sorta di identità indipendente.

Come afferma Gianfranco Pecchinenda in Videogiochi e cultura della simulazione, i personaggi creati, sovrapposti, gli alter-ego, “non scompaiono quando spegniamo il computer”. Tali identità autonome dimostrano “che esistono altre sfere di realtà e che con esse possiamo …interagire, influen-zandole, modificandone il corso: proprio ciò che credevano i nostri antenati a proposito del mondo dei morti, degli spiriti, degli stregoni, degli dèi”2.


Il videogioco prospetta un mondo magico in quanto caratterizzato da “corrispondenze”, sostiene ancora Pecchinenda, cioè da legami tra le cose e i personaggi.

È come se il mondo in cui viviamo fosse manifestazione di un mondo “altro” di tipo magico. L’utente immerso e assorto in un videogame deve risolvere enigmi, indovinelli, codici, misteri; deve interpretare segnali nascosti per giungere al livello massimo e alla salvezza.

In questi termini i videogiochi si ricollegano al pensiero magico e questo può andare bene finché il gioco resta un momento di svago, un intrattenimento. L’esigenza di giocare ed evadere dalla realtà è normale nell’uomo e dunque può essere positiva. Come abbiamo detto, le caratteristiche del pensiero magico restano nell’età adulta sotto forma, per esempio, di superstizione o scaramanzia o creatività o anche arte, ma l’alterazione di tale pensiero, e la sua preponderanza su quello logico, possono causare dei problemi e delle dissociazioni psichiche.


Nei casi di pensiero magico alterato il soggetto può interpretare segni come elementi autodefiniti, testimonianza di un universo parallelo che lo controlla e lo minaccia (come avviene per esempio nei casi di delirio paranoide).

I videogiochi, dunque, offrono la possibilità di cedere al magico, al “re-incanto del mondo”, come scrive ancora Pecchinenda.


Non è necessario analizzare giochi per adolescenti o ultradiciottenni per trovare degli elementi dissociativi. Un esempio è il gioco della Nintendo arrivato in Italia nel luglio 2016 e che nel giro di pochi giorni ha riscosso un successo planetario contando milioni di utenti delle età più disparate: il Pokémon Go. Il gioco è classificato come adatto a bambini a partire dai tre anni, secondo le indicazioni del PEGI (Pan European Game Information), che è il metodo di classificazione valido su tutto il territorio europeo usato per identificare i videogame attraverso cinque categorie di età (tre-sette-dodici-sedici-diciotto) e otto descrizioni di contenuto (turpiloquio, sesso e nudità, discriminazione, scene spaventose, gioco d’azzardo, droga, giochi online, violenza).


Il giocatore – adulto, ragazzo o bambino che sia – scarica il gioco ed entra in un sistema GPS, percorre la strada reale, ma segue una mappa virtuale cercando di localizzare e catturare creature immaginarie sparse ovunque, i pokémon appunto (poket monsters, mostriciattoli tascabili).


Le azioni di movimento – uscire, camminare, correre – vengono finalizzate alla ricerca virtuale, una sorta di caccia che però, a differenza di altri giochi virtuali, si mescola al reale. L’utente, infatti, deve realmente uscire, camminare, muoversi all’aperto.


Consideriamo, secondo le finalità di questo saggio, l’utente in età scolare (cinque/dieci anni) che prende parte a una specie di delirio collettivo, alla spasmodica ricerca nel reale di creature virtuali.

La confusione tra reale e virtuale è palpabile, tuttavia sottile poiché il fatto di dover uscire e camminare rappresenta un elemento nuovo rispetto agli altri giochi online dove si resta fermi e chiusi in una stanza. L’illusione è, dunque, che si tratti di un gioco ancorato alla realtà e che consenta al bambino esperienze reali.


Analizziamo alcuni aspetti che mettono in luce dei possibili risvolti del gioco a livello di sviluppo sociale e interpersonale.

Ecco alcune delle caratteristiche del gioco che potrebbero essere considerate positive:

  • Il gioco è occasione di socializzazione poiché mette insieme tanti bambini che corrono e vivono la dimensione virtuale.

  • Il gioco esplora la realtà e consente al bambino di muoversi in contesti diversi.

  • Il gioco ricorda la caccia al tesoro, stimola l’immaginazione e rafforza il senso dello spazio.


A tali caratteristiche si potrebbe rispondere con delle argomentazioni opposte.

  • Ciascun bambino corre in preda ad un delirio collettivo e la sua è una caccia personale, individuale. Ogni mostro viene catturato dal singolo utente e suo è il punteggio.

  • Non esiste il concetto di squadra o di gruppo, ciascuno va avanti da solo e non c’è un obiettivo comune da perseguire.

  • Ciascun bambino insegue il suo schermo sul quale compare il percorso riportato sulla mappa e l’eventuale Pokémon catturato.


Il bambino non esplora la realtà, ma una sorta di dimensione parallela; cammina, percorre le strade, ma non guarda nulla se non lo stesso percorso riportato su una mappa virtuale, come se un alter ego lo stesse effettuando.


Svaniscono le persone, gli ostacoli, i pericoli, gli alberi, i fiori e quant’altro dal percorso reale, poiché conta solo quello virtuale e l’unico obiettivo è scovare in una realtà parallela creature che di fatto non esistono. Nell’estate che vide la sua uscita, non furono pochi i fatti di cronaca relativi a incidenti di vario genere di cui si erano resi protagonisti giocatori di diverse età, anche e soprattutto adulti.


Questo gioco non stimola la creatività né l’immaginazione, tanto meno l’organizzazione spontanea. L’unico elemento che possa definirsi fantastico è quello di considerare mostriciattoli non reali. Anche quelli, però, non sembrano certo lasciati all’immaginazione del bambino, in quanto rientrano in un percorso predeterminato che nulla lascia alla fantasia e all’immaginazione creativa.


Quali abilità, allora, sviluppa un gioco così strutturato?

Nessuna, probabilmente!

Il gioco è stato paragonato a una caccia al tesoro, ma mancano gli indovinelli da risolvere, gli ostacoli da superare e, ancora una volta, lo spirito di squadra.

Il bambino è teleguidato, assolutamente non libero né attivo nella creazione/conduzione del gioco, in un momento evolutivo in cui la fantasia e l’immaginazione sono smisurate.


L’esplorazione della realtà, insieme ad altri bambini, si riduce ad un’esplorazione virtuale guidata e alterata.

Esistono tantissimi mostriciattoli con nomi particolari divisi per tipi, c’è il tipo Acqua, tipo Fuoco, tipo Erba, tipo Elettro, tipo Roccia, tipo Psico, tipo Coleottero, tipo Terra, tipo Veleno, tipo Normale, tipo Drago, tipo Folletto, tipo Lotta, tipo Spettro, tipo Ghiaccio. Ciascuno di questi esseri, a seconda della tipologia d’appartenenza, si nasconde in un determinato ambiente e a determinate ore del giorno e della notte.


Luoghi naturali (fiumi, laghi, ruscelli, spiagge, riserve agricole, parchi, zone erbose) e artificiali (zone residenziali, e persino ospedali, scuole, stadi, palestre), culturali (musei, siti storici, monumenti) si sommano in un unico luogo virtuale e “altro” in cui cercare mostri.


È possibile scovare dei nidi (spawn) se si avvistano più pokémon dello stesso tipo in uno stesso punto.

Tutti i luoghi sono potenziali nascondigli. Lo scopo del bambino non è quello di entrare in contatto con i diversi luoghi, ma trovare in tutti il maggior numero di creature.


Una passeggiata in un bosco o lungo un ruscello, esperienza ricca di emozioni e tracce che possono imprimersi nel cervello di un bambino insegnandogli ad ammirare le bellezze della natura e averne rispetto, diventa un’occasione per scovare pokémon tipo erba o acqua, o ghiaccio, o terra, o roccia.


Ciò che rimane è un bambino che finisce per trascurare il profumo dei fiori, il rumore dell’acqua da ascoltare in devoto silenzio per entrarvi in sintonia, il ronzìo di un insetto tra i fili d’erba, perché impegnato a cercare, sul suo smartphone, creature che solo per finta sono nascoste nei luoghi che sta percorrendo.


Noi adulti – genitori, educatori – dobbiamo fare di tutto per tenere le menti dei bambini libere da simili sciocchezze, che servono solo ad arricchire certe società di mercato; al contrario promuovere in loro la sensibilità e il rispetto per la natura e le sue bellezze, far nascere nel loro cuore il desiderio di entrare in contatto e dunque in armonia col cosmo.


Ogni luogo presuppone un’esperienza diversa: la scuola, il bosco, l’ospedale, una zona erbosa, una spiaggia, un ruscello, con tutta una serie di emozioni e stati d’animo che ne conseguono.

Unificare tutti i diversi siti della realtà e attribuirvi un’unica connotazione, tra l’altro non rispondente alla realtà (luogo come potenziale nido di mostriciattoli), appare come qualcosa di estremamente assurdo, nonché pericoloso.

Ancora Pecchinenda, nel libro citato, parla di “deprivazione sensoriale”, ossia dell’incapacità di provare stupore, meraviglia di fronte alle cose. L’immersione totale nello schermo tecnologico può generare un’incapacità di sentire, di distinguere riducendo tutto ad un minimo comune denominatore. In quest’ottica di desensibilizzazione “…un quadro è un quadro, sia che ci si trovi di fronte ad un dipinto originale del Caravaggio, sia che ci si trovi di fronte a una fotocopia malriuscita ed incorniciata”3.


Molti bambini in età scolare vagano da soli, anche in ore serali, incollati ad uno schermo, dediti ai giochi online. Quali le conseguenze sul cervello del bambino?

Innanzitutto un distacco dalla realtà con conseguente isolamento ed indebolimento delle abilità sociali. Come abbiamo già visto, il bambino in età evolutiva ha frequenti e sani distacchi dalla realtà grazie al gioco, alle fiabe e alla sua immaginazione, per poi tornarvi con un arricchimento.

Fiabe e giochi simbolici hanno sempre agganci con la realtà e con sentimenti reali (paure, emozioni, rabbia). La presenza di un adulto (nel caso della fiaba o del gioco simbolico) e di altri bambini (nel gioco sociale), inoltre, offrono gli strumenti per interpretare la realtà e per affrontare certe emozioni.

Nei giochi online, in Pokémon come in altri, il bambino è solo, trasportato in una realtà virtuale che non ha nulla, assolutamente nulla in comune con la realtà materiale e lo trasporta in una dimensione in cui i concetti di spazio e tempo sono alterati.


I mondi proposti da molti giochi presenti sul mercato sono caratterizzati da un numero elevato di pericoli, esseri mostruosi, minacce. Se è vero che il mondo reale diventa sempre meno un luogo sicuro per bambini, è anche vero che la realtà non è sempre così minacciosa e violenta.

In altri termini, la percezione della violenza e delle minacce aumenta in maniera esponenziale e irrealistica rispetto alla realtà. Tale percezione distorta crea inevitabilmente stati d’ansia e tensione continua.

Sappiamo che la paura è un’emozione che ha sede nell’amigdala, ghiandola che riceve informazioni dalla realtà sull’eventuale presenza di una minaccia.

La risposta che l’amigdala fornisce è quella di attacco o fuga, risposta anche e soprattutto fisica (battito cardiaco accelerato, sudorazione, scarsa salivazione) che impegna i muscoli e li prepara ad attaccare o a fuggire.


Come può un bambino che trascorre tanto tempo in questo stato di tensione non essere iperattivo, più o meno aggressivo, più o meno violento?

Pensiamo di crescere bambini sani e felici dando loro questo tipo di stimolazioni?


Dovremmo smettere di tollerare che certe società di mercato si arricchiscano sulla pelle, anzi, sui cervelli delle giovani generazioni, e soprattutto dei bambini.

Abbiamo il dovere, in quanto adulti, di preservarli da certi meccanismi e permettere loro di sviluppare tutte le straordinarie potenzialità che possiedono4.

Pensiero paranoide e videogame

Nei mondi delineati dalla maggior parte dei videogiochi violenti, come è stato sottolineato, prevale uno stato di tensione che porta il bambino a essere continuamente nella condizione di dover mettere in atto un piano di difesa (attacco o fuga) che potrebbe sfociare nell’aggressività.

Tanti giochi offrono una visione della realtà negativa, carica d’angoscia, che genera stress.


L’universo raffigurato è popolato di nemici da combattere, di esseri malvagi e spietati eroi che vincono solo con la violenza e/o grandi abilità tecnologiche.

Il bambino impara a pensare che l’altro è un potenziale nemico da annientare e, in preda a uno stato di tensione e paura, si convince che l’unico modo di risolvere i problemi è combattendo.


Se egli fa suo il ruolo dell’eroe dei videogiochi, altera la sua percezione del reale e sviluppa un pensiero che, in quanto illogico e irreale, si avvici-nerebbe al pensiero magico e, nei casi estremi, al pensiero paranoide. Potrebbe farsi strada l’idea di essere un eroe che deve sconfiggere il male assoluto, di avere una missione da svolgere e di elevarsi al di sopra degli altri.

Tutto e tutti potrebbero costituire una minaccia; si potrebbe considerare la possibilità di un complotto generale da parte di esseri alieni o comunque nemici da annientare.


I rapporti potrebbero essere alterati, l’altro verrebbe percepito come nemico da abbattere e, una volta fatto ciò, si presenterebbero altri nemici, fino a combattimenti estremi, senza fine.


Tornando all’esempio di un gioco semplice come Pokèmon Go, l’idea che tutt’intorno ci siano creature nascoste da catturare è piuttosto inquietante e si ricollega, per certi versi, al pensiero magico del soggetto paranoide che, individuando corrispondenze tra eventi logicamente scollegati (partecipazione), delinea un quadro interpretativo del reale fuori dagli schemi logici e dal concetto di consequenzialità. Ciascun segnale proveniente dal reale (parola, rumore, persona fisica) diventa autodefinito e, rispondendo a leggi illogiche e/o di complotto, perseguita il soggetto in questione.


Alterazione della realtà, distorsione percettiva, convinzione della presenza di nemici da sconfiggere, idea di condurre una missione eroica per liberare il mondo dai nemici, unificare e identificare tutti i luoghi come potenziali nascondigli di creature immaginarie. Non sono forse questi i contenuti della dissociazione, e più all’estremo, del delirio paranoide?


È azzardato ipotizzare che lasciare che i bambini sviluppino la loro personalità con tali modalità di interazione/comunicazione/gioco possa predestinare molti di loro –certo con più probabilità laddove vi sia anche una predisposizione e/o determinati fattori ambientali – allo sviluppo di disturbi della personalità?


L’ipotesi potrebbe rivelarsi non tanto inverosimile.

In conclusione, se i bambini privilegiano certe modalità online, e costruiscono il loro mondo relazionale ed emotivo su certi modelli distorti, potrebbero facilmente aver luogo alterazioni del pensiero che, a loro volta, potrebbero sfociare, in età adolescenziale e adulta, in vere e proprie patologie.

Hikikomori: solitudine e vuoto

Una condizione psicopatologica che potrebbe trovare terreno fertile in un uso/abuso precoce dei media digitali è l’hikikomori.


I bambini che già in età prescolare o scolare si abituano a isolarsi con il mezzo digitale, saranno probabilmente adolescenti a rischio hikikomori.


L’hikikomori, o sindrome H, è una patologia psichiatrica molto diffusa in Giappone, descritta per la prima volta dallo psichiatra Tamai Saito5.


Si tratta di una forma di ritiro sociale che riguarda soprattutto i giovani ed è spesso correlata a fobie sociali, abbandono scolastico, depressione.

In Giappone l’hikikomori è dovuto a ragioni sociali, al modello d’istruzione imposto, agli standard di eccellenza con i quali, soprattutto il maschio, è costretto a confrontarsi. Standard di perfezione ed eccellenza che non tutti riescono a raggiungere. Laddove il giovane si sente inadeguato, sceglie di isolarsi, ritirarsi dal mondo per non dover reggere il confronto con la società e con ciò che essa si aspetta da lui.

Nel contesto hikikomori, internet e il mezzo digitale sono alleati preziosi in quanto consentono di mantenere tale stato di isolamento e proteggono dal mondo esterno; diventano un canale di comunicazione e contatto che non espone il soggetto al confronto sociale, proteggendolo dal rischio di esporsi fisicamente ed emotivamente con eventuali debolezze e fragilità. Com’è ovvio, l’uso di internet non è la causa, ma un sintomo del disagio interiore che il ragazzo vive.


In Occidente l’hikikomori si sta diffondendo e sembra più legato ad internet che ad aspettative o pressioni sociali, anche se c’è da rilevare che la nostra società sta diventando fortemente competitiva e chi non riesce ad adeguarsi ai ritmi, soccombe, resta fuori dai giochi.


Il soggetto hikikomori si ritira dal mondo, si chiude in un proprio universo – la sua stanza – e innalza un muro tra sé e gli altri. Molti ragazzi non escono per giorni, mesi, addirittura anni dal proprio micromondo se non per consumare i pasti, di solito nelle ore notturne per non incontrare i familiari, o rispondere ai bisogni fisiologici.


A volte fanno scorte di cibi preconfezionati nei supermercati aperti di notte, per non farsi vedere. In casi gravi, i soggetti isolati indossano persino pannoloni per non dover interrompere la connessione o una partita con i videogame.


L’adolescente hikikomori sembra non provare emozioni, diventa anaffettivo, estraneo e insensibile a ciò che accade intorno a lui, non cambia espressione facciale e gradulamente si ritira da tutto, abbandona la scuola, gli amici, i familiari persino, fino a trasformare internet e il mezzo digitale nell’unico canale di contatto col mondo esterno.


Spesso gli adolescenti che presentano tale patologia organizzano incontri con gli amici virtuali, altri giocatori online, anche fuori dalla propria città e coinvolgono i genitori, rassicurandoli in tal modo sulla loro capacità di socializzazione.

Se l’hikikomori è un ritiro sociale che allontana dal prossimo, ma anche e soprattutto dal proprio sé, dal proprio mondo interiore ed emotivo, allora l’uso/abuso di dispositivi digitali in età evolutiva, e in particolare durante l’infanzia quando sono vitali e fondamentali più esperienze concrete e sociali possibili per sviluppare la personalità, potrebbe effettivamente predisporre a una modalità di dissociazione e di isolamento dal mondo esterno e interiore.

Se, come afferma Cris Rowan, la connessione continua, “…l’uso prolungato di tecnologie, in un mondo virtuale e spesso violento, sta disconnettendo i bambini dal gioco fisico e da significative interazioni umane”6, e se la disconnessione avviene su quattro fronti “…da se stessi, dagli altri, dalla natura e dallo spirito”7, allora stiamo preparando il terreno per futuri soggetti, adolescenti e adulti isolati, hikikomori.


Inoltre, e qui entra in gioco il tipo di educazione che stiamo dando ai nostri figli e studenti, – e a prescindere dalle tecnologie – stiamo abituando i ragazzi a credere di essere sempre i più bravi, nascondiamo difficoltà d’apprendimento dietro sigle ed etichette, e in quei casi semplifichiamo al massimo, forniamo misure dispensative che evitino loro la frustrazione o l’insuccesso, senza invece soffermarci sulle reali esigenze. Diamo uno scudo di copertura che s’infrangerà al primo contatto con la realtà, laddove il crollo emotivo scaturito dall’inadeguatezza potrebbe assumere dimensioni enormi.

Quali strumenti stiamo fornendo ai nostri figli per tollerare la frustrazione, la noia, le difficoltà? In reatà li stiamo indebolendo, illudendoli che sia tutto facile, o che siano invincibili, destinandoli così al cedimento e al ritiro al primo banco di prova.


La solitudine hikikomori è un vuoto, un’incapacità di entrare in contatto con se stessi e con il prossimo, un isolamento, un vuoto esistenziale in cui il soggetto sprofonda sempre di più.


Al contrario, la solitudine in un bosco o di fronte a uno scenario naturale rappresenta un’occasione meravigliosa di comunicazione col cosmo e con se stessi. Nel caso dei bambini, sempre alla presenza di un adulto che faccia da filtro, è bene abituarli al silenzio, al ripiegamento su se stessi, sul proprio vissuto interiore e alla sintonia con la natura.


È quella che Shellebeim nel suo libro La ferita dei non amati chiama “solitudine fondamentale”, che è una condizione “…che porta alla maturazione e allo sviluppo della nostra personalità, se la sappiamo mettere a frutto”8.

Con il mezzo digitale il bambino si rifugia in una solitudine che non è costruttiva e non lo pone nella condizione di sviluppare strategie di comprensione del proprio mondo interiore. Con la connessione non si ha il tempo di definire uno stato d’animo, di sentirlo; tutto è veloce e non si ha il tempo per momenti vuoti, di noia. Se una cosa non interessa si passa subito oltre, si cerca qualcosa che attragga di più, ma in breve tempo anche questo sarà soppiantato da qualcos’altro di ancora più interessante o eccitante.

Non sono ammessi tempi morti, non si possono accettare cose noiose o non interessanti. E altrettanto accade per le relazioni interpersonali, per la gestione della vita scolastica, per le relazioni sentimentali. Non è tollerabile ascoltare una lezione noiosa o qualcosa che non incontri completamente i propri gusti. Non si può; è una frustrazione che i nostri figli non sanno e non sapranno reggere.


E si rimane intrappolati in una solitudine che solo apparentemente ha il sapore della socialità. È una solitudine che dissocia, estranea dalla realtà, ipnotizza, pone in una dimensione “altra” e fa sentire soli nonostante la connessione simultanea con tanti altri.


Da soli, insieme. Alone Together, come suggerisce il titolo del libro di Sherry Turkle, psicologa americana.

Ciascuno porta avanti dei riti solitari, anche in microsistemi ed entro limitati spazi geografici, come la famiglia. Si è tutti nella stessa stanza o seduti allo stesso tavolo, ma ciascuno è altrove, connesso e ipnotizzato dal suo smartphone. E i bambini, se ancora non lo fanno, assorbono tali modalità comunicative, mentre ricevono dai genitori, e dagli adulti in generale, una comunicazione frammentata, interrotta, fredda, poco empatica e piuttosto distratta.


Il ricorso continuo, quasi esclusivo, alla modalità di comunicazione digitale rappresenta il bisogno di comunicare proprio perché ci si sente soli e la solitudine è la condizione più temuta. Una solitudine interiore che caratterizza ciascuno di noi.


Si pubblica, si posta sui social, si condivide, perché non si è più in grado di confrontarsi con l’altro faccia a faccia, si teme il giudizio, non ci si ritiene all’altezza. L’illusione di un contatto con il mondo si traduce in realtà nell’incapacità di parlare con chi ci sta accanto. Siamo in grado di comunicare col mondo, ma non di esprimere ciò che pensiamo o sentiamo alle persone che sono nel nostro spazio concreto.


L’alfabetizzazione emozionale è qualcosa su cui dobbiamo scommettere poiché stiamo vivendo una crisi profonda dei valori che condurrà a problemi molto gravi della società se non si corre ai ripari.


Se non abituiamo i bambini a comunicare con noi e col proprio sé, essi non avranno molte possibilità di risolvere positivamente i conflitti. Non saranno molto in grado di gestire e valutare le proprie emozioni, positive o negative che siano, non saranno molto allenati alla “comunicazione empatica” con gli altri e dunque alla tolleranza, al rispetto, alla convivenza.


È necessario intervenire sull’infanzia, rivedere le modalità di interazione con i bambini e riscoprire la semplicità e l’autenticità delle cose, altrimenti il vuoto interiore creerà baratri dai quali sarà sempre più difficile e doloroso riemergere.

Bambini digitali
Bambini digitali
Mena Senatore
L’alterazione del pensiero creativo e il declino dell’empatia.Un’analisi degli effetti negativi dell’abuso degli schermi digitali in età evolutiva sul piano dello sviluppo cognitivo, emotivo e sociale. Negli ultimi anni sempre più bambini si trovano a interagire con gli schermi digitali di tablet, smartphone e PC. Ma quali sono le conseguenze?Mena Senatore, nel suo libro Bambini digitali, prende in esame gli effetti negativi dell’uso e abuso di queste tecnologie in età evolutiva, con particolare attenzione alla prima e seconda infanzia, sottolineandone le conseguenze a livello di sviluppo cognitivo, emotivo e sociale.Un’urgente lettura per genitori, educatori e insegnanti. Conosci l’autore Mena Senatore, laureata in Lingue e Letterature straniere, è docente di Lingua e Civiltà Inglese nella scuola secondaria superiore.Durante gli studi universitari ha scoperto un forte interesse per la psicologia, che l’ha portata ad approfondire tematiche inerenti lo sviluppo della personalità nelle varie fasi dello sviluppo.Negli ultimi anni ha studiato in particolare la ricerca socio-scientifica dedicata agli effetti delle tecnologie sul cervello, soprattutto in età evolutiva.