Capitolo II

Lo sviluppo sociale ed emotivo
del bambino
nell'era digitale

Le competenze sociali attraverso il mezzo digitale

L’uomo, come si sa, è un essere sociale ed esprime fin dai primi giorni di vita l’intenzione di interagire con la realtà circostante.

Durante i primi periodi reagisce agli stimoli manifestando un sorriso dettato dal movimento dei muscoli. A partire dal terzo-quarto mese il sorriso diventa sociale.


Verso i due-tre anni, il bambino si distacca dall’ambiente familiare ed entra in contatto con il gruppo rappresentato dal nido e dalla scuola materna.

Attraverso le esperienze sociali – il gioco, la compagnia dei coetanei e di adulti diversi dai genitori – il bambino apprende le regole della convivenza con gli altri. In tale contesto il gioco assume un ruolo fondamentale.


Fuori dal contesto scolastico, considerati i ritmi e l’organizzazione moderni, le occasioni di gioco e socializzazione sono ormai limitate. Il gioco si riferisce sempre più a situazioni organizzate dagli adulti o da un Pc, ad attività sportive e/o agonistiche piuttosto che spontanee. Anche nelle attività di gioco, socializzazione e tempo libero, l’onnipresente schermo touch è diventato l’oggetto indispensabile per molti bambini.


I nuovi ritmi, le nuove modalità di relazione e le strutture familiari contemporanee pongono i piccoli sempre più spesso da soli davanti ad un dispositivo digitale (Tv, consolle di gioco, smartphone, tablet, pc).

Sempre più di frequente si vedono bambini estraniati dalla realtà, superconcentrati in uno smartphone, innaturalmente silenziosi, da soli o in gruppo, ma senza guardarsi negli occhi!

Secondo Federico Tonioni, psichiatra e psicoterapeuta, direttore del primo Ambulatorio in Italia sulla Dipendenza da Internet, presso la Fondazione Policlinico Gemelli di Roma, quando si dice che un bambino che gioca col suo schermo, “non si vede e non si sente, allora significa che quel bambino, finché gioca, di fatto non c’è”1. In qualche modo, il bambino in quel momento è fuori dalla realtà.


Il gioco online, ovvero la connessione, favorisce una sorta di “fuga dal reale” e il bambino lo fa da solo, anche se in contatto con altri al di là dello schermo.

Per sviluppare competenze sociali, egli ha bisogno di rapporti interpersonali e di guardare gli altri negli occhi. E il contatto visivo, oltre che fisico, è proprio ciò che viene a mancare nel momento in cui prevale la comunicazione virtuale.

Lo scambio di sguardi con i genitori e con le altre persone serve a rafforzare il senso di fiducia e la capacità di comunicazione. Attraverso l’approvazione, il rimprovero, l’incoraggiamento, il bambino impara a riconoscere emozioni e stati d’animo negli altri e prima di tutto in se stesso.


Nel momento in cui ciò viene a mancare, poiché lo sguardo è sovente dirottato verso lo schermo che fa da filtro, allora le possibilità di interazione e comunicazione visiva vengono meno, deprivandolo di esperienze importanti.

Pensiamo ai bambini al parco che, impegnati in giochi e acrobazie, richiedono l’attenzione dei genitori o di chi si prende cura di loro, la cui attenzione è però sempre più spesso vincolata a uno schermo.


In diverse situazioni le emozioni vengono filtrate dallo schermo. Bambini che si improvvisano cameramen o fotografi e riprendono con lo smartphone eventi, rappresentazioni, perfino uno spettacolo di burattini: invece che assaporarne pienamente l’esperienza, si lasciano quasi alienare.

Piuttosto che imprimere il ricordo di un fatto importante nel cuore e nella memoria, di interrogarsi sull’emozione che una determinata situazione suscita, piuttosto che ascoltare se stessi, si preferisce essere occupati a riprendere il tutto, illudendosi di conservarne il ricordo.


In molti casi l’evento sembra perdere la sua connotazione emotiva per diventare un tassello di una frenetica caccia al divertimento a tutti i costi, da ostentare puntualmente agli altri. È come se non si riuscisse più a vivere un momento senza schermo, come se si avesse bisogno di filtrare ogni esperienza e ogni emozione con l’aiuto di uno scudo. È molto triste che anche un bambino si abitui a questo, che si corazzi di un filtro attraverso il quale guardare il mondo, che spenga nei suoi occhi la luce dell’emozione e dello stupore.


Sotto diversi aspetti, la tendenza è quella di filtrare/mitigare/svuotare l’emozione, non vivendola mai completamente, ma anzi proteggendosi da essa, frapponendo una sorta di barriera tra sé e il proprio mondo interiore.

Abituare i bambini a tale modalità potrebbe significare avere poi adolescenti e adulti molto limitati nell’ascolto e nella definizione delle proprie emozioni e del proprio mondo interiore attraverso una valutazione cognitiva, il cosiddetto insight.


L’incapacità di definire e gestire le emozioni porta ad individui sempre più soli, sempre più incapaci di ascoltarsi e ascoltare l’altro.

Il saper guardarsi dentro, ascoltarsi, chiamare per nome le emozioni e gestirle costituisce la base dell’intelligenza emotiva. Descritta dallo psicologo statunitense Daniel Goleman, essa si riferisce alla capacità di riconoscere i propri stati d’animo e di gestire in modo corretto le proprie emozioni e quelle degli altri. Un buon livello di intelligenza emotiva costituisce un fattore chiave per affrontare al meglio la vita con successo.



Fiabe, gioco, videogiochi

Sviluppare l’intelligenza emotiva è fondamentale, ma come promuoverla? È possibile aiutare il bambino nella sua crescita emotiva raccontandogli fiabe o giocando insieme a lui, o ancora raccontando vissuti personali.


La fiaba, ovvero la narrazione, è uno strumento basilare di crescita emotiva, perché coinvolge la dimensione affettiva ed emotiva.

In quasi tutte le fiabe c’è uno schema che si ripete con aspetti spaventosi che servono al bambino ad esorcizzare le sue paure, se però modulate dalla voce dell’adulto e dal genitore in particolare.


Questo filtro costituisce una delle maggiori differenze rispetto allo schermo televisivo o digitale, di fronte al quale il piccolo è solo, senza protezione né strumenti per affrontare i mostri proposti e interpretarne il valore simbolico.

Attraverso la fiaba è possibile spiegare tematiche dolorose come la morte o il distacco. Essa propone problemi umani universali che preoccupano la mente del piccolo, rispondono ai perché e, attraverso associazioni, possono far comprendere temi astratti.


La fiaba è una via d’accesso che il bambino può percorrere per affrontare le sue paure e per comprendere che esiste anche il dolore, ma è possibile superarlo; che esistono mondi diversi dai quali ricavare tante opportunità.

Egli può scoprire la sua aggressività e imparare a dosarla; capire che esistono eventi tristi che fanno parte della vita, della condizione umana, ma che c’è sempre un percorso da fare e una dimensione nuova da scoprire.


Il cerbiatto Bambi perde la sua mamma, ma grazie al Grande Cerbiatto trova un’altra famiglia e la possibilità di crescere ed essere amato.

In molte fiabe si ritrova il tema della perdita dei genitori con conseguente sofferenza da parte del protagonista, ma alla fine c’è sempre il riscatto.


Il bambino comprende che di fronte alle difficoltà è necessario attivare tutte le risorse interne per farcela o fronteggiarle e uscirne più forte (resilienza).

La fiaba lo conduce a scoprire un mondo interiore, ad entrarvi in contatto, ad individuarne e definirne i contenuti.


Come la fiaba, un altro strumento importante è il gioco del “far finta di”, che permette di interpretare ruoli che saranno poi importanti nella realtà.

Il racconto di una fiaba o il gioco del “far finta di” sono caratterizzati da formati narrativi e copioni che consentono la modulazione della voce di chi narra, la spiegazione degli eventi, e dei sentimenti dei personaggi.


Il bambino, dunque, attraverso il mondo del fantastico, guidato per mano dall’adulto, principalmente dal genitore che lo consola con uno sguardo o con una carezza, un abbraccio o tenendogli la mano, entra in contatto col suo mondo interiore e riconosce l’esistenza di emozioni negative quali la rabbia, la tristezza, la paura.


Il gioco inoltre permette al bambino di esprimere le sue fantasie e i suoi desideri, di esorcizzare le paure, di dominare gli istinti.

Con i nuovi giochi digitali, soprattutto quelli sparatutto o comunque violenti, l’aggressività e le forze istintuali rimangono su un piano virtuale, inespresse, non manifestate sul piano fisico, pertanto accumulate e sedimentate dentro, senza che trovino una via d’uscita, salvo poi esplodere all’improvviso in maniera incontrollata.


A differenza di quanto accade nelle fiabe o nel gioco del “far finta di”, nelle situazioni ludiche online le difficoltà – che non si riferiscono a situazioni di vita reale – vengono risolte combattendo, annientando il nemico senza altre possibilità di soluzione. L’idea della morte, quasi sempre presente nelle fiabe, viene alleggerita del suo significato, perde la sua connotazione di prova di vita e di crescita, per diventare un semplice elemento di gioco – quasi una condizione auspicata – caricata di aggressività fine a se stessa. Ciò sviluppa un culto della morte avulso dalla realtà, particolarmente preoccupante nell’adolescenza.


La morte, considerata in genere un tabù, qualcosa di cui non parlare ai bambini per proteggerli, è stata scremata della sua connotazione di dolore fino a diventare qualcosa di insignificante. Sotto questo aspetto morire, uccidere, sopravvivere e vivere si equivalgono.


Da un punto di vista psicologico la morte dell’altro non è un fatto che genera dolore, sofferenza e che richiede elaborazione, bensì eccita, esalta, fa raggiungere punti e fa vincere. Nei videogiochi la morte fa punteggio, prestigio, vittoria. E questo è deleterio per un bambino che non ha ancora gli strumenti critici per interpretare correttamente certi eventi. Il messaggio è che vita e morte hanno lo stesso significato e vengono sminuiti nel loro rispettivo valore. La morte, inoltre, diventa una condizione provocata da altri per istinto, aggressività e desiderio di vittoria.


Trasposta nella vita reale, tale visione può essere molto pericolosa per chi non è ancora in grado di distinguere il reale dal non-reale. Le situazioni ludiche sono poi improntate su una “sospensione delle conseguenze” – come afferma la neuroscienziata Susan Greenfield, autrice del libro Mind Change-cambiamento mentale, per cui ogni azione, diversamente dalla vita reale, non comporta ripercussioni. Se nelle situazioni ludiche online si uccide, si muore e si risorge, allora l’atto di uccidere o colpire non comporta conseguenze, diventando dunque legittimo e normale.


Esistono dei videogiochi per bambini che sembrano ricalcare gli elementi della fiaba (fate, principesse, libri magici) in grado di catturarli per poi trasportarli in mondi sinistri popolati da nemici, da esseri sadici e indemoniati. Cosa può insegnare un gioco siffatto a un bambino? Cosa può trasmettergli? Può concorrere a promuovere valori di generosità, solidarietà e sviluppare l’empatia?


Valori come il rispetto della diversità, la solidarietà, la generosità, la lealtà sono sostituiti da disvalori come l’individualismo, l’egoismo, l’avidità.

I nuovi eroi televisivi e/o digitali, di cui molti bambini sono ipernutriti fin dalla culla, sono personaggi scaltri, egoisti, violenti, cinici, spesso dotati di straordinari poteri magici o tecnologici.

Il bambino impara che per riuscire nella vita è necessario essere crudeli, avere straordinarie abilità tecnologiche, ignorare il prossimo. Ovviamente questa osservazione è valida soprattutto per i giochi violenti, gli sparatutto, nei quali il contenuto è costituito da combattimenti, violenza ed eliminazione di mostri.

La grafica 3D rende i giochi particolarmente realistici e immersivi, il giocatore diventa protagonista in prima persona (Fps), guarda negli occhi il personaggio da annientare, prova sensazioni reali (suoni, vibrazioni), è trasportato in un vero e proprio “vortice sensoriale”2.

Steven Johnson nel suo libro Quello che ti fa male ti fa bene, mette a confronto la televisione con i videogiochi e sostiene che questi ultimi stimolano l’intelligenza, la mente e sviluppano le capacità cognitive rispetto alla televisione. Nei videogiochi l’utente è coinvolto, attivo e partecipe; può orientare la trama con le sue mosse, progetta, pianifica il percorso, risolve ostacoli, enigmi.


Molti giochi affinano il pensiero, pongono sfide, assottigliano il ragionamento ma, di fatto, sono ancorati ad una realtà che non esiste.

Che effetto può avere in età evolutiva?


Forse l’insoddisfazione, la noia che molti bambini provano e temono, il desiderio di esperienze al limite della vita reale sono da attribuire, almeno in parte, alla modalità di gioco che forse richiederebbe una certa maturazione mentale, cognitiva e morale di base; maturazione che in determinate fasce evolutive non è affatto completa.


Il videogame permette di manipolare e concretizzare le fantasie, i personaggi, le situazioni. Questo potrebbe essere pericoloso, poiché il bambino è legato, com’è ovvio che sia, al concreto e al reale.


Nelle situazioni ludiche l’evasione dalla realtà è la regola, col rischio di confusione delle due sfere (reale/virtuale). Confondere i due livelli, in un momento evolutivo in cui il pensiero concreto evolve verso quello astratto grazie a processi di maturazione e a esperienze sociali e reali, potrebbe essere fuorviante.


Con la televisione, invece, l’utente subisce la storia e non può fare nulla per modificarne l’evoluzione.

L’obiezione mossa a tale osservazione riguarda la dimensione emotiva. Nelle storie tradizionali, quelle belle, i personaggi che diventano parimenti modelli di identificazione, piangono, ridono, amano, soffrono. In una parola: vivono. Le storie viste in Tv, anche da piccoli, hanno fatto emoziona-re, ci hanno lasciato qualcosa e forse ci hanno anche insegnato qualcosa: almeno qualche risvolto di empatia che nei videogames violenti è proprio difficile trovare.


I personaggi, perlomeno nella maggior parte dei casi, agiscono, pianificano, tentano disperatamente di vincere e di emergere senza lasciare spazio a un vissuto emozionale.


Cosa resterà di un videogioco nella mente e nel cuore di un bambino? E in che misura un videogioco contribuisce a trasmettere o suscitare emozione? Emozione che non va confusa con l’eccitazione adrenalinica del momento.

Una storia, e sicuramente meglio un buon libro, lascia qualcosa dentro che va oltre il semplice appagamento momentaneo.


Ferma restando la libertà di ciascun genitore nella scelta dei contenuti da offrire ai propri figli a livello di educazione o tempo libero, per i bambini si dovrebbero privilegiare canali comunicativi e interpersonali dove prevalgano il calore, il contatto umano, il sentimento.

Fuga dal dolore e paralisi delle emozioni: alessitimia

Il racconto di fiabe o il gioco del “far finta di” offrono al bambino la possibilità di venire a contatto con le proprie emozioni, anche se negative, di definirle e canalizzarle in modo costruttivo.


Spesso si cerca di evitare ai piccoli il dolore, la rabbia, la frustrazione, arginando ogni manifestazione emotiva e bloccandola con una parvenza di felicità, semplificando al massimo ed evitando ogni ostacolo.


Lo smartphone/tablet è sempre più spesso l’elemento salvifico in situazioni difficili (il bambino che non vuole mangiare, non vuole andare a scuola, ecc). Molti genitori temono l’esplodere di determinate emozioni da parte dei figli e questo li porta a deviare la loro attenzione dal mondo interiore evitando ogni conflitto.


L’incapacità di valutare cognitivamente le proprie emozioni, di definirle non solo verbalmente, richiama per certi versi un quadro psichico che può caratterizzare la personalità e che è stato analizzato in concomitanza con dipendenze patologiche, ansia, depressione, malattie psicosomatiche. Si tratta della alessitimia.

Agli inizi degli anni Settanta John Nemian e Peter Sifneos introdussero questo termine per indicare un disturbo specifico nelle funzioni affettive e simboliche presente soprattutto nei pazienti psicosomatici i quali utilizzano uno stile comunicativo incolore e sterile3.

La parola alessitimia deriva dal greco a-lexis-thimos che vuol dire assenza di parole per le emozioni. Si tratta di una “disregolazione affettiva” in cui un soggetto può manifestare discrepanza tra manifestazione fisica e sentimenti: per esempio può piangere o ridere, ma non saper attribuire tale manifestazione ad un sentimento specifico.

I bambini digitali, sempre più precocemente persi dentro gli schermi, perdono passaggi evolutivi importanti e soprattutto il contatto con se stessi e con gli altri.

Isolati con il dispositivo elettronico e connessi in un mondo virtuale dove tutto è veloce ed eccitante, essi ignorano l’esistenza di altri mondi, non imparano ad ascoltarsi e vivere dentro, non riconoscono altra emozione se non quella immediata dell’eccitazione momentanea e dell’ossessione a ricollegarsi.

Tutto il resto – realtà, persone, emozioni, attività – scolorisce appiattendosi e ingrigendo sotto un’unica definizione: noia.


La paralisi delle emozioni, o “anestesia del cuore”, come viene definita l’alessitimia, potrebbe essere letta come conseguenza di un uso/abuso di determinate modalità di interazione e comunicazione nonché di socializzazione. Essa può anche essere vista come causa di fuga verso il virtuale, laddove non è necessario mettersi in gioco e fare i conti con le proprie emozioni. Ciò vale soprattutto in fase adoloscenziale.

I bambini e i ragazzi di oggi rappresentano una “generazione iperstimolata”4, infatti si trovano, fin dalla nascita, immersi in un mare sconfinato di stimoli, di strumenti tecnologici potenti che sembrano offrire innumerevoli possibilità rispetto alle generazioni precedenti. Manca, però, la gamma di strumenti per orientarsi e affrontare in modo critico tutto ciò che è a disposizione. Ovvero, al sovraccarico di stimoli corrisponde un “sovraccarico emotivo”, cui fa da contraltare la carenza di strumenti per sostenerlo5.


Il bambino si trova stordito di fronte a tante cose eccitanti da fare, a situazioni organizzate e predeterminate dagli adulti o dallo schermo, ma di spontaneo e creativo gli resta poco. Poche sono le occasioni di sperimentare un percorso proprio, personale, con eventuali tentativi e fallimenti.


Azzerata la possibilità di fallire, il bambino è al riparo da ogni eventuale frustrazione o rabbia o qualsiasi altra emozione negativa. Si evita il conflitto, il rimprovero, il confronto e si frappone uno strumento (il digitale) che possa generare solo emozioni positive: gioia, eccitazione.


Ma la vita ci pone continuamente di fronte alle difficoltà, alle frustrazioni e ai fallimenti e anch’essi concorrono allo sviluppo della personalità.

“L’essere umano non si limita a cercare il piacere e a sfuggire il dolore… L’essere umano cerca anche l’appagamento della propria natura attraverso l’aggressività, la tristezza e la sofferenza. Anche le emozioni negative sono vita e espressione di forza vitale”6.

I nostri bambini, invece, tendono a fuggire dal confronto diventando inevitabilmente predestinati a soccombere alle prime difficoltà, facendo esplodere in maniera imprevedibile e incontrollata tutte quelle emozioni negative che non si è imparato a guardare in faccia e a chiamare per nome.

Ecco, dunque, l’alessitimia come “disregolazione affettiva”, come incapacità di guardarsi dentro, di mentalizzare le emozioni.


Senza gli strumenti emotivi, diventa difficile affrontare gli altri e la realtà esterna. Lo schermo diventa così, in molti casi, una corazza grazie alla quale tutto è più semplice e tollerabile.


Il confronto con la realtà non è diretto, non è d’impatto e si ha l’illusione di poter affrontare tutto e tutti nascosti dietro lo schermo (onnipotenza).

Questo sentimento di onnipotenza va a cozzare poi contro la realtà, lasciando il ragazzo solo, senza protezione. Gradualmente la corazza di cristallo s’infrange e l’incontro/scontro con il reale inevitabilmente arriva lasciando numerosi nervi scoperti.


Se, dunque, continuiamo a permettere che si saltino passaggi importanti nello sviluppo socio-emotivo dei bambini, la loro capacità di comunicazione interpersonale ne risulterà compromessa. Se abituiamo i nostri figli ad evitare il proprio mondo interiore e a sostituire il genitore, o chi per lui, con uno schermo, come faranno a diventare individui capaci di guardarsi dentro e gestire le emozioni in modo sano ed equilibrato?


Se l’infanzia continuerà ad essere rubata e “digitalizzata”, avremo probabilmente tra qualche anno adolescenti sempre più soli e incapaci di comunicare, bloccati da emozioni inespresse e implose, paralizzati e anestetizzati, incapaci di definire e provare emozioni, nonché pietà verso l’altro.


L’alessitimia potrebbe diventare un tratto distintivo sempre più diffuso e la sua genesi collocarsi in fasi evolutive sempre più precoci.

Quali potrebbero essere gli scenari futuri? Che tipo di società stiamo progettando? Una società fatta di isole o di mine vaganti pronte ad esplodere contro se stessi e gli altri?


Forse dovremmo porci più sovente questo tipo di domande e riflettere maggiormente su quello che stiamo mettendo nelle mani dei nostri bambini mentre stanno vivendo la loro fase di preparazione alle persone di domani.

Alla luce di quanto detto e in considerazione delle attuali modalità di comunicazione, risulta fondamentale dare spazio all’educazione emotiva, esprimere l’emozione, invece che bloccarla, aiutare il bambino a definirla, a valutarla cognitivamente e gestirla attraverso un rapporto autentico fatto di sguardi, di contatto fisico, di presenza.


Occorre aiutare il bambino ad elaborare le emozioni chiedendogli di raccontare, disegnare, drammatizzare, parlando davvero con lui, ascoltando le sue richieste, fornendogli le spiegazioni, raccontandogli i propri vissuti, fiabe, favole e tutto quanto possa essere occasione di valutazione emotiva.


Questo deve farlo la scuola, ma prima di tutti la famiglia! Si delega troppo spesso alla scuola il compito di formare individui nella loro complessità, dimenticando che il bambino che fa il suo ingresso a scuola e che la vive per tanti anni, crescendo e giungendo all’età adulta, è una persona inserita in tanti altri contesti, oltre a quello familiare, dai quali trae influenze ed esempi.

È soprattutto la famiglia che deve assolvere il compito delicato e fondamentale di insegnare a vivere, riprendendo il titolo del libro di Edgar Morin che propone un nuovo modo di intendere l’educazione e la scuola.


È in famiglia che bisogna creare la “sintonia” e dedicare tempo di qualità ai bambini, a volte annullando necessariamente se stessi e mettendo in secondo piano le proprie esigenze.


Se si è consci che ogni momento che i bambini trascorrono con i media digitali è tempo tolto al gioco vero, all’apprendimento, allo sviluppo socio-emotivo, allora si considererà un altro modo di “stare” con loro.


Solo cambiando prospettiva possiamo davvero sperare in una società di individui sani, integrati e correttamente orientati verso la propria interiorità.

Il congelamento delle emozioni e il declino dell’empatia

Essere in grado di interpretare e gestire le proprie emozioni significa saper entrare anche in sintonia con il prossimo, interpretarne e comprenderne gli stati d’animo e le emozioni.


Tale capacità, rivolta verso l’altro separato da sé, si riferisce all’empatia. Secondo alcuni studi e ricerche l’empatia è innata e biologica in una prima fase. Essa presuppone lo sviluppo di una intelligenza emotiva che costituisce la base dei rapporti interpersonali. Le emozioni fanno parte del corredo genetico della specie e già gli studi darwiniani sulle emozioni e sulla loro mimica lo confermano: le emozioni assicurano la sopravvivenza.


Di recente altri studi neuroscientifici, basandosi sulle ricerche di Rizzolatti (2006), hanno individuato nella presenza dei neuroni specchio la base dell’empatia. I neuroni specchio (mirror) sono cellule della corteccia cerebrale che si attivano quando compiamo delle azioni o vediamo un nostro simile compiere le medesime azioni. Più forte è la somiglianza tra gli individui, più concreta è la reazione.


Nel 2013 James Coan ha condotto una ricerca usando la risonanza magnetica e ha riscontrato correlazioni tra le scansioni cerebrali di persone che avevano tra loro legami di amicizia (affinità). Nell’esperimento ventidue persone rischiavano di essere colpite da scosse elettriche e amici e sconosciuti rischiavano nella stessa misura.


La risonanza ha messo in luce le medesime reazioni cerebrali quando si trattava di amici o conoscenti. La spiegazione di ciò risiede nella neurologia e appunto nella presenza dei neuroni specchio.


Nello specifico, vanno considerate la corteccia visiva e l’amigdala. Un evento esterno invia informazioni alla corteccia visiva e in seguito all’amigdala e ha luogo così la reazione emotiva.


L’amigdala è una ghiandola a forma di di mandorla situata nel sistema limbico del nostro cervello che a sua volta contiene l’ipotalamo (sede della memoria a lungo termine) e l’ippocampo (sede della percezione). È la sede delle nostre emozioni, e in particolare della paura. Quando viviamo una situazione che genera o semplicemente evoca pericolo, l’amigdala si mette in moto e invia informazioni anche ai muscoli per preparare il corpo alla fuga o all’attacco (fight or flight). Le emozioni hanno quindi origine nel cervello; pare che esso sia programmato affinché noi le proviamo.


L’empatia, che è la capacità di entrare in sintonia con le emozioni e gli stati d’animo altrui, ha dunque anch’essa una base biologica.

Martin Hoffman, psicologo americano, professore di psicologia clinica ed evolutiva all’Università di New York, ha elaborato un modello descrittivo stadiale dello sviluppo dell’empatia. Secondo lui l’empatia è innata; il nostro cervello è dotato di un corredo neuronale che ci consente di provare empatia fin dai primi giorni di vita.


Con uno studio che ha confermato questo assunto, grazie al metodo spettrografico a infrarossi, gli studiosi dell’Università di Londra hanno visto che a sette mesi il bambino reagisce alle diverse letture emotive di un attore che variano da sentimenti di rabbia a felicità o paura.

Secondo Hoffman, un neonato piange se un altro bimbo piange. Tale reazione potrebbe essere il risultato dell’imitazione, ma da sola essa non giustifica la risposta del pianto. Con l’introduzione di un sintetizzatore digitale o se a piangere è una scimmia, non si ha la risposta di pianto che invece ha luogo solo in presenza di simili.


Gradualmente, la reazione empatica cambia. Verso i quattro mesi, il bambino assume espressioni facciali – incupisce il viso, inarca le labbra – di fronte ad un suo simile che piange. Queste prime fasi sono dette di empatia egocentrica, perché pare che il bambino cerchi di ridurre il suo disagio più che fornire una risposta d’aiuto. Intorno al secondo anno, si passa ad un’empatia quasi-egocentrica; essa comincia a stabilire connessioni con il comportamento morale. In un terzo stadio, l’empatia è definita veridica e si avvicina al modello di empatia matura. L’ultimo stadio, infine, implica la capacità di astrazione del pensiero.


Gli studi di Hoffman e le scoperte neurologiche dimostrano che l’empatia è legata alla biologia, ma noi non siamo soltanto il risultato di connessioni neuronali. È l’esperienza che ciascuno di noi fa, l’ambiente in cui ciascuno di noi vive ad affinare o indebolire l’empatia.

Siamo animali sociali e per sviluppare l’intelligenza emotiva, e dunque l’empatia, abbiamo bisogno di socialità, di contatti concreti, di rispecchiarci nel prossimo.


La simulazione incarnata e il rispecchiamento sono processi che consentono di entrare in sintonia, cioè in comunicazione empatica con l’altro di fronte a un suo pensiero o una sua azione.

Se nella comunicazione empatica un ruolo rilevante è rivestito dal corpo che veicola le emozioni, e nella società 2.0 la comunicazione interpersonale è in prevalenza veicolata dal mezzo digitale che invece esclude il corpo, blocca il contatto visivo e fisico e compromette il rispecchiamento, la domanda allora è: in che modo il mezzo digitale tout court, usato e abusato in età evolutiva, modifica lo sviluppo dell’empatia? L’isolamento in uno schermo digitale potrebbe portare il bambino a trascurare il proprio mondo interiore (le emozioni) e l’esistenza dell’altro (lo sguardo incollato sullo schermo preclude contatti sociali e interpersonali), evitando il rispecchiamento con altre persone (genitori, coetanei, adulti).

Se poi consideriamo che molti bambini trascorrono ore con videogiochi, anche violenti, allora il rischio di una compromissione dello sviluppo empatico potrebbe essere alto.

Susan Greenfield mette in correlazione la mancanza di contatto oculare con una difficoltà di elaborazione dei volti, “…una compromissione che potrebbe essere associata con uno spettro di disturbi che includono la psicopatia e l’autismo”7.


La prolungata e precoce esposizione al mondo dello schermo, sostiene la Greenfield, dove nessuno vi guarda negli occhi, potrebbe essere un “attivatore ambientale”, ossia un fattore capace di sviluppare “difficoltà similautistiche” che includono la mancanza di empatia.


La neuroscienziata mette in guardia dai rischi di una pervasiva cibercomunicazione, presente soprattutto tra i ragazzi adolescenti, ma che comincia ad essere caratteristica di fasce d’età sempre più basse.


Una comunicazione attraverso lo schermo che protegga dal rischio del contatto, del guardarsi negli occhi, una comunicazione monotona, sterile, inespressiva, disempatica, può costituire terreno fertile di molti futuri disagi. Immaginiamo cosa può comportare una tale modalità di comunicazione nei bambini la cui plasticità è massima.

Secondo David Amodio della NY University e Chris Frith del University College London, uno dei sintomi dell’autismo è l’ipoattività della corteccia frontale e ciò si nota anche nei (video)giocatori abituali8.

In un esperimento di neuroimmagine si è chiesto a questi ultimi di giocare a uno sparatutto registrando sia le azioni sia le scansioni cerebrali. Le aree del cervello collegate all’emozione e all’empatia (corteccia cingolata e amigdala) erano meno attive durante il gioco violento9.


L’uso/abuso dei videogiochi violenti, o ad alto contenuto di aggressività, desensibilizza e riduce fino ad azzerare le capacità empatiche poiché, come si è già visto, il dolore dell’altro, così come la morte dell’altro, sono situazioni che vengono tollerate e trasformate in gioco.

Il dolore non esiste. Nei giochi violenti, calci e pugni non provocano effetti, non veicolano sofferenza o drammaticità; c’è solo l’effetto realistico del sangue.


Il personaggio ferito che si rialza e riprende a combattere in modo spietato e con maggiore aggressività, rappresenta l’eroe coraggioso, invincibile. Il bambino piccolo ha difficoltà a distinguere un personaggio reale da uno fittizio e dunque, identificandosi con l’eroe, finisce per assumerne i tratti comportamentali e metterli in atto nella vita reale.


La ricerca Confortably Numb condotta da psicologi dell’Iowa Brad Bushman e Craig Anderson su un gruppo di trecentoventi studenti universitari, dimostra gli effetti della violenza virtuale sul comportamento umano10.

I soggetti, divisi a metà tra maschi e femmine, venivano lasciati giocare con videogiochi violenti oppure non violenti, dopodiché veniva loro chiesto di rispondere a un questionario sugli aspetti del gioco, sulle azioni, sul divertimento (ai soggetti era stato detto che avrebbero partecipato ad un esperimento per studiare le preferenze dei ragazzi in fatto di videogiochi).


Al termine del videogioco, si avviava la simulazione di un litigio fuori dalla porta. Si facevano ascoltare le voci maschili e femminili di persone coinvolte in situazioni di violenza, oltre a rumori di sedie rotte, gemiti e grida di dolore. Poi la porta sbatteva e si faceva partire un cronometro per misurare i tempi di reazione dei soggetti del test intenti a compilare i questionari.


I soggetti impegnati in giochi violenti avevano tempi di reazione cinque volte più lunghi rispetto ai soggetti che avevano usato giochi non violenti.

In alcuni casi i primi addirittura non si accorgevano della violenza o non vi davano importanza.

L’esperimento fu effettuato anche fuori dal laboratorio, all’uscita dal cinema, con la simulazione di una donna ingessata con le stampelle, in difficoltà. La risposta più o meno empatica dei soggetti era condizionata dal tipo di film visto (violento o non violento). I ricercatori osservarono che “…chi aveva sperimentato scene di violenza digitale era insensibile alla violenza percepita come reale”11.


Molti altri studi dimostrano una correlazione tra consumo di videogiochi violenti e diminuzione delle capacità empatiche e di compassione12.

La maggior parte dei videogame propone a bambini e ragazzi situazioni di combattimento nelle quali la violenza è accettata e tollerata e molto spesso prevale uno stato di tensione che porta il bambino ad essere sovraeccitato e aggressivo. L’accesso online, nonché la possibilità di acquisto personale, ha aperto il mondo dei videogiochi ad un bacino enorme di utenti in età evolutiva.


Come affermato in precedenza, molti giochi propongono il tema della morte, che non è un fatto naturale, ma una situazione provocata da chi gioca. Più si uccide, o si aggredisce, più si ottengono punti. La morte dell’altro vale punti, successo e affermazione.


Tanti poi sono i giochi di guerra indirizzati a bambini e adolescenti (quale filtro assicura il target giusto?), oltre che a soldati veri e propri addestrati affinché vengano “desensibilizzati” verso il dolore, la morte, la violenza. Ogni guerra reale diventa un videogioco, e il bambino impara a considerarla come strategia inevitabile di risoluzione dei conflitti.


È bene ribadire, concordando con quanto affermato da Bartolomeo e Caravita in Il bambino e i videogiochi. Implicazioni psicologiche ed educative che non si può imputare ai soli videogiochi (violenti) la responsabilità di comportamenti aggressivi e prepotenti, in quanto il ragazzo è inserito in una rete sistemica (famiglia, scuola, gruppo dei pari, televisione, ecc) che trova riscontro nel Modello Generale di Aggressività (MGA) illustrato nel libro di Anderson, Gentile e Buckley, Videogiochi violenti. Effetti su bambini e adolescenti. Esso offre un approccio multifattoriale, poiché considera diversi elementi e concause scatenanti violenza e aggressività13.

Se, giustamente, non si può attribuire ai giochi digitali l’unica responsabilità della violenza e dell’aggressività, si può però affermare che un’esposizione precoce e/o prolungata costituisce un supplemento di rischio e di certo concorre in maniera massiccia a instillare nelle giovani menti idee fuorvianti e lontane dalla convivenza civile pacifica.


Inoltre, laddove ci fosse una predisposizione, i videogiochi potrebbero costituire il fattore scatenante del disagio psichico ed eventuali disturbi della personalità. Non a caso molti di questi sono caratterizzati da anaffettività e alessitimia.


I fatti di cronaca che vedono protagonisti adolescenti, poco più che bambini – stupri di gruppo, atti di bullismo e ciberbullismo, atti atroci verso gli animali, vandalismi, puntualmente filmati e sbattuti in rete – sembrano essere la prova chiara del preoccupante declino dell’empatia. Se non si riesce a comprendere che un altro essere vivente possa provare sofferenza subendo violenza, allora diventa più facile e “legittimo” infliggerla.


L’empatia, secondo gli studi di Hoffman, è anche alla base dello sviluppo della coscienza morale, oltre che condizione fondamentale dell’intelligenza emotiva.

L’acquisizione di regole e norme è un graduale processo evolutivo che tanta parte trova nel gioco. Considerando, pertanto, che l’attività ludica è in gran parte rappresentata da videogiochi, non sempre esemplari nel rispetto delle regole sociali, quali norme morali può apprendere da essi un bambino?


I bambini e i ragazzi dell’era digitale sono bombardati attraverso Tv e mezzi di comunicazione da modelli di identificazione non sani: eroi spietati che riescono a vincere solo grazie a poteri magici e/o tecnologici, violando le regole. Sembra non esserci posto per la pietà, la generosità, la lealtà, la correttezza; queste sono considerate, al contrario, segno di debolezza. In sintesi i bambini – nel momento della massima plasticità neuronale, della massima apertura sociale, della costruzione di una coscienza morale che possa permettere loro di diventare adolescenti prima, adulti poi, sani emotivamente e socialmente –, vengono plagiati da una cultura di massa che poggia su disvalori.


In alcuni videogiochi, superficialmente innocui poiché non violenti, il bambino simula la guida di un veicolo a tutta velocità, facendo sorpassi, abbattendo ostacoli. La regola è: nessuna regola!


In un gioco facilmente accessibile online dal titolo Wack your teacher, con la variante Wack your boss, il giocatore può virtualmente esaudire il suo istinto di aggressività nei confronti di una figura autorevole come l’insegnante o un superiore. L’animazione presenta l’insegnante in cattedra deriso e colpito dallo studente “arrabbiato” che, con ogni mezzo – libro, coltello, bastone – inveisce contro di lui, scaricando la sua rabbia che diventa odio, mentre macchie di sangue si allargano sul volto della vittima. Il tutto è corredato da un commento verbale in cui ogni azione viene enfatizzata, creando uno stato di eccitazione di fronte alla violenza.


Non è necessario commentare l’effetto che un gioco simile possa avere su bambini e ragazzi e su come la figura dell’adulto (insegnante, datore di lavoro, autorità in generale) perda importanza e diventi oggetto di scherno collettivo.


A differenza del gioco tradizionalmente inteso, quello sociale per esempio, il gioco online vede il bambino da solo a sperimentare situazioni virtuali basate sull’aggressività, sulla violazione delle regole, sull’avidità. E senza nessuno che funga da filtro e lo aiuti a rapportarsi alla realtà.


I giochi Grand Theft Auto (GTA) sono un altro degli innumerevoli esempi di videogame decisamente diseducativi. Il protagonista guadagna soldi e reputazione all’interno della città rubando e vendendo automobili, commettendo crimini o svolgendo missioni assegnate da amici, alleati o dal clan di appartenenza.


Nel gioco ci sono anche situazioni di sesso con prostitute, che nelle ultime edizioni è possibile vedere completamente.

I GTA sono molto lunghi, le missioni vanno avanti per venti o trenta ore.

Un gioco come questo insegna ad un ragazzo che per avere successo conviene rubare, che il sesso è solo uno sfogo di squallidi istinti, che bisogna appartenere a un clan e obbedire ai suoi dettami, che l’etica e la morale non esistono. Inesistenti i limiti etici, la condivisione, i sentimenti. Assente qualsiasi valore. Se si pensa che i GTA sono una delle saghe più diffuse – nel 2015 hanno registrato 220 milioni di copie vendute – si può comprendere la quantità di disvalori che viene propinata ad un’enorme fetta di popolazione in età evolutiva.


Naturalmente il fattore età e dunque lo sviluppo cognitivo, lo stadio della coscienza morale, la famiglia e tanti altri fattori influiscono su cosa un gioco simile possa insegnare o determinare. Il problema è che il limite di età non sembra importante: non è così difficile vedere bambini in età prescolare impegnati e assorti in un GTA.

Quali scenari futuri?

Di fronte alle nuove e diffuse modalità di gioco e interazione dell’infanzia, non sempre adatte all’età e quasi mai regolamentate o arginate dall’adulto consapevole, c’è da chiedersi quante possibilità avremo di trovarci in una società di persone integrate, equilibrate, capaci di relazionarsi con se stessi, col proprio vissuto emotivo e con gli altri?


I bambini che oggi si isolano in uno schermo, che non imparano a gestire le difficoltà o la noia sfruttando le proprie risorse, saranno probabilmente adulti le cui emozioni imploderanno o esploderanno, generando individui fragili, disadattati, soli.


I bambini che oggi sono iperstimolati, iperattivi, che faticano a concentrarsi e a focalizzare la propria attenzione, saranno probabilmente adulti poco attenti e competenti sia nei posti di lavoro sia nei contesti sociali.

E ancora, i bambini che non sviluppano abilità sociali come l’empatia, la capacità di mettersi da un altro punto di vista, di dominare la propria aggressività saranno probabilmente adulti con difficoltà di autocontrollo e di adattamento.


L’infanzia costituisce la base della futura società; le scelte educative hanno inevitabilmente ricadute che andranno a coinvolgere la scuola, la collettività, la società. È doveroso tenerne conto.

È necessario essere più che attenti ai pericoli insiti nell’attuale sistema e in particolare nell’uso sbagliato delle tecnologie.


Ciascuno di noi, come genitore, dovrebbe porsi delle domande critiche su quanto viene offerto dalle società di mercato e dalla pubblicità. E, una volta per tutte, dovremmo smettere di pensare che i nostri figli possano sentirsi emarginati se non possiedono il videogioco o l’ultimo smartphone o se non sanno usare il tablet.


Il nostro obiettivo, come genitori o educatori, è quello di fornire al bambino strumenti validi per interpretare la complessa realtà dove i messaggi più disparati viaggiano a velocità inarrestabile, favorendo la formazione del pensiero critico e soprattutto fornendo alternative al tablet e allo smartphone.

Il bambino è naturalmente curioso e non sceglie di isolarsi con lo smartphone se c’è qualcuno pronto a parlare con lui, ad ascoltarlo o a giocare con lui.

L’etologo Konrad Lorenz dice che il bambino è come uno scienziato, esplora la realtà come un ricercatore, con la stessa curiosità. Perché spegnere tutto questo meraviglioso slancio con uno smartphone?


Ci sono bambini così piccoli che non sanno ancora parlare, non hanno ancora gli strumenti linguistico-espressivi per esprimere richieste, ma sono già abili a far scorrere il ditino sullo schermo, aprire un video, un cartone animato, connettersi a internet e immergersi nel “silenzio interpersonale”.


È necessario proteggere e incoraggiare le potenzialità dei bambini, non spegnerle e mortificarle con una cultura omologante e diseducativa.

Ancora una volta va ribadita la responsabilità dei genitori, che hanno il preciso dovere di informarsi prima di lasciare il proprio figlio in balìa di certi stimoli.

Bambini digitali
Bambini digitali
Mena Senatore
L’alterazione del pensiero creativo e il declino dell’empatia.Un’analisi degli effetti negativi dell’abuso degli schermi digitali in età evolutiva sul piano dello sviluppo cognitivo, emotivo e sociale. Negli ultimi anni sempre più bambini si trovano a interagire con gli schermi digitali di tablet, smartphone e PC. Ma quali sono le conseguenze?Mena Senatore, nel suo libro Bambini digitali, prende in esame gli effetti negativi dell’uso e abuso di queste tecnologie in età evolutiva, con particolare attenzione alla prima e seconda infanzia, sottolineandone le conseguenze a livello di sviluppo cognitivo, emotivo e sociale.Un’urgente lettura per genitori, educatori e insegnanti. Conosci l’autore Mena Senatore, laureata in Lingue e Letterature straniere, è docente di Lingua e Civiltà Inglese nella scuola secondaria superiore.Durante gli studi universitari ha scoperto un forte interesse per la psicologia, che l’ha portata ad approfondire tematiche inerenti lo sviluppo della personalità nelle varie fasi dello sviluppo.Negli ultimi anni ha studiato in particolare la ricerca socio-scientifica dedicata agli effetti delle tecnologie sul cervello, soprattutto in età evolutiva.